Neuroscienze. Basi biologiche dell'intelligenza

Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (2007)

Neuroscienze. Basi biologiche dell'intelligenza

Carlo Caltagirone

L'intelligenza è uno dei costrutti psicologici più ardui da definire e sintetizzare. Una definizione operativamente valida la descrive come un set di processi cognitivi, schemi logici e schemi comportamentali atti a cogliere gli aspetti rilevanti dei fenomeni e a elaborarli per il conseguimento di un fine specifico, come l'adattamento all'ambiente o la soluzione creativa dei problemi. L'intelligenza sembra configurarsi non come una capacità unitaria e indifferenziata, ma come un insieme di funzioni e abilità necessarie alla sopravvivenza. I modelli cognitivi che ne hanno esaminato la struttura hanno posto l'accento, a seconda delle metodologie di analisi utilizzate, sull'esistenza di un 'fattore generale' e di un certo numero di 'abilità specifiche', oppure sull'esistenza di diverse abilità mentali 'primarie', correlate tra loro ma indipendenti dall'abilità generale.

Tali prospettive sono estremamente rilevanti dal punto di vista neuropsicologico, poiché suggeriscono un coinvolgimento diverso delle strutture cerebrali: nel primo caso, le varie regioni corticali sarebbero equipotenziali per quanto riguarda l'elaborazione della 'capacità generale', o in alternativa quest'ultima sarebbe modulata da una regione cerebrale specifica; nel secondo caso, ogni singola regione corticale rappresenterebbe il substrato neurologico di ogni singola funzione intellettiva. Recenti lavori di neuroimaging hanno fornito ulteriori apporti allo studio dei disturbi intellettivi e delle difficoltà di apprendimento, evidenziando alterazioni metaboliche di diverse aree cerebrali.

Passando all'esame delle determinanti genetiche e ambientali, la consueta dicotomia tra eredità e ambiente appare priva di fondamento, essendo ormai chiaro che allo sviluppo dell'intelligenza concorrono entrambi i fattori. L'approccio sperimentale ha infatti consentito di superare la concezione tradizionale, che riconduceva le differenze intellettive unicamente a un'ipotetica diversità biologica e genetica senza prendere in considerazione la moltitudine di variabili di altra natura che ne caratterizzano lo sviluppo. L'effetto di tale concezione è stato in molti casi quello di favorire una discriminazione di gruppi sociali o razziali culturalmente svantaggiati, in quanto l'ipotesi dell'esistenza di differenze intellettive di tipo costituzionale, e dunque immodificabili e irreversibili, non può che rafforzare lo sviluppo di simili pregiudizi.

Inoltre, se il livello intellettivo fosse espressione del solo potenziale ereditario, esso dovrebbe rimanere immutato per l'intera vita di una persona. Oggi, invece, la ricerca sperimentale riconosce all'intelligenza una natura estremamente complessa e dinamica, che varia non soltanto da persona a persona ma anche nell'arco della vita di uno stesso individuo. Se da un lato è vero che il suo livello tende a stabilizzarsi in corrispondenza di un certo stadio dello sviluppo, dall'altro la concezione per cui l'invecchiamento ne comporta necessariamente un impoverimento è ampiamente superata. Oggi le capacità intellettive vengono infatti suddivise in due categorie, a seconda che subiscano (per es., capacità di acquisire nuove conoscenze, rapidità nei tempi di risposta e memoria a breve termine) oppure non subiscano (per es., memoria a lungo termine e performance alle prove di vocabolario e informazione) un decadimento o deterioramento dovuto all'età.

Per quanto riguarda infine gli strumenti di valutazione dell'intelligenza, ci limitiamo a osservare che, nonostante l'ampia popolarità di cui essi godono e la disponibilità di ottimi valori normativi, gli studi psicometrici utilizzano sempre meno le batterie tradizionali del Wechsler-Bellevue e della WAIS. Ciò è dovuto alle difficoltà di interpretazione dei risultati ottenuti, vista l'attuale tendenza a considerare l'intelligenza non più come una funzione unitaria, e in quanto tale esprimibile tramite un quoziente intellettivo, bensì come una variabile complessa, il cui studio richiede un approccio combinato che utilizzi prove specificamente mirate a indagare aspetti intellettivi distinti.

sommario

1. Definizioni dell'intelligenza. 2. Intelligenza ed eredità. 3. Basi neurologiche dell'intelligenza. □ Bibliografia.

Definizioni dell'intelligenza

Intelligenza e adattamento

L'intelligenza è da sempre un costrutto difficilmente inquadrabile in modo univoco all'interno di una tradizione scientifica che deve basarsi su definizioni ampiamente condivise e su adeguate metododologie d'indagine. In termini generali, essa può essere definita come un set di procedure volte a cogliere tratti rilevanti nei fenomeni e a elaborarli per il conseguimento di un fine specifico (Spinnler 1996). Al pari di altre funzioni cognitive, infatti, l'intelligenza non viene più considerata una funzione unitaria, consistente in un'unica abilità o facoltà mentale (come ritenevano i sostenitori del cosiddetto 'fattore generale') che spiegherebbe da sola i risultati dei più diversi test; al contrario, la concettualizzazione moderna comprende un insieme di schemi comportamentali astratti, utili per elaborare le informazioni al fine di risolvere compiti diversi. In tal senso, per esempio, Daniel N. Stern definisce l'intelligenza come la capacità generale di adattare pensiero e condotta a condizioni nuove, identificandola con la plasticità degli schemi logici e comportamentali.

L'intelligenza rappresenta dunque un insieme variegato di capacità, non riconducibili al comportamento istintivo o abitudinario, finalizzate all'adattamento all'ambiente. Ogni tipo di adattamento biologico implica un rapporto tra organismo e ambiente esterno e da esso deriva da un lato una trasformazione dell'organismo in funzione dell'ambiente, definita da Jean Piaget (1952) 'accomodazione', dall'altro un'incorporazione dell'ambiente nelle strutture cognitive e fisiche preesistenti dell'organismo, chiamata 'assimilazione'. Per Piaget, l'intelligenza consiste nelle operazioni che l'individuo effettua, prima su dati materiali (gli oggetti) e poi su simboli (per es., le parole che li rappresentano), al fine di potersi adattare alla realtà in modo efficace. Se l'adattamento è un processo dialettico di equilibramento tra accomodazione e assimilazione, la funzione dell'intelligenza è quella di regolare tale equilibrio. Operando inizialmente a livello dei processi sensomotori e in seguito di quelli interiorizzati o 'mentalizzati', essa mantiene e regola l'equilibrio dinamico tra condizioni ambientali nuove e schemi di condotta precedentemente acquisiti.

L'intelligenza consiste dunque nel creare nuovi modi per coordinare le azioni. Le azioni interiorizzate (operazioni) sono coordinate in sistemi o strutture d'insieme e hanno la caratteristica della reversibilità. Il carattere peculiare dell'intelligenza è per Piaget proprio questa reversibilità costitutiva delle operazioni: per esempio, nel caso del pensiero matematico, l'addizione e la sottrazione sono reversibili, poiché si tratta della stessa azione orientabile in sensi inversi. Al contrario, processi come la percezione, la memoria, le associazioni o l'abitudine sono irreversibili: per esempio, la capacità di scrivere da sinistra a destra non implica quella di scrivere da destra a sinistra. La reversibilità dell'intelligenza è sinonimo di flessibilità cognitiva ed è legata a una proprietà fondamentale di equilibrio dinamico, reversibile per sua stessa natura.

Problem solving e creatività

La nozione di intelligenza comprende molteplici capacità, come le abilità mnestiche e di apprendimento (→ apprendimento: basi biologiche e apprendimento: basi molecolari) e quelle di problem solving che, pur non potendosi identificare tout court con essa, ne costituiscono indubbiamente i prerequisiti. L'insieme dei processi cognitivi e delle condotte che concorrono al comportamento di soluzione dei problemi è dunque uno degli elementi intrinseci alla definizione di intelligenza. Secondo Edouard Claparède, l'intelligenza è la capacità di risolvere problemi con l'aiuto del pensiero, e ciò richiede creatività, ovvero la capacità di costruire schemi originali e regole nuove e flessibili. Per Guilfotd e Hoepfner, il pensiero creativo consiste in un processo di assimilazione e di modifica della struttura logica di un problema che passa attraverso varie tappe: sensibilità alle dinamiche centrali del problema, fluidità ideativa, flessibilità nella manipolazione delle immagini mentali e originalità. Secondo Ulric Neisser, l'intelligenza permette di ristrutturare i dati di un problema attraverso processi sintetici, intuitivi e creativi, oltre che di tipo logico-analitico. Secondo la teoria strutturalista della Gestalt, infine, si può parlare di una 'intelligenza creativa', che permette di riorganizzare in modo alternativo una percezione a partire da una visione sintetica delle proprietà dell'oggetto; a essa si contrappone una 'intelligenza logica di tipo astratto', che permette di esaminare un evento in modo analitico.

L'intelligenza implica quindi un uso produttivo del pensiero e determina un'innovazione comportamentale che si oppone alla tendenza a riproporre in modo meccanico gli schemi già appresi in precedenza. Nell'attività di problem solving si attuano processi di autoorganizzazione e ristrutturazione del problema che modificano il rapporto tra soggetto e oggetto. Per esempio, il procedimento per insight studiato da Wolfgang Köhler consiste in operazioni mentali di riorganizzazione cognitiva del 'campo percettivo' che rendono possibile l'acquisizione immediata della consapevolezza di una nuova relazione tra gli elementi del campo stesso. Una volta superati alcuni step fondamentali la soluzione arriva rapidamente, a meno che non intervenga una 'fissazione funzionale', o effetto Einstellung, nel qual caso la ristrutturazione produttiva viene ostacolata da una distorsione funzionale, dovuta a sua volta a fattori come l'esperienza passata o la complessità del problema.

Il comportamento manifesto di problem solving è stato studiato anche da parte delle teorie comportamentiste, con particolare riguardo ai processi analitici di soluzione di problemi mediante procedimento 'per prove ed errori'. Tale procedimento, caratterizzato da buone probabilità di successo rapido, si contrappone a quello per insight, che ha tempi di soluzione estremamente variabili. Il cognitivismo, integrando le tradizioni del comportamentismo e dello strutturalismo, ha inserito all'interno del nesso deterministico stimolo-risposta il ruolo dei processi di elaborazione delle informazioni, per cui la soluzione di un problema è vista come l'esito di complessi processi cognitivi. I primi tentativi di elaborare modelli per schematizzare i processi di elaborazione cognitiva nelle attività di problem solving sono stati quelli di Allen Newell e Herbert A. Simon. Essi hanno condotto negli anni Ottanta allo sviluppo di tentativi di descrivere le attività cognitive complesse nell'ambito della modellistica e della simulazione e una serie di ricerche sull'intelligenza artificiale. L'insoddisfazione dovuta ai limiti intrinseci all'analogia mente-computer ha portato infine al fiorire di ricerche maggiormente incentrate sul ruolo della logica soggettiva nel procedimento di problem solving, all'uso dell'autoosservazione nella formulazione delle ipotesi e alla considerazione del legame tra gli aspetti cognitivi e quelli affettivi, motivazionali ed emozionali.

Intelligenza ed eredità

Numerosi studi hanno cercato di chiarire quali siano le basi genetiche dell'intelligenza. Secondo la moderna prospettiva biologica, essa è una sorta di 'costruzione' operata dall'individuo sulla base del suo patrimonio genetico, ma con il continuo apporto dall'ambiente circostante. Se è assodato che i fattori ereditari e quelli ambientali concorrono nel determinare lo sviluppo dell'intelligenza, occorre ancora chiarire in che misura vadano attribuite agli uni o agli altri le differenze intellettive tra individui. È opportuno precisare che per 'ambiente' si intende un insieme di fattori estremamente diversi, che hanno in comune la caratteristica di non essere trasmessi geneticamente. Al contrario, per eredità la biologia moderna intende il patrimonio trasmesso dai genitori ai figli attraverso i geni, e più precisamente attraverso le molecole di acido desossiribonucleico (DNA) contenute nei cromosomi. Per quanto riguarda le variabili psicologiche, occorre specificare che non si può parlare di 'eredità psicologica' o 'intellettuale', in quanto a essere ereditati non sono comportamenti od oggetti psichici ma determinanti genetiche. L'influenza dei fattori ereditari si esplica attraverso le strutture e gli apparati fisiologici, che sono però modellati dai fattori ambientali.

Alcuni studi hanno cercato di individuare 'indici di ereditabilità', ossia di calcolare le 'quote' di eredità e di ambiente, attraverso lo studio del rapporto tra grado di parentela e grado di somiglianza psichica. I metodi più usati sono le analisi genealogiche e i confronti, per esempio, tra figli e genitori adottivi o non adottivi. Un metodo frequentemente utilizzato, forse il più rigoroso benché non esente da errori, è quello dei gemelli, inaugurato da Francis Galton nel 1875. Esso consiste nel paragonare una popolazione di gemelli monozigoti a una di gemelli dizigoti. Nei gemelli monozigoti e dizigoti allevati nello stesso ambiente familiare si può infatti ipotizzare che le differenze di intelligenza dovute a differenze ambientali siano equivalenti. A tali differenze si aggiungono nel caso dei gemelli dizigoti quelle dovute all'eredità genetica. Sottraendo le differenze osservate nella popolazione dei monozigoti (varianza del gruppo dei monozigoti, Vmz) da quelle osservate nella popolazione dei dizigoti (varianza del gruppo dei dizigoti, Vdz) si ottiene un parametro che può essere utilizzato come indice di ereditabilità (H=Vdz−Vmz, dove H sta per heritability).

I risultati degli studi che si sono susseguiti a partire dagli anni Quaranta sono per lo più concordi. Secondo varie evidenze, per quanto riguarda l'intelligenza, la parte di varianza attribuibile all'eredità corrisponde ai 2/3 o ai 3/4 (a seconda delle ricerche) della varianza totale, per cui nella determinazione delle differenze intellettuali tra gli individui i fattori genetici sembrano pesare due o tre volte di più dei fattori ambientali. Per poter interpretare i dati correttamente occorre, tuttavia, considerare alcuni importanti limiti del metodo. Innanzitutto, il grado di omogeneità dell'ambiente, ovvero della popolazione studiata, influenza notevolmente le quote rispettive di eredità e ambiente, nel senso che la quota attribuibile a quest'ultimo è tanto minore quanto più esso è omogeneo. In secondo luogo, bisogna considerare che le stime di varianza pari a 2/3 o 3/4 rappresentano la media della popolazione esaminata e non possono essere utilizzate per spiegare le differenze intellettive osservate, per esempio, tra due individui. Allo stesso modo, non è possibile basarsi su tali stime di varianza per spiegare un'eventuale differenza tra due popolazioni, in quanto la risposta al quesito delle differenze interindividuali all'interno di una stessa popolazione non si può trasporre al quesito delle differenze interpopolazioni, per esempio tra classi sociali o gruppi etnici diversi.

Questo argomento è alla base del tentativo di mettere a punto test per la valutazione dell'intelligenza che siano indipendenti dalle differenze culturali e sociali (culture free test). L'ipotesi di base è che eliminando le attività verbali, ritenute in stretta relazione con l'ambiente socioculturale, a favore di attività di pura manipolazione, si possa esprimere il potenziale intellettuale 'purificato', tale da dare agli individui culturalmente svantaggiati la possibilità di ottenere risultati uguali o anche superiori a quelli dei privilegiati. Tuttavia, gli studiosi ritengono che un test totalmente indipendente dalla cultura sarebbe privo di reale utilità e i tentativi di ottenere prove di intelligenza prive di contenuti sociali e culturali sono stati in ogni caso fallimentari. Infatti, le diverse misurazioni hanno rivelato forme diverse di intelligenza, ma esse dipendevano comunque tutte, seppur in misura variabile, dalle condizioni ambientali.

La prospettiva ereditaria riguarda sia l'intelligenza misurata come funzione generale, sia quella misurata attraverso le singole funzioni cognitive individuate con l'analisi fattoriale, per esempio mediante la Primary mental abilities, o PMA, di Thurstone. Le ricerche compiute tramite questa batteria di prove offrono un elevato indice di ereditabilità per il fattore verbale, mentre il fattore che sembra dipendere più fortemente dall'ambiente è quello del 'ragionamento'. Uno studio che si è avvalso della WAIS (Wechsler adult intelligence scale) ha rilevato invece indici di ereditabilità equivalenti per la scala verbale e per quella di performance. Ma è la nozione di 'verbale' e 'non verbale' ad apparire in verità arbitraria, e tale contrapposizione risulta estremamente artificiale se riferita a individui privi di gravi compromissioni linguistiche o prassiche.

La stessa contrapposizione tra eredità e ambiente è ormai superata. Tra i fattori genetici e quelli ambientali esistono interazioni molto complesse: l'individuo utilizza l'ambiente in funzione del patrimonio ereditario di cui dispone e, tramite l'azione dell'ambiente, realizza il suo potenziale ereditario. Infine, i fattori ambientali non agiscono allo stesso modo nelle diverse fasi del ciclo vitale: essi hanno infatti la loro massima efficacia nei periodi di sviluppo rapido, ovvero nella prima infanzia, verso il sesto anno di vita e nell'adolescenza.

Basi neurologiche dell'intelligenza

La struttura dell'intelligenza

fig. 2

Lo studio della struttura dei processi intellettivi ha avuto inizio grazie a Charles E. Spearman, che per primo riconobbe l'importanza che potevano avere in merito i metodi statistico-matematici. Avendo osservato che tutti i test per la misurazione dell'intelligenza correlano positivamente tra loro, egli ipotizzò l'esistenza di un fattore generale di intelligenza (fattore g, fig. 2). D'altra parte, sulla base dell'osservazione che le correlazioni tra i test non indicano comunque un grado di accordo completo, ipotizzò anche la presenza di un'abilità specifica (fattore s). Le prestazioni ottenibili a un test di intelligenza sembravano dunque dipendere sia da una capacità generale sia da un'abilità specifica (teoria dei due fattori).

fig.3

Con il progredire dei metodi di analisi fattoriale si svilupparono teorie strutturali dell'intelligenza su basi statistiche, come la 'teoria gerarchica delle capacità intellettive' di Cyril Burt, che identificò un fattore generale, alcuni fattori 'di gruppo' (che mostravano un'elevata correlazione con i test di un determinato gruppo e una bassa correlazione con quelli di altri gruppi) e fattori specifici per i singoli test. Luis L. Thurstone, al contrario, utilizzando un diverso metodo di analisi fattoriale, concluse che non esisteva alcun fattore generale, ma solamente una serie di fattori diversi che egli chiamò 'abilità mentali primarie'. Hans J. Eysenck postulò una struttura gerarchica dell'intelletto, in cui il ruolo fondamentale era attribuito alla rapidità dei processi cognitivi. Joy P. Guilford sviluppò la teoria multifattoriale di Thurstone, classificando le abilità intellettive attraverso parametri come le operazioni che si possono compiere, i loro contenuti e i loro prodotti (fig.3).

Un autore che si è occupato di 'neurologia dell'intelligenza', Maureen Piercy, ha osservato come le diverse concezioni teoriche che sono state elaborate a partire dai dati ottenuti con i diversi metodi di analisi abbiano implicazioni differenti per quanto riguarda il substrato neurologico dei processi intellettivi. Infatti, le teorie che ipotizzano l'esistenza di un'abilità generale associata a un certo numero di fattori specifici suggeriscono che l'abilità generale sia mediata da una determinata regione cerebrale, o che tutte le regioni siano equipotenziali per quanto riguarda l'elaborazione dell'abilità generale. Le teorie che postulano l'esistenza di diversi fattori primari correlati tra loro e non subordinati a una capacità generale suggeriscono, invece, che le diverse strutture corticali costituiscano il substrato neurologico di funzioni intellettive distinte e indipendenti tra loro. La teoria di Guilford, avendo postulato un altissimo numero di abilità intellettive indipendenti, sembra accordarsi con un modello neuropsicologico localizzazionista.

Secondo Guido Gainotti, le numerose definizioni dell'intelligenza possono essere classificate in due gruppi principali. Il primo è quello che considera contemporaneamente diversi aspetti dell'attività intellettiva, come nel caso della teoria di Alfred Binet e delle sue cinque attività essenziali: giudizio, buon senso, senso pratico, iniziativa e capacità di adattarsi alle circostanze. Al secondo gruppo appartengono invece le definizioni che si basano su un unico aspetto, ritenendolo paradigmatico dell'intero concetto di intelligenza. Se un limite delle prime è che raggruppano con uno stesso termine capacità molto diverse tra loro, le seconde, considerando un solo aspetto dell'attività intellettiva, rischiano d'altronde di trascurare la complessità del costrutto a favore di una scelta parziale. In ogni caso, le teorie sulla struttura dell'intelligenza possiedono importanti implicazioni per lo studio dei rapporti tra lesioni cerebrali e alterazioni dei processi cognitivi e per la comprensione delle problematiche cliniche poste dal deterioramento intellettivo.

Il deterioramento intellettivo

Gainotti definisce il 'deterioramento intellettivo' come una diminuzione diffusa dei valori ottenuti per diversi tipi di prestazioni cognitive misurabili attraverso test di intelligenza. Spesso tale riduzione si accompagna dal punto di vista neuropatologico a un'estesa atrofia e a una diffusa sofferenza delle strutture cerebrali. In ogni caso, è estremamente arduo stabilire il rapporto tra estensione del danno neurologico e diffusione del deficit cognitivo. Inoltre, è stata postulata una diversa vulnerabilità delle varie funzioni intellettive al danno organico cerebrale, per cui mentre alcune sarebbero estremamente sensibili al deterioramento, altre sarebbero più 'resistenti'. Per esempio, le associazioni prevalentemente verbali consolidate nel tempo e indipendenti dai tempi di esecuzione sembrano essere meno influenzate dall'invecchiamento e dalla presenza di lesioni rispetto alle capacità di acquisire nuovo materiale e a quelle che richiedono rapidità nei tempi di esecuzione. Da un punto di vista teorico, tale distinzione potrebbe corrispondere alla dicotomia, proposta da autori quali Donald O. Hebb e Raymond B. Cattell, tra due forme di intelligenza: la prima costituirebbe il potenziale intellettivo del soggetto, ovvero la sua capacità di acquisire nuove conoscenze e abilità cognitive (abilità fluida), mentre la seconda rappresenterebbe l'insieme delle abilità e delle conoscenze già acquisite e consolidate (abilità cristallizzata). Il primo tipo ‒ consistente in schemi logici caratterizzati da possibilità adattive e modificative ‒ avrebbe un ruolo predominante nel corso dell'età evolutiva, diminuirebbe con l'avanzare dell'età e sarebbe notevolmente influenzato da ogni tipo di danno organico cerebrale. La seconda forma di intelligenza, consistente in schemi logici già consolidati, sarebbe in grado di essere mantenuta anche da una quantità ridotta di sostanza cerebrale e dunque più resistente all'invecchiamento e alle lesioni.

È noto che il pattern di deterioramento intellettivo conseguente alle lesioni cerebrali è differente da quello prodotto dal normale processo di invecchiamento e cambia in funzione dell'eziologia e soprattutto della localizzazione delle lesioni stesse. È probabile che, per esempio, in alcune forme di demenza dove a lesioni atrofiche diffuse si associano lesioni circoscritte dell'encefalo, il pattern di deterioramento cambi in funzione delle attività cognitive compromesse dal danno focale. La neuropsicologia contemporanea si è concentrata sull'individuazione dei pattern di deterioramento caratteristici di diverse sindromi demenziali. Gainotti distingue tra 'deterioramento intellettivo' e 'disturbi del funzionamento intellettivo': il primo si associa a lesioni diffuse della corteccia cerebrale, mentre i secondi sono verosimilmente dovuti a disturbi di natura affettivo-emozionale che vanno a interferire con i processi di pensiero e con le attività cognitive, come nel caso delle sindromi psichiatriche. A differenza del deterioramento, i disturbi del funzionamento intellettivo sembrano scomparire qualora si attenuino le perturbazioni affettive. Poiché il deterioramento intellettivo e la depressione danno luogo a un quadro clinico molto simile, un'accurata diagnosi differenziale è decisiva anche ai fini delle implicazioni prognostiche e terapeutiche. Oltre ai livelli di ansia e di depressione, molte altre variabili possono influenzare il livello di funzionamento cognitivo, come un basso livello di scolarità, il quoziente intellettivo globale, il sesso di appartenenza, le abitudini di vita.

Un'altra distinzione riguarda le forme omogenee e non omogenee di deterioramento intellettivo: le prime sono quelle forme cliniche in cui le prestazioni appaiono diffusamente e uniformemente deficitarie, nelle seconde il paziente mostra prestazioni vistosamente patologiche in alcune prove ma non in altre. Questa discordanza è verosimilmente dovuta alla disintegrazione settoriale di alcune abilità, che orienta la diagnosi verso un'eziologia di tipo non degenerativo, bensì, per esempio, di tipo vascolare, neoplastico, infiammatorio; al contrario, un deterioramento omogeneo orienta verso un'eziologia di tipo degenerativo, caratterizzata da lesioni atrofiche diffuse della corteccia cerebrale. Le disorganizzazioni settoriali, o 'lesioni cerebrali a focolaio', si possono manifestare inizialmente con disturbi di singoli aspetti del funzionamento intellettivo: per esempio, i cerebrolesi sinistri presentano un deficit più marcato nelle prove verbali, mentre i cerebrolesi destri nelle prove di performance. I disturbi afasici possono influire sulle prestazioni ottenute alle prove di intelligenza verbale, i disturbi visuo-percettivi e visuo-motori sui punteggi ottenuti alle prove di intelligenza visuo-spaziale, i disturbi di coordinazione motoria sui risultati di tutte le prove in cui il tempo di risposta costituisce un indicatore. Nei pazienti con lesioni focali dell'encefalo, il concetto di intelligenza generale non è dunque utilizzabile, in quanto le prestazioni non sono legate all'esistenza di un fattore generale ma all'interferenza di disturbi strumentali (agnosia, aprassia, afasia) che danneggiano uno o più tipi di performance.

Nella valutazione del deterioramento intellettivo si pongono alcuni problemi metodologici, che riguardano in particolare la distinzione tra competenza e performance. Attraverso i test psicometrici per la valutazione dell'intelligenza, infatti, vengono misurate delle performance che non possono essere considerate lo specchio fedele delle sottostanti competenze. Infine, è opportuno ricordare che tali prestazioni dipendono anche da fattori extraintellettivi, come per esempio la motivazione e una serie di altre capacità quali la memoria semantica e procedurale e le funzioni attentive ed esecutive. Secondo alcuni autori, le differenze intellettive interindividuali si baserebbero su una diversa disponibilità o ricchezza, geneticamente e culturalmente determinata, di schemi di elaborazione dei dati, o memory organized packets. I meccanismi attentivi giocano un ruolo fondamentale soprattutto nelle procedure astratte molto sofisticate, come nei processi logici di deduzione e induzione, nelle procedure matematiche e in quelle linguistiche, e persino in quelle etiche ed estetiche. L'efficienza intellettiva di queste procedure risiede nella prontezza con cui sono evocabili, nella loro flessibilità di adattarsi e nel loro essere 'astratte' o 'universali' tra le diverse culture. Nella nozione di intelligenza generale risiedono anche aspetti relativi alle capacità simboliche e di astrazione, e quindi al pensiero concettuale: un 'concetto' può essere definito come una rappresentazione che si forma nella mente generalizzando dai particolari, e il 'pensiero concettuale' come l'insieme delle operazioni richieste per formare e manipolare i concetti.

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Zangwill 1969: Zangwill, Oliver L., Intellectual status in aphasia, in: Handbook of clinical neurology, edited by Pierre J. Vinken and George W. Bruyn, Amsterdam, North-Holland, IV, 1969.

Zazzo 1979: Zazzo, René, Intelligenza, in: Enciclopedia medica italiana, 2. ed., Firenze, USES, 1979, pp. 2095-2104.

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