Munificentia e propaganda politica nell’architettura della Roma repubblicana

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Munificentia e propaganda politica nell'architettura della Roma repubblicana

Tra il III e il I secolo a.C., la necessità di adeguare l’aspetto architettonico ed urbanistico di Roma al suo crescente ruolo politico nello scacchiere mediterraneo offre agli ambiziosi protagonisti della vita politica romana l’opportunità di ostentare le proprie ricchezze, il proprio prestigio e le proprie aspirazioni nell’erezione di edifici altamente rappresentativi, che trasformano il volto monumentale dell’Urbe in una vetrina della competizione per il potere. 

Una città in trasformazione

Quando inizia ad affacciarsi con mire espansionistiche sul bacino del Mediterraneo, Roma è ancora una città piuttosto modesta e spoglia dal punto di vista urbanistico e monumentale in confronto alle sontuose capitali dei regni ellenistici: Tito Livio (Storia di Roma, XL 5,7) ricorda come ancora nel 182 a.C. alla corte macedone di Filippo V si ridesse della semplicità degli edifici e della disordinata struttura urbanistica della città, determinata in parte ancora dall’anarchica ricostruzione successiva all’incendio gallico del 390 a.C.

Sul piano dell’edilizia abitativa la situazione di Roma certo non migliora tra II e I secolo a.C., quando la città è interessata da un sempre più massiccio flusso migratorio e da una speculazione edilizia che si avvale della crescente manodopera schiavile a disposizione grazie alle guerre di conquista per la realizzazione di miserabili case (lucrose, però, per i costruttori) soggette costantemente al pericolo di incendi e crolli, con la conseguente creazione di sordidi quartieri di cui abbozza un rapido ma impressionante ritratto Cicerone (La legge agraria, II, 96). La necessità di adeguare le strutture della città al suo crescente ruolo egemonico e ai suoi bisogni impone la realizzazione di edifici e strutture di pubblica utilità, come gli acquedotti (ben cinque sono quelli realizzati prima dell’instaurazione del principato), le strade, i ponti e le infrastrutture imposte dal costante aumento del volume dei commerci, come l’emporio, il grande porto sul Tevere realizzato a partire dal 193 a.C. per iniziativa dei censori Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo, completo di banchina per l’attracco delle navi onerarie e di una grande struttura (lunga 487 m per 60 di larghezza), la cosiddetta Porticus Aemilia, divisa in navate da file di pilastri, e da interpretare come magazzino per le derrate in arrivo, oppure (come vuole un’ipotesi recente) come Navalia, ovvero arsenale della flotta militare. La realizzazione di tali edifici è appannaggio dei magistrati in carica e costituisce una vetrina del loro impegno in favore della città.

L’architettura dei viri triumphales nel II secolo a.C

Contemporaneamente cresce anche il desiderio di conferire a Roma un aspetto rappresentativo più prestigioso e grandioso, che si combina con le sempre più cospicue possibilità economiche determinate dall’espansione imperialistica, e con le condizioni particolari dell’antagonismo politico che si configurano a Roma dalla fine della seconda guerra punica: tutto questo contribuisce a modificare sensibilmente l’aspetto dell’Urbe tra la fine del III e il I secolo a.C. avvicinandola, in qualche modo, alle città dell’Oriente ellenistico. Il ricordo favoloso delle città orientali conquistate, il frutto dei ricchi bottini di guerra e la smania di protagonismo dei generali che tornano vittoriosi dalle campagne militari si traducono spesso in interventi edilizi anche imponenti, ma che non risultano inseriti in una programmazione urbanistica unitaria in quanto, generalmente, frutto dell’iniziativa del singolo, desideroso di ostentare il proprio potere e il proprio ruolo politico all’interno della città.

Spesso questi interventi imitano, o quanto meno richiamano (nella tipologia architettonica, nei materiali impiegati, nella decorazione) gli sfarzosi e rappresentativi edifici che caratterizzavano città come Alessandria o Pergamo; e si configurano come manifestazioni, nell’ambito dell’edilizia pubblica, di quella asiatica luxuria (ovvero di quelle forme di ostentazione di lusso e di ricchezza ricalcate su modelli ellenistici) contro cui si scaglia l’aristocrazia senatoria più conservatrice, preoccupata del sostanziale annullamento della formale isonomia della vita politica romana provocato dal personalismo e dall’autoreferenzialità di un modo di vivere e di mostrarsi modellato su quello dei dinasti orientali. I trionfi dei generali vittoriosi, con i carri carichi di suppellettili di lusso e di opere d’arte greca razziate nelle città greche e asiatiche conquistate – particolarmente perniciosi da questo punto di vista, secondo Plinio il Vecchio (Nat. hist. XXXIII, 148) e Livio (Storia di Roma XXII, 9-10 e XXXIX, 6, 7-9) i due trionfi del 186 a.C., quello di Scipione Asiageno su Antioco III di Siria e quello di Gneo Manlio Vulsone sui Galati d’Asia - sono ritenuti causa scatenante di una profonda metamorfosi dei costumi, responsabile della corruzione della società e della degenerazione della vita pubblica e privata romana, come insiste tutta una letteratura di stampo moralistico di cui è possibile cogliere un’eco significativa negli scritti di Seneca o di Plinio il Vecchio. In realtà, l’arte e l’architettura greca erano note ed influenti a Roma già da molto tempo prima della sua espansione mediterranea, grazie all’intermediazione della cultura etrusca e ai contatti con le città della Magna Grecia: ma nel periodo successivo alle guerre puniche si delinea un voluto strappo rispetto alla tradizione artistica, architettonica e artigianale precedente, dettato dalle esigenze egemoniche di una élite dominante che trova nell’arte e nell’architettura ellenistica il linguaggio di espressione della propria volontà di autoaffermazione e di dominio; e che spesso si avvale dell’attività di architetti e di scultori greci, che giungono a Roma al seguito dei generali vittoriosi, per porsi al servizio di questa ricca ed ambiziosa committenza.

Tra gli edifici “di rappresentanza” che sorgono a Roma in questa fase occorre ricordare innanzitutto le porticus, corrispondenti alle stoai ellenistiche: porticati a carattere polifunzionale sviluppati in lunghezza e aperti con una fronte colonnata, che a Roma spesso si dispongono sui quattro lati di una piazza, configurandosi come quinte scenografiche per edifici di carattere sacro. La più antica porticus dell’Urbe è quella, a doppia navata e provvista di capitelli in bronzo, eretta nel Campo Marzio meridionale da Gneo Ottavio nel 166 a.C. a seguito del suo trionfo su Perseo di Macedonia. Del resto, l’area del Campo Marzio, esterna alle mura serviane e dunque separata dal cuore più antico e venerando di Roma, nonché punto di partenza dei cortei trionfali, già dal III secolo a.C. aveva accolto edifici realizzati appunto da viri triumphales, come i templi presenti nell’area sacra di Largo Argentina, sorti autonomamente l’uno dall’altro tra la fine del IV e gli ultimi anni del II secolo a.C. e inglobati all’interno di una struttura unitaria identificabile con la porticus Minucia registrata dalle fonti letterarie e da un frammento della Forma Urbis (la pianta marmorea di Roma di età severiana): si tratta di un edificio realizzato da Marco Minucio Rufo (console nel 110 a.C.) dopo il suo trionfo sugli Scordisci nel 107 a.C. e forse connessa alle frumentationes, le pubbliche distribuzioni di grano, che costituiscono un potente strumento propagandistico nelle mani dei magistrati romani. Ma certo la porticus più spettacolare doveva essere quella eretta da Quinto Cecilio Metello Macedonico, sempre in Campo Marzio, nel 146 a.C., a seguito della sua vittoria sullo Pseudo-Andrisco: la struttura, poi sostituita tra 33 e 23 a.C. da un nuovo portico dedicato ad Ottavia, sorella dell’imperatore Augusto, ingloba il preesistente tempio di Giunone Regina (dedicato nel 179 a.C. da Marco Fulvio Nobiliore) a cui viene affiancato un tempio nuovo, dedicato a Giove Statore e realizzato completamente in marmo pentelico su progetto di un architetto greco, Ermodoro di Salamina.

Si tratta del primo tempio marmoreo di Roma, in evidente e netta contrapposizione alla tradizione dell’edilizia sacra romano-italica, che utilizzava il tufo, il legno, la terracotta dipinta; ad esso faranno seguito in un breve volgere di anni il tempio di Nettuno in circo e l’unico, tra questi primi templi marmorei dell’Urbe, ad essersi conservato fino a noi. Si tratta del celebre tempio rotondo del Foro Boario, popolarmente noto come tempio di Vesta ma identificato, da Filippo Coarelli, con quello, ricordato dalle fonti, dedicato ad Ercole Olivarius da un ricco commerciante d’olio, tale Marco Ottavio Erennio: testimonianza fondamentale della profonda fascinazione che l’architettura greco-orientale esercita in Roma alla fine del II secolo a.C., ma anche delle notevoli potenzialità economiche dei mercanti italici nel momento in cui Roma ormai detiene il controllo dei traffici commerciali nel Mediterraneo. Il marmo è infatti ancora un materiale esotico e costoso, strumento e simbolo della tanto denigrata asiatica luxuria, ma anche emblema dell’espansione romana nel Mediterraneo, che gradualmente assicura all’Urbe lo sfruttamento di cave di marmi bianchi e colorati in Grecia, Asia Minore, Africa settentrionale.

Ancora nel I secolo a.C., se la presenza del marmo negli edifici pubblici, elemento sostanziale della publica magnificentia, sarà a Roma ben accetta, susciteranno scandalo gli arredi marmorei nelle sontuose residenze private della nobilitas, soprattutto quando si tratterà, come nel celebre caso di Marco Emilio Scauro, di elementi architettonici marmorei fatti giungere nell’Urbe per l’abbellimento di edifici temporanei (nel caso specifico si trattava della frons scaenae di un teatro provvisorio, fatto erigere dallo stesso Scauro). Simili episodi sono emblematici di quanto i confini tra vita pubblica e vita privata siano labili per le figure politicamente eminenti della tarda repubblica, e anche di quanto l’ostentazione del lusso privato e della munificentia pubblica risultino importanti per l’affermazione del singolo nella competizione per il potere.

Le statue di culto dei sontuosi edifici votivi realizzati dai viri triumphales e dai ricchi privati nel II secolo a.C. sono in marmo, in bronzo o realizzate nella tecnica dell’acrolito (che prevede l’uso del marmo per le parti nude e di materiali diversi, come il legno dorato o ricoperto di tessuto, per il resto), che imita la ben più impegnativa statuaria crisoelefantina (ovvero in oro e avorio) di cui il grande scultore classico Fidia era stato il sommo maestro; e sono affidate alle esperte mani di artisti greci operanti all’interno di atelier neoattici attivissimi in Roma negli ultimi decenni del II secolo a.C., come Policle e il figlio Timocle, Tisicrate e infine Skopas minore, un discendente del più famoso Skopas attivo nel IV secolo a.C. Il carattere rappresentativo e trionfalistico di questi edifici è inoltre spesso enfatizzato dalla presenza di opere d’arte greca, frutto del saccheggio nelle città dell’Oriente ellenistico: Metello, ad esempio, espone nella propria porticus il gruppo statuario in bronzo, opera di Lisippo, raffigurante Alessandro Magno e i suoi compagni morti nella battaglia del Granico, certo spinto non solo da un interesse collezionistico e dalla tendenza imperante ad ostentare le proprie prede di guerra, ma anche dal desiderio di omaggiare il maggiore eroe del mondo ellenistico.

Le basiliche

Con l’introduzione e l’evoluzione della forma architettonica della basilica i modelli dell’architettura ellenistica penetrano anche nel cuore dello spazio tradizionale del potere senatorio di Roma, il Foro Romano, già a partire dal III secolo a.C. L’origine di questo genere di edificio, destinato ad offrire un’area coperta in cui ospitare, durante la cattiva stagione, le attività normalmente praticate nel Foro (dalle transazioni commerciali all’attività giudiziaria), e a diventare una costante della pianificazione urbanistica delle città romane, e del suo stesso nome, costituisce la questione più ampiamente dibattuta dell’archeologia di Roma repubblicana.

Il nome “basilica” (basiliké, in greco) significa “regale”, ed è verosimilmente riconducibile alla denominazione di un edificio, l’Atrium Regium, citato da Tito Livio (Storia di Roma, XXVI.27) che ne ricorda la distruzione nel 210 a.C., nel corso di un grave incendio che sembra aver interessato in particolare l’area settentrionale del Foro. Già identificato con un cortile porticato adiacente alla Regia (l’edificio tradizionalmente collegato alla figura del secondo re di Roma, Numa Pompilio, ma costruito nel corso del VI secolo a.C.), nell’Atrium Regium sarebbe piuttosto da vedere una struttura destinata all’accoglienza delle ambascerie straniere (greche, in primo luogo), localizzata nei pressi della Curia Hostilia (l’antica sede del senato costruita, secondo la tradizione, dal terzo re di Roma Tullo Ostilio), del Comitium (luogo di riunione del popolo ordinato per curie, i comitia curiata), e soprattutto della Graecostasis, da dove le delegazioni straniere in visita a Roma potevano assistere alle riunioni del senato. Il modello di riferimento sarebbe quello delle grandi sale ipostile con cleristorio centrale delle regge ellenistiche (ad esempio quelle di Alessandria e Antiochia), utilizzate per le udienze nonché per l’accoglienza degli ambasciatori; è suggestiva l’ipotesi che riconnette la costruzione dell’Atrium Regium alla visita di Ierone II, tiranno di Siracusa, nel 237 a.C. Dopo l’incendio del 210 a.C. l’edificio sembra essere immediatamente sostituito da una nuova struttura, ormai denominata, alla greca, “basilica”, cui fa accenno Plauto in due distinti passi del suo corpus di commedie (I prigionieri 815; Il Gorgoglione 472).

Nel 184 a.C. sorge, adiacente alla curia, una nuova basilica, la prima a ricevere il nome del committente: si tratta della Porcia, realizzata per volontà di Marco Porcio Catone nell’anno in cui ricopre la censura. Plutarco (Catone il Vecchio, XIX.2) ricorda l’ostilità del senato all’edificio catoniano: una struttura, realizzata con il denaro pubblico, destinata però ad eternare il nome di Catone e della sua famiglia. In base alle poche vestigia conservate è possibile attribuire alla Basilica Porcia dimensioni piuttosto modeste e una pianta rettangolare poco sviluppata in lunghezza, ancora dipendente dunque dal modello da cui era, con ogni probabilità, derivato l’Atrium Regium: un edificio piuttosto diverso da quella che, nel volgere di pochi anni, si affermerà come la forma canonica della basilica romana, stretta ed allungata, scompartita longitudinalmente in navate da file di colonne e dotata di un cleristorio centrale da cui far penetrare la luce tramite ampie finestre; una forma, dunque, che palesemente si richiama al modello delle stoai delle città ellenistiche.

Questa sarà la struttura delle successive basiliche del Foro: la Fulvia (l’unica superstite), realizzata nel 179 a.C. da Marco Fulvio Nobiliore in sostituzione della già citata basilica “anonima” cui fa riferimento Plauto sul lato nord della piazza del Foro, e poi sostituita a sua volta, tra il 55 e il 34 a.C., da un nuovo edificio (la Basilica Paulli), particolarmente sontuoso (Plinio il Vecchio lo ricorda come uno dei monumenti più belli del mondo) voluto da Lucio Emilio Paolo (console nel 50 a.C.) e completata dal figlio, Lucio Emilio Lepido Paolo (console nel 34 a.C.); la Sempronia, fatta erigere sul lato meridionale della piazza da Tiberio Sempronio Gracco, il padre dei Gracchi (poi sostituita dalla Basilica Giulia, voluta da Giulio Cesare, dopo il 54 a.C.); l’Emilia (già identificata con la Fulvia), da localizzare probabilmente sul lato est del Foro, adiacente alla Fonte di Giuturna e forse da attribuire a Lucio Emilio Paolo, censore nell’anno 164 a.C.; e infine la Opimia, costruita dal console del 121 a.C., Lucio Opimio, sul lato nord-ovest della piazza, in stretta connessione con il tempio di Concordia dello stesso Opimio e probabilmente obliterata in occasione del restauro tiberiano di questo edificio sacro. Nel giro di nemmeno sessant’anni la piazza del Foro viene ad essere delimitata su ogni lato da edifici che vi si affacciano con fronti colonnate, finendo dunque per assomigliare alle piazze pubbliche delle città ellenistiche, definite da eleganti porticati. Richiamandosi all’esempio della Basilica Porcia, le successive basiliche repubblicane di Roma assumono il nome dei magistrati che si occupano della loro erezione, configurandosi come monumenti gentilizi per eccellenza, a concreta dimostrazione dell’impegno politico dei committenti e della loro fattiva attività in favore dell’Urbe; diventano dunque uno strumento di orgogliosa rappresentazione politico-ideologica per i magistrati e per le loro famiglie, al punto da essere mantenute e restaurate, almeno fino all’età cesariana, dai discendenti dei fondatori.

L’immagine di Roma tra Silla e Cesare

L’inasprirsi dello scontro politico a Roma nel corso del I secolo a.C., ormai mirato al predominio del singolo, plasma con più forza gli interventi di edilizia pubblica nel senso di un crescente culto della personalità. In questo momento l’architettura romana sperimenta soluzioni originali, che da un lato si adattano alla specificità morfologica (e soprattutto orografica) dell’Urbe, dall’altro mirano a comunicare attraverso nuove forme la volontà di potenza dei protagonisti della politica romana.

Esemplare dell’originalità dell’architettura romana del periodo è il Tabularium, la struttura voluta da Silla e completata da Quinto Lutazio Catulo nel 78 a.C. per ospitare l’archivio pubblico, ma anche per simboleggiare l’ordine ristabilito dopo le sanguinose lotte intestine tra sillani e mariani e grazie all’instaurazione del predominio degli ottimati. L’edificio si configura come una quinta scenografica per il Foro, regolarizzando con le sue gigantesche sostruzioni la parete scoscesa del Campidoglio corrispondente alla depressione dell’Asylum, e portando a maturazione le caratteristiche di quella architettura scenografica, basata sulla spettacolare commistione tra elementi artificiali ed elementi paesaggistici, che già aveva trovato impressionante applicazione, nel secolo precedente, nei santuari a terrazze del Lazio meridionale, tra cui, in particolare, il santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina.

I progetti di Silla per Roma sono evidentemente piuttosto ambiziosi, tanto da contemplare una estensione del pomerio, il sacro limite della città; ma le circostanze consentono al dittatore di promuovere soltanto il restauro di alcuni antichi ed importanti edifici civili e religiosi, attività che comunque lo presentano come il protettore dell’Urbe, della sua religione tradizionale e delle sue istituzioni politiche repubblicane. Questo il messaggio dietro il restauro sillano della Curia Hostilia, motivato dall’ampliamento del senato da 300 a 600 membri, e dell’area antistante il Comizio e i Rostra (la tribuna degli oratori); questo è anche il significato del rifacimento del tempio di Giove Capitolino, centro del culto di stato per eccellenza, distrutto da un incendio nell’83 a.C. Le forme del tempio, per scrupolo religioso, debbono ricalcare quelle, tozze e pesanti, dell’edificio originale; ma l’intento di impreziosire e di accrescere comunque il prestigio del venerando luogo di culto si traduce nell’utilizzo di materiali di lusso, nella realizzazione, affidata ad un artista greco di nome Apollonio (forse lo stesso autore del celebre Torso del Belvedere), di una statua di culto ispirata al modello dello Zeus crisoelefantino realizzato da Fidia per il santuario di Olimpia, e nel riutilizzo di colonne marmoree sottratte al tempio di Zeus Olimpico ad Atene, non ancora completato. Il risultato, però, non suscita certo ammirazione presso i romani più cosmopoliti, abituati ormai alle forme eleganti dei templi ellenistici. Di ben altra profondità sono i segni lasciati sul tessuto urbano di Roma dalla rivalità politica tra Pompeo e Cesare.

A Pompeo Magno si deve la realizzazione del primo teatro in pietra in città (un tipo di edificio che aveva da sempre suscitato l’ostilità dell’aristocrazia senatoria); una costruzione poderosa, destinata a rimanere per tutto l’evo antico uno dei monumenti più importanti di Roma e il più grande teatro noto, che sorge in Campo Marzio tra il 61 a.C. (anno del trionfo di Pompeo de orbi universo) e il 55 a.C., quando l’imperator ricopre per la seconda volta il consolato. L’enorme sforzo finanziario richiesto dalla struttura, evidenziato dall’utilizzo di materiali di pregio (rimarrà, per eccellenza, il theatrum marmoreum di Roma) e dal gigantismo delle strutture e delle statue esposte, realizzate da Coponio, raffiguranti le nationes assoggettate da Pompeo, assume il carattere di un demagogico dono concesso dall’imperator, incurante dei veti senatori, al popolo di Roma, in un momento in cui in città aumenta la richiesta di spettacoli pubblici e di luoghi di svago. Il complesso degli edifici pompeiani in Campo Marzio, oltre al teatro la cui gigantesca cavea viene da Pompeo giustificata come scalinata di accesso al tempietto sulla sommità dedicato alla sua divinità protettrice, Venere Vincitrice, comprende un ampio quadriportico con al centro un giardino animato da fontane e giochi d’acqua e arredato con una ricca collezione di statue greche (selezionate da Tito Pomponio Attico, il celebre e raffinato collezionista amico di Cicerone) di soggetto teatrale, portando nell’Urbe il modello ellenistico del giardino-passeggiata, comprensivo di angoli dedicati all’insegnamento e alla conversazione. Non mancano neppure spazi di carattere politico, come la curia per le riunioni del senato, grande esedra rettangolare aperta sul quadriportico, ben nota come luogo dell’assassinio di Cesare, pugnalato alle Idi di marzo del 44 a.C. proprio sotto la statua di Pompeo, identificata con quella che lo raffigura in nudità eroica oggi conservata a Roma in Palazzo Spada. Il complesso pompeiano si configura dunque come una sorta di “città nella città”, completa, ordinata ed omogenea, su cui giganteggia la figura di Pompeo, ansioso di dominare allo stesso modo su Roma e sull’impero: una rappresentazione quanto mai eloquente delle sue aspirazioni e della sua concezione assolutistica del potere. Per questo Pierre Grimal ha sottolineato come il teatro di Pompeo non abbia nulla a che fare, ormai, con l’architettura repubblicana di Roma e si presenti anzi come il primo monumento della Roma imperiale.

La reazione di Cesare non si fa certo attendere; e mentre Pompeo aveva limitato la propria attività edificatoria, per quanto imponente, all’area del Campo Marzio, il suo rivale concentra i propri interventi sia nello stesso Campo Marzio che nel centro storico di Roma, nei luoghi simbolici della tradizione repubblicana, quella stessa tradizione che la sua azione politica sta di fatto svuotando di ogni significato. Esemplare della strumentalizzazione demagogica dei simboli repubblicani operata da Cesare nella sua attività edificatoria è la ricostruzione dei Saepta (il grande recinto destinato alle votazioni del popolo) in Campo Marzio, in forme monumentali e con l’utilizzo del candido marmo delle cave di Luni: un impianto di lusso (che verrà completato solo da Agrippa) per una procedura che di fatto sta perdendo il proprio valore.

Ancora più eloquente è la realizzazione della nuova sede del senato, la Curia Iulia, destinata a sostituire l’antica Curia Hostilia: spostata rispetto a quest’ultima, la nuova curia (anch’essa completata in età augustea) si collega direttamente al nuovo Foro voluto da Cesare, da lui presentato come semplice ampliamento del Foro repubblicano divenuto ormai troppo angusto, ma che in realtà introduce un nuovo modello di piazza monumentale, fortemente plasmata da messaggi politico-propagandistici, inaugurando la moltiplicazione dell’area forense con le strutture dei Fori imperiali: moltiplicazione che proseguirà fino all’età traianea.

I lavori per il Foro di Cesare iniziano nel 54 a.C., in contemporanea con quelli destinati all’erezione della Basilica Giulia nel Foro Romano, che oblitera la più antica Basilica Sempronia; il nuovo impianto forense, inaugurato nel 46 a.C., consiste in una lunga e stretta piazza fiancheggiata da un doppio porticato su tre lati, mentre il quarto è chiuso dalla facciata del tempio di Venere Genitrice, la dea da cui Cesare sostiene di discendere, riconoscendo in Iulo, figlio di Enea, il capostipite della gens Iulia. Il tempio domina da un alto podio la piazza, sulla quale troneggiano due statue di Cesare, una in cui il dittatore appare coperto dalla lorica, e l’altra, equestre, nella quale Stazio (Silvae I, 1, 84-88) riconosceva una statua di Lisippo, raffigurante in origine Alessandro Magno, il cui ritratto era stato sostituito con quello di Cesare. È palese dunque quanto il culto della personalità costituisca l’essenza di questo impianto; e quanto tale aspetto venga enfatizzato dal costume di Cesare di accogliere i senatori seduto nell’intercolumnio centrale della facciata del tempio di Venere (Svetonio, Cesare, 78). Ma il dittatore progetta anche edifici teatrali, che mobilitano le simpatie popolari (come dimostrato dal complesso pompeiano in Campo Marzio): il teatro appena iniziato nel 44 a.C. nell’area del Circo Flaminio sarà concluso solo da Augusto nel 17 a.C. (si tratta del Teatro di Marcello), mentre allo stato di idea un po’ megalomane resta il progetto di addossare una grandiosa cavea teatrale alla Rupe Tarpea, sconvolgendo il cuore delle tradizioni repubblicane dell’Urbe con un edificio che sarebbe stato uno schiaffo all’auctoritas del senato e ai suoi veti.

Ben più grandioso il progetto che ispira la lex de Urbe augenda, presentata nel 45 a.C.: secondo Cicerone (Lettere ad Attico 13, 33. 1) Cesare intende spostare il corso del Tevere, tagliandone le anse del Campo Marzio e guadagnando così un’ampia superficie destinata ad un nuovo sviluppo urbanistico, che avrebbe assunto le forme di una ordinata città ellenistica, con strade ampie e piazze, più spazio per le abitazioni private ma anche per i templi delle divinità più rappresentative del nuovo corso politico. La morte impedisce a Cesare l’attuazione di questo programma, che non viene ripreso neppure da Augusto, che pure porterà a compimento molti progetti iniziati dal padre adottivo. Del resto, la politica urbanistica di Augusto dopo la vittoria di Azio e l’inizio del suo principato tenderà ad abbandonare gli aspetti più magniloquentemente personalistici e “pubblicitari” che pure improntano gli edifici realizzati dal giovane leader politico prima del 31 a.C. (il tempio di Apollo sul Palatino e il Mausoleo), in favore di interventi più attenti alle esigenze e alle emergenze della città, pur non rinunciando ad una totale semantizzazione di luoghi e di edifici a finalità propagandistiche.

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