Napoli

Enciclopedia Dantesca (1970)

Napoli

Filippo Brancucci
Mario Santoro
Eugenio Ragni
Pier Vincenzo Mengaldo

Unici luoghi danteschi menzionanti esplicitamente la città partenopea sono Pg III 27, in cui Virgilio afferma che Napoli ha lo corpo dentro al quale io facea ombra, e Cv IV XXIX 3 dov'è, ricordata la famiglia Piscitelli di Napoli. Inoltre in Pg III 131 (di fuor dal regno) e V 69 (quel di Carlo) è un cenno del regno di N., i cui confini sono indicati in Pd VIII 61-63 quel corno d'Ausonia che s'imborga / di Bari e di Gaeta e di Catona, / da ove Tronto e Verde in mare sgorga.

Per la storia di N. nei tempi più vicini a D., ricorderemo che quando, nel 1189, alla morte di Guglielmo II, la corona di Sicilia fu contesa fra Enrico VI di Svevia marito di Costanza, ultima erede legittima degli Altavilla, e Tancredi conte di Lecce, figlio naturale di Ruggero duca di Puglia, N., avversa agli Svevi, si dichiarò a favore di Tancredi, che le concesse molti privilegi. Dopo un breve periodo di autonomia seguito alla morte di Enrico VI, che alla fine l'aveva domata, nel 1220 la città rientrò nell'ambito del regno di Sicilia, aprendo le porte a Federico II che la beneficò ampiamente e nel 1224 vi fondò il famoso Studio. Tuttavia egli per il suo esoso fiscalismo ebbe ostile la popolazione che, ribellatasi al suo successore Corrado IV, preferì la protezione di papa Innocenzo IV. Questi concesse a N. ordinamenti comunali e vi si trasferì alla morte di Corrado IV (1254), che l'anno prima era riuscito a occuparla. A N. dunque si tenne il conclave che elesse Alessandro IV (1254), il quale vi soggiornò fino all'appressarsi di Manfredi, reggente in nome di Corradino, il figlio di Corrado IV. La città, abbandonata a sé stessa, si sottomise al nuovo re che nel 1258 si fece incoronare re di Sicilia. Quando la sconfitta e l'uccisione di Ezzelino III da Romano (1259) indussero Manfredi ad assumere la guida del partito ghibellino e a intervenire contro Firenze (1260), il papa, il francese Urbano IV, offrì a Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia, l'investitura del regno di Sicilia. L'Angioino, accettate le condizioni poste da Urbano IV e dal successore Clemente IV, anch'egli francese, venne incoronato re di Sicilia (1265) e subito avanzò contro Manfredi, sconfiggendolo nella battaglia di Benevento, ove questi morì (Pg III 112-145). I seguaci della monarchia sveva tentarono l'ultima resistenza con il giovanissimo Corradino, ma Carlo lo sconfisse presso Tagliacozzo nel 1268; il 29 ottobre dello stesso anno lo faceva decapitare sulla piazza del mercato della città di Napoli.

Sono questi gli anni di D., quando la città partenopea si avviava a divenire la capitale di quel regno di Sicilia che aveva vissuto il suo periodo di splendore con i Normanni prima, poi con Federico II, e sul cui trono si sarebbero d'ora innanzi, per circa due secoli, avvicendati sovrani angioini. Essi, alleati del papa e decisi a estendere in tutta Italia e nel Mediterraneo la loro egemonia, ritennero opportuno trasferire la capitale da Palermo a N. al fine di mantenere un più immediato contatto con le forze politiche guelfe operanti nella penisola.

Il regno di N. apparve a D. il più duro ostacolo al vagheggiato ripristino dell'Impero. Egli, che ha ricordato sempre con viva ammirazione e simpatia i rappresentanti della casa sveva, si mostra sistematicamente avverso a tutti i re angioini (eccezion fatta per Carlo Martello), legati a quei papi e a quella mala pianta [i Capetingi] / che la terra cristiana tutta aduggia (Pg XX 43-44), rovina di Firenze e causa del suo esilio. Pertanto Carlo I (1265-1285) è l'usurpatore venuto in Italia che, sconfitto Manfredi, vittima fé di Curradino; e poi / ripinse al ciel Tommaso, per ammenda (vv. 68-69). Di lui, l'angioino nasuto, e del figlio Carlo II (1285-1309) onde Puglia e Provenza già si dole (VII 124-126) D. espresse severi giudizi (XX 79-81, Pd VI 106-108, XIX 127-129, Cv IV VI 20). Considerò non meno negativamente (Pd VIII 76) il successore Roberto (1309-1343).

La città partenopea durante il regno angioino si arricchì di monumenti, ebbe notevoli privilegi, divenne quel rinomato centro di studi e di commercio che trasparirà vivo e colorito dalle pagine del Boccaccio. Ma di tutto questo non vi è cenno in D., che guardò a N. attraverso il suo avverso giudizio ai re e all'ideale politico che essi perseguivano.

Bibl. - B. Capasso, Le fonti della storia delle provincie Napolitane dal 568 al 1500, a c. di O. Mastroianni, Napoli 1902; B. Croce, Storia del regno di N., Ibid. 1925, 277-281. In Storia Di N., Ibid. 1967, v. i saggi Di: G. Cassandro, Il ducato bizantino, vol. II I, 1-409; M. Fuiano, N. normanna e sveva, pp. 411-518; C. De Erede, Da Carlo I d'angiò a Giovanna I (1263-1382), III 1-333 (Con Bibl.).

Fortuna di D. a Napoli. - La presenza di N. in D. è legata all'interesse del poeta per la realtà politica contemporanea e alla sua concezione politica. N. rappresentava la capitale del regno angioino, un grande stato nazionale che sembrava il più forte ostacolo alla vagheggiata restaurazione dell'Impero. L'avversione di D. investe sistematicamente gli Angioini di N. e, più ampiamente, tutta la dinastia francese (unica eccezione, ma significativa, Carlo Martello). Severo il giudizio su Carlo I, giudicato responsabile della decapitazione di Corradino e del presunto assassinio di s. Tommaso (Pg XX 67-69), come della mala signoria che provocò la rivoluzione dei Vespri (Pd VIII 73 ss.), sebbene il poeta, forse suggestionato dalla tradizione guelfa fiorentina, lo collochi nel Purgatorio (VII 112. ss.) e attribuisca molto probabilmente a lui una dote essenziale della moralità medievale, la liberalità (Pd VIII 82). Costantemente duro e sprezzante è il giudizio su Carlo II (Pg VII 127, XX 79-84, Pd VI 106-108, XIX 127-129, VE I XII 5, Cv IV VI 20). Né meno severo, anzi più circostanziato, è il giudizio su Roberto, del quale D. condanna la politica estera e interna (con l'esplicito accenno all'avara povertà di Catalogna come causa fondamentale dell'oppressione dei sudditi) e l'indole viziosa e corrotta (Pd VIII 76 ss.). La condanna del governo di Carlo II e di Roberto e quindi l'interpretazione della storia di N. dal dominio svevo (gli Svevi sono ricordati sempre con ammirazione o simpatia) al pesante dominio angioino, rispecchiano le idee politiche di D., oltre, s'intende, la sua fondamentale condizione di antagonismo verso la società e i potenti del tempo.

Grande e spesso decisiva per il progresso degli studi danteschi la fortuna del poeta nella cultura napoletana. L'interesse per la Commedia a N. nel sec. XIV è testimoniato in modo esemplare da un importante commento di quel secolo (appartenuto a un Lorenzo Poderico o Pulderici), contenuto nel codice cosiddetto " Filippino " della Oratoriana di Napoli (collocaz. 4 20). Né poco concorsero alla fortuna di D. i sovrani aragonesi che, nel quadro del loro interesse per la cultura e per il volgare, dimostrarono una viva ammirazione per il poeta: ad es. nell'inventario della biblioteca dell'ultimo duca di Calabria figurano ben cinque esemplari della Commedia; ed è interessante ricordare che la biblioteca possedeva anche un codice contenente la Vita Nuova e il Convivio.

Fitte le suggestioni della Commedia sulla letteratura napoletana del '400 (dal Rosario de spinis di fra Domenico da N. alle Sei etati de la vita humana di Pietro Iacopo De Iennaro, al Giardeno di Marino Ionata) e significativi i richiami a D. in scritti di studiosi pontaniani, quali il Galateo. Nel sec. XVI invece la cultura napoletana sembra non partecipare al fervore di studi sulla vita e sui testi del. poeta che si sviluppò con vistosi risultati (soprattutto nel campo filologico) in altri centri della penisola, specialmente in Toscana, mentre si possono riscontrare continue suggestioni di D. nell'opera letteraria di lirici e scrittori napoletani: basti pensare a Torquato Tasso (v.). Nel sec. XVII, sebbene caratterizzato da perplessità e da riserve (specialmente sotto il profilo dell'eleganza letteraria), l'interesse per D. continuò in varia misura, pur senza notevoli progressi critici. Un più concreto interesse per il poeta si manifestò nel primo Settecento, nel quadro di un generale risveglio culturale al quale contribuì non poco, nell'ambito della cultura arcadica, il Valletta. Un'importante testimonianza del rinnovato interesse per D. è l'edizione napoletana della Commedia del 1716, a c. di L. Cicarelli, esemplata su quella fiorentina del 1595.

Una svolta decisiva nella storia della fortuna del poeta e, quel che più conta, della critica dantesca, fu segnata in quel tempo dall'interpretazione del Vico attraverso la sua geniale e feconda concezione della poesia. La lezione vichiana aprì la via a una grande tradizione di studi danteschi che nel secolo successivo avrebbe dato, attraverso l'opera d'insigni maestri, contributi fondamentali. Nell'Ottocento il rinnovato culto del poeta, ravvivato dallo spirito patriottico e da una più larga sensibilità critica, ebbe in N. uno dei centri più prestigiosi. Anche quando, in varia misura, l'impegno politico e morale condizionò la lettura e l'interpretazione del poeta, gli studiosi napoletani (comprendiamo fra essi anche quelli nati in altre regioni, i quali si formarono ovvero operarono nell'ambito della cultura napoletana) portarono nei loro scritti una costante disposizione a cercare, al di là degl'interessi eruditi o formali, i valori più intrinseci della personalità e della poesia di D.: dal Troya al Settembrini, al De Sanctis, al Torraca, al D'Ovidio, ai migliori discepoli del Torraca, come il Proto, lo Scarano, lo Zingarelli, il Ciafardini, il Manfredi, con i quali arriviamo al pieno Novecento. Non occorre sottolineare l'importanza di questi studiosi i quali, mentre con i loro scritti rispecchiano i tempi fondamentali della critica dantesca tra l'Ottocento e il primo Novecento, dal Romanticismo al Positivismo e al crocianesimo, concorsero decisamente, pur se in varia misura, al progresso degli studi danteschi. Una prova preziosa della fortuna del poeta a N. nel sec. XIX e nei primi del XX è l'imponente numero delle edizioni napoletane della Commedia (circa una quarantina) più volte ristampate, con commenti divenuti presto famosi, come quelli del Costa, dell'Andreoli, del Biagioli, del De Biase, dello Zingarelli; accanto a questi commenti vanno ricordati altri, compilati da studiosi napoletani (o partecipi della cultura napoletana) ma stampati altrove, come quello, in chiave allegorico-politica, di G. Rossetti (del quale furono editi solo due volumi dell'Inferno, a Londra nel 1826-27) e quello, giustamente famoso, del Torraca, pubblicato nel 1905 e più volte ristampato. Il commento del Torraca, e, più tardi, le sue due raccolte di studi danteschi, del 1912 e del 1921, rispecchiano un momento fondamentale della cultura napoletana, caratterizzato dalla progressiva affermazione del magistero del Croce, un momento di crisi e di rinnovamento, destinato a incidere profondamente sul destino della cultura italiana. Con il saggio La poesia di D. (1921) il Croce segnava una data fondamentale nella storia della critica dantesca. Una diversa posizione veniva assunta e rappresentata per circa un trentennio dal Toffanin, il successore del Torraca alla cattedra di letteratura italiana nell'ateneo napoletano. Il Toffanin, nel quadro di una sua suggestiva interpretazione della storia della civiltà letteraria italiana, mirava a proporre un metodo di lettura inteso a riconoscere i valori ideali e la problematica spirituale e culturale di D. sulla trama della cultura e della spiritualità medievale e umanistica: i suoi studi danteschi, anche se i risultati non sono sempre persuasivi, sono sempre stimolanti e illuminanti. Tra i suoi discepoli che si sono occupati di D. occorre ricordare R. Montano, autore di opere talvolta discutibili ma certamente intelligenti e ricche di dottrina, e G. Paparelli. Il successore del Toffanin sulla cattedra napoletana, S. Battaglia, alla luce di una più moderna metodologia e della sua profonda conoscenza della civiltà letteraria medievale, ha dato un nuovo impulso e fondamentali contributi agli studi danteschi, continuandone e arricchendone prestigiosamente l'alta tradizione nella cultura napoletana.

Bibl. - Fondamentale: D. e l'Italia meridionale, Firenze 1966 (cfr. spec. P. Brezzi, D. e gli Angioini; G. Contini, Manoscritti meridionali della Commedia; P. Giannantonio, I commentatori meridionali della Commedia; G. Paparelli, D. e Vico; M. Santoro, Settembrini e D.; F. Figurelli, D. nell'opera di F. De Sanctis; G. Mazzacurati, La critica dantesca di F. Torraca e la " seconda scuola " del De Sanctis; V. Russo, Gli studi danteschi di F. D'Ovidio). Inoltre: M. Sansone, Natura e limiti del rapporto struttura e poesia nella critica dantesca, in Studi di letteratura italiana, Bari 1950; T. De Marinis, La Biblioteca napoletana dei re d'Aragona, Milano 1957; F. Mazzoni, La critica dantesca del sec. XIV, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 285-297; A. Altamura, La fortuna di D. nel '400, in " Annali Pont. Ist. Sup. S. Chiara " XV-XVI (1965-66): Sulla conoscenza dell'opera dantesca a N., su alcuni casi d'imitazione dai suoi versi (non solo della Commedia), sulla circolazione già in pieno '300 di molti manoscritti della Commedia nell'ambiente angioino, nuove interessanti informazioni vengono dallo studio di F. Sabatini, La cultura a N. nell'età angioina, in Storia di N., IV.

A N., secondo una nota del Ferrari accettata dal Batines (435 e 441), fu esemplato il codice attualmente alla biblioteca Nazionale di Parigi (collocazione: Italiano 76, già Fonds de Réserve 7002), contenente la Commedia fino a Pg XXXIII 90; nonostante la bassa datazione (fine del sec. XIV - inizi. del XV), è manoscritto importante in quanto " tratto da buon esemplare " (Ferrari).

Napoletano, ma forse di copista non proprio della capitale (cfr. G. Contini, Manoscritti meridionali della ‛ Commedia ', in D. e l'Italia meridionale, Firenze 1966, 338-339), è il codice Laurenziano Ashburnhamiano Appendice Dantesca 4, assai recenziore (è datato 24 agosto 1474) ed esemplato da un certo " Iacubo de Cavallo ", anch'esso contenente la Commedia; al copista vanno attribuite anche le postille e le notazioni marginali (cfr. D. De Robertis, in " Studi d. " XXXIX [1962] 171-172).

Dello stesso anno fu reputata fino a qualche tempo fa (cfr. per es. Mambelli, Annali 10-11) la stampa napoletana della Commedia, uscita dai torchi di Francesco del Tuppo coi caratteri di Sisto Riessinger; ma più recenti studi (v. DEL TUPPO, FRANCESCO) indicano come prima impressione del poema quella pubblicata nel 1477, il 12 aprile, opera di Mattia di Olmütz detto il Moravo, e hanno spostato al 1479 la stampa del Del Tuppo. Ambedue queste edizioni derivano direttamente dall'edizione folignate del 1472.

Lingua. - N. e Gaeta sono nominate in VE I IX 4 come esempio di differenziazione linguistica tra città non solo relativamente vicine, ma i cui abitanti appartengono alla stessa gens, quella campana (conveniente, in eodem genere gentis; i mss. G e T hanno la var. nomine); a questo esempio per la metà occidentale o di ‛ destra ' dell'Italia fa riscontro per quella orientale la menzione di Ravennati e Faentini, entrambi romagnoli. La Campania, inserita nella più ampia zona linguistica meridionale che D. chiama Apulia (v. sub v. per la caratterizzazione che egli ne dà, con tratti dialettali comuni anche al napoletano), era una delle regioni augustee e compare spesso nelle descrizioni geografiche dell'Italia dell'epoca di D. (cfr. Marigo, De vulg. Eloq. pp. XCIX, 66-67).

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