DELLA TORRE, Niccolò

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 37 (1989)

DELLA TORRE, Niccolò

Gino Benzoni

Ultimogenito di Giovanni di Febo e di Caterina Lueger, nacque nel 1489.

Apparteneva al ramo goriziano della famiglia e va, perciò, preventivamente distinto (oltre che, ovviamente dal coevo bergamasco Niccolò della Torre ritratto, col padre Giovanni Agostino, nel 1515 dal Lotto: C. Gould, L. Lotto and the double Portrait..., in Saggi e mem. di storia dell'arte, VI [1966], pp. 43-51, 181-89)dal nobile udinese Niccolò di Francesco, il feroce nemico dei Savorgnan ucciso nel 1511, e da suo figlio, anch'egli di nome Niccolò, detto, per la deformità fisica, "lo gobbo de la Torre", quest'ultimo marito d'Elena d'Enrico di Valvason (dalla quale ha Guido, il cavaliere di Malta morto, nel 1569,in giovane età) nonché fatto, (assieme con Girolamo, Michele ed Alvise figli di Alvise, suoi cugini) il 26 maggio 1533,nobile dell'Impero da Carlo V (G. Occioni Bonaffons, Notizia dell'archivio ... Della Torre... in Friuli, in Arch. stor. ital., s. 3, XI [1870], 2, p. 261 e Sei documenti... dall'archivio..., in Archeografo triestino, V [1877-78], p. 67).

Fin da giovinetto la struttura atletica e l'imponente statura avviarono il D. all'esercizio delle armi e lo spinsero ai più ardui cimenti bellici. E l'avversione antiveneziana respirata in famiglia e negli ambienti nobiliari gravitanti su Vienna lo resero altresì smanioso di prove e verifiche a danno della Serenisssima. L'occasione non si fece attendere: all'inizio del 1508 Massimiliano d'Asburgo aggredì la Repubblica e il D. - assieme col fratello Michele e, forse, un altro suo fratello Giorgio (e, in tal caso, non è del tutto da escludere si tratti dei "tre fradeli" Della Torre "che stavano drio castelo de Goritia" e "citadini de Goritia" ai quali, come "rebeli", Venezia confiscò, alla fine di giugno, "tuto" di cui in G. e L. Amaseo e G. A. Azio, Diari udinesi..., a cura di A. Ceruti, Venezia 1884, p. 55: un'ipotesi, però, resa fragile dalla qualifica di o cittadini" e non di nobili, nonché dalla presenza a Gorizia di altri tre fratelli, Febo, Giovanni e Nicolò Della Torre che nel 1497 fecero erigere a loro spese la cappella dei Ss. Sebastiano e Rocco, come risulta da M. Cossàr, Cara vecchia Gorizia, a, Gorizia 1981, p. 227) - combatté in Cadore agli ordini di Six von Trautson. Battuto questi, nel marzo, da Bartolomeo d'Alviano, il D. e Michele sarebbero stati fatti prigionieri e quindi - se la notizia è esatta - liberati in seguito alla tregua triennale venetoimperiale del 6 giugno.

Un'esperienza, questa della disfatta cadorina, che dovette esasperare l'animosità contro la Repubblica del D., sì da indurlo a militare, con spirito di rivalsa, nella ben più lunga guerra successiva. Ed è, con ogni probabilità, identificabile con quel "misser" Nicolò Della Torre affiorante, talvolta, dalle annotazioni diaristiche d'un "vicecapitano" italiano al soldo dell'Impero. Se così è, il 18 febbr. 1513 il "capitano general" Guglielmo di Regendorf l'inviò a Milano a sollecitare, dal vicere Raimondo di Cardona, il denaro pel pagamento dei soldati, che a Verona, dove il "viver" era "carissimo", stavano rumoreggiando in spasmodica attesa del soldo; nel marzo, poi, partecipò ad uno scontro, nel Veronese, contro due compagnie veneziane capeggiate, rispettivamente, da Vico da Perugia e dal colonnello Serafino da Cagli, che vennero sbaragliate con molte perdite, ché quasi tutti "fon morti", mentre solo tre furono i prigionieri, uno dei quali, "el tamburin", fu catturato di persona dal Della Torre. L'8 maggio il D., con due ufficiali e il "bastardo di Baviera", si spostò con 200 cavalleggeri da Verona "ai danni e destruzion de marcheschi verso la riviera de Salò", specie a Rivoltella Desenzano Padenghe e luoghi circostanti, per una fruttuosa scorreria che inflisse al nemico almeno 100 morti. Parecchi, altresì, i prigionieri e sistematico il saccheggio; vennero sequestrati circa mille capi di bestiame nonché le merci e "panni" che stavano affluendo al mercato di Desenzano. E il tentativo veneziano di recupero dell'ingente "botin" fu sventato dal Regendorf a sua volta mossosi da Verona. Era ancora il D. che, il 3 giugno, andava "incontro" a Ludovico di Bozolo che stava giungendo a Verona "con littere e denari della corte imperiale" e che, il 14, partì, per "commission" dei Regendorf, alla volta di Innsbruck.

Ma la guerra non era per lui solo vittoria; era, anche, cocente umiliazione. Dal Sanuto, infatti, apprendiamo dell'arrivo a Venezia. il 2 apr. 1514, d'un "burchio cargo di presoni fati in Friul, maxime a Pordenon", conquistata il 29 marzo, "tutti todeschi". Tra questi il D. col fratello Michele, entrambi posti, assieme ad altri "presoni da conto", nei "cabioni in Terranova".

Sfumò, nel corso dell'anno, la possibilità d'una rapida liberazione ché a Giovanni Vitturi, il provveditor generale in Friuli che avrebbe voluto riscattarli per 1.000 ducati, s'oppose il provveditor esecutore Nicolò Vendramin, per conto di Bartolomeo d'Alviano, il quale rivendicò come "soi e presi per lui" i due, intenzionato a valersene per liberare il nipote conte Bernardino Caracciolo allora "preson di spagnoli". Di fatto, né il Vitturi né il d'Alviano poterono adoperarli e fu necessario attendere la fine del 1516 perché si profilasse la possibilità d'uscire di prigione. Fu letta, infatti, il 10 dicembre, una supplica d'Agostino "da Brignan", già condottiero veneto, e d'Andrea Dandolo, già provveditore a Legpago, entrambi da un pezzo prigionieri degli Imperiali a Verona, i quali chiedevano "per contracambio loro do fradelli dil vescovo di Lubiana" - (erra nel correggere rectius di Veglia l'editore del Sanuto, tratto in inganno dal fatto che questi era Natale Della Torre mentre quello di Lubiana era Christoph Rauber; il Sanuto, con tutta probabilità, intendeva riferirsi a Giorgio Della Torre, fratello del D. e Michele, che del Rauber era coadiutore), vale a dire il D. e il fratello. Anche se non si verificò lo scambio nei termini d'una reciproca e completa liberazione, il Senato, in un primo tempo deciso a non cedere, il 12 dicembre, acconsentì a che - contestualmente all'uscita di prigione del "da Brignan" e alla libertà per il Dandolo - i due Della Torre, tolti "di cabioni", si sistemassero nel "fontego" dei Tedeschi, coll'impegno però di non fuggire, Pegno, in caso contrario, il versamento di 6.000 ducati da parte di Nicolò Collalto di S. Salvatore (alla lontana parente loro ché la nonna paterna era Dorotea Collalto) e Giovanni di Strassoldo offertisi, appunto, con "piezaria" di tale cifra, come garanti. Così, già il 4 genn. 1517, il D., "fradelo dil vescovo di Lubiana" s'ostina a precisare il Sanuto, poteva approfittare di questa sorta di libertà vigilata per andare - assieme al "provedador sopra presoni" Giovanni Antonio Dandolo e al capitano tedesco Rayner con lui catturato a Pordenone - "contra", incontro cioè, ad Apollonia Lang giunta a Venezia per visitare il marito Cristoforo Frgngipani, il conte di Segna Veglia e Modruna nonché capitano dell'esercito imperiale, "preson" nella "toresela" di palazzo ducale e per trattarne la liberazione (che, peraltro tarda, al punto che l'illustre prigioniero ha tutto il tempo per volgere in tedesco il breviario romano) per la quale Venezia esigeva "segurtà" di 50.000 ducati, che essa contava d'avere dal fratello, il "cardinal Curzense", cioè il vescovo di Gurk Matteo Lang. Seguirono, il 7 gennaio, l'accettazione senatoria della tregua con l'imperatore e la rinuncia, del 13 aprile, da parte di questo, al Friuli. Donde con la fine delle ostilità, il recupero, per il D. e il fratello, della piena libertà di movimenti.

Già compagno, almeno pare, della missione svolta nel 1518 dal fratello Giorgio alle corti di Moscovia e di Sigismondo I Iagellone, il D. il 1° sett. 1519 salpò da Napoli al seguito di Siginund von Herbestein "missus" al neoeletto imperatore Carlo V dopo averne, probabilmente, condiviso il precedente itinerario e quindi essere passato per Venezia e aver sostato a Roma.

Toccata, l'11, la Sardegna, dove il D., sbarcato con altri, fu scambiato, con terrore della gente del luogo, per pirata, nell'ottobre, quando i venti avversi costrinsero la nave a deviare ad Ibiza e quindi ad una sosta coatta a Formentera, fu il D., con la sua imponente e maestosa figura e la voce tonante, ad impedirne il sequestro cui un invasato minorita aizzava la popolazione.

Ancorata, finalmente, la nave, all'inizio di novembre, presso Barcellona, il D. precedette gli altri a Molina dove avvenne poi l'incontro con Carlo. Per le insegne di questo, in seguito, il D. militò in vari teatri d'operazioni partecipando, tra l'altro, alla battaglia del 23 apr. 1521, di Villalar contro i comuneros capeggiati da Juan de Padilla. Passò quindi al servizio dell'arciduca d'Austria e re di Boemia Ferdinando I che lo nominò capitano di Gradisca e di Marano. Una carica che concedeva spazio alla sua vocazione al comando e autorizzava sfoghi al rancore contro Venezia accumulato nel periodo della detenzione. Nel gennaio del 1525 arrestò il podestà d'Aquileia, reo d'aver eseguito un ordine del patriarca e gli impose di giurare, da allora in poi, d'attenersi solo ai "soi mandati".

Nell'agosto del 1526 il D. (che, inoltre, era stato nominato il 26 aprile, col vicecapitano di Gorizia Girolamo de Attimis, commissario in merito al dissidio, a Trieste, tra il vescovo Pietro Bonomo e il capitano Niccolò Rauber), di fronte a rimostranze veneziane per un provocatorio sconfinamento notturno d'"alquanti schiopetari" arciducali presso Cividale, replicò seccamente di "non saper cosa alguna" in fatto di presunte scorribande "de notte" di "stipendiati del ... principe signor mio", dal quale non aveva altra "commissione ... se non visinar bene". Ma se gli ordini fossero stati diversi - non si trattenne d'aggiungere -, egli "veniria che tutti lo saperia et mi vederiano et non da robatore", da nemico a viso aperto, cioè, e alla luce del sole. Si capisce come con un confinante del genere - prevaricantissimo agli occhi della Repubblica, di cui egli a sua volta, temendone gli appetiti territoriali su Marano e l'utilizzo delle mosse del patriarca aquileiense, diffidò e sospettò costantemente - la Serenissima stesse all'erta e, grazie ad informatori del luogo, ad "exploratori", a mercanti di passaggio, cercasse d'"intender" se avesse in mente qualche "operatione" a suo danno. C'era da temere che i reclutamenti e i movimenti di truppe, provocati dalla minaccia turca, ai quali il D. - commissario generale arciducale assieme ai capitani di Gorizia, Trieste e Duino - sovrintendeva, non l'inducessero a fulminee azioni contro Venezia. Preoccupava il fatto che i quattro, il D., cioè, e gli altri tre capitani, avessero "auctorità che tutto quello che faranno sarà ben facto" e che, all'inizio del 1527, disponessero che, nei territori di loro competenza, almeno 3.000 uomini "stiano ad ordine cum le sue arme, ita che, ad ogni richiesta, possino andar dove gli sarà commesso".

Queste preoccupazioni, comunque, s'allentarono quando, all'inizio di luglio, s'apprese che il D. era in procinto d'"andar capitanio di bon numero di cavalli all'impresa d'Hongaria", quando, alla fine d'agosto, corse addirittura voce fosse caduto, in uno scontro tra Ungheri e "gente" del re di Boemia. Particolare, quest'ultimo, ben presto smentito: si seppe che il D. era a Buda, dove il re di Boemia stava distinguendo i "baroni" obbedienti dagli "inobedienti". E, a metà ottobre, un mercante reduce dalla fiera di Sankt Veit in Carinzia di passaggio per Venzone, asserì d'aver sentito dire come il D., nell'inseguire Giovanni Szapolyai, il re d'Ungheria antiasburgico, - fosse caduto in un tranello: una volta distaccatosi dal grosso dell'esercito "alemano", la cavalleria nemica, ben più numerosa di quanto non credesse, l'assali, si che il suo contingente rimase "rotto et fracassato".

Nominato, il 9 novembre, da Ferdinando colonnello di cavalleria, il D., all'inizio del 1528, con 400 "cavalli" si portò da Gradisca a Gorizia, donde proseguì alla volta di Strigonia (o Gran o Estztergom) e di qui, sempre con "zente" di Ferdinando, si spostò a Košice (o Kassa o Kaschau), presso la quale stazionava con temibile esercito SzapoIyai. Successivamente apparve, con altri, preposto "al governo del campo" a Lubiana: a lui, come "vicepitaneo labacensi", si rivolse, il 20 settembre, Ivan Torkvat Karlovié, "comes Corbaviae regnoruinque Dalmacie, Croacie, Slavonie banus", chiedendo "stipendiarios equites et pedites autem et armigeros" ed esortandolo a vigilare ché correva voce il pascià di Mostar "moviturum esse de ... Hocza".

Il 20 ottobre, il contestabile di Monfalcone informò il luogotenente in Friuli Giovanni Basadonna che, però, in uno scontro, avvenuto tra "Melica e Vilach", il D. non era giunto coi rinforzi in tempo utile, si che i "cristiani" avevano avuto la peggio. Il 25 genn. 1529 il Basadonna scriveva che da un lato lo si attendeva di giorno in giorno a Gradisca, dall'altro si riteneva "sia stà amazato ne la guerra del vaivoda", cioè di Szapolyai. Non era vero: lo stesso scriveva, il 6 febbraio, d'aver saputo che Szapolyai era stato "rotto", pur disponendo di maggiori forze, grazie al tempestivo intervento del D. con 200 armati.

Nella tarda primavera il D. era a Gradisca per reclutarvi uomini: "fatto capitanio di le zente paesane", procedette, dapprima col criterio di 1 a 10, quindi, da parte dei sottoposti, di 2, alla "descrition"; occorrevano infatti altri uomini da avviare a Lubiana, perché combattessero sia i Turchi sia il ribelle vescovo di Zagabria Simon Albertus de Zereni-Erdeved. Il 12 giugno, con 25 "cavalli", il D. partì alla volta di Gottschee (o Koçeive), ove si smistavano "tutte le genti" già confluite a Lubiana.

Di rilievo i suoi compiti ché, come dicono le informazioni riportate dal Sanuto, via via, fu "capitanio generale del principe ne la Croatia", "gubernator di le gente del principe a questi confini di l'Hongaria". Spettava a lui organizzare le truppe che si stavano concentrando a "Cocciva o dove, nel giugno, erano acquartierati 3.000 fanti "borgognoni" e spagnoli e s'attendeva l'arrivo di 4.000 lanzichenecchi. Grossi rischi corse, attorno al 20 giugno, quando, "attrovandosi" con 2.500 fanti nel "castello" di Möttling, 7.000 "cavalli" turchi devastarono il territorio circostante ed egli, "uscito" coraggiosamente "fuora", tentò d'impedirlo. Nella "scaramuza grande" che ne seguì, con molte perdite d'ambo le parti, dovette, alla fine, data la sproporzione numerica, ripiegare evitando d'un soffio d'esser "o morto o fatto presone". Ciò non toglie che, instancabile, già alla fine dei mese fosse a Gradisca a farvi incetta di "biave", ché doveva preoccuparsi anche dell'approvvigionamento, laddove le "vittuarie", per le devastazioni ottomane, scarseggiavano. Sempre più in profondità la penetrazione dei Turchi, ormai giunti - come avvisava il fratello del D., Michele, giunto a Gorizia da Lubiana l'11 luglio - alle "porte di Buda" sì che "tutto il paese era in extrema timidità". E invano, riportavano a Venezia notizie attinte a Gradisca, il D. aveva cercato, in uno scontro presso Gottschee, di fermarli: "vincitori", in questo, i Turchi, "liavendo morta et dissipata la maggior parte" della "gente" del D., che a stento riparò "in certa fortezza" con 15 "cavalli". Al rischio continuo della vita s'aggiungevano la tensione tra i soldati per il mancato arrivo del soldo, la conseguente emorragia delle diserzioni che il D. si prodigava di arrestare. Si rafforzava, nel frattempo, la ribellione del vescovo di Zagabria, nipote del defunto cardinale Tommaso Bakócz, forte "di gente del suo paese et de una gran banda" di cavalleria ottomana.

Il D. (signore, dal 1521, di Vipacco, gratificato, nel 1528, con la concessione, a lui e ai suoi discendenti, dei diritti di gastaldia di Cormons), "vicecapitaneus ... in ducatu ... Carniolae", fu - col bano Karlović e Johann Puechier - commissario di Ferdinando "apud" la vedova di Ferdinando Frangipani, Maria, col compito, fissato nell'instructio del 15 luglio, d'indurla al rispetto delle disposizionì regìe e d'esigere - se questa si ribellava - da "castellani omnes" la consegna dei "castra quae ab eadem relicta hucusque occupata et detenta essent". E a Christoph Raliber e al D., innalzato il 30 a generale dell'esercito ai confini della Schiavonia ("eques auratus, supremus regiae maiestatis capitaneus ad confinia Croatiae" amò d'ora in poi qualificarsi, o "supremus capitaneus in confinibus regni Croatiae"; ma talvolta s'accontentò, più semplicemente, di "Ritter"), Ferdinando, il 27 luglio, ordinò il reintegro nel canonicato di Giorgio "Frigidinus", vittima della persecuzione del vescovo di Zagabria.

Questi, forte d'uomini e mezzi, resisteva asserragliato nella "fortezza, qual chiamano il vescovado" e dava del filo da torcere al D. - che contro di lui s'avvaleva anche di "gentes" chieste a Ivan Kastelanović - il quale, pur avendo la meglio in uno scontro del 30 luglio, non solo non riuscì a stanarlo ma, lungi dall'"espugnar la fortezza", sembrò a sua volta trasformarsi da assediatore in "assediato" dai Turchi che appoggiavano il terribile prelato. Indicativo che, nel frattempo, il contestabile di Cividale "Gatin", proponesse un colpo di mano su Marano assicurandolo, in assenza del D. per cui Gradisca era "senza custodia", fattibile agevolmente. Il D., intanto, con 7.000 uomini, invano incalzava il prelato zagabriense ché, se egli devastava alcune sue "ville", questi replicava a danno del "paese dell'arciduca". Travalicante ormai la mezzaluna, non c'era per lui modo di punirlo esemplarmente né di schiacciare la proterva infedeltà "quorundam baronum ac nobilium" croati. Poiché "temesi molto de turchi", il D., lasciando m l'impresa della fortezza imperfetta", aveva l'ordine di portarsi da Zagabria a Linz, mentre a Trieste, Lubiana e Duino s'arruolavano affannosamente fanti per soccorrere Vienna, alla cui volta - così il 10 settembre il luogotenente dei Friuli - pressoché "tutti" accorrevano. Si paventava il peggio: "ì confini tremano tutti".Il D., che invano s'era intestardito fino all'ultimo di colpire "a la improvisa" il presule zagabriense, rimanendo "rotto et malamente" dai Turchi suoi alleati, ebbe un ruolo decisivo nella salvezza della capitale. Galvanizzante, pei suoi difensori, l'ingresso del D., del 21 settembre, con 2.500 fanti spagnoli e italiani condotti da Zagabria e altre forze fresche. "Questi - si riporta in Sanuto - contraminavano a le mine et faceano tutte le fazioni, di modo che messero tanto animo a quelli che erano dentro che parca che più non temessero". Perciò, come asseriva il consigliere regio Raimondo Dorimbergh in "lettere" giunte a Gorizia il 6 novembre, "la salute di Viena è stato messier Nicolò de la Torre". Anche se esagerava, resta il fatto che furono gli uomini guidati dal D. quelli che meglio si adoperarono sì che, "tutte ... fallate" le "molte mine" nemiche, altrettante "ne fevano all'incontro", trasformando il già disperato arroccamento difensivo in replica puntigliosa e non priva di spunti offensivi. Dal "campo turco", pur rigurgitante d'uomini, non partì lo slancio che rendesse la morsa dell'"obsidione" vittoriosa. Lo dice lo stesso D. in "lettere" il cui contenuto figura in Sanuto. Immane la massa di manovra ottomana di circa 250.000 uomini, terribile nel devastare e bruciare, tanta da oscurare il cielo con le frecce, da "ruinare il mondo" col fragore della "schiopeteria", ma costretta, il 15 ottobre, dalla "fame" e dal "gran fredo" a desistere e a ripiegare alla volta dell'Ungheria lasciando "cariazi, cavalli et gambeli in grandissimo numero sotto Vienna". Potevano tornare "a casa", dicevano gli "avisi" giunti a Venezia dalla città liberata, gran parte dei difensori, mentre i "5 in 6.000 fanti" più validamente "intervenuti" furono inviati, "sotto il governo" del D. "a la recuperation de Ottemburg, terra tra Vienna et Buda", vale a dire Altemburg o Magyar Ovar.

Nel marzo del 1530 il D., in esecuzione della "commission" d'arruolare 1.000 fanti italiani, s'insedia, assieme ad altri due commissari, a Gorizia convocandovi la Dieta. Per due giorni, il 14 e il 15, riferisce, sempre informatissimo di quanto avviene in terra austriaca, il provveditore a Cividale Gregorio Pizzamano, "tuti li citadini et mercadanti" della città e del circondario nonché i decani di "tute le vile" si radunano e a loro il D. espone l'enorme necessità di denaro in cui la guerra costringe le esauste finanze di Ferdinando. Urgono immediati e ingenti contributi. Brutalmente drastico nell'esigerli, il D. chiede "che ciascuno di ogni condition" versi la metà delle sue entrate annue e, in particolare, che i mercanti corrispondano subito la cifra fissata dai "deputati sopra ciò". Costernati gli astanti, "unde - commenta con una punta di malizia Pizzamano - indiferenter sono di mala, anzi malissima voglia". Né avranno, di lì a poco, di che rallegrarsi i sudditi veneti con beni nel Goriziano ché i commissari, a detta di Pizzamano, "colmi de malvoler" verso la Repubblica, disporranno il sequestro delle entrate di cui trattengono il 20 per cento.

Nominato, il 29 luglio, generale supremo di tutto l'esercito in Ungheria, il D. viene inviato al "governo" di Presburgo (o Bratislava), centro strategicamente importante, donde muove con 10.000 uomini per "la recuperation di certo luoco" ma, intercettato da "grossa banda" di Turchi e Ungheresi, è costretto ad un confuso rientro. In settembre, poi, i suoi uomini, impossibilitati ad "uscire alla campagna", cominciano a sbandarsi e l'iniziativa pare totalmente in mano turca; e le vie sono talmente insicure che il D., informa con un pizzico di malignità Pizzamano, ingiunge alla moglie, messasi "assai pomposa" in viaggio per andare a trovarlo, di non proseguire e "ritornar a casa". A il D. stesso che, il 20 ottobre, con soli otto "cavalli" riappare a Gorizia per riabbracciare la moglie e poi passare a Gradisca, ove si trattiene sino al 7 nov. 1531, quando parte, col capitano di Duino Giovanni Hofer, con tal capitano "Pisternocher" e colla scorta di 25 "cavalli" per recarsi a "corte". Ed è segno di prestigio che a Innsbruck, dove arriva il 18, venga "alozato in palazzo dil re dei romani". Di nuovo a Gradisca, nell'aprile del 1532 si porta a Lubiana per farvi "cernede" e disporre apprestamenti d'artiglieria "ne li carsi et loci vicini". In giugno arruola "fanti" a Trieste e a Marano e in altre località e si reca, quindi, con Hofer e altri "capitanei", a Vienna dove giunge il 7 luglio per occuparsi di concentrazione di truppe e di "reparti et fortificationi". Levatosi, come egli scrive il 4 settembre alla moglie, "il campo turchesco di l'Austria", per puntare "parte verso l'Ongaria" e "parte ... verso Petovia", cioè Passau, ne intralcia, nel corso del mese, il ripiegamento con rapide azioni di disturbo. Ed è presente all'attacco, guidato dal marchese del Vasto Alfonso Avalos d'Aquino il 20, nel quale, "in certi boschi" non lungi da Vienna, vien fatta strage di circa 20.000 Turchi. Comunque, nell'allentarsi della tensione bellica, il D., col grosso dei "capi", sta per essere "licentiato", colla soddisfazione però, oltre che d'un caloroso elogio scritto di Carlo V, d'aver via via ottenuto i diritti sulle miniere di Idria, il feudo di "Steier", i beni del suicida Lorenzo Cupa, nonché la promessa ferdinandea, del 30 nov. 1531, di mantenimento e trasmissibilità della sua invidiabile posizione.

Di nuovo a Gradisca, il 3 nov. 1533 esorta Ferdinando a proteggere le benedettine del monastero aquileiese di S. Maria dalle interessate "premure" del patriarca cupido, a suo avviso, di metter mano sulle "rendite" d'un convento dove la nobiltà è solita sistemare "le figlie" che non può "maritar" con adeguata dote. "Huomo di molta auttorità" definisce il D., in una lettera del 7 marzo 1535 al segretario di Paolo III Ambrogio Ricalcati, l'allora nunzio in Germania Pietro Paolo Vergerio, memore di come egli, sospettando fosse il diplomatico pontificio Girolamo Rosario di cui si voleva impedire la ventilata missione coi "voivoda", l'avesse fatto praticamente sequestrare imponendogli di provare "con testimoni" la sua identità. Tra i commissari preposti all'attuazione del monopolio (che sarà destinato a rapido e clamoroso fallimento), decretato il 16 maggio 1536 da Ferdinando, di vendita del sale in Friuli, Istria e Carniola prevedente l'istituzione di magaizini statali o camere salarie pure a Gradisca, la guerra resta, tuttavia, un costante richiamo per il D., la sua più autentica vocazione. Sempre nel 1536 difende Zagabria e partecipa all'attacco contro i Turchi arroccati a Salona Sasso Kučine. Purtoppo, quando giunge con numeroso contingente il pascià della Bosnia, i suoi soldati fuggono verso le navi ancorate a Salona. Nel 1537 concorre alla difesa di Clissa, nel corso della quale, in un accanito scontro, cade il suo compagno d'anni Giovanni Hofer ed egli stesso rimane ferito, mentre la fortezza sta per cedere. Ma, pur inchiodato a lato, continua a smaniare per riprendete la lotta, convinto altresì della realizzabifità d'una prolungata tenuta difensiva. A Ferdinando, infatti, a dire a Praga al nunzio pontificio Giovanni Morone - e questi, a sua volta, ne scrive, il 4 aprile, a Ricalcati - come il D., "qual era generale nell'impresa di Clissa et quale, quasi solo, miracolosamente è scampato da le mani de turchi", sia persuaso della difendibilità, per altri due mesi, della fortezza la quale, a suo dire, se soccorsa da 5.000 uomini validi, oltre a continuare a resistere potrà diventare testa di ponte per espugnare. "quelli castelli quali li nemici hanno fatto per assediarla". Speranze senza fondamento ché, quando Morone spedisce la sua missiva, la fortezza è già in mano turca.

Tornato a Gradisca, la fulminea mossa di Beltrame Sachia che, il 2 genn. 1542, cogliendo di sorpresa il capitano Hermann Grünhoffer e il presidio, occupa Marano, la successiva cessione di questa al fiorentino Pietro Strozzi che la rende imprendibile coi suoi archibugieri uniti a bande assoldate dal patriarca d'Aquileia, il comportamento della Repubblica, da un lato formalmente estranea all'operazione, dall'altro ben decisa ad approfittarne tant'è che impedisce l'accesso in quella laguna alla minuscola flottiglia austriaca capeggiata dallo spagnolo Giovanni Godinez, costituiscono per il D. uno smacco cocente, una vicenda vissuta e sofferta come un'offesa personale. Rabbiosa la sua prima reazione, quando, con 600 fanti e un centinaio di cavalieri tenta, invano, la riconquista. Magra consolazione pel suo furore il ripristino dell'autorità arciducale a Precenicco, qualche modesta scorribanda di ritorsione, un po' di "scaramuzze", un po' di fuoco d'artiglieria dal contrapposto fortilizio di Maranutto, che il D. s'affretta a munire di due bastioni e a dotare di più consistenti possibilità d'offesa.

Ma il suo re Ferdinando è troppo debole, troppo incalzato dalla mezzaluna perché possa impegnarsi, con forze adeguate, nel recupero; può, al più, protestare tramite il vescovo di Trento Cristoforo Madruzzo e l'ambasciatore don Diego de Mendoza. Boccone amarissimo da trangugiare per il D. il reinsediarsi nella piazza della Serenissima dopo l'acquisto, del 29 nov. 1543, per 35.000 ducati. Beffardo, per chi come lui ha sempre cercato d'"usurpar li confini et lochi" a danno di Venezia, il garrire del vessillo marciano sul pennone della fortezza già strappata, nel 1513, alla Serenissima. Vieppiù virulento l'odio del D. per questa, riattizzata la smania giovanile di combatterla. È tra i più "contrari", avvertono i rappresentanti veneti a Vienna, alla Repubblica, fa "professione di odio ed inimicizia" verso di essa; "continui et insopportabili" i suoi "insulti" contro questa. La perdita di Marano è per lui un incubo non rimosso, continua a rimuginare attorno ad una clamorosa azione di rivincita. L'ambasciatore veneto Lorenzo Contarini ci offre l'immagine del D. bloccato nel 1547 a Vienna dalla gotta, farneticante a letto l'impresa: "spesso ragionava" d'un improvviso attacco "et teneva conclusione" che "non saria difficile et che si dovria fare et simili parole". Ma, se siffatte velleità non trovano molta udienza, il D. viene invece ascoltato quando adopera tutta la sua "grande auttorità" per persuadere la corte che soli responsabili dei "disordini" confinari sono i "ministri" veneti. E le sue assidue querele "retentione cuiusdam navis", quelle, da lui fomentate, dei "mercatores Gradiscae et alii" che "conqueruntur de libera navigatione", contribuiscono a mantenere viva l'ostilità per la giurisdizione adriatica della Serenissima.

Il D. spicca tra i "ministri regii" che si "portano molto male" nei confronti di Venezia. Al di là dello stillicidio di piccole angherie, di modesti danneggiamenti, di spicciole rappresaglie s'avverte l'aspirazione a scalzare la "iurisdiction" del luogotenente veneto in Friuli; donde le minacce a quanti si rivolgono al "tribunal" di Udine, donde l'ordine, del 22 marzo 1550, pena, se trasgredito, grosse multe e confische, ai sudditi veneti con beni in terra austriaca di ricorso al solo "foro" arciducale. Monito per Venezia altresì i grandiosi lavori da lui promossi e portati avanti per il rafforzamento e l'ampliamento della fortezza, già innalzata a suo tempo sotto l'amministrazione veneta, di Gradisca. L'accresce, infatti, d'un bastione con due torrioni; porta a compimento la costruzione della porta d'accesso al castello coi ponte levatoio; avvia la poderosa costruzione in cinta di pietra squadrata, all'interno della fortezza, intorno al "collisello" ove i veneziani avevano eretto il castello.

Complementare all'ostilità per Venezia la costante contrapposizione del D. al patriarca d'Aquileia, signore temporale (pur spettando l'alto dominio all'Impero) di questa di San Daniele di San Vito. Faticosa - con il D. che umilia spesso il capitolo, che interviene sbrigativo ed imperioso - per questo la salvaguardia dei diritti pur riconosciutigli a Worms nel 1521, ché la sua autorità viene screditata da una lunga sequela d'ingerenze, manomissioni e arbitri. Bistrattato soprattutto il capitolo da cui il D. e persino. sua moglie esigono, in caso di vacanza, la nomina di mansionari e vicari arciducali, sul quale premono perché siano eletti elementi filoaustriaci antiveneziani e addirittura ostili al patriarca. Né il D. esita, nel gennaio del 1540, laddove pretende di collocare un suo podestà ad Aquileia.

Il 17 maggio 1541 l'ambasciatore francese a Venezia, Guillaurrie Pellicier, riferisce che il D. proclama spettare solo a lui l'obbedienza da parte degli abitanti del distretto aquileiese, inclusi i canonici. Donde vivissime proteste veneziane a Ferdinando (questi, in effetti, il 30 luglio 1535 aveva raccomandato il rispetto della giurisdizione patriarcale), il quale si vede costretto a sconfessare tanto imperiosa baldanza: nega d'averla autorìzzata e osserva che, talvolta, "les serviteurs font plus que le maistre leur commandent", mentre, per parte sua, egli non desidera che d'essere "bon voysin et arny" della Repubblica.

Ciò non toglie che la pressione del D. prosegua e, anzi, dopo il colpo di mano su Marano, s'accentuì: nel 1543 viene occupata militarmente la basilica ed il campanile diventa - non senza suo degrado, e il D. allora esorta con tono secco e duro il torpido e finanziariamente malconcio capitolo a provvedere - sede d'uno stabile presidio arciducale. Il D. mira all'esautoramento del patriarca, allo svilimento del capitolo (si rivolge a questo con arroganza, fa tagliar legna nei suoi boschi senza riguardo), al logoramento dei legami del territorio aquileiese con Venezia e al suo assorbimento austriaco.

Sua la proposta a Ferdinando, del 1551, d'imporre ai canonici - soliti dopo Pasqua sino all'Avvento a trasferirsi a Udine - di risiedere, invece, in questo periodo, a Gradisca o Gorizia; d'insistere col papa perché metà dei canonicati e dei benefici spetti a sudditi arciducali; d'ottenere che i due vicari, quello imperiale e quello arciducale, siano considerati canonici a tutti gli effetti, con stallo in coro, con voto in capitolo. Ma il travalicare, da parte del D., nelle forme e nel contenuto finisce col preoccupare la stessa S. Sede: Paolo III, il 16 febbr. 1543, scrive a Ferdinando che, se "antea" la "temporalis iurisdictio" era stata "perturbata ac molestata" dai suoi "ministri", ora, cioè dopo la perdita di Marano, "temporali iurisdictione ... in totuni ablata et erepta", questi, i ministri, vale a dire il D., aggrediscono "etiam spiritualem iurisdictionem". Una spoliazione di prerogative vera e propria denunciata anche in seguito: anche se il D. non viene nominato, è il suo operato - quando, nel processo avviato, nel 1557, da Paolo IV contro gli Asburgo, spicca tra i capi d'accusa quello, illustrato dal vescovo di Verona nonché patrizio veneziano Luigi Lippomano, dell'"occupatio" della giurisdizione temporale e spirituale, del patriarca - l'imputato colpevole agli occhi di Roma. È con la sistematica progressività della sua ingerenza che la "maiestas regia a 15 annis citra eain - la giurisdizione patriarcale - occupavit et, impositis sibi satellibus suis, patriarchani de facto spolìavit eandemque ecclesiam in miseriam servituteni redegit".

Il D. - che alla fine del 1548 era a Trieste come membro della commissione, istituita da Ferdinando, d'inchiesta sulle controversie di quel Consiglio cittadino col capitano Giovanni Hoyos; che, il 10 ott. 1549, scriveva, assieme al capitano di Gorizia, al governatore di Milano Ferrante Gonzaga perché convincesse Luigi Gonzaga, il luogotenente imperiale suo parente, a desistere dalla protezione degli assassini di Tristano Savorgnan - morì, il 3 maggio 1557, a Gradisca venendo sepolto nella chiesa dei serviti donde il corpo venne nottetempo trafugato, il 28 maggio 1563, dal parroco di Gradisca Piero di Valvason per essere collocato "in la sua parocchia", la chiesa cioè già di S. Salvatore e quindi dei Ss. Pietro e Paolo.

Quivi, nella cappella Torriani, in fondo alla navata destra, sorge il mausoleo dedicato a sua moglie Caterina Prodolon - questa, da lui sposata attorno al 1527, morrà, senza avergli dato figli, il 15 nov. 1558 - e a lui, ripreso in tutta la smisurata grandezza della sua statura ("eques insigni corporis proceritate", gigantesco "artubus ... corporeis" lo ricordano gli esaltatori della famiglia e come tale ritratto an-che nei dipinti; rivivevano in lui, si diceva, le fattezze di Martino il Gigante, il lontano capostipite del casato, il crociato caduto presso Antiochia nel 1147), come "patruo et amitae" dall'erede Francesco Della Torre, di per sé non suo nipote, ma suo lontano parente, essendo il nonno paterno di questo, cugino di suo padre. L'erede rende, cosi, omaggio alla pudicizia della moglie e alle virtù "belli pacisque" dei Della Torre. Già aveva provveduto a celebrarle l'Oratio pronunciata in funere dal piranese Antonio Petronio iuniore, figlio di quel Gian Antonio Petroni che il D. aveva chiamato come maestro a Gradisca, noto perché imprigionato e processato per protestantesimo e per l'abiura, a Trieste, del 29 maggio 1549. Ed un ulteriore omaggio al D., "maxiinus dux" "beri fondata e salda torre.", "altra torre di be' gigli ornata", terrore del "Tiran d'oriente" è costituito dalla silloge di Carmina tum latina tum hetrusca ... di vari autori, tra cui figura Francesco Robortello, approntata tempestivamente "in obitum" (Patavii 1557) da Giovanni Cavalli, un letterato e verseggiatore nativo di Cormons. Certo il D. fu valido avversario dei Turchi, intransigente vessillifero degli interessi austriaci. Ma laddove furono in ballo quelli di famiglia e di clan, questi ebbero la meglio. Quando, ad esempio, Mattia Hofer (figlio di Giovanni e di Chiara Della Torre, sorella del futuro erede del D., Francesco) fuggito dal carcere comminatogli per omicidio (il 30 giugno 1547 aveva ammazzato a Vienna lo zaratino Bartolomeo Bertolazzi; cfr. L. Frangipani, Un omicidio..., in Pagine friulane, XIII [1900], p. 148) e riparato nel proprio castello di Duino, fu assediato per esservi riportato da 200 uomini spediti da Trieste, il D. - lo lamentavano l'11 dic. 1547 i giudici e il Consiglio triestini - accorse in suo "soccorso" con una ventina di cavalieri ed altri 20 "archibusieri" nonché con "due bombardieri salariati di Sua Maestà". Il D., già nominato nel 1525 da Ferdinando membro, con altri due, della commissione incaricata di ricevere il giuramento di fedeltà dei feudatari goriziani, cavaliere, barone, conte dell'Impero, consigliere regio, non esitò a contrastare un ordine di Ferdinando - è, appunto, "in esecutione d'una lettera della Sacra Regia Maestà" che si muove alla volta di Duino il contingente triestino, peraltro con scarsa combattività, ché, vista la resistenza, si ritira - e a contrapporre, a difesa del castello, i suoi uomini alla "civitas" di Trieste. L'episodio è sintomatico: colloca il D. nella pinacoteca della più radicata e riottosa alterigia nobiliare, non già in quella, ancora prematura, dei consapevoli funzionari dello Stato.

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