Neurogenesi

Enciclopedia del Novecento (1979)

Neurogenesi

Rita Levi-Montalcini

di Rita Levi-Montalcini

Neurogenesi

sommario: 1. Introduzione. 2. Piano strutturale del sistema nervoso dei Vertebrati. a) Tecniche e metodi di analisi: la tecnica di impregnazione argentica, le tecniche autoradiografiche. b) Principali eventi neurogenetici: proliferazione, migrazione, morte cellulare, formazione di circuiti nel sistema nervoso centrale. c) Il mutante di topo e il suo contributo all'analisi del controllo genetico sui processi differenziativi dei circuiti cerebellari. 3. Il principio della specificità neuronale. a) Cenni storici: teorie sulla specificità delle connessioni e sulla specificità dell'impulso nervoso. b) Studi sul comportamento e studi istologici sui circuiti neuronali. c) Approccio elettrofisiologico e stato attuale del problema. d) Prospettive in questo campo di ricerca: un nuovo approccio al problema. 4. Meccanismi di controllo nel sistema nervoso in via di sviluppo. a) II ruolo dei fattori estrinseci nella neurogenesi. b) Il controllo dello sviluppo delle cellule nervose simpatiche da parte di un fattore proteico. c) L'NGF e i meccanismi di controllo nella neurogenesi. 5. Cenni conclusivi. □ Bibliografia.

1. Introduzione

‟Non abbiamo che ben vaghe nozioni del piano generale del sistema nervoso [...]. Non sappiamo come i nervi trovino la via che li conduce alla esatta stazione terminale e come stabiliscano le giuste connessioni, sia quando si accrescono durante lo sviluppo embrionale sia quando, in alcuni organismi, rigenerano [...]. Se poi consideriamo come il cervello impara, come ricorda, siamo ancora più all'oscuro [...]. È evidente che le nostre conoscenze del sistema nervoso sono allo stato attuale estremamente rudimentali" (v. Crick, 1966, pp. 72-73).

In queste poche frasi un famoso biofisico esprime il suo punto di vista sullo stato presente di alcuni dei maggiori settori della neurobiologia, la scienza che ha come oggetto l'analisi dei molteplici aspetti del sistema nervoso. E tuttavia, l'improvviso risorgere di interesse, dopo decenni di letargo, e una nuova impostazione di vecchi problemi suggeriscono una visione meno pessimistica della situazione, almeno a chi tenga conto della complessità del sistema in esame e dei progressi che di recente hanno trasformato uno dei campi più statici e negletti della biologia in uno dei più attivi, grazie all'improvviso affluire in quest'area di ricerca di forze giovani, con una preparazione culturale differente da quella di chi le ha precedute e un entusiasmo non ancora mitigato da precedenti insuccessi. I progressi, che possono apparire modesti se analizzati singolarmente o paragonati a quelli assai più rilevanti della biologia molecolare, acquistano tuttavia significato se vengono considerati come postazioni avanzate di una frontiera in rapido avanzamento e valutati sulla base del loro significato prospettico più che su quello attuale.

Uno dei cambiamenti più significativi avvenuti in questi ultimi due decenni, e cioè da quando aree di ricerca sul sistema nervoso che in passato erano pressoché indipendenti si sono fuse e hanno dato origine alla disciplina oggi nota come neurobiologia, è stato il convergere degli sforzi di ricercatori di diversa preparazione culturale e con differenti obiettivi.

La denominazione di questa scienza che oggi studia tutti gli aspetti del sistema nervoso non è stata soltanto un riconoscimento verbale del comune denominatore di questi differenti settori di ricerca. È servita infatti a unificare e rendere più agevole lo scambio di informazioni e di tecniche in uso nei vari settori della biologia e della biofisica ai fini dell'esplorazione del sistema nervoso e della sua funzione. E, fatto ancora più importante, ha sollecitato studiosi di questo sistema a sconfinare dal proprio campo e a interessarsi non soltanto ai risultati, ma anche ai dettagli tecnici di ricerche compiute in aree limitrofe. È accaduto così che, per la prima volta, neurofisiologi e psicologi non si ritenessero soddisfatti della descrizione di cellule e circuiti nervosi da parte di neuroanatomisti, ma prendessero contatto con le cellule stesse - dalla preparazione istologica all'osservazione microscopica - per acquistare conoscenza diretta del sistema nervoso che in passato erano usi analizzare soltanto da un punto di vista funzionale.

L'interesse per l'organizzazione strutturale del sistema nervoso come chiave per comprenderne la funzione - dalla trasmissione dell'impulso nervoso alla conservazione del- l'informazione e alla sua elaborazione nei centri cerebrali superiori - ha di recente richiamato anche l'attenzione dei genetisti su questo settore della neurologia un tempo trascurato. Le ricerche di questi studiosi sono ora volte a identificare nelle cellule e nei circuiti neuronali programmati dal codice genetico il substrato strutturale del comportamento.

Per quelli che, come chi scrive, hanno sofferto in passato della sensazione di isolamento, questo cambiamento è motivo di soddisfazione e di fiducia nei futuri sviluppi di questo settore di studi. I ristretti confini della neuroanatomia si sono infatti aperti su orizzonti assai più vasti e i risultati ottenuti nel breve periodo trascorso da quando questo approccio ha avuto inizio hanno riacceso l'interesse in quest'area di ricerca da molti anni in declino.

Nell'impossibilità di presentare qui i molteplici aspetti della neurogenesi, ci si limiterà a considerare alcuni settori più familiari a chi scrive trascurandone altri, o toccandoli soltanto di sfuggita. Il lettore troverà in recenti articoli e volumi che verranno citati volta a volta una più ampia ed esauriente trattazione di questi argomenti. Qui indicheremo brevemente il piano dell'articolo e i criteri che hanno guidato la scelta.

Nel secondo capitolo considereremo alcuni episodi differenziativi che, pur essendo noti da tempo, sono stati soltanto recentemente oggetto di studi diretti non tanto, o almeno non soltanto, alla conoscenza del prodotto finale, il sistema nervoso, quanto a ottenere informazioni sul piano costruttivo di questo organo estremamente complesso che si sviluppa secondo un programma predeterminato nei minimi particolari. Il ruolo dei fattori genetici nella meccanica dello sviluppo di questo sistema è emerso in tutta la sua importanza da studi sul sistema nervoso o su suoi settori, in esemplari normali e in mutanti di topo. In considerazione del contributo di questi studi alla conoscenza dei fattori che operano a ogni tappa della neurogenesi, queste ricerche, oggi in pieno sviluppo, saranno considerate dettagliatamente.

Nel terzo capitolo, tratteggeremo concetti e teorie sulla organizzazione strutturale e funzionale del sistema nervoso con particolare riferimento al sistema che è stato oggetto di studi più approfonditi, e cioè quello visivo.

Il quarto capitolo ha come oggetto l'analisi del ruolo dei fattori estrinseci - e cioè non genetici - nella neurogenesi. La scoperta che una molecola proteica, presente nell'organismo in via di sviluppo o a sviluppo completo, esercita un potente effetto stimolante su determinate cellule nervose, ha rivelato nuovi aspetti della differenziazione delle cellule stesse e - in senso più lato - dei meccanismi regolatori nella neurogenesi.

2. Piano strutturale del sistema nervoso dei Vertebrati

a) Tecniche e metodi di analisi: la tecnica di impregnazione argentica, le tecniche autoradiografiche.

La tecnica di impregnazione argentica. - In tutti i settori delle scienze biologiche, ma forse in nessuno come in quello della neurobiologia e in particolare della neurogenesi, la conditio sine qua non del progresso è stata la scoperta di metodi e tecniche a più alto potere risolutivo che hanno reso possibile l'esplorazione di aree non accessibili ai ricercatori precedenti. Quando, nella seconda metà del secolo scorso, S. Ramén y Cajal fece il suo ingresso nel campo della neurobiologia, il sistema nervoso dei Vertebrati era una specie di terra inesplorata che incoraggiava e rendeva plausibili le più gratuite ipotesi sulla sua struttura e funzione.

La mancanza di specifiche tecniche istologiche che permettessero di porre in evidenza le cellule nervose incluse nella densa matrice dell'asse cerebro-spinale e i tratti di fibre che interconnettono le popolazioni stesse, era uno dei motivi, se non il solo, del persistere del concetto mistico di un'organizzazione reticolare, acellulare, del sistema stesso, in un periodo nel quale invece la struttura cellulare degli altri tessuti animali non era più posta in dubbio. La scoperta di Camillo Golgi (v., 1873) di un metodo di impregnazione selettiva delle cellule nervose con sali cromoargentici, e l'utilizzazione di questa tecnica da parte di Ramòn y Cajal per lo studio del sistema nervoso in via di sviluppo e a completa differenziazione aprirono la strada all'analisi delle popolazioni e dei circuiti nervosi. Tre decenni più tardi, la scoperta da parte di Ramòn y Cajal (v., 1903) di un nuovo metodo selettivo di impregnazione argentica delle cellule nervose, rivelò altri aspetti fondamentali dell'organizzazione di questo sistema. Negli ultimi due decenni del secolo scorso e nei primi tre di quello attuale, la struttura del sistema nervoso si rivelò in tutta la sua straordinaria complessità nell'opera monumentale di Ramón y Cajal (v., 1891 e 1909-1911). Venne così alla luce quella che può considerarsi come la caratteristica essenziale di questo sistema, e cioè di essere costituito da migliaia di popolazioni cellulari, ognuna differente nella struttura, nel ciclo vitale e nel ruolo funzionale. Ogni popolazione cellulare (anche nota come nucleo quando consiste di cellule addensate le une vicino alle altre in formazioni ben distinte da quelle di cellule limitrofe) si sviluppa secondo un programma genetico che è singolarmente simile per la stessa popolazione appartenente a individui di specie differenti. È perciò possibile ottenere informazioni sulla neurogenesi e sul piano strutturale di determinati nuclei nervosi in forme filogeneticamente più evolute, studiando le stesse popolazioni in Vertebrati inferiori. Dato che in questi ultimi il piano strutturale è assai più semplice, le stesse popolazioni si prestano all'indagine morfologica e funzionale assai meglio che in organismi più complessi.

Oggi, dopo un secolo dall'introduzione della tecnica di Golgi, e dopo l'analisi magistrale eseguita da Ramón y Cajal utilizzando tale metodo insieme al proprio, le stesse tecniche sono impiegate per studiare il sistema nervoso in via di sviluppo e analizzare differenti aspetti di processi neurogenetici. Nell'impossibilità di considerare queste tecniche particolareggiatamente, ci limiteremo ad accennare che sia l'uno sia l'altro metodo si basano sull'intensa affinità delle cellule nervose per i sali argentici. Il trattamento di segmenti del sistema nervoso con soluzioni di questi sali e l'immersione successiva dei tessuti in un bagno riduttivo determinano la precipitazione dei sali argentici sul corpo delle cellule nervose (noto anche come pirenoforo), sulle ramificazioni protoplasmatiche che emergono dal corpo cellulare (dendriti) e sulle fibre nervose (assoni), che conducono l'impulso nervoso e stabiliscono connessioni con altre cellule nervose (neuroni) nell'asse cerebro-spinale o con tessuti periferici. Poiché, come vedremo, molte popolazioni in via di sviluppo sono dotate di intensa attività migratoria nei periodi precoci della loro differenziazione, è necessario analizzare embrioni o esemplari nelle prime settimane di sviluppo, a tempi ravvicinati e cioè ogni poche ore, durante i periodi cruciali dei processi migratori, per ricostruire la storia e la topografia della stessa popolazione dall'inizio della sua differenziazione allo sviluppo ultimato. L'oggetto favorito di questi studi sono gli embrioni di pollo e i feti di topo.

Le tecniche autoradiografiche. - Un approccio metodologico completamente differente da quello accennato sopra, che - malgrado abbia avuto inizio in periodi molto più recenti e cioè in questi ultimi due decenni - ha già dato notevoli contributi allo studio dell'origine e dello sviluppo del sistema nervoso, è basato sulla proprietà dei nuclei delle cellule in attività mitotica di incorporare un precursore dell'acido desossiribonucleico (DNA) e cioè la timidma. Allo stesso modo la timidina radioattiva, cioè marcata con trizio, se iniettata negli animali in esperimento per via endovenosa o intraperitoneale alle dosi di 5 μc/g di peso corporeo, viene incorporata selettivamente nel DNA delle cellule che si preparano a dividersi. Nel topo il 95% di una singola dose di timidina radioattiva iniettata in una femmina gravida raggiunge i feti dal dodicesimo giorno di gestazione alla fine della gravidanza, al ventesimo giorno. Il DNA marcato è messo in evidenza mediante la tecnica autoradiografica, che si vale della proprietà di atomi radioattivi di emettere particelle beta che producono un'immagine latente in un'emulsione fotografica sensibile, costituita da un sottile strato di gelatina nel quale sono incorporati cristalli di bromuro d'argento. I processi di sviluppo, fissazione e lavaggio, simili a quelli delle comuni tecniche fotografiche, trasformano l'immagine latente in immagine visibile. Precursori di cellule nervose che si trovano al momento dell'iniezione della timidina triziata in fase di sintesi premitotica del DNA (ovviamente anche altre cellule in mitosi dell'organismo iniettato con questo precursore verranno marcate, ma qui interessano soltanto i processi proliferativi nel sistema nervoso) incorporano nel nucleo la timidina radioattiva: questa si manifesta nel preparato istologico, e cioè nell'autoradiogramma, in forma di granuli puntiformi neri sovrapposti al nucleo, che risultano dalla riduzione, operata dalle singole particelle ionizzanti emesse dalla timidina radioattiva, di minime quantità di bromuro d'argento in argento metallico.

A ogni successiva divisione mitotica del nucleo marcato, il numero di granuli si dimezza tra i due nuclei delle due cellule figlie: si può perciò determinare il numero di divisioni che hanno avuto luogo dopo una singola iniezione di timidina radioattiva, contando il numero di granuli d'argento sovrapposti a ogni nucleo cellulare marcato. Il ‟giorno di nascita" di una determinata cellula nervosa, secondo la definizione di R. L. Sidman (v., Autoradiographic..., 1970), lo studioso che più di ogni altro ha utilizzato questa tecnica per l'analisi di processi neurogenetici, è quello nel quale la cellula precursore va incontro all'ultima divisione mitotica prima di iniziare i processi differenziativi che - com'è noto - nelle cellule nervose coincidono con la cessazione dell'attività proliferativa. In queste cellule la marcatura a livello nucleare, e cioè la presenza di granuli puntiformi sul nucleo stesso, permane per il resto della vita e permette di ricostruirne la storia, specialmente per quanto riguarda l'attività migratoria della cellula stessa dalla sua origine alla sede definitiva, che può trovarsi a notevole distanza dal punto di partenza. Iniettando infatti una sola dose di timidina radioattiva (metodo noto come pulse labelling, dato che la sostanza radioattiva è accessibile alle cellule stesse per un periodo brevissimo) nell'embrione, feto o animale neonato a seconda della specie e del segmento nervoso in esame, e fissando poi l'animale iniettato a tempi successivi, è possibile, dall'esame comparato delle sezioni istologiche del tessuto nervoso, identificare la stessa cellula marcata in posizioni diverse lungo la traiettoria percorsa dalla cellula dal tempo zero (ultima divisione cellulare) al momento della fissazione.

Questa tecnica ha perciò messo a disposizione del neurologo un metodo di straordinaria utilità per analizzare le sequenze temporali e spaziali dello sviluppo di determinate popolazioni nervose e, insieme alle tecniche argentiche, ha reso possibile penetrare nei meandri del sistema nervoso in via di sviluppo, che prima era praticamente inaccessibile all'esplorazione.

Sebbene - per limitazione di spazio - non potremo considerare che una piccola parte dei processi che sono stati oggetto di studio con l'una o l'altra tecnica, il lettore potrà da questi formarsi un'idea del dinamismo e della complessità dei fenomeni che caratterizzano lo sviluppo del sistema nervoso dei Vertebrati.

b) Principali eventi neurogenetici: proliferazione, migrazione, morte cellulare, formazione di circuiti nel sistema nervoso centrale

Il numero totale di cellule nervose nel cervello di un mammifero è di 109-1012 cellule, a seconda che il cervello in esame appartenga a una specie di piccola o di grande mole somatica e in rapporto alla sua posizione nella scala filogenetica. Poiché i differenti settori del sistema nervoso si sviluppano secondo una sequenza temporale che differisce notevolmente da un'area all'altra, non sarebbe possibile - né è stato tentato - analizzare l'origine e le fasi di sviluppo di tutte le specie cellulari che compongono quest'immensa popolazione. Questo è stato tuttavia realizzato in due segmenti dell'asse cerebro-spinale: il tubo neurale che si trasformerà nel midollo spinale, e il segmento rostrale a questo che dà origine al cervelletto. Quest'ultimo, malgrado la notevole complessità e pluralità delle popolazioni nervose che lo compongono e dei circuiti che le interconnettono, è stato oggetto di estesi studi, dall'origine alle susseguenti fasi evolutive, sui principali tipi cellulari sia nell'embrione di pollo sia nel feto di topo. In quest'ultimo, come vedremo, lo studio comparato nel soggetto normale e nel mutante dei processi proliferativi e differenziativi ha portato un notevole contributo alla conoscenza dei meccanismi di formazione dei circuiti nervosi. Considereremo qui soltanto il segmento del tubo neurale che si trasforma nel midollo spinale.

Nella fase iniziale del suo sviluppo, quello che diventerà il tubo neurale è un foglietto epiteliale costituito da cellule a disposizione colonnare, situato in posizione dorsale nell'asse del corpo dell'embrione in via di formazione. Nell'embrione di pollo, alla 24a-30a ora di incubazione il foglietto si trasforma in una doccia, e la doccia a sua volta si trasforma in un tubo cilindrico cavo, prima che le cellule che ne formano la parete abbiano rivelato alcun segno morfologico della loro natura nervosa. Anche prima della chiusura del tubo neurale, il tessuto epiteliale va incontro a intensa attività mitotica nel suo settore mediale che delimita il canale centrale: le cellule in proliferazione daranno origine a tutti i neuroni e alla macroglia del sistema nervoso centrale. Gli studi autoradiografici hanno posto in evidenza quella che è stata definita la ‟danza dei nuclei" (v. Sidman, Cell proliferation ..., 1970), che consiste in movimenti pendolari a breve raggio di avvicinamento e allontanamento dal canale centrale: le cellule si dirigono verso il lume del tubo neurale nella fase che precede la divisione mitotica (che ha luogo in immediata prossimità della membrana che delimita il lume del tubo stesso) e se ne allontanano a divisione avvenuta per ritornarvi nella divisione successiva. Dopo un numero di escursioni e di divisioni cellulari diverse nei segmenti ventrali e dorsali del tubo neurale (i due segmenti danno origine a popolazioni nervose che differiscono nel numero, nella struttura e nella funzione) le cellule entrano nella seconda fase o fase differenziativa e assumono le caratteristiche dei neuroni immaturi, di forma allungata, con affinità per i sali argentici e provvisti di due brevi prolungamenti filiformi oppositopolari: quello a direzione mediale va incontro a riassorbimento, mentre quello laterale si trasforma nella fibra nervosa e nei giorni seguenti va incontro a progressivo aumento in lunghezza. Nel caso delle cellule motorie primarie che innervano i muscoli del tronco o quelli degli arti, la fibra nervosa consiste, in questo periodo iniziale del suo sviluppo, di un esile filamento che perfora la membrana limitante esterna del tubo neurale e si dirige verso i tessuti periferici.

Non seguiremo la rotta di questa fibra che, procedendo senza alcuna guida tra le cellule mesenchimali che frappongono continui ostacoli al suo cammino, riesce a congiungersi con i mioblasti che si trasformeranno nella muscolatura assiale o in quelli degli arti in via di sviluppo, né prenderemo in esame i meccanismi che la dirigono verso i tessuti terminali e neppure quelli responsabili della formazione di giunzioni sinaptiche appropriate. Ritorneremo su questo aspetto della neurogenesi e sulla formazione delle connessioni nervose nel terzo capitolo di questo articolo. Qui considereremo invece brevemente i processi che trasformano il tubo neurale cilindrico dell'embrione al terzo giorno di incubazione nel midollo spinale dell'embrione all'ottavo giorno, che non differisce sostanzialmente da quello dell'organismo a differenziazione ultimata. Questi processi sono illustrati in modo semischematico nella fig. 1.

Al terzo giorno di incubazione le cellule nervose immature migrate dallo strato ependimale attorno al lume centrale hanno dato origine a una sottile colonna di cellule nervose situata nel settore ventrolaterale del tubo stesso come indicato nella fig. 1A. Malgrado che a questo stadio iniziale dei processi neurogenetici le cellule di questa colonna non differiscano le une dalle altre a livello morfologico, differenze sostanziali si rilevano nei periodi successivi, sia tra le cellule componenti la colonna nei differenti settori del tubo, sia tra le cellule dello stesso segmento. Un esame comparato di A, B e C nella fig. 1 mette in evidenza le rilevanti modificazioni strutturali alle quali va incontro il tubo neurale durante queste fasi cruciali del suo sviluppo.

Nel segmento cervicale un processo massivo di degenerazione cellulare, che considereremo più dettagliatamente in seguito, riduce la colonna motoria a circa un quarto del suo volume; le cellule residue innervano la muscolatura assiale del segmento stesso. I segmenti brachiale e lombare, deputati all'innervazione motoria dell'arto anteriore e di quello posteriore, aumentano considerevolmente in volume tra il sesto e l'ottavo giorno: la colonna, inizialmente omogenea e compatta, si divide in una componente mediale continua con quella del segmento cervicale e una componente laterale assai più cospicua. Le cellule della esile colonna mediale innervano i muscoli assiali mentre quelle della componente laterale innervano i muscoli degli arti. A livello toracico e sacrale la colonna si segrega in una componente mediale simile in struttura e funzione a quelle degli altri segmenti del tubo neurale e in una componente laterale che va incontro a un imponente processo migratorio. Considereremo questo processo nel capitolo seguente insieme a processi simili che si attuano in altri settori dell'asse cerebro-spinale.

Le caratteristiche generali delle cellule nervose migranti sono molto simili e consentono di distinguere immediatamente questi elementi dai neuroni statici nei preparati colorati con i sali d'argento (v. Levi-Montalcini, 1963). Le cellule migranti presentano un profilo sottile e allungato, e per la loro colorazione intensamente scura, quasi nera, appaiono in netto contrasto sullo sfondo pallido costituito dalla matrice del sistema nervoso in via di sviluppo. Ciascuna cellula è provvista di un filamento apicale corto e di un filamento caudale lungo che trascina dietro il corpo e rappresenta l'assone. Quando il giovane neurone si dirige verso la sua destinazione finale, ove rimarrà statico e fisso per il resto della sua vita, l'assone subisce un allungamento e traccia la rotta che la cellula dovrà percorrere. La migrazione così iniziata può essere piuttosto corta e lineare e compiersi in poche ore, oppure lunga e tortuosa, tale da poter essere completata in due o tre giorni, come nel caso della migrazione di intere popolazioni telencefaliche.

I processi migratori di popolazioni nervose già differenziate sono programmati in modo così preciso nello spazio e nel tempo da rendere possibile predire il giorno e l'ora in cui una determinata popolazione inizierà la sua migrazione e quando questa sarà portata a termine. Questi processi si attuano secondo due principali schemi: i neuroni migrano in linee singole come eserciti di formiche o di termiti, o si spostano in massa come uccelli migratori o locuste. Il primo tipo di migrazione si verifica nel midollo spinale e allungato, dove neuroni viscero-motori (deputati al controllo della motilità viscerale) e neuroni somato-motori (destinati all'innervazione dei muscoli volontari), che hanno un'origine comune, si separano gli uni dagli altri da questo momento le due cellule nervose differiscono per la topografia e per le caratteristiche strutturali e funzionali. Il secondo tipo di migrazione si osserva nella corteccia cerebellare e in altri centri cerebrali superiori. In ambedue i casi migliaia di cellule nervose immature migrano, come guidate da fili invisibili lungo traiettorie differenti e molte volte opposte, nella densa matrice del sistema nervoso in via di sviluppo. Questi movimenti migratori, che non si riscontrano in altri organi o tessuti, mettono in evidenza l'aspetto più saliente di questo sistema, al quale abbiamo già accennato, e cioè di essere costituito da popolazioni altamente differenziate, ognuna delle quali obbedisce a leggi diverse, dal momento in cui emerge dalla matrice comune, cioè lo strato ependimale. La diversificazione si estende infatti al singolo neurone, che si comporta come un individuo capace di ricevere e di trasmettere segnali e allo stesso tempo di portare a termine il programma codificato nei suoi geni. Illustreremo alcuni di questi movimenti che avvengono nell'asse cerebro-spinale e nella corteccia cerebellare dell'embrione di pollo. L'interesse non è tanto nel carattere coreografico di questi spostamenti di massa, quanto nella precisione della loro esecuzione che ne denunzia la base genetica; questa, come vedremo, è posta anche maggiormente in rilievo dall'analisi degli stessi processi in mutanti.

La migrazione a livello toracico nel tubo neurale, alla quale si è già fatto cenno, è illustrata nella fig. 1, B e C, e nella fig. 2, A-F, che riproduce microfotografie di sezioni trasverse del segmento toracico midollare di embrioni sacrificati tra il terzo e l'undicesimo giorno di incubazione, e trattati con la tecnica argentica di Ramón y Cajal. Lo spostamento di migliaia di cellule dalla loro posizione iniziale,fig. 2A, a quella terminale, fig. 2F, si attua per un movimento ordinato di cellule incolonnate che procedono compatte, le une vicino alle altre, aprendosi la strada con il corpo cellulare. La fibra nervosa che emerge dal polo posteriore della cellula segna la traiettoria percorsa dai neuroni (v. fig. 2, C-F), che aumenta in lunghezza man mano che la cellula si allontana dalla sua posizione iniziale. Le fibre entrano in connessione sinaptica e trasmettono l'impulso nervoso ai gangli simpatici situati in due lunghe catene, note come catene paravertebrali, disposte a lato del midollo (v. fig. 1). Una migrazione del tutto simile ha luogo nel nucleo motore del midollo sacrale, le cui cellule formano connessioni con i gangli parasimpatici.

Altri esempi di movimenti migratori dello stesso genere hanno luogo nei nuclei dei nervi cefalici. La fig. 3 illustra in modo schematico una di queste migrazioni cellulari che avviene, tra la fine del quarto e l'ottavo giorno di incubazione, tra i due nuclei del nervo oculomotore che innervano la maggior parte dei muscoli oculari. Circa un quarto delle cellule che compongono le due colonne migra attraverso la linea mediana (commissura centrale) verso il lato opposto. La colonna stessa si suddivide in quattro nuclei: tre di origine omolaterale e il quarto di origine controlaterale. Non considereremo qui la finalità di questi complessi movimenti, che risulta ovvia a chi e' a conoscenza della funzione dei nuclei stessi. È invece interessante notare quanto non appare da queste rappresentazioni schematiche che - per semplicità - si limitano a indicare la traiettoria delle cellule migranti. Le migrazioni avvengono infatti in un terreno estremamente accidentato dove cellule in via di differenziazione si intersecano e si spostano in tutte le direzioni, ognuna alla ricerca della sua sede definitiva. Quanto questi movimenti apparentemente caotici e disordinati siano invece rigidamente programmati in ogni particolare, emerge dallo studio di un gran numero di esemplari fissati allo stesso stadio di sviluppo: neuroni con identiche caratteristiche morfologiche e allo stesso stadio differenziativo sono presenti in sezioni dell'asse cerebrospinale appartenenti a embrioni differenti.

I processi migratori nei centri cerebrali superiori, quali il cervelletto e i lobi cerebrali, si attuano nella maggioranza dei casi come movimenti di massa (il secondo tipo considerato sopra) e sono apparentemente del tutto privi di organizzazione a livello dell'unità singola. Neuroni immaturi, facilmente identificabili come tali per la forma fusata, a intensa affinità argentica caratteristica della cellula nervosa in via di migrazione, si muovono come orde di locuste e come queste si dispongono, una volta raggiunto l'obiettivo, in fitti strati di elementi addossati gli uni agli altri. La migrazione della cellula di Purkinje, il neurone così denominato dal nome del suo scopritore, che costituisce l'elemento principale della corteccia cerebellare, è un esempio tipico di questi movimenti. Considereremo qui le fasi migratorie di questa cellula, studiata nella corteccia cerebellare dell'embrione di pollo (v. Levi-Montalcini, 1963), e ritorneremo in seguito sulla stessa cellula e sui suoi processi differenziativi analizzati nel topo normale e nel mutante (v. Sidman, Abnormal cell..., 1968). La migrazione delle cellule di Purkinje nell'embrione di pollo è illustrata in forma diagrammatica nella fig. 4 e in preparati istologici all'argento ridotto nella serie successiva di sezioni della corteccia cerebellare riprodotta nella fig. 5. Nelle microfotografie come nelle rappresentazioni grafiche il processo migratorio è documentato dal suo inizio in embrioni di 8 giorni alla sua fase terminale nel 14° giorno. Le figure 4D e 5D raffigurano la caratteristica disposizione delle cellule di Purkinje in embrioni di 19 giorni e cioè quando le cellule stesse hanno pressoché ultimato il loro processo differenziativo e sono identiche a quelle dell'animale a completo sviluppo. In questo tipo di migrazione, come in quelli considerati sopra, la fibra nervosa emergente dal polo posteriore della cellula segna la traiettoria seguita da questa nella sua migrazione e costituisce una traccia tangibile e permanente del cammino percorso. La fibra stessa, dal suo primo formarsi, entra in connessione sinaptica con i neuroni dei nuclei profondi del cervelletto, che dividono con le cellule di Purkinje un'origine comune dallo strato ependimale nel tetto del quarto ventricolo. Le caratteristiche morfologiche della cellula di Purkinje, sulla quale ritorneremo più volte in seguito, sono raffigurate nella fig. 6 che riproduce una di queste cellule trattata con la tecnica cromo-argentica di Golgi. È evidente dalla microfotografia l'immensa arborizzazione dendritica che conferisce alla cellula stessa un aspetto simile a quello di un albero a spalliera e cioè con ramificazioni estese in due anziché nelle tre dimensioni spaziali.

La morte di cellule isolate e la scomparsa di intere popolazioni durante lo sviluppo embrionale sono fatti così comuni e noti all'embriologo da non suscitare maggiore interesse degli altri processi ontogenetici che si attuano nello stesso periodo. Mentre tuttavia l'improvvisa eliminazione di queste popolazioni cellulari - che a livello macroscopico si riflette nel riassorbimento di organi e di tessuti e nel rimodellamento di tutto l'organismo in via di sviluppo in larve di Invertebrati e in embrioni di Vertebrati - è un evento ben noto, gli stessi fenomeni degenerativi nel sistema nervoso centrale sono stati descritti molto più di recente, e sono di più difficile interpretazione. I processi degenerativi osservati nell'asse cerebro-spinale (v. Levi-Montalcini, 1963) e in alcuni dei gangli spinali situati a lato della colonna vertebrale interessano in alcuni casi migliaia di cellule, in altri invece soltanto poche cellule nervose e passerebbero inosservati a un esame non approfondito, trattandosi di alcune unità cellulari disseminate in popolazioni in prevalenza sane e in via di attiva differenziazione. Nell'un caso e nell'altro la morte colpisce cellule in una fase iniziale di differenziazione, quando la fibra nervosa emergente dal corpo cellulare è in via di rapido accrescimento, ma non ha ancora stabilito connessioni con l'organo o con il tessuto terminale o con altre cellule nervose. Un tipico esempio della scomparsa di un'intera popolazione nervosa è illustrato nella fig. 1B, e a questo abbiamo già fatto cenno. Si tratta della subitanea degenerazione di migliaia di cellule situate nel segmento cervicale della colonna motoria del tubo neurale di embrioni di pollo al quarto giorno d'incubazione. Dati desunti dall'esame di embrioni normali e di altri sottoposti a traslocazioni di segmenti del tubo neurale suggeriscono l'ipotesi che il processo degenerativo interessi i neuroni di un nucleo viscero-motore (v. Levi-Montalcini, 1963) sostituito nella filogenesi e nell'ontogenesi da un nucleo di uguale funzione a localizzazione toracica: lo sviluppo e la successiva migrazione di questo nucleo sono stati considerati nel capitolo precedente. Si tratterebbe di un fenomeno simile a quello che si osserva in altri organi embrionali: un caso classico e ben noto è quello della regressione del pronefro o rene primitivo, sostituito all'inizio dello sviluppo embrionale dal mesonefro che a sua volta degenera ed è sostituito dal metanefro o rene definitivo. Se l'ipotesi è corretta, la degenerazione subitanea di migliaia di cellule nervose immature nel segmento cervicale del tubo neurale rientrerebbe tra i casi che M. Jacobson (v., 1970) considera programmati dal codice genetico, che determina la regressione di tessuti o organi non più funzionali.

Un esempio del secondo tipo di processi degenerativi di cellule disseminate in una popolazione in pieno sviluppo è dato dalla scomparsa di circa un quarto dei neuroni della colonna motoria che innerva la muscolatura assiale e gli arti di larve di Anfibi. Questa colonna, secondo determinazioni di Hughes (v., 1968), consisterebbe di 4.000 unità in esemplari fissati prima della metamorfosi e si ridurrebbe a sole 1.000 unità nell'animale adulto. Si è prospettata l'ipotesi che la riduzione numerica osservata sia la risultante di un processo competitivo: soltanto le cellule che sono riuscite a stabilire connessioni con le fibre muscolari sopravviverebbero, mentre le altre andrebbero incontro a regressione. La scomparsa massiva di migliaia di cellule nervose e quella limitata a una percentuale assai minore di esse sono state designate rispettivamente con i termini di ‛morte morfogenetica' e ‛morte istogenetica', intendendo nel primo caso sottolineare una finalità morfologica, e cioè il modellamento di parti del sistema nervoso conseguente alla scomparsa di una quota rilevante di cellule nervose, e nel secondo il risultato del caso, e cioè dell'incapacità da parte di un maggior o minor numero di cellule nervose di stabilire connessioni con i tessuti terminali.

È difficile concepire il valore selettivo di un processo così laborioso, quale la produzione e la susseguente distruzione di migliaia di cellule, al fine di modellare parti del sistema nervoso; questo è tanto più improbabile nel caso della subitanea degenerazione di cellule nei gangli sensitivi cervicali e toracici che, in seguito alla morte di un numero rilevante di neuroni immaturi (v. Hamburger e Levi-Montalcini, 1949), vanno incontro a una diminuzione in volume, senza peraltro subire modificazioni nella loro configurazione esterna. Altrettanto discutibile l'ipotesi che la morte ‛istogenetica' sia causata dall'impossibilità delle cellule di stabilire connessioni con i tessuti periferici. I neuroni in causa regrediscono infatti a un periodo iniziale del loro sviluppo, e cioè quando l'assone in via di accrescimento non ha ancora stabilito il contatto con le fibre muscolari, che a loro volta si trovano in una fase precoce della loro differenziazione. La scomparsa sporadica di cellule nervose si osserva anche nel sistema nervoso centrale in Invertebrati e Vertebrati, nelle popolazioni motorie, nelle sensitive e in quelle dei neuroni interposti o neuroni internunciali (v. Cantino e Daneo, 1972). Questi processi si verificano a uno stadio iniziale della neurogenesi, e cioè quando i circuiti nervosi tra i vari nuclei sono in via di formazione e tutti i neuroni avrebbero perciò ancora la possibilità di formare connessioni con i loro partners. Riteniamo più verosimile un'altra ipotesi, cioè che, nel caso della scomparsa massiva di un'intera popolazione nervosa in via di differenziamento e in quello della morte di una quota maggiore o minore di cellule nervose, sia in causa la deficienza di fattori specifici di crescita di natura genetica o provocata da condizioni ambientali. Esempi di scomparsa di intere popolazioni nervose in mutanti o in determinate condizioni, imposte dallo sperimentatore, saranno considerati nei capitoli seguenti.

La formazione di connessioni nervose tra popolazioni situate a breve o a lunga distanza l'una dall'altra nell'asse cerebro-spinale, e tra neuroni sensitivi e motori primari e i loro organi terminali, procede di pari passo con la differenziazione delle cellule nervose, inizia nei primi stadi dello sviluppo embrionale, si intensifica nei periodi successivi della ontogenesi e si esaurisce in alcuni sistemi prima, in altri dopo la nascita. Considereremo qui la formazione del circuito corticale cerebellare che è stato oggetto di estesi studi nel topo normale e nel mutante. La scelta ha perciò un duplice scopo: presentare un modello di circuito nervoso centrale e allo stesso tempo descrivere la struttura di questo circuito nel soggetto normale, così da poter valutare successivamente le deviazioni conseguenti a errori di origine genetica. Questi ultimi, come vedremo, si ripercuotono in maggior o minor misura sulle prestazioni funzionali del cervelletto e pertanto sul comportamento dell'individuo.

Malgrado le notevoli variazioni di volume e di configurazione del cervelletto, ogni dettaglio dell'organizzazione della corteccia cerebellare nei Mammiferi è riprodotto fedelmente in Vertebrati inferiori, conferendo così al piano strutturale di quest'organo la stabilità, il vigore e la generalità di una legge biologica.

Questo concetto espresso da Ramón y Cajal (v., 1904) riassume quella che è probabilmente la caratteristica più significativa dell'organizzazione della corteccia cerebellare, e cioè la sua complessità architettonica che deriva dalla sovrapposizione e ripetizione di moduli uguali, ognuno suscettibile di analisi a livello strutturale e funzionale. Il circuito fondamentale fa capo alla cellula di Purkinje, già considerata precedentemente. Due sistemi afferenti, il sistema delle fibre rampicanti e quello delle fibre muschiose (così definite perchè le loro terminazioni sinaptiche con i dendriti dei granuli hanno in preparati argentici la configurazione di piccoli densi agglomerati fibrosi che presentano una certa analogia con il muschio), stabiliscono un contatto diretto (monosinaptico) o indiretto (disinaptico) con questa cellula, dalla quale ha origine il solo sistema efferente del cervelletto. Nei Vertebrati inferiori le cellule di Purkinje formano connessione con centri cerebrali rostrali (cervello) e caudali (midollo allungato e spinale), mentre nei Vertebrati superiori (Uccelli e Mammiferi) la maggior parte delle cellule di Purkinje forma connessioni sinaptiche con i neuroni dei nuclei cerebellari situati nella zona profonda del cervelletto. Questi nuclei funzionano perciò da stazione interposta tra la corteccia e i centri nervosi extracerebellari. La topografia delle cellule di Purkinje e degli altri neuroni disseminati nella corteccia cerebellare, e la geometria dei circuiti che interconnettono le varie cellule tra di loro e con stazioni esterne, sono rappresentate in modo schematico nella fig. 7. Il rapporto diretto o monosinaptico delle fibre rampicanti con il dendrite apicale della cellula di Purkinje è illustrato nella fig. 8. Nella stessa figura A, B, C, D dimostrano le connessioni delle fibre muschiose con i granuli e di questi con le cellule di Purkinje, a mezzo dei loro assoni che costituiscono il sistema delle fibre parallele, così denominate dal loro decorso rispetto alla superficie delle lamelle cerebellari (v. fig. 7). Queste fibre stabiliscono una miriade di contatti puntiformi con l'arborizzazione dendritica di migliaia di cellule di Purkinje, allineate le une vicino alle altre, in un piano ortogonale rispetto all'asse lungo delle lamelle, come raffigurato nella fig. 7. Oltre a questo circuito fondamentale che converge direttamente sulle cellule di Purkinje e sui granuli, esistono altri circuiti secondari che fanno capo a tre tipi di interneuroni noti come cellule a canestro (dalla ramificazione a paniere del neurite che si avvolge attorno al corpo delle cellule di Purkinje), cellule stellate e cellule di Golgi, disseminate le prime e le seconde nello strato superficiale o strato molecolare, le terze nello strato profondo o strato granulare, così denominato per la presenza dei granuli. Sia le cellule a canestro sia le cellule stellate ricevono l'impulso nervoso dalle fibre parallele e a loro volta entrano in connessione sinaptica rispettivamente con il corpo cellulare e l'arborizzazione dendritica delle cellule di Purkinje. Le cellule di Golgi ricevono l'impulso nervoso dalle fibre parallele, da quelle muschiose e da collaterali emesse dall'assone delle cellule di Purkinje. Sino a tempi recenti, prevaleva il concetto che questo complesso sistema interneuronale, sovrapposto a quello fondamentale, agisse come amplificatore, secondo la teoria della conduzione a valanga proposta da Ramón y Cajal. Studi elettrofisiologici per opera essenzialmente di J. E. Eccles (v., 1967) dimostrarono il carattere inibitorio e non eccitatorio dei circuiti che hanno origine dalle cellule a canestro, stellate e di Golgi; questi delimiterebbero anziché amplificare gli impulsi che convergono indirettamente tramite le fibre muschiose sulle cellule di Purkinje.

‟Per quanto riguarda l'aspetto generale della funzione del cervelletto - scrive R. Llinas (v., 1970, p. 423) - ci troviamo nella situazione paradossale di conoscere un numero enorme di dettagli relativi all'organizzazione degli elementi nervosi nella corteccia, ma di essere allo stesso tempo quasi completamente all'oscuro sulla funzione di quest'organo".

Esperimenti di ablazione del cervelletto in Mammiferi e Vertebrati inferiori, e osservazioni cliniche nell'uomo, misero in evidenza il ruolo essenziale del cervelletto come coordinatore della motilità. Il concetto che lo stesso organo sia implicato nell'organizzazione spazio-temporale delle sensazioni che affluiscono dalla superficie corporea, ed esplichi perciò un ruolo anche nella sfera sensoriale, è un'acquisizione molto più recente (v. Moruzzi, 1950; v. Snider e Stowell, 1944). Lasciando insoluto il problema della modalità di funzione di quest'organo, rimane valida l'ipotesi che il cervelletto eserciti un ruolo preminente come regolatore delle attività statiche o posturali e fasiche o motorie dell'individuo.

I processi ontogenetici della corteccia cerebellare, elucidati dai classici studi di Cajal, sono stati recentemente oggetto di nuovo esame con i metodi autoradiografici. Nel topo, l'animale prescelto nell'analisi sperimentale che considereremo nelle pagine seguenti, la sequenza temporale e spaziale dei processi migratori, così come le tappe evolutive delle cellule di Purkinje e dei granuli, dal giorno di nascita a quello della loro completa differenziazione, sono oggi note grazie allo studio condotto su sezioni seriate del cervelletto dal suo primo apparire al suo completo sviluppo in preparati trattati con tecniche argentiche e autoradiografiche. Considereremo brevemente i risultati di questi studi sui processi neurogenetici in soggetti normali, che sono serviti di base per l'analisi degli stessi processi nei mutanti. Questi, a loro volta, hanno chiarito il controllo esercitato dai geni, a ogni tappa dello sviluppo, sulla differenziazione delle cellule nervose e sulle modalità di formazione dei circuiti interneuronali.

Nel topo, che ha un periodo di gestazione di 20 giorni, il cervelletto si delinea al decimo giorno come un ispessimento epiteliale che forma il tetto del quarto ventricolo. La nascita delle cellule di Purkinje, stabilita con iniezioni di timidina triziata, si verifica tra l'undicesimo e il dodicesimo giorno dello sviluppo embrionale. Nello stesso periodo, e dalla stessa zona ependimale, hanno origine le cellule dei nuclei cerebellari che migrano verso la zona profonda del cervelletto. All'atto della loro separazione dalla matrice comune le cellule di Purkinje stabiliscono una connessione, a mezzo del loro neurite appena formato, con le cellule dei nuclei; questa connessione permane malgrado il progressivo allontanarsi delle due popolazioni cellulari che migrano in direzione opposta, e si trasforma nel circuito al quale abbiamo già accennato, che collega le cellule di Purkinje con i nuclei cerebellari.

Una seconda ondata migratoria ha luogo nel tredicesimo giorno, dall'ependima del margine caudale del tetto del quarto ventricolo. Le cellule che originano da questo stipite migrano verso lo strato esterno della corteccia cerebellare e formano lo strato granulare esterno che andrà incontro a un progressivo aumento in spessore dalla seconda settimana di vita fetale alla prima postnatale, seguita da graduale assottigliamento e regressione totale nella terza settimana di vita. La diminuzione in spessore e la successiva scomparsa di questo strato non sono tuttavia dovute a processi degenerativi, ma a una migrazione delle cellule che lo hanno formato. Le cellule stesse, infatti, cresciute notevolmente di numero in seguito all'intensa attività proliferativa che ha avuto luogo nello strato granulare esterno, iniziano un secondo processo migratorio in direzione opposta, e cioè dallo strato esterno a quello interno alle cellule di Purkinje, come illustrato schematicamente nella fig. 9.

Il processo migratorio dallo strato superficiale a quello profondo, che diventerà lo strato granulare interno, avviene con modalità simili a quelle descritte in precedenza, e cioè per spostamento attivo del corpo cellulare e allungamento progressivo della fibra nervosa che emerge dal polo distale della cellula e ne segna la rotta perpendicolare all'asse della lamella cerebellare, come dimostrato nella fig. 9. A differenza di altri processi migratori, e come appare evidente dalla stessa figura, la fibra nervosa si allunga progressivamente non soltanto in seguito all'allontanamento della cellula dalla sua stazione di partenza, ma per un processo di dicotomia della fibra al suo punto d'origine nello strato corticale esterno e di accrescimento delle due fibre che risultano da questa partizione in direzione opposta, parallela all'asse lungo della lamella. Ha così origine il sistema delle fibre parallele che intersecano l'arborizzazione dendritica delle cellule di Purkinje e formano connessioni sinaptiche con queste. Per il numero immenso di granuli - dell'ordine di 1011 - e l'eccezionale estensione in superficie del dendrite apicale delle cellule di Purkinje, le connessioni sinaptiche tra il sistema delle fibre parallele e queste cellule raggiungono cifre astronomiche che non trovano confronto in alcun altro sistema neuronale.

c) Il mutante di topo e il suo contributo all'analisi del controllo genetico sui processi differenziativi dei circuiti cerebellari

‟Un modo di analizzare il complesso sistema dei circuiti nervosi che formano il substrato di ogni atto del comportamento - scrivono Hotta e Benzer (v., 1969, p. 354) - è di modificare i circuiti stessi alterando uno a uno gli elementi che li costituiscono, mediante mutazioni [...]. Cambiamenti nei geni che controllano lo sviluppo e la funzione di sistemi neuronali danno luogo a modificazioni del comportamento e ne rendono possibile la dissezione".

Mentre il sistema nervoso degli Invertebrati, Anellidi e Insetti (drosofila), è attualmente oggetto di questi studi, un primo approccio a questo problema è stato iniziato alcuni anni fa da Sidman (v., Abnormal cell..., 1968) utilizzando a questo fine mutanti di topo affetti da differenti sindromi cerebellari. Si tratta in tutti i casi di mutazioni di un singolo locus genetico localizzato in uno dei cromosomi (autosomi) non legati al sesso e identificato nella mappa cromosomica. I ceppi di questi mutanti, malgrado le anomalie - a volte rilevanti - del sistema nervoso e altre a carico di altri organi e sistemi, possono nella maggioranza dei casi raggiungere l'età matura e riprodursi. Di qui la possibilità non soltanto di stabilire una correlazione tra il locus genetico e le anomalie strutturali e funzionali riscontrate nel mutante a differenziazione compiuta, ma anche di determinare, mediante lo studio dei processi neurogenetici nell'embrione e animale neonato, le alterazioni dei processi stessi sin dal loro primo apparire. Si tratta, come vedremo, di malformazioni, ristrette nella maggioranza dei casi all'una o all'altra popolazione nervosa. Tra i 90 e più mutanti affetti da alterazioni del sistema nervoso e mantenuti in linee pure in laboratorio, Sidman e collaboratori selezionarono sei ceppi che presentavano spiccate sindromi cerebellari differenti da caso a caso. In ognuno di questi mutanti furono riscontrate malformazioni dei circuiti cerebrali e anomalie più o meno gravi dei processi differenziativi delle cellule di Purkinje e dei granuli. ‟In questo modo - scrive Sidman (v., Development of..., 1968) - l'allele del mutante ci dà modo di precisare la funzione dell'allele del ceppo selvatico; l'esistenza stessa di questo locus è svelata soltanto grazie all'azione dell'allele nel mutante".

Considereremo nelle pagine seguenti tre di questi mutanti, studiati da Sidman e collaboratori, che illustrano in modo quanto mai incisivo le basi genetiche della formazione dei circuiti cerebellari e delle interazioni tra cellula e cellula durante le varie fasi dei processi neurogenetici. Questi mutanti, in base alla sindrome cerebellare che li caratterizza, sono stati designati con gli aggettivi: vacillante (staggerer), instabile (reeler) e nervoso (nervous).

1. Il topo vacillante (the staggerer mouse). - I sintomi clinici, già evidenti dalla fine della seconda settimana postnatale, sono ipotonia e atassia, cioè una sindrome caratterizzata da diminuzione del tono muscolare e mancanza di coordinazione nella contrattilità dei muscoli volontari. Macroscopicamente, il cervelletto è notevolmente ridotto in volume; a livello istologico la popolazione dei granuli, che non differisce per quanto riguarda i processi proliferativi e le prime fasi differenziative da quella di soggetti normali, va incontro, alla fine della prima settimana postnatale, a disintegrazione, e al 35° giorno quasi tutte queste cellule nervose sono scomparse. Estesi e accurati studi condotti da Sidman e collaboratori al microscopio elettronico (v. Sidman, 1972) hanno consentito di identificare la probabile causa di questo imponente processo degenerativo in un difetto primario non già delle cellule colpite, cioè i granuli, ma delle cellule di Purkinje. Queste sono di grandezza inferiore a quella normale e differiscono in tre altri importanti aspetti da quelle degli animali di controllo: il citoplasma appare al microscopio elettronico più tenue e trasparente di quello delle normali cellule di Purkinje; l'arborizzazione dendritica è assai meno estesa e più fitta che in queste ultime; le minuscole proiezioni note come spine, presenti sull'intera superficie dendritica, e corrispondenti ai punti di giunzione sinaptica tra gli assoni dei granuli (fibre parallele) e i dendriti, sono del tutto assenti. L'assenza dell'apparato sinaptico è indicata da un cerchio tratteggiato nella fig. 10. Questo reperto è tanto più singolare in quanto sia le altre sinapsi delle cellule di Purkinje sia quelle stabilite dagli assoni delle cellule a canestro e da quelli delle cellule stellate sono invece normali. Sidman scarta perciò l'ipotesi di un difetto primario a livello dei congegni sinaptici, e ritiene più verosimile l'ipotesi che il difetto primario sia nell'interazione tra granuli e cellule di Purkinje. La degenerazione dei granuli sarebbe dovuta alla loro impossibilità di stabilire normali contatti con le cellule di Purkinje prive dell'apparato spinoso; queste cellule e non i granuli sarebbero perciò il bersaglio del gene difettoso. In questa ipotesi è implicito il concetto che i processi differenziativi e la sopravvivenza stessa dei granuli siano determinati da fattori trofici, liberati dalle cellule di Purkinje ai punti di giunzione sinaptica tra i dendriti e l'assone dei granuli; mancando le spine, le cellule di Purkinje non riuscirebbero a mettersi in comunicazione con i granuli e a supplire questo fattore indispensabile alla loro sopravvivenza. La morte dei granuli sarebbe perciò causata da assenza di questo fattore, in accordo con l'ipotesi precedentemente prospettata che la morte di cellule nervose in soggetti normali e in mutanti durante i primi stadi della neurogenesi sia da imputare alla carenza di qualche fattore essenziale al loro sviluppo.

2. Il topo instabile (the reeler mouse). - A livello macroscopico, il cervelletto di questo mutante non differisce sostanzialmente da quello del topo vacillante: in ambedue i casi il volume è notevolmente ridotto e la sindrome clinica è simile. Il topo instabile, come quello vacillante, è ipotonico e atassico. A livello istologico tuttavia le differenze sono rilevanti. Studi di Sidman e collaboratori (v. i contributi di Sidman, 1968; v. Sidman e Green, 1970; v. Sidman, 1972), eseguiti con le comuni tecniche istologiche, con la tecnica cromo-argentica di Golgi e con quella autoradiografica, hanno dimostrato che le anomalie strutturali sono causate da un'alterazione nei rapporti tra le varie popolazioni nervose; si tratterebbe, nella fraseologia di Sidman, di un mancato riconoscimento da cellula a cellula e di una conseguente alterazione nei loro rapporti. Le cellule di Purkinje, così come i neuroni piramidali nella corteccia cerebrale, non presentano il tipico orientamento perpendicolare alla superficie, ma sono disposte nei vari piani dello spazio disordinatamente le une rispetto alle altre. La disorganizzazione di questi neuroni, i primi ad andare incontro a differenziazione, si riflette su quella delle altre popolazioni nervose e in particolare di quelle che migrano attraverso lo strato di queste cellule. Lo strato molecolare è sottile e in parte sostituito da quello granulare esterno, che non va incontro come di norma a diminuzione di spessore per migrazione delle cellule che lo compongono. Le cellule a canestro e le cellule stellate, ben distinte nell'organo normale le une dalle altre, sono invece frammiste alla rinfusa. I granuli, anche a completa differenziazione, occupano lo strato granulare esterno anziché formare lo strato granulare interno. Le cellule di Purkinje sono disseminate in tutti gli strati a eccezione di quello molecolare e di quello profondo dove risiedono i nuclei cerebellari. La fig. 11 illustra due sezioni della corteccia cerebellare nel soggetto normale e nel mutante: è evidente il disorientamento delle cellule di Purkinje, che differiscono da quelle del controllo non soltanto nella loro distribuzione spaziale, ma anche nella ridotta ramificazione del dendrite apicale che non presenta il tipico orientamento a spalliera ed è inoltre tozzo e contorto. Malgrado queste rilevanti anomalie, e a differenza di quanto si verifica nel topo vacillante, le giunzioni sinaptiche appaiono normali a un esame ultrastrutturale. È opinione di Sidman che il difetto primario sia nell'allineamento e orientamento delle cellule, mentre i processi iniziali proliferativi e di migrazione sarebbero normali. Le cellule nervose immature nella corteccia cerebellare si differenzierebbero da quelle normali per l'incapacità di ricevere i segnali emessi da altre cellule nervose e di rispondervi. Lo stesso disturbo, sia pure in misura più lieve, si rileva nella formazione della corteccia cerebrale in questi mutanti. L'ipotesi che queste malformazioni siano causate da alterazioni delle proprietà fisico-chimiche delle membrane fu saggiata con esperimenti di dissociazione e riaggregazione in vitro del cervelletto e del cervello di feti di esemplari normali e di mutanti di questo ceppo. Le cellule nervose del mutante diedero luogo ad aggregati privi di organizzazione, mentre le cellule dei controlli andarono incontro a segregazione e riaggregazione in strati simili a quelli degli organi di origine (v. De Long e Sidman, 1970). Questi risultati sarebbero in favore dell'ipotesi che il difetto strutturale nel topo instabile sia dovuto alla deficienza di un meccanismo di ricognizione presente normalmente nelle cellule cerebrali e cerebellari. Commentando questi risultati, Sidman (v., 1972, p. 9) scrive: ‟Uno degli aspetti più salienti dell'organizzazione dei tessuti cerebrali e cerebellari nel mutante è che le alterazioni apparenti nell'organizzazione degli strati cellulari si ritrovano esattamente uguali in tutti gli esemplari studiati; questo reperto indica che il sistema nervoso del mutante è costruito secondo un modello differente da quello normale, ma - al pari di quello - definito in ogni suo dettaglio strutturale".

3. Il topo nervoso (the nervous mouse). - Questo mutante, studiato dallo stesso gruppo di ricercatori (v. Sidman e Green, 1970), differisce dal topo normale per la vivace attività motoria provocata anche da deboli stimolazioni nel periodo tra la terza e la quinta settimana di vita. Il disordine locomotore caratteristico di stadi più avanzati, cioè nel topo prepubere e adulto, consiste in una leggera atassia, meno marcata di quella dei topi instabile e vacillante, ma evidente quando l'animale è situato sul margine ristretto della gabbia, o è sospeso in aria per la coda, o infine forzato a nuotare per periodi prolungati. All'iperattività giovanile fa seguito nell'animale adulto un'attività inferiore alla norma. Il cervello e il cervelletto hanno una configurazione normale, anche se il secondo è di volume lievemente ridotto. L'analisi istologica, tuttavia, ha messo in evidenza un'imponente ed estesa degenerazione delle cellule di Purkinje, ridotte nei lobi cerebellari al 10%; le stesse cellule sono anche diminuite di numero, ma non in uguale misura, nel settore mediano noto come verme cerebellare. Altri tipi di cellule nervose, come i granuli e le cellule a canestro, sono in numero appena inferiore a quello dei controlli.

I due aspetti più interessanti di questo mutante sono: a) la lieve sindrome cerebellare malgrado la scomparsa della grande maggioranza delle cellule di Purkinje, che pure rappresentano l'elemento essenziale nella struttura e funzione del cervelletto; b) la selettività dei processi degenerativi che colpiscono soltanto questo tipo cellulare. Come nel caso del topo vacillante, sembra plausibile l'ipotesi che alla base del processo degenerativo vi sia la carenza di un fattore essenziale alla vita delle cellule di Purkinje. Ritorneremo sull'argomento nell'ultima parte di questo articolo, trattando di risultati simili ottenuti, tuttavia, con procedimenti sperimentali del tutto differenti da questi.

3. Il principio della specificità neuronale

a) Cenni storici: teorie sulla specificità delle connessioni e sulla specificità dell'impulso nervoso

Un problema centrale in neurobiologia, di uguale interesse per il neuroembriologo e per lo studioso del comportamento, è quello di chiarire i meccanismi e i processi che determinano la formazione dei circuiti nervosi durante lo sviluppo. In che modo miliardi di fibre nervose trovano la loro stazione terminale, che può essere un'altra cellula nervosa se si considerano i sistemi neuronali nell'asse cerebro-spinale, o una fibra muscolare, o un tessuto epiteliale o ghiandolare se si considerano invece i neuroni primari motori e sensitivi che innervano i tessuti periferici?

L'importanza del problema e il motivo della tonalità emotiva che ha caratterizzato le discussioni tra i sostenitori di differenti teorie sono ovvi se si considerano gli stretti rapporti che intercorrono tra il problema in esame e quello di chiarire il ruolo dei fattori ereditari e di quelli ambientali nella determinazione di funzioni cerebrali quali l'intelligenza, il talento e il temperamento. Questi problemi sono infatti di vitale interesse non soltanto per il neurobiologo ma per la società dell'uomo in senso lato.

Mentre alla fine del secolo scorso i più eminenti scienziati, come Cajal (v., 1909-1911), Sherrington (v., 1906) e molti altri, si erano schierati decisamente in favore di un ruolo dominante dei fattori ereditari (la base genetica dell'eredità non era allora ancora nota) nella formazione del sistema nervoso e dei circuiti neuronali tra popolazioni centrali e tra queste e gli organi periferici, all'inizio del secolo si verificò un deciso orientamento in favore di fattori funzionali. Due scienziati molto influenti, H. D. Lashley, lo psicologo fondatore della teoria del comportamento, e il biologo P. Weiss, ebbero una parte decisiva nell'imporre il ruolo dei fattori funzionali nella formazione dei circuiti nervosi. Accenneremo qui soltanto a qualcuno dei classici esperimenti eseguiti da Lashley e da Weiss. Quelli eseguiti da Lashley hanno attualmente un interesse puramente storico per l'influenza che hanno esercitato nel campo della psicologia, mentre quelli di Weiss sono oggi, quarant'anni dopo la loro esecuzione, oggetto di rinnovato interesse e attento esame, come documentato dall'estesa trattazione riservata loro in un recente volume che citeremo più volte nelle pagine seguenti (v. Gaze, 1970).

Ai fini di determinare se e in che misura le capacità di apprendimento siano localizzate, Lashley praticò estese lesioni corticali in ratti sottoposti prima e dopo l'intervento a test di comportamento, e concluse, in base ai risultati, che il deficit nella soluzione dei problemi proposti non dipendeva da alcuna particolare localizzazione delle lesioni inflitte dallo sperimentatore, ma piuttosto dalla loro estensione. Sulla base di queste osservazioni Lashley formulò l'ipotesi di un carattere globale dell'attività nervosa e considerò trascurabile la funzione del singolo neurone e quella delle connessioni specifiche tra vari centri nervosi. ‟Il processo dell'apprendimento - scrisse - non dipende da modificazioni strutturali in determinate aree della corteccia cerebrale. I risultati sono infatti incompatibili con la teoria che il processo di apprendimento dipenda da modificazioni nelle strutture sinaptiche e contraddicono l'ipotesi che la capacità integrativa del sistema nervoso derivi da connessioni specifiche tra vari sistemi [...]. Questa è una facoltà globale che emerge dalle interrelazioni dinamiche tra varie parti del cervello e non da differenze nell'organizzazione strutturale dei vari settori cerebrali [...]" (v. Lashley, 1929, p. 176).

L'influenza di questo autore nel campo della psicologia nel secondo e terzo decennio del secolo ebbe un ruolo de- cisivo nell'impostazione delle ricerche sulle funzioni cere- brali, in considerazione anche del fatto che la sua teoria era in accordo con l'indirizzo filosofico allora prevalente, ed esercitava perciò un notevole fascino sui contemporanei.

Il cervello, secondo Lashley, sarebbe dotato di una quasi onnipotente capacità di adattamento e le aree corticali, così come le aree cerebrali, sarebbero funzionalmente intercambiabili. ‟A posteriori - commentano Kandel e Spencer (v., 1968, p. 67) - l'opposizione da parte di Lashley al concetto che l'organizzazione del sistema nervoso sia basata sulla formazione di connessioni specifiche interneuronali era ingiustificata, alla luce degli stessi dati sperimentali. Non soltanto gli esperimenti erano troppo sommari per permettere di trarre delle conclusioni, ma la mancanza di tecniche asettiche nell'esecuzione degli esperimenti può esser stata causa di infezione estesa a larghi settori e tale da rendere difficile il riconoscimento di differenze imputabili a lesioni specifiche di determinate aree cerebrali".

L'ipotesi di Lashley (v., 1950), che rifiutava ogni significato alle connessioni specifiche tra le varie popolazioni neuronali, trovò al tempo stesso un valido punto di appoggio in esperimenti diretti non all'analisi delle funzioni cerebrali superiori, ma a quella dei meccanismi che operano a un livello molto più elementare, cioè nell'organizzazione dei circuiti preposti all'attività riflessa e motoria di organismi in via di sviluppo.

Verso la fine del terzo decennio del secolo, P. Weiss (v., 1926) osservò che arti soprannumerari, trapiantati in prossimità di quello anteriore o posteriore in larve di Anfibi, manifestano nell'animale diventato adulto lo stesso tipo di motilità dell'arto proprio; si flettono e si estendono contemporaneamente e in modo sincrono a quello, sia che si tratti di attività spontanea, sia che si tratti di quella riflessa. Questo fenomeno denominato da Weiss (v., 1936) della ‟risposta omologa o miotipica" ha luogo anche quando l'arto trapiantato è stato prelevato da donatori di specie differente ed è molto più grande, come nel caso di arti trapiantati da girini di Amblystoma punctatum in girini di Amblystoma mexicanum. Anche più interessante l'osservazione che lo stesso sincronismo motorio ha luogo quando l'arto proviene dal lato opposto ed è perciò un'immagine speculare di quello dell'ospite. In questi casi, la contrazione simultanea dell'arto proprio e di quello innestato dà luogo a un movimento a forbice dei due arti che si contrappongono l'uno all'altro con notevole svantaggio per l'animale, impacciato da quello soprannumerario. Lo stesso fenomeno si verifica quando si trapiantano singoli muscoli in prossimità di quelli dell'ospite. In base a queste osservazioni e a un'estesa, se pure non sempre molto accurata, analisi dei dati sperimentali rilevati in vari laboratori, Weiss (v., 1937 e 1950) propose il principio, che divenne noto come ‛principio della risonanza', secondo il quale gli organi periferici - nel caso specifico le placche motorie nei muscoli dell'ospite e in quelli innestati - risponderebbero selettivamente soltanto a determinati impulsi nervosi, rimanendo insensibili a tutti gli altri. Ogni muscolo a mezzo della placca motrice stabilirebbe un rapporto selettivo con le cellule nervose motorie che trasmettono questi determinati impulsi, i quali differirebbero da quelli emessi da altre cellule nervose per la frequenza come per tutti gli altri parametri. ‟Si arrivò alla conclusione - commentò molti anni più tardi Sperry (v., 1965, p. 163) - che la selettività delle comunicazioni nel sistema nervoso non è basata su specificità di connessioni, come vorrebbe la classica teoria enunciata nei libri di testo, ma sarebbe piuttosto dovuta a una selettività qualitativa dei segnali trasmessi dalle fibre nervose; si tratterebbe cioè di specificità dell'impulso nervoso [...]. Nel principio della risonanza, la vecchia analogia dei circuiti nervosi con i fili di un impianto telegrafico, azionati da una centrale, era così sostituita con quella di una stazione radio trasmittente; la recezione selettiva del messaggio nervoso da parte dei muscoli sarebbe di natura aspecifica e del tutto indipendente dalle connessioni anatomiche tra cellule nervose e organi terminali".

Malgrado che la teoria della risonanza sia stata confutata in seguito ai risultati di esperimenti elettrofisiologici condotti da Wiersma (v., 1931), tuttavia la dottrina della specificità dell'impulso nervoso era ancora, alla fine del terzo decennio, in pieno favore presso i neurologi. In quest'atmosfera compiacente, di generale consenso, un giovane psicologo all'inizio della sua carriera, R. W. Sperry, allievo di Weiss, intraprese una serie di ricerche che dovevano capovolgere la situazione e ristabilire il concetto della specificità delle connessioni nervose.

Ai fini di analizzare la capacità del sistema nervoso di adattarsi a differenti territori periferici, come propugnato da Weiss e Edds (v., 1945), Sperry (v., 1941) scambiò i nervi che formano connessioni con i muscoli flessori ed estensori della zampa del ratto: in nessun caso, neppure dopo lungo allenamento, il ratto imparò ad adattarsi alla nuova situazione cioè a rettificare la funzione dei muscoli invertita in seguito all'intervento. Esperimenti nel campo sensitivo anziché motorio dimostrarono in modo anche più convincente che non vi è possibilità di correggere con adattamenti funzionali lo scambio delle connessioni neuro-muscolari praticate dallo sperimentatore. L'esperimento, pure eseguito da Sperry (v., 1959), consisteva nella denervazione del territorio cutaneo dell'estremità distale della zampa sinistra in un ratto adulto, e nella suturazione dei nervi con il territorio cutaneo omologo della zampa destra: scosse elettriche applicate nella zona del territorio denervato suscitavano reazioni localizzate all'arto destro che veniva sollevato e leccato nell'evidente intento di mitigare la sofferenza, mentre l'arto sinistro offeso veniva premuto anche più fortemente sull'elettrodo. In base a questi e ad altri risultati che considereremo in seguito, Sperry formulò il principio della specificità neuronale, che propone - in opposizione al principio di Weiss - una rigida e immodificabile specificità strutturale e biochimica dei circuiti nervosi. I miliardi di cellule che compongono il sistema nervoso, così come i circuiti neuronali che interconnettono queste popolazioni nell'asse cerebro-spinale o formano connessioni a mezzo dei nervi con tessuti terminali non nervosi, sarebbero rigidamente specificati in base a un programma codificato nei geni non suscettibile di modificazioni sperimentali.

Questo principio, che al neurobiologo degli anni settanta appare ovvio, anche in base a informazioni desunte da altri settori della biologia e più di tutti dalla genetica, non era così evidente nella prima metà del secolo quando prevalevano i concetti propugnati da Lashley e da Weiss. Nel paragrafo seguente considereremo alcuni dei classici esperimenti eseguiti da Sperry e collaboratori, che segnarono l'inizio di un nuovo campo di ricerche nella neurobiologia.

b) Studi sul comportamento e studi istologici sui circuiti neuronali

Tra tutti i sistemi sensoriali, quello visivo parve a Sperry il più favorevole a un'analisi a livello funzionale. Più di tre decenni dopo il sistema visivo rimane l'oggetto favorito di questi studi, sebbene l'analisi sia oggi condotta con tecniche diverse da quelle iniziali e il campo si sia esteso e ricopra praticamente tutti gli aspetti dell'organizzazione funzionale del sistema nervoso.

La scelta da parte di Sperry del sistema ottico in Vertebrati inferiori fu suggerita anche dalla letteratura preesistente su questo sistema. Prima di Sperry due ricercatori, R. Matthey in Francia e L.S. Stone negli Stati Uniti (v. Matthey, 1927; v. Stone, 1930 e 1953), avevano dimostrato che la sezione dei nervi ottici in Urodeli adulti è seguita dalla rigenerazione dei nervi stessi e dal ripristino della funzione visiva. Alcune settimane dopo l'intervento, gli animali erano di nuovo capaci di inseguire e catturare moscerini, dando così prova di una funzione distinta e non annebbiata. Oltre a queste notevoli capacità rigenerative, il sistema ottico presenta altri attributi che lo rendono quanto mai adatto all'analisi sperimentale. Il nervo ottico, che connette l'occhio con il cervello, differisce dagli altri nervi in quanto le cellule d'origine delle fibre nervose sono localizzate nella retina che - a differenza degli altri organi sensitivi - è in realtà un centro nervoso cerebrale che va incontro a una dislocazione periferica durante i primi stadi dello sviluppo embrionale. Per questo motivo, la rigenerazione del nervo sezionato e il ritorno della funzione visiva nell'animale adulto offrono allo sperimentatore la possibilità di indagare sui meccanismi che regolano lo sviluppo e la funzione dei circuiti nervosi centrali, maccessibili per la loro posizione all'indagine sperimentale.

Da un punto di vista funzionale, il sistema visivo in Vertebrati inferiori quali Pesci e Anfibi presenta anche altri vantaggi. Non soltanto questa funzione è molto sviluppata sia nei primi sia nei secondi, ma il movimento di oggetti nel campo visivo provoca un riflesso, noto come riflesso optocinetico (presente pure, ma meno appariscente, nei Vertebrati superiori), che costituisce un indice prezioso del ripristino della funzione visiva e della percezione del movimento dell'oggetto stesso nel campo visivo dell'animale normale o soggetto agli interventi che descriveremo. Questo riflesso, che consiste nel movimento della testa nella stessa direzione dell'oggetto, ha la finalità di mantenere l'immagine nel centro del campo visivo dell'animale con ovvio vantaggio, sia che si tratti di un predatore sia che si tratti di una preda.

Il primo problema analizzato da Sperry fu quello di determinare se il ritorno della funzione visiva dopo sezione del nervo ottico fosse conseguente al ristabilirsi delle stesse connessioni tra le fibre e le cellule del tetto ottico, o se fosse dovuto a un casuale formarsi di connessioni nervose tra fibre e cellule, seguito da un riadattamento funzionale. A questo scopo Sperry (v., 1943 e 1944) praticò sia in tritoni sia in rane adulte un duplice intervento, e cioè combinò la sezione dei due nervi ottici con la rotazione dei bulbi oculari di 1800 sul loro asse: qualche settimana più tardi i test visivi misero in evidenza il ripristino della funzione visiva, la quale tuttavia risultò invertita, come dimostrato sia dagli errori nei tentativi di cattura di moscerini mossi nel campo visivo, sia dall'inversione dei riflessi optocinetici. Gli uni e gli altri rimasero invertiti indefinitamente e in nessun caso si osservò un ritorno alla funzione normale (v. istinto). La fig. 12 illustra l'inversione del riflesso optocinetico provocato dal movimento di piccoli oggetti che simulano moscerini nel campo visivo dell'animale. Questi riflessi, e l'esatta localizzazione dell'oggetto in movimento, ritornarono tuttavia normali in seguito a una nuova rotazione dell'occhio praticata quattro anni e mezzo dopo il primo intervento (v. Stone e Zaur, 1940). Inversione del riflesso optocinetico e tentativi di cattura in direzione opposta a quella corretta si verificarono anche in seguito a sezione dei due nervi ottici e suturazione del moncone prossimale di un nervo con quello distale del lato opposto (v. Sperry, 1945, e Mechanism of..., 1951), come illustrato nella fig. 13. Questi risultati fornirono una prova decisiva contro l'ipotesi che il ritorno della funzione normale o inventita fosse da attribuire non al ristabilirsi delle connessioni preesistenti, ma a un processo di adattamento funzionale. ‟Il ristabilirsi delle connessioni tra fibre e cellule nervose - scrive Sperry (v., Regulative factors ..., 1951) - non è di natura funzionale. Gli animali non imparano a vedere gli oggetti in posizione invertita (come nei casi studiati) nell'una o nell'altra dimensione spaziale. Le osservazioni riportate dimostrarono infatti che questi soggetti erano in condizioni anche più svantaggiose di quelle di animali privati completamente della funzione visiva". A spiegazione dei risultati conseguiti, Sperry prospettò l'ipotesi che la differenziazione del campo retinico avvenga secondo tre piani ortogonali l'uno rispetto all'altro: dorso-ventrale, rostro-caudale e medio-dorsale (v. fig. 14). Le fibre che provengono dall'uno o dall'altro settore retinico differirebbero tra loro allo stesso modo in cui differirebbero le cellule d'origine situate nei differenti campi retinici (v. Sperry, 1963). Questa polarizzazione sia delle cellule sia delle fibre nervose si rifletterebbe in una differenza di natura biochimica delle cellule e delle fibre stesse, che a sua volta spiegherebbe il loro comportamento e la formazione di giunzioni sinaptiche specifiche tra fibre retiniche e cellule nervose nel lobo ottico. Ritorneremo in seguito sul problema prospettato da Sperry, e cioè se la specificità biochimica sia impressa contemporaneamente sui neuroni retinici e sui loro partners nel lobo ottico da un programma genetico, o se le fibre nervose imprimano la propria specificità sulle cellule con le quali formano connessioni sinaptiche durante lo sviluppo embrionale.

Una serie di esperimenti eseguiti alcuni anni più tardi da D. O. Attardi e Sperry (v., 1963) conferma l'ipotesi di Sperry che le fibre ottiche rigenerate nell'animale adulto formino connessioni specifiche a livello della loro stazione terminale, il tetto ottico. Gli esperimenti consistevano nella sezione dei nervi ottici nel pesce rosso adulto e nella contemporanea distruzione di metà retina, come indicato nella fig. 15. Poche settimane più tardi, quando i test dimostrarono il ripristino della funzione visiva, gli animali furono sacrificati e le connessioni tra fibre e tetti ottici vennero esaminate al microscopio, in preparati trattati con una tecnica argentica che permette di riconoscere le fibre rigenerate in base alla loro tonalità differente da quella delle fibre preesistenti. I risultati di questi studi dimostrarono in modo quanto mai incisivo che le fibre rigenerate ristabiliscono il contatto nel tetto ottico con gli stessi neuroni con i quali erano connesse prima della loro sezione. Non soltanto fu infatti possibile dimostrare nei preparati istologici che ogni fibra ritrova la sua partner, ma anche che si dirige a distanza verso l'esatta stazione terminale, scegliendo, tra le due divisioni del tratto ottico a sua disposizione, quella che termina nel settore del tetto destinatole. Questi risultati apparvero tanto più dimostrativi di una specificità e selettività nella formazione delle connessioni terminali, in quanto, a seguito della sezione del nervo ottico, il tratto distale del nervo stesso va incontro a degenerazione e tutta la superficie del tetto denervato è ‛vacante' e a disposizione delle fibre in via di rigenerazione. Malgrado ciò, le fibre emergenti dalla metà della retina intatta non invadono l'intera superficie del tetto ottico denervato, ma stabiliscono, come indicato nella fig. 15, connessioni soltanto con quella metà del tetto ottico con la quale erano in connessione in precedenza, anche se per raggiungere la corretta stazione terminale debbono passare attraverso ampie zone di tetto non innervato (queste zone sono indicate in bianco nella fig. 15). ‟Le fibre ottiche scrive Sperry (v., 1965, p. 170) - sembrano guidate da una specie di attrazione chimica che segna loro la strada da seguire a preferenza di tutte le altre che sarebbero tuttavia ugualmente accessibili. Questa scelta è stabilita dal programma genetico enormemente complesso che presiede alla formazione dei circuiti nervosi tra milioni o miliardi di cellule. Il problema della scelta della via da seguire per giungere alla corretta stazione terminale si ripropone ogniqualvolta la fibra in via di rigenerazione si trova a un bivio tra due possibili scelte come nel caso della biforcazione del tratto ottico in un segmento mediale e uno laterale; si tratta di una situazione simile per molti aspetti a quella di un soggetto posto di fronte alle varie alternative di un test del comportamento".

Il problema se la specificità delle connessioni stabilite dalle fibre rigenerate e i neuroni tettali sia la conseguenza di un'affinità tra fibre e cellule di origine genetica o se le proprietà biochimiche dei neuroni retinici localizzati nei differenti settori della retina si trasmettano ai neuroni del tetto ottico soltanto dopo che si sono stabilite le connessioni tra le fibre nervose e le cellule fu analizzato nel laboratorio di Sperry su un altro sistema neuronale. Un'allieva di Sperry, N. Miner (v., 1956), eseguì in girini di Rana pipiens la rotazione di larghi segmenti cutanei rettangolari che ricoprivano la superficie del corpo compresa tra la linea mediana dorsale e quella ventrale, come rappresentato nella fig. 16. Il segmento veniva rimosso completamente e riposto in situ in posizione invertita di 180°: la parte dorsale veniva così ad assumere una posizione ventrale e viceversa. L'inversione è ben evidente nell'animale dopo metamorfosi, data la differente pigmentazione della cute addominale e dorsale, come illustrato nella fig. 16. La stimolazione nel soggetto adulto della cute addominale che occupa attualmente una posizione dorsale provoca movimenti riflessi della zampa posteriore dello stesso lato, diretti tuttavia ventralmente e cioè a quella regione della superficie corporea ricoperta nell'animale normale dalla cute ‛addominale'. Nel tentativo perciò di rimuovere lo stimolo irritante l'animale dirige i movimenti verso la posizione originale e non verso quella attuale della cute, dimostrando così che i nervi sono stati specificati dal tessuto con il quale erano inizialmente in contatto. É interessante richiamare l'attenzione sull'evidenza che i risultati di questi esperimenti sono differenti e di fatto opposti a quelli di inversione nell'innervazione di muscoli antagonisti in ratti adulti mediante scambio di nervi, considerati sopra. In questi ultimi, infatti la connessione - praticata dallo sperimentatore - di un nervo con un territorio muscolare antagonista (flessore o estensore) non dà luogo a una nuova ‛specificazione' del nervo, in accordo con la terminazione di questo nel nuovo muscolo: il nervo trasmette ai centri informazioni in accordo con la sua topografia originale e non con le caratteristiche strutturali e biochimiche del tessuto con il quale stabilisce il contatto. Dato che la sola differenza tra queste due serie di esperimenti è di ordine temporale (animali adulti nel caso precedente e a sviluppo iniziale in quelli attuali), la Miner e Sperry prospettarono l'ipotesi che i tessuti (cute, muscoli o altri) specifichino i nervi quando si stabilisce per la prima volta il contatto tra le fibre nervose e i tessuti stessi. Questa ‛specificazione' rimane poi immutata per tutta la durata della vita, e non è suscettibile di rimozione e sostituzione con altre. Risultati di studi che considereremo nel paragrafo seguente dimostrano che in realtà la situazione è assai più complessa di quanto non apparisse dall'esame condotto a breve distanza dall'intervento, con tecniche inadeguate quali quelle usate in queste ricerche.

c) Approccio elettrofisiologico e stato attuale del problema

‟La verità scaturisce più facilmente dall'errore che dalla confusione; abbiamo perciò un lungo cammino da percorrere, dato che al momento attuale errori e confusione abbondano nei nostri concetti sullo sviluppo del sistema nervoso" (v. Gaze, 1970, p. 263).

Sebbene questo amaro e sarcastico commento di Gaze abbia come oggetto la neurogenesi in senso lato, l'autore si riferisce in realtà al problema delle connessioni nervose, al quale ha dedicato tutta la sua attività scientifica negli ultimi dieci anni. In un'analisi critica e penetrante degli esperimenti diretti a questo studio, da quando Weiss eseguì i primi trapianti di arti in Anfibi e propose il principio della risposta omologa, fino a quelli attuali, Gaze esamina se, e in quale misura, le ipotesi prospettate dai vari ricercatori siano giustificate e non costrette a rientrare nello schema favorito dall'autore. In quasi tutti i casi egli ritiene che questo sospetto sia ben giustificato. ‟L'analisi sperimentale - scrive ancora (ibid., p. 116) - è stata nella maggioranza dei casi ingegnosa e i concetti discussi molto elaborati, e tuttavia la pressoché generale tendenza a ignorare altre possibili alternative e a considerare i dati sperimentali come se si trattasse sempre di una sola possibile soluzione in un sistema chiuso, dimostra una sorprendente mancanza di considerazione per la complessità del sistema nervoso".

Nell'impossibilità di presentare in questo articolo anche soltanto una piccola parte del materiale trattato da Gaze, si raccomanda al lettore interessato all'aspetto teorico e sperimentale del problema delle connessioni nervose la consultazione di questo libro. Prima di riconsiderare alcuni risultati discussi nel paragrafo precedente, noteremo che la sostituzione dei test funzionali del comportamento con tecniche elettrofisiologiche, per opera di Gaze (ibid.), di Jacobson (v., 1970) e di altri ricercatori attivi negli anni sessanta, segnò l'inizio di un approccio molto più rigoroso e obiettivo al problema, e aprì nuovi settori di ricerca non accessibili agli sperimentatori precedenti. A distanza di pochi anni si ha l'impressione che questa metodologia potrà dare risultati tanto più interessanti quanto più si approfondirà l'analisi, integrandola allo stesso tempo con studi a livello strutturale e ultrastrutturale.

La tecnica elettrofisiologica fu utilizzata inizialmente, e lo è tuttora, soprattutto per esplorare le connessioni retino-tettali, il sistema sensoriale che è stato e rimane l'oggetto favorito di studio della formazione dei circuiti neuronali. I potenziali d'azione sono registrati da punti distinti della superficie dei due tetti ottici in risposta a stimoli luminosi diretti su settori retinici, in animali normali o sottoposti a lesioni di vario tipo. La registrazione dell'attività elettrica da queste superfici, dopo sezione e rigenerazione dei nervi ottici, confermò i risultati delle ricerche e le conclusioni di Sperry; fu infatti dimostrato che le fibre nervose rigenerano secondo un ordine precostituito e ristabiliscono le stesse connessioni con le cellule nervose quali sussistevano prima degli interventi. ‟Così - commenta Gaze (v., 1970, p. 146) - le conclusioni tratte da Sperry dalle sue osservazioni sul comportamento degli animali dopo la rigenerazione del nervo ottico ebbero una conferma quanto mai convincente". Gaze aggiunge tuttavia una nota di cautela: il procedimento di registrare potenziali d'azione, se pure molto più preciso che non i test del comportamento usati dai ricercatori precedenti, non permette che una valutazione, anche questa soltanto approssimata, delle connessioni che si stabiliscono tra circa mezzo milione di fibre (il numero delle fibre ottiche che termina nel tetto negli Anfibi) e un numero uguale di cellule nervose tettali. Le posizioni che possono tuttavia essere oggetto di analisi con tecniche elettrofisiologiche sono cinquanta o, nel migliore dei casi, un numero leggermente superiore. I risultati ottenuti con questo metodo permettono perciò di confermare che le fibre rigenerate terminano in contatto con le stesse cellule con le quali erano in connessione sinaptica prima della sezione del nervo, ma non dicono quale percentuale di fibre sia riuscita a ristabilire le connessioni con le cellule partners. L'autore cita a questo proposito la sorprendente osservazione di Galambos e altri (v., 1967) i quali asseriscono che dopo la distruzione del 98% delle fibre del tratto ottico i gatti erano capaci di riconoscere, con un notevole grado di precisione, determinate figure geometriche.

Le tecniche elettrofisiologiche furono utilizzate essenzialmente ai fini: a) di determinare il periodo di specificazione delle fibre retiniche durante i processi ontogenetici; b) di stabilire se le fibre in via di rigenerazione si riconnettono con le cellule nervose nel tetto ottico in base alla loro posizione topografica nel nervo ottico relativamente alle altre fibre, o se quello che conta è la posizione assoluta e non relativa della fibra nel nervo stesso.

Il primo problema fu analizzato da Jacobson (v., 1968) con esperimenti di rotazione del bulbo oculare in girini dell'anfibio Xenopus eseguiti a stadi diversi dello sviluppo, ed esaminando poi con tecniche elettrofisiologiche nella rana adulta la distribuzione delle fibre retiniche nei tetti ottici: i risultati dimostrarono che si formano connessioni normali se la rotazione del bulbo è effettuata a stadi precoci (e cioè prima dello stadio noto come stadio 29) dello sviluppo embrionale. Se la rotazione avviene in girini allo stadio 30, si osserva una parziale inversione delle giunzioni sinaptiche; queste risultano infatti uguali a quelle dei controlli lungo l'asse dorso-ventrale e invertite lungo l'asse antero-posteriore nei soggetti adulti. Rotazioni del bulbo eseguite in periodi più avanzati hanno come effetto una permanente inversione di tutte le connessioni retino-tettali. La specificazione neuronale avverrebbe perciò gradualmente durante l'ontogenesi e si attuerebbe indipendentemente nella retina e nei tetti ottici. Poiché gli studi elettromicroscopici non rilevarono alcuna differenza a livello ultrastrutturale nelle cellule nervose immature prima e dopo lo stadio critico 29, gli autori di queste ricerche ritengono che la specificità cellulare sia di natura biochimica e non strutturale (v. Fisher e Jacobson, 1970; v. Jacobson, 1970).

Il secondo problema, più difficile e concettualmente più interessante, fu oggetto in vari laboratori di estese ricerche e di esperimenti ingegnosi e tecnicamente difficili. Il fatto che esso non sia ancora risolto, dimostra non soltanto che si tratta di un problema molto complesso, ma anche che i ricercatori di oggi sono più esigenti nel vagliare i dati e che l'acume critico si è affinato in parallelo con l'affinarsi delle tecniche sperimentali. Un risultato che poteva soddisfare uno studioso degli anni cinquanta non soddisfa più lo stesso studioso o il suo successore dopo venticinque o più anni. Non considereremo la lunga lista di esperimenti eseguiti da varie scuole, nè i risultati sovente contraddittori ottenuti da sperimentatori ugualmente competenti. Il lettore troverà questi dati nel volume del Gaze che, per essere uno dei ricercatori più autorevoli in questo campo, è ben qualificato per dare un resoconto critico di quello che egli presenta come il ‟problema della partita di calcio", per un'analogia della situazione nella quale viene a trovarsi ogni fibra retinica, alla ricerca della sua stazione terminale nel tetto ottico, con quella di un giocatore in una squadra alla ricerca della posizione a lui assegnata. Un primo e ingegnoso tentativo di scoprire se ogni fibra retinica trovi la sua stazione nel tetto ottico in base a un programma rigidamente predeterminato che ha come oggetto questa fibra, indipendentemente dalla sua posizione rispetto alle altre, o se invece quello che conta è la topografia rispettiva delle fibre, fu operato da O. Szekely (v., 1954) circa vent'anni fa. Ai fini di ottenere una disparità di estensione nelle superfici retiniche e tettali, Szekely asportò in girini di Anfibi la metà nasale o temporale del bulbo oculare e sostituì la parte asportata con quella temporale o nasale di un bulbo prelevato da un girino a uguale stadio di sviluppo. In questo modo egli costruì bulbi oculari bitemporali o binasali. L'occhio, così composto di due metà uguali, si sviluppò normalmente. Gli animali adulti furono poi sottoposti a test del comportamento secondo la tecnica di Sperry. I risultati dimostrarono che il campo visivo di un occhio binasale (NN) o bitemporale (TT) è rispettivamente limitato al settore temporale o nasale del campo visivo. In base a questi risultati Szekely prospettò l'ipotesi che ogni fibra retinica che emerge dalla metà del bulbo oculare NN o TT formi connessioni soltanto con la metà del tetto corrispondente a questo settore retinico, e cioè con la sezione caudale del tetto nel caso di una retina binasale, e con quella rostrale nel caso di una retina bitemporale, mentre l'altra metà del tetto rimarrebbe vacante. Lo stesso problema è stato riesaminato recentemente sostituendo al test visivo, basato sull'analisi del comportamento, quello più accurato e oggettivo delle tecniche elettrofisiologiche. I risultati dimostrarono che la situazione è assai più complessa di quanto non apparisse da quelli ottenuti da Szekely.

Le fibre emergenti da una retina binasale non formano infatti soltanto connessioni con la metà caudale del tetto, ma si distribuiscono virtualmente all'intero tetto controlaterale, e lo stesso succede nel caso di una retina bitemporale. Questi risultati suggeriscono secondo Gaze due possibili spiegazioni: a) ipotesi delle fibre ‟che si espandono", cioè, in mancanza di quelle emergenti dalla metà della re- tina distrutta, si ramificano più estesamente che di norma e formano connessioni con l'intero tetto ottico controlaterale ; b) ipotesi di un'ipertrofia dell'emitetto innervato e atrofia di quello privo di innervazione. Il tetto, apparentemente di grandezza normale nell'animale adulto, in realtà - secondo questa ipotesi consisterebbe della metà del tetto stesso che si sarebbe espansa prendendo il posto di quella non innervata che andrebbe incontro ad atrofia. Esperimenti eseguiti dal Gaze (v., 1970) diedero risultati nettamente in favore della prima ipotesi. Il problema tuttavia non può considerarsi definitivamente chiuso; permane infatti una terza possibilità, cioè che i bulbi oculari formati da due metà nasali o temporali in realtà siano equivalenti a due occhi cresciuti in reciproco contatto e fusi insieme anziché a due metà di occhi normali. Questa possibilità è prospettata in vista della nota capacità di organi e tessuti embrionali di andare incontro a processi regolativi durante i primi stadi dello sviluppo ontogenetico. Gaze (ibid., p. 214) conclude: ‟Non è questo il momento di fare il bilancio sui risultati di questi studi. Soltanto pochi anni fa la situazione appariva chiara e lineare: le fibre ritrovano le cellule con le quali erano connesse prima della loro disgiunzione in base alla loro capacità di riconoscere la partner, che differirebbe a livello biochimico da tutte le altre. Attualmente la situazione non è così ovvia e dobbiamo concludere che il meccanismo della formazione o rigenerazione delle connessioni tra retina e tetto ottico appare oggi molto meno semplice di quanto non ritenessero i primi sperimentatori".

Recenti esperimenti eseguiti da Yoon nel laboratorio di Sperry (v. Yoon, 1971), da Straznicky (v. Straznicky e altri, 1971) e da Sharma (v., 1972) confermano il punto di vista di Gaze. I risultati di questi esperimenti dimostrano infatti che le fibre retiniche in Pesci e Anfibi non sono rigidamente determinate e immodificabili come si riteneva sino a qualche anno fa. Possono infatti andare incontro a una rispecificazione e formare connessioni con neuroni tettali differenti, quando ostacoli di vario genere impediscano la formazione di connessioni normali. Poiché i risultati ottenuti dagli autori sopra citati sono simili, considereremo soltanto quelli più recenti, oggetto dello studio di Sharma (v., 1972). L'autore ottenne una disparità tra l'estensione del campo retinico e quella del tetto ottico, mediante rimozione nel pesce rosso adulto del segmento rostro-caudale di uno dei due tetti. Registrazioni elettrofisiologiche, eseguite un mese più tardi sul tetto ottico operato, dimostrarono che l'intervento aveva causato la perdita della visione limitata al settore del campo visivo corrispondente al segmento rimosso. Tuttavia le stesse registrazioni, ripetute quattro o cinque mesi dopo, diedero risultati del tutto differenti; dimostrarono cioè che le fibre emergenti dalla retina si erano ridistribuite in modo uniforme sulla superficie del tetto ottico. ‟Si direbbe - scrive Sharma (ibid., p. 2639) - che le fibre ottiche destinate a formare connessione con il segmento del tetto rimosso si siano sostituite ad altre fibre, rimuovendole dal loro posto e trovando perciò modo di formare connessioni sinaptiche con partners differenti da quelli normali [...]".

In attesa che l'esame istologico confermi quest'ipotesi è tuttavia evidente che la situazione è assai più complessa di quanto non si ritenesse in passato.

In una recente analisi del concetto di specificità neuronale riesaminato alla luce di questi nuovi dati sperimentali, Gaze si domanda se non sia giunto il momento di riesaminare le premesse stesse del concetto di una specificità neuronale di natura biochimica. La dimostrazione ottenuta in molti laboratori che le cellule nervose possono essere oggetto di una ‛rispecificazione' non soltanto una ma molte volte, e cioè a ogni nuova sostituzione dell'organo o tessuto terminale, lascia perplessi sul significato del termine coniato per indicare il fenomeno. ‟Se ogni volta che si constata la formazione di nuove connessioni tra fibre retiniche e cellule nel tetto ottico concludiamo che la specificità è stata modificata, il termine stesso di ‛specificità neuronale' perde il suo significato" (v. Gaze e Keating, 1972, p. 376). Egli propone che in attesa di aver chiarito il fenomeno si usi il termine più generale system matching, lasciando così aperta la possibilità che fattori estrinseci, piuttosto che differenze di natura intrinseca, genetica, siano responsabili della formazione di connessioni specifiche tra le varie popolazioni nervose e tra queste e i tessuti periferici.

d) Prospettive in questo campo di ricerca: un nuovo approccio al problema

Le estese ricerche eseguite in questi ultimi due decenni su Vertebrati inferiori, con lo scopo di chiarire il ruolo di vari fattori e i meccanismi che entrano in gioco nella formazione dei circuiti neuronali, hanno messo in luce i vantaggi e allo stesso tempo le limitazioni di questi sistemi. Benché siano infatti assai più semplici dei sistemi omologhi dei Vertebrati superiori, e si prestino meglio a un'analisi sperimentale anche in considerazione delle loro straordinarie proprietà rigenerative, sono tuttavia ancora troppo complessi per gli scopi prefissi. Per questo le nuove leve di ricercatori, che hanno il vantaggio di non avere ancora investito energie in queste ricerche, si orientano verso forme più semplici, cioè gli Invertebrati. Un aspetto comune a queste ricerche, che hanno avuto inizio pochi anni fa, è lo sforzo di tutti i ricercatori di analizzare la base strutturale dei circuiti in esame, in tutte le loro dimensioni strutturali e ultrastrutturali.

Quest'indirizzo, in netta antitesi con quello che è prevalso nella prima metà del secolo, pone come base indispensabile allo studio delle funzioni di reti neuronali, dalle più semplici alle più complesse, la conoscenza di queste reti in tutti i loro più minuti particolari, e dei loro rapporti con altri sistemi. A questo fine C. Levinthal e R. Ware (v., 1972) idearono un metodo quanto mai elaborato per costruire al microscopio elettronico una mappa geografica tridimensionale dei centri ottici di un minuscolo rotifero (Asplanchna brightvelli) e di un piccolo crostaceo (Daphnia magna). Una tecnica differente, ma ugualmente sofisticata, è stata utilizzata da altri autori per ricostruire la geometria estremamente complessa di connessioni neuronali e regioni sinaptiche del sistema visivo in piccoli Insetti (v. Horridge, 1972; v. Shelton e altri, 1971).

Un approccio di altro genere, e simile a quello di Sidman considerato nella prima parte dell'articolo, è quello di S. Benzer, che si serve di mutanti sperimentali di Drosophila per esplorare la funzione dei geni nel comportamento. ‟In che modo le etichette di specificità siano distribuite tra i vari neuroni e siano responsabili della formazione dei circuiti nervosi, o quali molecole imprimano sulle cellule e sui circuiti il marchio della specificità scrive Benzer (v. , 1971, p. 1015) - sono questioni che non hanno per il momento alcuna probabilità di risposta. Il problema di rintracciare l'origine del comportamento nelle sue molteplici dimensioni, dai geni all'organismo adulto, è di tale complessità da non potersi neppure prevedere se e quando potrà essere risolto". L'autore non si è limitato ad analizzare i mutanti, prodotti con ingegnose tecniche di ingegneria genetica, dal punto di vista del comportamento, ma ha condotto un'analisi estremamente accurata e precisa di parti del sistema nervoso in esemplari normali e in mutanti.

Un confronto tra queste ricerche e quelle considerate nelle pagine precedenti, dimostra una sostanziale differenza nell'approccio metodologico al problema della formazione dei circuiti neuronali e delle loro caratteristiche funzionali. Mentre infatti quelle ricerche partivano da un presupposto teorico e l'interpretazione dei risultati era infirmata nella maggioranza dei casi dalle posizioni di partenza, nelle ricerche attuali è evidente la preoccupazione di una maggiore obiettività e lo sforzo di riportare la ricerca su un piano concreto analizzando ogni dettaglio delle strutture nervose; queste si rivelano tanto più complesse quanto più sottile e penetrante è l'indagine. È interessante notare che questo nuovo indirizzo è oggi seguito non tanto da neuroanatomisti e da neurofisiologi, quanto da fisici e biologi molecolari che dimostrano una preferenza per l'analisi diretta dei sistemi in esame piuttosto che per la costruzione di modelli artificiali di reti nervose, qual era in favore soltanto pochi anni fa.

4. Meccanismi di controllo nel sistema nervoso in via di sviluppo

a) Il ruolo dei fattori estrinseci nella neurogenesi

Il problema di determinare se e in quale misura il sistema nervoso dipenda dagli organi periferici per i suoi normali processi di sviluppo e differenziazione è stato formulato molto tempo prima di quello considerato nella sezione precedente, e malgrado sia almeno per certi aspetti - intrecciato con esso, è stato affrontato sin dall'inizio con metodi differenti, e le due linee di ricerca sono andate divergendo progressivamente sino a prendere due direzioni del tutto diverse. Mentre infatti l'oggetto delle ricerche considerate nel capitolo precedente era l'analisi delle basi strutturali del comportamento, le ricerche che considereremo qui sono state sin dall'inizio dirette a esplorare il ruolo degli organi e dei tessuti periferici nello sviluppo e differenziazione dei circuiti motori e sensitivi deputati alla loro innervazione. Il sistema nervoso di larve di Anfibi fu per primo implicato in un nuovo problema: quello di innervare organi o abbozzi di arti appartenenti ad altre specie, di mole somatica uguale o differente da quella dell'ospite. Con l'esecuzione di trapianti omo- o eteroplastici in larve di Anfibi, l'embriologo si proponeva di saggiare la capacità del sistema nervoso in via di sviluppo di stabilire connessioni con tessuti differenti da quelli dell'ospite e allo stesso tempo di esaminare se, e in quale misura, i centri nervosi e le fibre in via di accrescimento si sarebbero adeguati alle differenti dimensioni geometriche e configurazione strutturale di questi tessuti e organi di differente provenienza. I risultati misero in luce una notevole flessibilità da parte del sistema nervoso larvale, che dimostrò di sapersi adattare a nuove situazioni al punto di accelerare la velocità di crescita delle fibre stesse per far fronte allo sviluppo di abbozzi di arti a rapido accrescimento di donatori di piccola mole (v. Harrison, 1907 e 1935).

Questi risultati provarono che il sistema nervoso, nei periodi iniziali del suo sviluppo, è molto sensibile alle influenze esercitate dai tessuti periferici che formano l'area di innervazione. Gli stessi esperimenti dimostrarono inoltre che i tessuti periferici sono interscambiabili, purché siano rispettate alcune regole fondamentali: le fibre motorie e sensitive hanno infatti aree di innervazione proprie di ciascuna categoria, e privando un determinato settore della sua quota di fibre motorie o sensitive non si favorisce l'invasione dello stesso settore da parte di fibre sensitive o motorie. Lo stesso principio è valido per quanto riguarda fibre nervose di una categoria differente, quali le fibre somato-motorie e viscero-motorie; le prime innervano i muscoli volontari, mentre le seconde stabiliscono connessioni sinaptiche con i muscoli viscerali, con il muscolo cardiaco e con tessuti ghiandolari. Perciò nè le fibre nervose embrionali, nè quelle a differenziazione completa hanno accesso in organi o tessuti di natura differente da quella dei propri organi o tessuti terminali. La letteratura su questo soggetto, sin da quando Harrison eseguì i suoi primi esperimenti su girini di Anfibi nei primi tre decenni del secolo e presentò i risultati nella Croonian Lecture (v. Harrison, 1935), è così estesa che non sarebbe possibile presentarla in questo articolo. Il lettore troverà una trattazione esauriente dell'argomento nel recente volume di Jacobson (v., 1970). Qui è sufficiente accennare che in questo come in tutti gli altri settori della neurobiologia (e lo stesso vale per tutte le altre scienze sperimentali) l'ottimismo del primo periodo, quando l'apertura di questo nuovo campo sembrava offrire illimitate possibilità allo sperimentatore, è stato mitigato dalla constatazione che l'interpretazione dei risultati è assai più difficile che non l'esecuzione degli esperimenti stessi.

Se il merito dell'apertura di questo nuovo settore di ricerca spetta a Harrison, fu tuttavia un altro scienziato, Hamburger, che tre decenni più tardi perfezionò l'approccio sperimentale, prima di tutto sostituendo le larve di Anfibi con embrioni di pollo, e in seguito sottoponendo i processi di sviluppo in esemplari normali e in quelli sperimentali a un'analisi molto più sottile e accurata di quanto non avessero fatto i suoi predecessori (v. Hamburger, 1934, 1939, 1956). Un altro merito di Hamburger è stato di aver concentrato l'attenzione su un sistema relativamente semplice, cioè su quello dei neuroni motori e sensitivi che innervano l'abbozzo dell'arto, anziché su sistemi assai più complessi deputati alla recezione di stimoli da organi sensoriali, quali quelli olfattorio, ottico, acusticovestibolare. I risultati di studi sperimentali su questi sistemi da parte di ricercatori nei primi decenni del secolo erano infatti così contraddittori e confusi da scoraggiare, sino a epoche molto vicine a noi, una nuova analisi dei rapporti tra questi centri e l'estensione dei territori periferici.

Ci limiteremo a considerare qui i risultati di esperimenti eseguiti sull'embrione di pollo per determinare il ruolo esercitato dall'abbozzo dell'arto sulla differenziazione dei neuroni motori situati nella colonna motoria dei segmenti midollari corrispondenti e dei neuroni sensitivi dei gangli spinali. A questo fine l'abbozzo dell'arto fu amputato in embrioni a due giorni e mezzo di incubazione, o gemme soprannumerarie furono innestate in vicinanza dell'arto proprio dell'ospite. Nella prima serie, i neuroni motori e sensitivi furono perciò privati del territorio periferico, mentre nella seconda serie si trovarono di fronte a un campo assai più vasto del normale, rappresentato da due arti. All'atto dell'intervento di demolizione o innesto, i neuroni motori e sensitivi si trovano a uno stadio iniziale della loro differenziazione; la maggioranza delle cellule è infatti ancora nella fase proliferativa, come descritto nella prima parte di questo articolo. A seguito della demolizione dell'abbozzo dell'arto l'attività mitotica nei gangli diminuisce in misura sensibile, i processi differenziativi in atto nel segmento ventro-laterale dei gangli si arrestano e allo stesso tempo processi degenerativi, della stessa entità di quelli che si verificano normalmente durante lo sviluppo embrionale in gangli a livello cervicale e toracico, determinano la scomparsa di migliaia di cellule nervose immature localizzate in questo settore gangliare (v. Hamburger e Levi-Montalcini, 1949). È interessante notare che la scomparsa del 90% delle cellule nervose situate nel settore ventro-laterale dei gangli (quelle localizzate nel settore dorso-mediale hanno uno sviluppo più tardivo e un differente comportamento, del quale non ci occuperemo) non è determinata da lesione diretta delle fibre nervose conseguente all'amputazione dell'abbozzo dell'arto: le fibre stesse al momento dell'amputazione non sono infatti ancora emerse dai gangli sensitivi. Allo stesso modo la diminuzione dell'attività mitotica nei gangli non può considerarsi come un effetto traumatico diretto, dato che ovviamente le cellule in attività proliferativa non hanno ancora stabilito alcun rapporto con i territori periferici. Questi effetti, in quanto provocati dalla carenza di fattori che normalmente sono liberati dai tessuti periferici e stimolano i processi proliferativi e differenziativi delle cellule nervose deputate all'innervazione di tali tessuti, furono designati con il termine generico di ‛effetti di campo'.

Studi condotti sui gangli sensitivi in esperimenti di in- nesto di un abbozzo di arto soprannumerario hanno di- mostrato un notevole aumento nell'attività mitotica, accelerazione dei processi differenziativi e aumento in grandezza delle cellule stesse. Assai meno chiari sono gli effetti provocati dai tessuti periferici sui neuroni motori situati nel midollo spinale. Tutti gli autori sono concordi nell'affermare che nè la diminuzione, nè l'aumento del territorio periferico incidono sull'attività mitotica che ha luogo a livello dell'epitelio ependimale; l'estirpazione dell'arto provoca tuttavia l'arresto dei processi differenziativi e imponenti processi degenerativi dei neuroni in via di sviluppo, tanto che la popolazione residua è ridotta a circa il 10% di quella normale. Il processo stesso è, come nel caso dei gangli sensitivi, molto simile nelle sue caratteristiche morfologiche a quello che colpisce il segmento cervicale del midollo spinale durante i normali processi neurogenetici sopra descritti. Il trapianto di arti soprannumerari, pur non determinando un aumento numerico della popolazione motoria, ne determina un modico aumento in volume conseguente a ipertrofia dei singoli neuroni (v. Hamburger e Levi-Montalcini, 1949).

Il maggior contributo di questi studi è stato non tanto di aver posto in evidenza il ruolo dei tessuti periferici nello sviluppo delle cellule nervose deputate alla loro innervazione, quanto di aver precisato l'entità di questi effetti nelle varie fasi della neurogenesi che si è usi indicare con il termine tanto generale quanto vago di ‛processi differenziativi'.

b) il controllo dello sviluppo delle cellule nervose simpatiche da parte di un fattore proteico

I modici effetti provocati da innesti di arti o organi soprannumerari sui gangli e sul sistema nervoso centrale dell'embrione ai primi stadi di sviluppo sembravano giustificare il concetto espresso da Weiss (v., 1955, p. 350) che ‟i fattori estrinseci non esercitano un'azione determinante sullo sviluppo e grandezza dei neuroni in senso assoluto, ma si limitano a stimolare o deprimere questi processi entro limiti notevolmente circoscritti". Mentre prevaleva questa opinione, negli anni cinquanta, e l'intero campo della neuroembriologia sperimentale perdeva progressivamente di interesse, un fenomeno scoperto per puro caso portava a una revisione del punto di vista sopra espresso e apriva allo stesso tempo un nuovo settore di ricerca che oggi, a più di vent'anni di distanza, è in pieno sviluppo. I risultati di queste ricerche e il loro significato nel quadro più generale dei meccanismi regolatori della neurogenesi saranno considerati in quest'ultimo capitolo.

Un neuroembriologo americano, E. D. Bueker, concepì l'idea di saggiare l'effetto di tessuti a rapido accrescimento sullo sviluppo dei neuroni sensitivi e motori dell'embrione di pollo. A questo scopo egli innestò frammenti di tumori maligni di topo nella parete addominale di embrioni di pollo al terzo giorno d'incubazione. Ricorderemo che l'incompatibilità tra tessuti di specie diverse, come Mammiferi e Uccelli, che impedisce l'attecchimento di organi o tessuti degli uni negli altri determinandone il rigetto, non sussiste negli stadi embrionali, quando i meccanismi immunitari non sono ancora operanti. Nell'eseguire questo esperimento il Bueker voleva esaminare la capacità delle fibre motorie e sensitive dell'embrione ospite di innervare il tessuto neoplastico. Dei tre tumori scelti uno, noto come sarcoma 180, attecchì e fu invaso da fibre sensitive prodotte dai gangli spinali adiacenti al trapianto. Poiché i gangli stessi apparivano di volume maggiore di quelli controlaterali (che inviavano le fibre nei muscoli e nei territori cutanei dell'altro arto), Bueker (v., 1948) concluse che l'effetto era dovuto alla rapida proliferazione ed espansione dei tessuti neoplastici che permettevano alle fibre nervose di ramificarsi in un territorio assai più vasto di quello consueto. Il fenomeno, riesaminato dall'autore di questo articolo e collaboratori (v. Levi-Montalcini e Hamburger, 1951), si rivelò assai più complesso di quanto non fosse sembrato all'inizio, e i risultati apparvero suscettibili di un'altra interpretazione. Un'analisi più approfondita di embrioni portatori di innesti di uno dei due tumori 180 o 37 mise infatti in evidenza uno straordinario aumento in volume di tutti i gangli simpatici, sia di quelli vicini ai tessuti tumorali, sia di quelli lontani da questi. I primi inviavano le fibre nervose nella compagine del tessuto neoplastico, dove fibre sensitive e simpatiche si ramificavano profusamente tra le cellule tumorali, come illustrato nella fig. 17. I gangli lontani dal trapianto, sia dello stesso lato sia del lato opposto del corpo, davano origine a grossi fasci nervosi che penetravano nei visceri; questi, in condizioni normali, non sono innervati che da un numero estremamente esiguo di fibre in periodi molto più avanzati dello sviluppo embrionale. Nei casi sperimentali, matasse di fibre nervose invadevano tutto lo spazio disponibile nei visceri, anche di quelli come il mesonefro o rene embrionale, che non sono normalmente innervati. Infine, l'osservazione che le fibre simpatiche penetravano nell'interno di vasi di piccolo e medio calibro, superando barriere normalmente impervie quali la tunica vascolare e ostruendo il torrente circolatorio, diede la prova definitiva dell'atipicità dell'effetto tumorale. Si trattava di un fenomeno senza precedenti nella sia pur ricca casistica dell'embriologia sperimentale. L'ipotesi allora prospettata che i due tumori in esame liberassero e riversassero nei tessuti un fattore specifico ad azione stimolante dei gangli sensitivi e simpatici, fu confermata dall'esperimento seguente: frammenti di sarcoma 180 e 37 furono innestati sulla membrana corio-allantoidea di embrioni in via di sviluppo. In questa sede le cellule neoplastiche si moltiplicano attivamente come in trapianti intraembrionali, ma non vengono in contatto con i tessuti dell'ospite: tra gli uni e gli altri vi è tuttavia scambio di sostanze umorali tramite la circolazione sanguigna. L'esame istologico, eseguito una settimana più tardi, dimostrò che i gangli simpatici erano di volume assai maggiore di quelli dei controlli e i visceri erano invasi da fibre da questi emergenti come accade in seguito a trapianti intraembrionali (v. Levi-Montalcini, 1952). Il fattore tumorale, designato inizialmente con questo termine, divenne in seguito noto come il Nerve Growth Factor o più semplicemente come l'NGF.

Non considereremo qui le varie tappe percorse nè i molteplici aspetti del fenomeno tuttora in esame, ma ci limiteremo a ricordare i momenti più significativi di questa ricerca che, attraverso una serie di fortunate circostanze e più di tutto grazie alla competenza e all'intuito di un biochimico, S. Cohen, ha portato alla scoperta dell'NGF in altri tessuti e alla sua identificazione chimica.

Un primo e importante progresso in questo studio fu realizzato sostituendo al metodo dei trapianti nell'embrione di pollo quello in vitro, noto come il metodo della goccia pendente, che consiste nell'espiantare i tessuti in esame - in questo caso frammenti di tumore e gangli sensitivi o simpatici dell'embrione - in un mezzo semisolido costituito da plasma di pollo ed estratto embrionale; le colture vengono poi incubate a 39° ed esaminate a intervalli di 4-6 ore. Nei controlli gli stessi gangli erano combinati con altri tessuti neoplastici o embrionali. Nelle colture sperimentali i gangli sensitivi o simpatici, dopo 6-10 ore di incubazione, apparivano circondati da una raggera di fibre nervose che formavano un alone fibrillare attorno agli espianti, mentre in colture di controllo pochissime fibre nervose emergevano dalla superficie dei gangli (v. Levi-Montalcini e altri, 1954).

L'estrema sensibilità di questo saggio, che permette di rivelare l'NGF anche quando è presente soltanto in tracce nei tessuti o liquidi in esame, e la facilità e rapidità di lettura dei risultati, resero possibile la sua scoperta in altre sorgenti, oltre ai tumori, e in seguito la sua caratterizzazione chimica. Il metodo stesso permette inoltre una valutazione semiquantitativa dell'NGF; la risposta assume infatti aspetti differenti a seconda della sua concentrazione nel mezzo di coltura. Ad alte concentrazioni le fibre nervose crescono in forma di alone densissimo di fibre estremamente corte.

Alla concentrazione che si è convenuto considerare come corrispondente all'unità biologica del fattore di crescita, e cioè di 10 nanogrammi per ml, la risposta di gangli sensitivi e simpatici all'NGF dopo 24 ore di incubazione è quella illustrata nella fig. 18; consiste cioè di un alone di fibre rettilinee ad andamento radiale emergenti da tutta la circonferenza del ganglio. L'effetto diminuisce gradualmente a maggiori diluizioni, e non è più percepibile quando l'NGF è presente nel mezzo di coltura a concentrazioni mille volte inferiori a quelle che provocano la formazione dell'alone fibrillare.

La scoperta, nel 1956 (v. Cohen e Levi-Montalcini, 1956) e successivamente nel 1958 (v. Cohen, 1958), di due altre sorgenti dell'NGF, il veleno di serpenti e le ghiandole salivari del maschio adulto di topo, ove è presente a concentrazioni rispettivamente 1.000 e 10.000 volte superiori a quelle dei tessuti neoplastici a parità di contenuto proteico, ne rese possibile l'estrazione e la caratterizzazione chimica. Cohen identificò l'uno e l'altro NGF in molecole proteiche; lo studio della loro attività biologica sulle cellule bersaglio, cioè le cellule sensitive e simpatiche dell'embrione di pollo, ne svelò l'identità dell'effetto con quello provocato dall'NGF tumorale (v. Levi-Montalcini, 1964). Il fattore stesso si troverebbe allo stato naturale in forme dimeriche o polimeriche dell'unità base, calcolata inizialmente del peso molecolare di 20.000 (v. Cohen, 1960). L'analisi delle caratteristiche dell'NGF salivare, così come della risposta a livello metabolico e del possibile meccanismo d'azione di questo fattore sulle cellule bersaglio, oggetto di studio nel decennio 1960-1970 da parte di Angeletti e altri (v., 1968), ha portato nel 1971 all'elucidazione della struttura primaria e secondaria dell'NGF salivare (v. Hogue-Angeletti e Bradshaw, 1971). La configurazione dell'unità base è rappresentata nella fig. 19. Il peso molecolare di questa subunità è di 13.259.

Considereremo qui molto brevemente la risposta delle cellule bersaglio all'NGF salivare il più studiato dei tre NGF - a livello strutturale, ultrastrutturale e metabolico.

Iniezioni giornaliere di NGF in topi o ratti neonati - gli animali prescelti per questi esperimenti - determinano uno straordinario aumento dei gangli simpatici, che raggiungono un volume 12 volte superiore a quello dei controlli in un periodo di 10 giorni (v. fig. 20). Questo effetto è determinato dall'aumento numerico e di grandezza dei singoli neuroni adrenergici. In animali adulti l'effetto, pur essendo ben evidente, è di minore entità, poiché le cellule nervose differenziate aumentano in grandezza ma non hanno più la capacità di dividersi (v. Levi-Montalcini e Booker, 1960).

A livello metabolico l'NGF stimola in modo rilevante i processi anabolici, cioè la sintesi proteica di acidi ribonucleici e di lipidi e l'utilizzazione dei carboidrati (v. Angeletti e altri, 1968).

Studi ultrastrutturali hanno posto in rilievo la formazione nelle cellule bersaglio di ingenti quantità di neurofilamenti e neurotubuli che, a poche ore dalla somministrazione del fattore di crescita, occupano l'intera area cito- plasmatica convergendo in fasci verso il polo cellulare dal quale emerge l'assone (v. Levi-Montalcini e Angeletti, 1972).

Due altre serie di ricerche, condotte parallelamente a queste, hanno dimostrato che l'NGF non soltanto stimola i processi anabolici e la sintesi di materiale neurofibrillare - che a sua volta si riflette nell'aumento in grandezza delle cellule bersaglio - ma esplica un'azione essenziale nella vita delle cellule nervose sensitive e simpatiche in via di sviluppo.

La prima serie di ricerche ha avuto come oggetto lo studio di queste cellule, dissociate da gangli di embrioni di pollo e coltivate in mezzo liquido costituito da amminoacidi essenziali in assenza o presenza di 10-100 unità biologiche di NGF. In assenza di NGF le cellule nervose vanno incontro a totale disintegrazione nei primi due o tre giorni di coltura; in sua presenza sopravvivono in condizioni ottimali indefinitamente, producendo dense reti fibrillari che coprono l'intera superficie del recipiente di coltura (v. Levi-Montalcini e Angeletti, 1972).

La seconda anche più drammatica prova del ruolo dell'NGF nella vita delle cellule nervose simpatiche è stata ottenuta con un antisiero anti NGF. Fu S. Cohen (v., 1960) a concepire l'idea di saggiare l'effetto di un antisiero specifico anti NGF, iniettando il fattore purificato in conigli con i comuni procedimenti immunologici. Ottenuta l'evidenza che gli animali trattati avevano prodotto anticorpi anti molecola NGF, il siero dei conigli immunizzati venne iniettato in piccole dosi in topi e ratti, nella prima settimana postnatale. Alla dissezione, eseguita un mese più tardi, si osservò che i gangli para- e prevertebrali che costituiscono il sistema simpatico erano ridotti a noduli sderotici così diminuiti in grandezza da essere difficilmente riconoscibili all'esame macroscopico. All'esame istologico i gangli risultarono costituiti da cellule gliali e mesenchimali, mentre la popolazione nervosa era ridotta al 2-5% di quella dei controlli (v. fig. 21). La distruzione selettiva delle cellule simpatiche adrenergiche è stata designata con il termine di ‛immunosimpatectomia' (v. Levi-Montalcini e Angeletti, 1966). Dato che questo processo degenerativo è limitato al sistema simpatico e non incide in alcun modo sul normale sviluppo somatico degli animali trattati, nè sulla loro vitalità e sulla durata della loro vita, fu possibile produrre colonie di topi e ratti privi sin dalla nascita del controllo delle funzioni neurovegetative. Non considereremo i risultati. degli studi perseguiti in molti laboratori sulla fisiologia e sul comportamento degli animali immunosimpatectomizzati (v. Steiner e Schoenbaum, 1972). Accenneremo invece a due aspetti di questo fenomeno di interesse più generale nel campo della neurogenesi: a) le modalità d'azione dell'antisiero a livello strutturale e ultrastrutturale nelle cellule bersaglio; b) l'imponenza del processo degenerativo e il parallelismo tra questo e quelli che si attuano in alcuni settori del sistema nervoso sia in soggetti normali sia in mutanti.

Lo studio istologico e quello ultrastrutturale con il microscopio elettronico, condotti a distanza di poche ore dalla somministrazione dell'antisiero, hanno messo in evidenza la rapidità e severità delle lesioni provocate dagli anticorpi anti NGF nei vari compartimenti delle cellule simpatiche in via di differenziazione.

Le alterazioni strutturali localizzate inizialmente nel nucleo si estendono progressivamente al citoplasma e culminano con la lisi e la totale degenerazione delle cellule stesse.

Dato che gli anticorpi si legano selettivamente alla molecola dell'NGF, la morte delle cellule nervose dimostra che il fattore di crescita è presente nelle cellule recettive alla sua azione e che la sua inattivazione è incompatibile con l'ulteriore differenziazione e con la vita stessa di queste cellule. Nell'animale adulto la somministrazione dell'antisiero determina lesioni di minore entità e in parte reversibili (v. Levi-Montalcini e Angeletti, 1972).

La degenerazione massiva di cellule nervose immature provocata dagli anticorpi anti NGF ripropone il problema del significato e della causa della morte di intere popolazioni nervose durante le fasi precoci della neurogenesi in soggetti normali e in mutanti. Sia nel caso presente sia in quelli considerati in precedenza le cellule colpite sono a uno stadio incipiente di differenziazione, e il processo degenerativo si instaura rapidamente e si attua con estrema rapidità. La possibilità che la morte delle cellule nervose sia conseguente alla carenza di un fattore essenziale di natura intrinseca rimane al momento attuale allo stato di ipotesi, data la completa ignoranza dei meccanismi genetici che determinano la morte di popolazioni cellulari nella neurogenesi in condizioni fisiologiche o in seguito a mutazioni. Meno speculativa e suscettibile di analisi sperimentale appare l'ipotesi che considereremo brevemente nell'ultimo paragrafo, cioè che l'NGF svolga un ruolo non dissimile da quello esplicato dai tessuti periferici nello sviluppo e crescita delle popolazioni nervose deputate alla loro innervazione.

c) L'NGF e i meccanismi di controllo nella neurogenesi

Nel corso di questa ricerca si è posta molte volte la domanda se la presenza dell'NGF nei tessuti neoplastici, e in quantità molto più ingenti nel veleno di serpenti e nelle ghiandole salivari di topo, abbia alcuna relazione con il problema che ha promosso questa ricerca, cioè quello di esaminare il ruolo dei tessuti terminali nella differenziazione delle strutture nervose deputate alla loro innervazione. Quantunque gli effetti provocati dall'NGF e dagli organi e strutture periferici siano di un differente ordine di grandezza, essi hanno tuttavia in comune due aspetti fondamentali: gli uni e gli altri esplicano un ruolo essenziale nella crescita e sopravvivenza di cellule nervose in fasi iniziali del loro sviluppo, e in ambo i casi gli effetti sono limitati a determinate popolazioni nervose.

La scoperta che l'NGF pur essendo presente in tutti i tessuti e liquidi dell'organismo è localizzato in maggiore misura nei tessuti innervati dalle cellule simpatiche (v. Angeletti e altri, 1972), mette in evidenza un altro elemento comune all'NGF e ai fattori tuttora non identificati prodotti dai tessuti periferici. È verosimile che l'NGF rientri nella classe di questi fattori, che si è usi designare con il termine generico di ‛fattori trofici'. Sebbene una delle caratteristiche degli effetti di questi ultimi sia di essere limitati alle cellule che stabiliscono un rapporto diretto con i tessuti, tramite le fibre nervose che con questi formano connessioni sinaptiche, la differenza tra i fattori trofici e l'NGF sembra essere di ordine quantitativo piuttosto che qualitativo.

Nel caso dell'effetto dell'NGF di origine neoplastica è stato riscontrato che i gangli che contribuiscono all'in- nervazione del tumore vanno incontro a un maggiore aumento in volume di quelli che non inviano fibre nervose nel trapianto tumorale: reperto che indica come il trasporto del fattore stesso avvenga non soltanto per via umorale ma anche direttamente tramite le fibre nervose che collegano il tumore con le cellule nervose. Lo straordinario aumento in grandezza dei gangli simpatici in animali iniettati con l'NGF estratto dal veleno di serpenti o dalle ghiandole salivari di topo si spiegherebbe con il fatto che questo fattore, normalmente presente in tracce nei tessuti periferici, è in tali casi somministrato in dosi massive, migliaia di volte superiori a quelle fisiologiche.

5. Cenni conclusivi

Nella trattazione dell'argomento abbiamo considerato alcuni aspetti e trascurato altri non meno importanti sia per le limitazioni imposte dallo spazio, sia per il desiderio di porre in rilievo la complessità piuttosto che la molteplicità degli aspetti della neurogenesi. Eventi differenziativi, che al ricercatore di qualche decennio fa potevano apparire ovvi, si rivelano al suo successore più edotto ed esigente come il risultato di complesse interazioni tra i fattori ambientali e il programma genetico dei sistemi in esame. Il ruolo prevalente di quest'ultimo nel disegno dei circuiti neuronali e nella differenziazione delle varie popolazioni nervose è stato considerato nella prima e seconda parte, mentre nella terza si è analizzato il ruolo dei fattori ambientali nel determinare altri parametri della differenziazione delle stesse popolazioni.

Lo studio delle varie tappe dello sviluppo del sistema nervoso e i risultati dell'analisi sperimentale della formazione di circuiti intracentrali e periferici hanno inoltre dimostrato che soltanto l'analisi diretta dei sistemi in esame, non infirmata da idee preconcette, è in grado di chiarire i meccanismi che entrano in giuoco nella neurogenesi. Una breccia aperta in un settore del sistema nervoso, sia questo quello di un Insetto o di un Mammifero, può svelare nuovi orizzonti in altri settori meno accessibili all'indagine sperimentale.

Il convergere nel campo della neurogenesi di un numero crescente di ricercatori è motivo di speranza e di fiducia nei futuri sviluppi di questa disciplina, che rappresenta la porta d'ingresso e la conditio sine qua non per la conoscenza della struttura e funzione del prodotto finale, il sistema nervoso.

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