NEUROSCIENZA COMPUTAZIONALE

XXI Secolo (2010)

Neuroscienza computazionale

Paolo Del Giudice

Decodificare, emulare, stimolare e comprendere l’attività nervosa: sono le quattro sfide oggetto di questo breve saggio. Ognuna, formidabile e intrecciata con le altre, ha al centro il cervello e, tra gli obiettivi, quello di associare a una sempre migliore comprensione dell’attività nervosa la capacità di recuperare (o sostituire) in parte le sue funzioni in caso di lesioni, o la possibilità di progettare dispositivi ‘intelligenti’ ispirati al suo funzionamento.

Dalla breve rassegna che segue non potrà emergere un quadro unitario coerente; piuttosto, una serie di possibili legami e di interazioni costruttive tra linee di ricerca alla frontiera delle neuroscienze e delle tecnologie a esse collegate.

BCI e decodifica dell’attività nervosa

Un giorno, coloro che hanno subito lesioni ai nervi o agli arti potranno comandare sedie a rotelle, protesi e addirittura braccia e gambe paralizzate semplicemente ‘pensando di muoverle’: a formulare questa impegnativa previsione, nel 2002, sono stati Miguel A.L. Nicolelis e John K. Chapin (neurofisiologi rispettivamente alla Duke university e alla State university of New York). In un loro esperimento, un computer decodifica l’attività nervosa correlata alle azioni motorie di una scimmia, e il segnale nervoso decodificato può essere usato per muovere un braccio meccanico che in questo modo ‘duplica’ il movimento del braccio della scimmia: la scimmia ne guida il movimento ‘con il pensiero’ (Nicolelis, Chapin 2002; v. anche Wessberg, Stambaugh, Kralik et al. 2000).

Il fondamento scientifico della fiducia espressa nella frase riportata risiede in una serie di esperimenti che hanno portato negli ultimi anni allo sviluppo delle cosiddette BCI (Brain-Computer Interfaces). Una BCI è un insieme di dispositivi volti a dotare il cervello di un canale di output motorio artificiale, in funzione sostitutiva o aggiuntiva ai canali fisiologici. Le potenzialità di questo approccio sono state finora considerate soprattutto nella prospettiva di consentire a pazienti con deficit motori gravi (per es., tetraplegici), ma con funzioni cerebrali integre, di pilotare dispositivi artificiali mediante il solo fatto di ‘pensare’ il movimento corrispondente.

Il raggiungimento di un tale risultato, che appare al limite della fantascienza, dipende in modo cruciale da una serie di passi che devono essere completati con successo. Si deve innanzitutto poter registrare (in modo cronico, cioè su lunghe scale di tempo) l’attività nervosa prodotta nelle aree responsabili della pianificazione ed esecuzione del movimento; si deve quindi ‘decodificare’ tale attività in modo da ricostruire in modo automatico (e veloce) l’intenzione motoria espressa dal soggetto; quando è disponibile una decodifica affidabile la parte meno complicata consiste nell’utilizzare questa informazione per pilotare una varietà di possibili dispositivi artificiali. Ognuno di questi passi necessari (e soprattutto i primi due) pone tuttora problemi considerevoli, nonostante i successi ottenuti.

Intercettare e registrare l’attività nervosa che codifica l’intenzione motoria implica innanzitutto una scelta sulla natura del segnale da acquisire, e questa scelta riflette un necessario compromesso tra invasività della registrazione e specificità dell’informazione ottenuta. Considerando l’utilizzo di BCI su pazienti, è chiaro che minimizzare l’invasività del dispositivo è una priorità; in base a questo criterio, l’elettroencefalogramma (EEG) risulta senz’altro la procedura di registrazione preferita. D’altra parte, una BCI in grado di sostituire funzioni motorie complesse deve basarsi su una decodifica affidabile di informazioni molto specifiche sull’attività delle popolazioni nervose coinvolte, e questo criterio tende a favorire modalità invasive di registrazione, in cui matrici di elettrodi vengono applicate sulla superficie corticale (elettrocorticogramma) o inserite in profondità all’interno della corteccia.

Entrambe le strategie vengono attualmente utilizzate: dal versante non invasivo, si è dimostrata con successo la possibilità per l’utente di pilotare, per es., un cursore, o di ‘scrivere’ su una tastiera virtuale, sullo schermo di un computer. In quest’ambito, un gruppo italiano, guidato da Fabio Babiloni, svolge dal 1998 una ricerca di punta presso il Laboratorio di neuroimaging elettrico e brain computer interface della Fondazione Santa Lucia di Roma (Cincotti, Mattia, Babiloni et al. 2003; Babiloni, Cincotti 2006).

D’altra parte, il futuro a lungo termine delle BCI dipende dalla possibilità di decodificare e sostituire funzioni complesse, non altrimenti vicariabili con metodi più semplici (per es., la registrazione di movimenti oculari volontari). In questa fase di ricerca e sviluppo, appare almeno probabile che l’utilizzo di registrazioni invasive per le BCI consenta una migliore identificazione delle componenti dell’elaborazione nervosa che sottendono funzioni complesse. Con il progresso veloce della tecnologia dei dispositivi invasivi di registrazione, il relativo rapporto costi/benefici ai fini di una BCI viene considerato sempre più accettabile, vista la gravità dei deficit motori in questione.

Il progresso degli impianti cronici di registrazione ha motivato la FDA (Food and Drug Administration), l’agenzia che negli Stati Uniti ha il compito di vagliare test clinici su farmaci e dispositivi medici, ad autorizzare nel maggio 2009 un test clinico (BrainGate2) su BCI basate su matrici di un centinaio di microelettrodi impiantati nella corteccia in un campione di pazienti. Del progetto BrainGate, lanciato nel 2002, è responsabile uno dei pionieri del settore, John P. Donoghue, direttore dell’Institute for brain science presso la Brown university (Donoghue 2002).

A valle della registrazione del segnale nervoso, il secondo passo indispensabile prevede la decodifica dell’intenzione motoria associata. Viene utilizzato un approccio ‘a scatola nera’, che prevede una fase di addestramento, in cui si mette a punto l’algoritmo di decodifica sulla base di lunghe serie di registrazioni associate a intenzioni motorie note, e il successivo impiego on-line. Tra le difficoltà coinvolte in questo compito, bisogna considerare che l’associazione tra un profilo temporale dell’attività nervosa e l’azione motoria corrispondente varia nel tempo e dipende dal contesto sensoriale e comportamentale del soggetto; la procedura di ottimizzazione dell’algoritmo di decodifica deve quindi continuamente adattarsi a queste condizioni mutevoli. Fortunatamente, una straordinaria riserva di adattabilità e di plasticità sta proprio nel cervello dell’utente che, ricevendo un feedback continuo (prevalentemente, ma non solo, visivo) sull’esito della decodifica dell’intenzione motoria volontaria espressa, è in grado di adattare in parte l’attività nervosa stessa ed elaborare strategie mentali in grado di ottimizzare il sistema.

Motivata dalle evidenti potenzialità per la sostituzione di funzioni motorie, la ricerca sulle BCI promette di migliorare molto la nostra comprensione dei meccanismi nervosi che presiedono alla decisione e alla pianificazione motoria e della loro dipendenza dal contesto; ci si può spingere a pensare che l’approccio BCI possa un giorno non solo sostituire funzioni motorie lese, ma dotare il soggetto di facoltà motorie non preesistenti (per es., la generazione di una rappresentazione corticale di un arto aggiuntivo).

Per un approccio sistematico alla BCI è stata, ed è, molto utile la sperimentazione su animali, e in particolare su primati. Il citato esperimento di Nicolelis e Chapin ne ha costituito una prova di fattibilità notevole. Nicolelis e Chapin riferiscono che la scimmia apprende il compito (sovrapporre un cursore a un bersaglio mobile sullo schermo di un computer) controllando il cursore con un joystick. Lo sperimentatore nel frattempo registra e decodifica l’attività nervosa corrispondente, finché collega il cursore all’output della decodifica, sottraendolo al controllo del joystick. Sorprendentemente, a un certo punto la scimmia si rende conto che non è più necessario muovere effettivamente il joystick per svolgere il compito e centrare il bersaglio sullo schermo, ma è sufficiente pensare il movimento, e smette di muovere il braccio, continuando a svolgere il compito con successo.

Il successo nella decodifica del segnale nervoso associato all’intenzione di movimento non implica la comprensione dei meccanismi di elaborazione sottesi: rimane da capire il modo in cui, nella programmazione dell’atto motorio, il cervello integra le informazioni visive (per es., sul bersaglio e sulla posizione del cursore, nel caso dell’esperimento di Nicolelis e Chapin) e quelle propriocettive. L’approccio seguito è in qualche modo ‘di forza bruta’: si ricostruiscono le regolarità nelle corrispondenze tra i pattern di attività neuronale registrata e i movimenti generati, un po’ come uno sperimentatore realizza il migliore fit di dati per ricostruire la dipendenza tra due grandezze, in assenza di un modello che ne descriva la relazione causale.

Anche nell’ambito delle registrazioni invasive, inoltre, vi sono ancora ricerca e dibattito sui segnali e i siti corticali di registrazione ottimali ai fini di una BCI. Al CalTech (California institute of Technology) il gruppo capeggiato da Richard A. Andersen (professore di neuroscienze in quell’istituto) esplora, per es., l’utilità di segnali di più ‘alto livello’ (registrati cioè in aree più precoci rispetto alla programmazione motoria vera e propria, come quelle parietali, associate, per es., all’obiettivo del movimento), nella prospettiva di ‘dispositivi prostetici cognitivi’ (Andersen, Musallam, Pesaran 2004). Andersen ha inoltre argomentato in modo convincente che i ‘campi locali’, cioè i segnali che fornisco­no un’informazione integrata sull’attività di popolazioni neuronali senza dover ricostruire l’attività dei singoli neuroni coinvolti, sono idonei allo scopo; questo probabilmente renderebbe più stabile la registrazione su lunghe scale di tempo e più facile il controllo della BCI.

Stimolazione del tessuto nervoso

In molti Paesi, quasi l’1% della popolazione anziana soffre della malattia di Parkinson, progressiva e fortemente invalidante. Tra i sintomi più evidenti, compaiono e si sviluppano nelle diverse fasi della malattia disordini motori di varia natura: tremori incontrollabili, difficoltà a iniziare i movimenti (acinesie) o incapacità di controllare movimenti involontari e anormali (discinesie). Una zona del cervello (detta substantia nigra) è sistematicamente colpita nei pazienti con questo tipo di patologia; essa produce una sostanza, la dopamina, coinvolta in una molteplicità di processi in varie aree del cervello, e il manifestarsi della malattia è stato associato al difetto di produzione di dopamina (l’ossidazione di questa determina il colore del tessuto nervoso in questa zona, quando osservato ex vivo, il che ne ha suggerito il nome). La substantia nigra fa parte di un complesso di strutture subcorticali, collettivamente chiamate gangli della base.

Nella terapia della malattia di Parkinson, l’opzione chirurgica venne suggerita (com’è spesso accaduto) dall’osservazione accidentale: una riduzione del tremore conseguente a un piccolo danno chirurgico involontario. La lesione chirurgica mirata di alcune strutture dei gangli della base è stata in effetti adottata, con successi statisticamente non ottimali. Una strategia alternativa, che è diventata di gran lunga prevalente, si basa sull’ipotesi naturale che, se la malattia ha origine da un difetto di produzione di dopamina, riequilibrare la concentrazione di questa sostanza nel cervello compenserebbe gli effetti patologici; la disponibilità di una sostanza (la levodopa, o L-DOPA) somministrabile a livello sistemico, il cui metabolismo determina un aumento di dopamina nel cervello, ha fornito una reale opzione terapeutica. Gli effetti collaterali non sono però trascurabili: con il tempo, possono comparire sintomi psicotici, e anche discinesie. In effetti, farmaci che bloccano i recettori della dopamina sono utilizzati nella terapia di pazienti psicotici, e non è sorprendente che un aumento indiscriminato di dopamina, data la molteplicità di azioni esercitate da questo neuromodulatore, possa generare patologie che normalmente si curano inibendone l’attività.

Una nuova opzione terapeutica è stata proposta verso la metà degli anni Ottanta, ancora una volta grazie a un’osservazione accidentale: la diminuzione dei tremori in un malato sottoposto a intervento chirurgico, durante una fase esplorativa di stimolazione elettrica volta a identificare con precisione il sito ottimale della lesione chirurgica (il paziente era sveglio, non avvertiva dolore e le sue reazioni potevano essere monitorate). Questa osservazione suggerì che la stimolazione elettrica mirata di alcune strutture dei gangli della base (la DBS, Deep Brain Stimulation) potesse avere effetti equivalenti a quelli dell’azione chirurgica distruttiva, con minore impatto e rischio per il paziente. Questa strategia è stata coronata da un successo inaspettato: oggi alcune decine di migliaia di pazienti parkinsoniani vivono con elettrodi di stimolazione permanentemente impiantati e pilotati da dispositivi sottocutanei, e in molti casi il controllo dei disordini motori è stupefacente, con rischi ed effetti collaterali contenuti (Benabid 2003). Bisogna considerare che non tutti i pazienti parkinsoniani sono candidabili per un intervento di DBS, e che questa strategia, comunque, non costituisce una cura, ma un intervento di controllo di alcuni sintomi, e non sempre si sostituisce completamente alla terapia farmacologica. Attualmente la DBS costituisce, comunque una reale opzione, soprattutto per pazienti ai quali i farmaci hanno provocato problemi di tolleranza o per i quali si sono rivelati poco efficaci.

Questo breve resoconto di un’indubbia storia di successi trova spazio in questo saggio per un motivo importante: non si sa tuttora perché la stimolazione elettrica dei gangli della base sia efficace. Le strategie terapeutiche che utilizzano questa tecnica si sono basate essenzialmente su ‘prove ed errori’, variando i parametri della stimolazione (sequenze di impulsi di variabile ampiezza, durata e frequenza, stimolazione unipolare o bipolare), adattandoli al paziente per ottenere risultati ottimali. L’idea iniziale, secondo la quale la stimolazione elettrica aveva essenzialmente lo stesso effetto della lesione chirurgica, non può essere adottata alla leggera, se non altro perché, al contrario della lesione chirurgica, la stimolazione elettrica è reversibile: se si interrompe, i suoi effetti scompaiono. I meccanismi di azione della DBS sono tuttora oggetto di intensa ricerca e di acceso dibattito, e viene pubblicato ogni anno un gran numero di articoli scientifici riguardanti questo argomento.

In pazienti affetti da depressione, si è osservato che la DBS di alcune regioni subcorticali allevia in qualche misura i sintomi, e pazienti ossessivo-compulsivi ne hanno tratto vantaggio.

Per quanto riguarda il talamo (un insieme di strutture subcorticali che costituisce la via principale di ingresso dell’informazione sensoriale nel cervello), la DBS ha mostrato qualche parziale successo in pazienti in coma postraumatico. Il controllo mediante DBS delle crisi in pazienti epilettici è un’opzione attualmente considerata con interesse.

Quanto riportato vale a indicare come la DBS appaia attualmente un’alternativa terapeutica interessante in una notevole varietà di patologie, anche se in molti casi viene ancora considerata sperimentale e non elettiva. Una valutazione delle prospettive cliniche andrebbe oltre l’ambito di questa rassegna; quanto sopra vuole indicare due cose: la prima è che la stimolazione elettrica sembra produrre effetti molto diversi, dal punto di vista comportamentale e cognitivo, variando di pochissimo il sito di stimolazione e i suoi parametri, confermando la parcellizzazione di competenze e la ricchezza di interconnessioni delle corrispondenti popolazioni neuronali; la difficoltà di un approccio sistematico alla DBS risulta in questo senso un banale riflesso della nostra ignoranza dei meccanismi di elaborazione e comunicazione nel cervello. In secondo luogo, comunque, tale approccio sistematico non potrà prescindere da un intenso lavoro di ricerca di base volto a chiarire i meccanismi d’azione della stimolazione diretta del tessuto nervoso.

Tale strategia sta aprendo prospettive che vanno molto al di là del ruolo terapeutico della DBS fin qui considerato. Il tema si intreccia con quello delle BCI, nel senso che la stimolazione può mirare al recupero o alla sostituzione di una funzione persa a causa di traumi o patologie. Nel caso delle BCI, lo scopo primario è quello di fornire a un’attività cerebrale integra un canale di output alternativo a quello fisiologico (motorio) compromesso. Sono anche allo studio, e hanno dimostrato potenzialità promettenti, dispositivi ‘neuroprostetici’ che si collocano all’altro estremo della catena di elaborazione cerebrale, e cioè la prima elaborazione sensoriale (per es., impianti cocleari o retinici), con i quali si intendono sostituire le proprietà di trasduzione dei segnali sensoriali da parte delle strutture che convogliano poi l’informazione agli stadi successivi di elaborazione.

È invece molto diverso il caso dei pazienti (che hanno sofferto, per es., danni da ictus) in cui l’attività di aree del cervello viene direttamente compromessa, e le usuali strategie riabilitative ottengono spesso risultati insoddisfacenti. Per il recupero di funzioni cerebrali compromesse, si sono affacciate di recente proposte innovative e affascinanti che, in una prospettiva di lungo termine, mirano a un approccio in cui si integrano la stimolazione elettrica del tessuto nervoso e l’accoppiamento diretto tra tessuto nervoso e dispositivi microelettronici. In questo senso si intravede per il futuro la convergenza tra linee di sviluppo ancora embrionali e in parte separate, di cui nel prosieguo di questo saggio verrà fornita una panoramica attraverso alcuni esempi rappresentativi.

Sebbene i meccanismi siano ancora in gran parte da capire, la stimolazione elettrica diretta del tessuto nervoso modula l’attività dei neuroni coinvolti in maniera complicata, in funzione dei parametri e del sito di stimolazione. D’altra parte, secondo un’idea ormai acquisita in neurofisiologia, l’attività neuronale influenza le modificazioni nel tempo delle sinapsi, vale a dire delle giunzioni di comunicazione tra i neuroni. Si pensa che l’interazione con il mondo esterno (per es., gli stimoli sensoriali e la loro eventuale relazione con le azioni precedentemente compiute) e con il ‘mondo interno’ (la successione di stati mentali, con i pattern di attività neuronale corrispondenti), modulando continuamente l’attività dei neuroni, induca cambiamenti selettivi nell’‘efficacia’ sinaptica con cui i segnali vengono scambiati tra i neuroni; ciò a sua volta cambierà l’attività neuronale connessa a una condizione sensoriale o mentale, e in questo ciclo continuo si esprimerebbe la plasticità che il cervello esibisce nell’adattarsi alle condizioni ambientali, nel pianificare decisioni appropriate, nel memorizzare e apprendere informazioni e le relazioni tra queste.

In particolare, appare acquisito che l’efficacia di una sinapsi aumenta (e quindi la trasmissione di informazione dal neurone presinaptico a quello postsinaptico è resa più efficace) quando il neurone pre- e quello postsinaptico sono entrambi ripetutamente attivi in una finestra temporale opportuna (la cosiddetta plasticità hebbiana, dal nome del neuropsicologo Donald Hebb che alla fine degli anni Quaranta concepì un meccanismo di questo tipo sotteso alla plasticità cerebrale). I dettagli delle condizioni che consentono questo potenziamento sinaptico (e il processo in qualche misura simmetrico di depotenziamento sinaptico) sono ancora oggetto di studio, e non è possibile in questa sede neanche riassumere lo stato della ricerca in tale ambito. È sufficiente accennare qui al fatto che, per scelte specifiche dei protocolli di stimolazione dei neuroni pre- e postsinaptici in vitro, si è osservato sistematicamente un potenziamento sina­ptico quando gli impulsi generati dal neurone presinaptico precedono di una decina di millisecondi gli impulsi emessi dal neurone postsinaptico.

In un interessante esperimento, un gruppo guidato da Eberhard E. Fetz presso la University of Washington ha dimostrato come sia possibile indurre, mediante stimolazione elettrica diretta del tessuto nervoso, plasticità hebbiana in vivo, e osservarne un correlato comportamentale (Jackson, Mavoori, Fetz 2006). Questi ricercatori hanno infatti mostrato come risulti possibile indurre una riorganizzazione dell’output della corteccia motoria di una scimmia accoppiandone due siti mediante stimolazioni elettriche, mentre l’animale si comporta liberamente. In breve, dopo avere monitorato mediante elettromiografia i pattern motori relativi al polso, utilizzando microstimolazioni sotto soglia (in grado cioè di attivare selettivamente i muscoli del polso, senza provocare il movimento) di due siti nella corteccia motoria responsabili per i movimenti del polso, i ricercatori hanno registrato gli impulsi emessi da neuroni vicini a uno dei siti corticali scelti, e li hanno inviati a un microchip che generava per ogni impulso registrato un impulso di stimolazione indirizzato al secondo sito. In questo modo si intendeva ricreare in vivo una delle condizioni che, come accennato sopra, si pensa producano potenziamento sinaptico. Si è osservato che dopo questo ‘condizionamento’, nel quale l’animale si muoveva in libertà senza dovere svolgere alcun compito specifico, gli output associati ai due siti accoppiati erano diventati molto più simili, coerentemente a quanto ci si sarebbe aspettato nel caso di un potenziamento hebbiano di sinapsi esistenti tra i neuroni delle due zone artificialmente accoppiate. Questa riorganizzazione dell’output motorio risultava stabile su tempi lunghi (oltre una settimana). Benché il lavoro citato descriva una ricerca di base, i suoi autori riconoscono esplicitamente le potenzialità connesse alla riabilitazione di pazienti con lesioni cerebrali: «Le connessioni artificiali potrebbero fornire una protesi neurale per sostituire nel sistema nervoso delle vie danneggiate in conseguenza di una lesione. […] La stimolazione in tempo reale attivata a partire dalle registrazioni dell’attività neuronale durante movimenti volontari potrebbe fornire un metodo efficace per rafforzare selettivamente delle vie neuronali specifiche durante la riabilitazione» (Jackson, Mavoori, Fetz 2006, p. 59).

Indubbiamente il risultato appena descritto è notevole, ma è legittimo chiedersi se mirare a una riorganizzazione specifica dei pattern di connessioni sinaptiche sia un obiettivo realistico, almeno a breve termine. La conoscenza, in particolare per la corteccia, dei dettagli della connettività sinaptica non sembra tale da permettere, in generale, una ‘riprogrammazione microscopica’ di zone del cervello, per es. quelle circostanti una lesione ischemica. È comunque legittimo ipotizzare che se, mediante stimolazione, si rende genericamente più eccitabile il tessuto nervoso circostante una lesione, una qualche forma di riorganizzazione sinaptica abbia luogo. È già noto che nella fase postischemica il recupero – spesso molto parziale – è accompagnato da plasticità sinaptica e che nelle zone vicine a una lesione ischemica la componente inibitoria della comunicazione sinaptica è ridotta; una strategia basata sulla stimolazione diretta tenderebbe quindi ad amplificare meccanismi che si attivano spontaneamente o se stimolati dalla riabilitazione, in modo da favorire – come si desidererebbe – la generazione di percorsi vicari.

Un esempio notevole a sostegno del possibile ruolo attivo della stimolazione elettrica diretta di regioni corticali prossimali a una lesione localizzata è dato dal lavoro pubblicato nel 2003 da un gruppo del Medical center della University of Kansas, guidato da Randolph J. Nudo (Plautz, Barbay, Frost et al. 2003). Questi ricercatori, dopo avere addestrato una scimmia in un compito motorio che richiedeva l’uso di una mano, hanno provocato una lesione nella zona della corteccia motoria che esprime la rappresentazione della mano. Dopo un tempo sufficiente a esaurire il recupero spontaneo (la capacità della scimmia di svolgere il compito manuale era comunque rimasta molto bassa), le regioni corticali vicine alla lesione sono state stimolate elettricamente per alcune settimane per mezzo di elettrodi collocati sulla superficie corticale, mentre la scimmia veniva sottoposta a una terapia riabilitativa. Dal punto di vista comportamentale, le prestazioni della scimmia sono significativamente migliorate dopo la fase di stimolazione, ed è stata osservata la ricostituzione di estese aree di rappresentazione della mano nelle aree corticali intorno alla lesione, in particolare in prossimità degli elettrodi di stimolazione. Questi e altri risultati suggeriscono che l’adozione combinata di stimolazione elettrica (che renda il tessuto più eccitabile e disponibile a una riorganizzazione sinaptica) e di terapia riabilitativa (che fornisca un contesto comportamentale per indirizzare la riorganizzazione sinaptica) potrebbe facilitare e accelerare il recupero della funzione motoria compromessa e migliorare in modo significativo l’esito finale (Brown, Lutsep, Weinand, Cramer 2006).

Si noti che nei casi descritti la procedura di stimolazione è ‘ad anello aperto’, nel senso che viene deciso un protocollo per la stimolazione e i parametri fisici di questa, e se ne osserva l’esito finale; non esiste alcun feedback (come la registrazione dell’attività nervosa durante il periodo di stimolazione) disponile per l’adattamento dinamico del pattern di stimolazione alla risposta del tessuto nervoso, presumibilmente molto variabile a seconda dell’area cerebrale coinvolta e dipendente dal soggetto. È naturale pensare che il sistema potrebbe risultare più flessibile ed efficace, se si potessero accoppiare in loop chiuso la stimolazione elettrica e la registrazione dell’attività nervosa attraverso un dispositivo ‘intelligente’ in grado di usare in tempo reale le informazioni acquisite sulla seconda per ottimizzare i parametri della prima.

Lo stesso vale per possibili dispositivi dedicati al controllo delle crisi epilettiche, che si potrebbero basare non su una strategia di stimolazione cronica, ma su stimolazioni attivate da un dispositivo intelligente, a sua volta ‘allertato’ da segni anticipatori della crisi imminente sulla base dei segnali registrati in tempo reale (va detto a questo proposito che è tuttora aperto il problema, molto studiato, del riconoscimento affidabile dei segni anticipatori della crisi epilettica).

Queste osservazioni suggeriscono la possibile utilità di accoppiare il tessuto nervoso con dispositivi artificiali di registrazione/stimolazione.

Chip neuromorfi ed emulazione dell’attività nervosa

In qualunque senso specifico si intenda il termine emulare, è chiaro che esso implica un qualche livello di comprensione del funzionamento del sistema di cui si intende emulare il comportamento e la disponibilità di dispositivi di complessità e flessibilità adeguati.

Partiamo da un ‘motore euristico’ molto utilizzato: le simulazioni al computer. Immaginando di disporre di un buon modello teorico del comportamento dinamico del sistema neuronale in questione, le simulazioni numeriche al computer giocano un ruolo importante nella sua comprensione. La capacità di ricavare analiticamente le implicazioni dei modelli matematici è limitata, e le simulazioni svolgono la funzione di veri e propri ‘esperimenti in silico’, svolgendo una funzione euristica insostituibile nella validazione dei modelli e nella comprensione delle loro implicazioni.

Il livello di descrizione a cui si colloca la simulazione è una scelta importante. Molte simulazioni implementano modelli di neuroni e sinapsi molto semplificati, e mantengono un legame stretto con lo schema teorico; la complessità della simulazione cresce di pari passo all’evoluzione della descrizione teorica.

Esistono approcci più ambiziosi: nel 2005, presso l’École polytechnique fédérale di Losanna, è stato avviato, in collaborazione con l’IBM, un progetto (Blue brain project) che, utilizzando il supercomputer parallelo Blue Gene, con 8192 processori, mira a realizzare una simulazione realistica di un tipico modulo corticale (decine di migliaia di neuroni), includendo nella simulazione il maggiore numero possibile di dettagli morfologici e biofisici. Una tale simulazione realistica potrà svolgere in qualche caso una funzione sostitutiva dell’esperimento, o più probabilmente facilitare la concezione di esperimenti mirati a chiarire specifici aspetti; il leader del progetto, Henry Markram, ne definisce lo scopo come una ‘ingegneria inversa’ del cervello. D’altra parte, una critica all’approccio si basa sul fatto ovvio che un’ipotetica ‘supersimulazione’ in grado di incorporare ogni dettaglio del sistema simulato avrebbe una complessità confrontabile a quella del sistema stesso, e non aiuterebbe realmente a comprenderne la logica.

Probabilmente è corretto dire che il livello di descrizione a cui si colloca la simulazione non dovrebbe allontanarsi troppo da ciò che può essere incorporato nella formulazione teorica, in modo da mantenere con questa un rapporto di reciproca interazione.

Un’opzione diversa si basa non sulla simulazione, ma sulla realizzazione elettronica di sistemi neuromorfi, intesi come una vera e propria materializzazione del modello su silicio (e non una sua metafora digitale come nella simulazione al computer), in grado di emularne il comportamento in tempo reale (e in tempo reale interagire con l’ambiente).

Nei chip neuromorfi, i modelli di neuroni e sinapsi sono realizzati attraverso circuiti analogici che ne riproducono la dinamica; nella formulazione pionieristica che nel 1989 Carver Mead (CalTech) illustrò nel libro Analog VLSI and neural systems, si poneva grande enfasi sul fatto che, utilizzando un particolare transistor in regime sotto-soglia, alcune primitive computazionali necessarie all’implementazione dei modelli erano automaticamente disponibili.

Questo settore di ricerca si colloca in una posizione intermedia tra la ricerca di base e le applicazioni ingegneristiche: alcune sue motivazioni derivano dalle seconde, mentre la magmaticità del suo sviluppo appartiene senz’altro alla prima.

Una rete neuronale su chip neuromorfo non è, come accade anche per i complicatissimi chip digitali che fanno funzionare i nostri computer, una macchina a stati finiti, cioè un automa che a seconda delle condizioni passa deterministicamente da uno stato a un altro in un repertorio definito. L’elettronica è analogica, il chip spesso si interfaccia con sorgenti ‘naturali’ (visive, sonore) e, a seconda dell’architettura e del modello implementato, il repertorio dei comportamenti dinamici esibiti può essere molto ricco. In altre parole, effettuare esperimenti con un chip neuromorfo implica una comprensione della dinamica del sistema implementato che va molto al di là della conoscenza elettronica dei circuiti realizzati, e richiede un dialogo continuo con la teoria.

Nei dispositivi neuromorfi convivono oggi l’ambizione di costruire in prospettiva una vera e propria ‘neurofisiologia su silicio’, e l’obiettivo di sviluppare dispositivi semplici, di basso costo e di bassissimo consumo, che realizzano (mantenendo una qualche ispirazione al funzionamento del sistema nervoso) prestazioni competitive rispetto ad approcci convenzionali (Del Giudice 2006; Indiveri, Chicca, Douglas 2009).

È interessante, dal punto di vista sia applicativo sia della ricerca di base, il fatto che in un sistema neuromorfo possono coesistere nello stesso hardware stadi ‘sensoriali’ e stadi di elaborazione. Inoltre, come nel sistema nervoso reale, la comunicazione tra gli elementi del sistema è asincrona (la dinamica del sistema non possiede un ‘orologio’ che temporizzi gli eventi, un’altra differenza importante rispetto al mondo digitale) e basata su spikes (impulsi) stereotipati, con uno schema ‘uno a molti’ (ogni spike generato viene indirizzato in generale a molti destinatari).

Il sistema deve quindi gestire un onere di comunicazione rilevante che nel cervello si avvale di un livello molto elevato di connettività fisica tra i neuroni. Sono state quindi elaborate strategie di comunicazione per i sistemi neuromorfi che, mantenendo il carattere impulsivo e asincrono della comunicazione tra i neuroni, cercano di compensare l’attuale impossibilità di duplicare il livello di connettività del sistema nervoso. Uno schema di comunicazione di questo tipo (AER, Address-Event Representation), proposto originariamente nel 1993, ha trovato diverse applicazio­ni. Recenti sviluppi stanno arricchendo lo schema AER della possibilità di gestione programmata, interfacciando il sistema neuromorfo con un computer, in modo da potere pianificare e gestire dei veri e propri ‘esperimenti’ complessi su sistemi neuromorfi. Altre possibilità sono allo studio per superare il collo di bottiglia costituito dalla connettività sinaptica su chip, tra cui la realizzazione di chip tridimensionali.

Nella prospettiva di veri e propri dispositivi ‘neuromimetici’, appaiono molto interessanti alcuni tentativi di integrazione tra chip neuromorfi e dispositivi di stimolazione elettrica del tessuto nervoso. Si tratta del tentativo di sostituzione funzionale di porzioni di tessuto nervoso lese mediante l’inserimento di dispositivi elettronici neuromorfi in grado di realizzare la stessa relazione input-output della regione lesa e inattiva. Questa strategia, ambiziosa e apparentemente visionaria, viene già adottata seriamente da diversi gruppi di ricerca.

Tenendo conto dell’enorme complessità della connettività sinaptica nella corteccia, e della difficoltà di isolare le vie di input e di output di una specifica popolazione neuronale corrispondente alla regione lesa, appare naturale – come di fatto è avvenuto – avvicinarsi al problema partendo da regioni cerebrali che da un lato siano rappresentative di situazioni patologiche di interesse, dall’altro posseggano un’organizzazione sinaptica nota e più semplice di quella corticale. In effetti, due sistemi considerati recentemente da gruppi impegnati in questa linea di ricerca sono l’ippocampo e il cervelletto.

Ippocampo

Questa struttura subcorticale è coinvolta in una molteplicità di funzioni, tra cui la memoria ‘episodica’ e la memoria spaziale.

L’organizzazione sinaptica dell’ippocampo comprende tre regioni tra loro collegate secondo un sistema a cascata: la prima, il ‘giro dentato’, riceve informazioni dalla corteccia e forma connessioni sinaptiche con l’area successiva, CA3. I neuroni di CA3 ricevono anche input corticale diretto, e formano connessioni ricorrenti tra loro, costituendo una rete con feedback elevato, fittamente interconnessa. CA3 inoltre si connette sinapticamente con la terza regione, CA1, che a sua volta restituisce informazioni a molte aree della corteccia.

Un gruppo della University of South California, guidato da Theodore W. Berger, sta studiando la possibilità di sostituzione funzionale (in vitro) di una porzione della regione CA3 con un dispositivo microelettronico (Berger, Chapin, Gerhardt et al. 2008). Il progetto si propone di dimostrare la fattibilità, in prospettiva, di un dispositivo prostetico bidirezionale in grado di sostituire una funzione cognitiva compromessa, ampliando così notevolmente l’ambito applicativo rispetto ai dispositivi prostetici puramente sensoriali o motori.

Il progetto contempla l’utilizzo di una preparazione di tessuto ippocampale in vitro, e prevede: a) la caratterizzazione delle proprietà dinamiche input-output della regione in questione sulla base di registrazioni elettrofisiologiche, e la determinazione in forma matematica della corrispondente funzione di trasferimento; b) l’eliminazione chirurgica della porzione di tessuto nell’area CA3; c) la progettazione di un dispositivo elettronico che realizzi in tempo reale la dinamica prevista dal modello matematico; d) la generazione dei segnali che emulano l’output di CA3.

Sebbene il progetto non preveda un’emulazione della funzione lesa sulla base di un modello microscopico, esso rappresenta un tentativo pionieristico nella direzione dell’emulazione e sostituzione di una funzione cognitiva complessa.

Cervelletto

Un altro progetto multicentrico, ReNaChip, iniziato nel 2008 e finanziato dall’Unione Europea, mira a dimostrare la possibilità di sostituzione funzionale di una porzione di tessuto nel cervelletto.

Il cervelletto è anch’esso coinvolto in una varietà di funzioni, tra cui l’apprendimento di movimenti complessi e il controllo della loro esecuzione fluida e ‘automatica’, l’apprendimento associativo di movimenti discreti e, in generale, diversi aspetti della memoria ‘procedurale’.

Una lunga serie di esperimenti ha dimostrato negli scorsi decenni che il cervelletto è in particolare coinvolto nell’apprendimento pavloviano di una risposta motoria discreta. In un classico esempio, a un animale (in genere un coniglio o un ratto) vengono sottoposti ripetutamente in sequenza un suono e, con un ritardo, un fastidioso soffio d’aria nell’occhio che stimola la chiusura della palpebra. Secondo il paradigma di condizionamento classico, dopo un po’ l’animale impara a interpretare il suono come un segnale predittivo dello stimolo sgradevole, e chiude la palpebra prima che arrivi il soffio. I circuiti nervosi coinvolti nell’apprendimento e nell’esecuzione di questa risposta motoria condizionata sono oggi ben compresi, e coinvolgono una serie di popolazioni neuronali nel cervelletto. In particolare, se l’intervallo tra il suono e il soffio è abbastanza lungo, l’animale può essere condizionato a chiudere la palpebra solo alla fine dell’intervallo, appena prima del soffio. Il cervelletto gioca un ruolo specifico nell’apprendimento di questa temporizzazione, e una lesione impedisce all’animale di apprenderla. Il progetto ReNaChip prevede: la lesione localizzata e specifica di una popolazione neuronale nel cervelletto; lo sviluppo di micro- e nanoelettrodi per la registrazione cronica dell’attività nervosa che codifica l’input (sensoriale) all’area considerata, e lo sviluppo di tecniche di analisi del segnale per il riconoscimento e l’isolamento degli eventi sensoriali; la codifica degli eventi sensoriali come input del chip neuromorfo pensato in funzione sostitutiva della regione lesa coinvolta nel condizionamento, sulla base di un modello teorico; la realizzazione di una corrispondenza soddisfacente tra il comportamento dinamico del chip e quello della popolazione neuronale lesa; la conversione dell’output del chip per l’inoltro alle regioni bersaglio della zona lesa (nuclei motori del tronco encefalico), allo scopo di indurre la risposta motoria appresa.

In altre parole: l’animale, incapace dopo la lesione di apprendere la temporizzazione della risposta condizionata, dovrebbe recuperare tale capacità ed esprimere il comportamento corrispondente.

Il successo, anche parziale, di un simile progetto, costituirebbe un passo in avanti nella dimostrazione della fattibilità di sistemi ibridi in cui chip neuromorfi che emulano le proprietà di elaborazione di specifiche popolazioni neuronali sono accoppiati cronicamente al tessuto nervoso in modo da sostituire una funzione compromessa da una lesione localizzata.

Una teoria necessaria

Queste linee di ricerca coprono un orizzonte molto vasto di problemi aperti: a) la decodifica dell’attività neuronale associata non soltanto all’intenzione motoria, ma anche ai processi di integrazione senso-motoria e ai processi di decisione; b) lo sviluppo di sistemi BCI a loop chiuso in grado di sfruttare efficacemente l’adattamento dell’attività neuronale in funzione del feedback sull’azione motoria effettuata; c) la comprensione dei meccanismi di azione della stimolazione diretta del tessuto nervoso a diverse scale, e in particolare dei processi di plasticità sinaptica associati; d) lo sviluppo tecnologico di sistemi impiantabili, cronicamente di minimo impatto e stabili per quanto riguarda la qualità del segnale registrato; e) lo sviluppo di sistemi microelettronici neuromorfi in grado di emulare adeguatamente l’attività delle popolazioni neuronali di cui si vuole la sostituzione funzionale. In molti di questi ambiti, il semplice accumulo di conoscenza empirica ottenuto da approcci euristici al problema non sarà probabilmente sufficiente. Il sistema è molto complicato e delicato, e sarebbe utile una buona bussola per navigare in mari così vasti e pericolosi: una teoria.

Una teoria matura, in grado di fornire un approccio sistematico e predittivo a problemi così complessi, non è ancora a nostra disposizione. La molteplicità di scale spaziali e temporali coinvolte è certamente una delle maggiori difficoltà che si incontrano nello sviluppo di un approccio teorico alla dinamica di popolazioni neuronali: si va dalla scala della singola sinapsi a quella del singolo neurone, a quella di microcircuiti neuronali (per es., le microcolonne, comprendenti decine di migliaia di neuroni), a quella di aree comprendenti decine di milioni di neuroni e comunicanti tra loro in modo complicato; e ancora, dalla scala temporale dei millisecondi, caratteristica della dinamica dei canali ionici della membrana neuronale, a quella, invece, dei secondi per le funzioni cognitive complesse, alle scale caratteristiche dei processi di regolazione ormonale dell’attività nervosa.

Modelli teorici che descrivano a un livello macroscopico funzioni cognitive complesse risultano spesso troppo generici, cioè troppo poco vincolati dalla corrispondenza tra le loro predizioni e i dati sperimentali; modelli microscopici, che incorporino la conoscenza biofisica dettagliata della dinamica del singolo neurone, e magari una descrizione particolareggiata dei processi biochimici sinaptici, sono decisamente troppo complessi per prestarsi alla descrizione di sistemi con numeri elevatissimi di neuroni e sinapsi. Appare naturale immaginare una gerarchia di descrizioni teoriche, dal livello microscopico a quello macroscopico, passando per una serie di livelli ‘mesoscopici’, in cui nel passaggio da un livello a quello successivo della gerarchia la descrizione più fine del primo vincoli la definizione degli elementi nel secondo, conservando, sebbene a spese del ‘potere risolutivo’, l’aggancio con la biologia e la fisica degli elementi costitutivi del sistema.

Un tale processo di riduzione gerarchica è stato spesso completato con successo in fisica; il caso in esame è per molti versi più complicato, ma non è probabilmente una coincidenza se in questa fase esplosiva di ricerca interdisciplinare in neuroscienze un buon numero di ricercatori provenienti dalla fisica teorica ha fatto della ‘neuroscienza teorica’ il proprio soggetto principale di ricerca.

Una strategia utile (peraltro già ampiamente adottata) per la definizione dei modelli consiste nell’allestire una gerarchia di tecniche sperimentali in grado di sondare l’attività del tessuto nervoso a diverse scale spaziali e temporali. Passi veloci in avanti su questa strada sono stati compiuti negli ultimi anni, e molte nuove tecniche si sono affiancate a quelle tradizionalmente disponibili: a) la registrazione in vitro del singolo neurone in patch clamp, che dà accesso alla dinamica dei singoli canali ionici di membrana del singolo neurone; b) la registrazione extracellulare (in vitro e in vivo) dell’attività del singolo neurone (e di popolazioni neuronali in prossimità dell’elettrodo); c) la registrazione in vitro da colture neuronali o fettine di tessuto nervoso con matrici di elettrodi (MEA, Multi-Electrode Array), in grado di registrare e/o stimolare elettricamente in modo da ricostruire pattern spazio-temporali di attività; d) la registrazione in vivo con matrici di un centinaio di microelettrodi (come quelli impiantati da Donoghue); e) l’elettroencefalogramma e l’elettrocorticogramma, che forniscono mappe ad alta risoluzione temporale dell’attività elettrica media in porzioni macroscopiche del cervello; f) le diverse tecniche di imaging ottico, che restituiscono con buona risoluzione spaziale informazioni legate all’attività nervosa su larga scala; g) la risonanza magnetica funzionale, che fornisce un segnale dipendente dal livello variabile di ossigenazione del tessuto nervoso (con bassa risoluzione temporale; anche se il legame del segnale con l’attività nervosa è ancora oggetto di studio, questa tecnica è molto utilizzata per la sua non invasività, che la rende idonea a ricerche sull’uomo).

In corrispondenza con l’evolversi delle tecniche sperimentali, modelli teorici sono stati elaborati, a partire dagli anni Cinquanta del 20° sec., per descrivere la dinamica neuronale a diversi livelli. Le equazioni di Hodgkin-Huxley, che descrissero per la prima volta con successo la dinamica dei canali ionici connessa alla generazione dell’impulso da parte del neurone (proprietà attive del neurone); la cosiddetta teoria del cavo, che descrive le proprietà di propagazione di una perturbazione elettrica in una fibra nervosa (proprietà passive del neurone), fino a una serie di modelli che forniscono descrizioni semplificate e sintetiche delle proprietà del singolo neurone. Tra questi, il modello di neurone integrate-and-fire (IF), descritto da una sola variabile dinamica che rappresenta il potenziale di membrana del neurone (puntiforme). Tale potenziale integra nel tempo l’input afferente al neurone (in condizioni fisiologiche, la sequenza di impulsi eccitatori – depolarizzanti – o inibitori – iperpolarizzanti – emessi da altri neuroni, presinaptici rispetto a quello considerato); se il potenziale raggiunge una soglia, l’istante in cui questo avviene definisce il tempo di emissione di un impulso da parte del neurone (il meccanismo di generazione dell’impulso non è esplicitamente incluso nel modello), il potenziale viene riportato a un valore di riferimento e l’integrazione riprende (dopo un ‘periodo refrattario’). Il modello di neurone IF si è dimostrato abbastanza semplice da affrontare la descrizione teorica degli stati di equilibrio e della dinamica collettiva di reti di neuroni tra loro interagenti attraverso connessioni sinaptiche.

Sulla base del modello di neurone IF si sono costruiti con successo modelli di reti complesse di neuroni sinapticamente connessi e se ne sono studiate le proprietà dinamiche in relazione ai profili di attività neuronale osservati in esperimenti di elettrofisiologia in vitro e in vivo. Si sono così caratterizzate le proprietà di trasmissione dell’informazione di una rete di neuroni e le relazioni tra gli stati collettivi di equilibrio della rete e l’evoluzione delle connessioni sinaptiche (per es., secondo il paradigma hebbiano sopra ricordato).

La descrizione dell’elaborazione complessa sottesa a funzioni cognitive, frutto di molte popolazioni neuronali che operano di concerto, è ancora oltre le capacità di descrizione di questo tipo di modelli, e richiederà probabilmente una formulazione a livello gerarchico superiore, in cui, per es., la dinamica di singole popolazioni neuronali possa essere sintetizzata in variabili dinamiche ‘collettive’.

Quale sintesi?

Una descrizione teorica in grado di supportare un approccio sistematico ai temi che abbiamo toccato (BCI, stimolazione del tessuto nervoso a scopo terapeutico e riabilitativo, emulazione dell’attività nervosa in dispositivi elettronici) si troverà necessariamente alla convergenza di sviluppi complementari attualmente abbastanza separati, che affrontano il problema da prospettive e su scale diverse. Da un lato le teorie che cercano di descrivere il comportamento collettivo di popolazioni neuronali come proprietà emergenti di reti in cui, a beneficio della trattabilità del problema, si adotta una semplificazione radicale della dinamica dei singoli neuroni e sinapsi. Dall’altro, approcci sintetici in cui si parte direttamente da una descrizione macroscopica. Tra questi estremi, e le loro molte varianti, continueranno a giocare un ruolo approcci ‘a scatola nera’, in cui si cerca una descrizione fenomenologica della dinamica del sistema neuronale di interesse a partire dalle sue relazioni input-output sperimentalmente determinate, formulate matematicamente e trasferibili poi in dispositivi elettronici o di calcolo.

I progressi nelle tecniche di acquisizione dei segnali associati all’elaborazione nervosa forniscono una cornice sempre più vincolante, e dunque efficace, nel determinare la forma di una teoria dinamica predittiva dell’attività nervosa.

L’evoluzione e l’integrazione dei settori di ricerca, di cui si è fatto cenno in questo breve saggio, richiederanno la formazione di una comunità scientifica nuova, di cui si intravedono già i contorni, composta da ricercatori provenienti da diverse discipline. La necessità di questo processo di integrazione è attualmente ritenuta strategica in diversi Paesi. Si percepisce che a questo fine non bastano iniziative ‘interdisciplinari’ di singoli gruppi, e magari il corrispondente finanziamento delle relative proposte di progetto; è necessario favorire la costituzione di strutture scientifiche stabili capaci di attrarre e dare prospettive a giovani bravi e motivati e in cui, nella chiarezza della missione scientifica e nella quotidiana interazione tra ricercatori con formazione e competenze diverse, si definisca e si consolidi una ‘scienza del cervello’ multidisciplinare in grado di raccogliere le sfide entusiasmanti che ci aspettano.

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