COSMICO, Niccolò Lelio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 30 (1984)

COSMICO, Niccolò Lelio

Roberto Ricciardi

Nacque a Padova non più tardi del 1420. Il suo vero nome era forse quello con il quale lo chiama l'autore dei sonetti maledici contro di lui, attribuiti al Pistoia e pubblicati da Cappelli-Ferrari e dal Renier: "Niccolò de la Comare". Un casato di tal nome è attestato a Padova verso la metà del XV secolo. In un documento catastale dell'11 apr. 1443 (Archivio di Stato di Padova, Estimi, CXXXI, f. 40), sono registrati i beni immobili che Antonio di Lello, allora settantacinquenne, dichiarava di possedere in località Campodarsego, mentre una analoga denuncia degli stessi beni veniva presentata il 26 febbr. 1456 (ibid., CXXXI, f. 38) da Niccolò de Lelj o di Lello "professor grammaticae". Il Rossi (N. L. C. , pp. 146 s.), che fece questa scoperta, ritenne che Niccolò fosse figlio (ma poteva anche essere un nipote, considerato il divario d'età) di Antonio, e che potesse facilmente identificarsi con il C., tenuto conto che costui esercitò per tutta la vita il mestiere di precettore e di maestro. Se tale ipotesi è esatta, è lecito allora congetturare che il C. appartenesse a una diramazione del casato patavino Della Comare, che fosse più frequentemente chiamato con il patronimico di Lello, da tempo in uso, evidentemente, tra i membri di essa, che la sua formazione umanistica lo inducesse a latinizzare in un primo tempo il cognome in De Laeliis (da cui De Lelj) e successivamente ad assumere il soprannome "Cosmicus", nella cui ascendenza grecizzante si deve scorgere una dichiarata professione di spregiudicatezza morale e di vita mondana. Che l'Ariosto ricordi, nelle sue Satire (VII61), il mutamento, apportato dal C. al suo nome, dimostra che la fama del poeta era ormai abbastanza diffusa, se il suo comportamento poteva essere citato come proverbiale.

Sempre tenendo ferma l'identificazione proposta dal Rossi, dalla stessa fonte catastale apprendiamo che Niccolò di Lello aveva nel 1456 moglie e cinque figli, il maggiore dei quali era una ragazza di tredici anni, mentre un sesto stava per nascere. Se dunque il suo matrimonio deve essere assegnato per lo meno al 1442, ne risulta che, sposatosi in giovane età, il C. nacque una ventina di anni prima all'incirca. Le difficoltà, di ricostruire persuasivamente la sua vita privata sono acuite dal fatto che nelle sue opere, edite e inedite, non compaiono mai sicuri riferimenti autobiografici (forse in omaggio alla sua scelta di poeta "mondano"). Tuttavia nel capitolo XVII delle sue Canzonete (Venezia 1492, c. 52r) il C. si rivolge a Cicco Simonetta, cortigiano del duca di Milano, pregandolo di intercedere per lui presso lo Sforza affinché lo voglia perdonare di aver contratto matrimonio "oltre il saper di quello" e mancandogli così di fede. Dal momento che nel "divo Sforcia" e nel "glorioso figlio" di lui si devono vedere rispettivamente il duca Francesco, asceso al potere nel 1450 e morto nel 1466 e il figlio Galeazzo Maria, nato nell'anno 1444, queste allusioni del C. ad un matrimonio d'amore che lo costringeva " ne l'esilio infelice ... temendo l'ira di tal rigor" possono apparire in contrasto, come nota il Cestaro (p. 11), con la situazione coniugale di Niccolò di Lello del 1456. O non si tratta della stessa persona, o bisogna invece ammettere che il C. sia rimasto vedovo e sia passato a seconde nozze mentre era alla corte dello Sforza, chiamatovi forse, come pensa il Rossi (N. L. C...., p. 142), quale precettore di Galeazzo Maria. In ogni caso, l'ira dello Sforza sembra sproporzionata all'entità del fallo del C., colpevole soltanto di essersi sposato a sua insaputa, e l'esilio a cui egli fu costretto ha tutta l'aria di un'esagerazione poetica. È probabile invece che i motivi per cui egli fuggì da Milano siano stati ben altri. Nel capitolo XVIII (op.cit., c. 53r) il C. si rivolge invece ad un Ercole, nel quale invano si è cercato di identificare Ercole d'Este (nato nel 1431), e si appella alla sua "benignità", chiede "rispetto al puro intento suo, a la fede paterna, ai suoi verdi anni", ricorda il "paterno voler, che a lui fu sempre caldo a servir". Ammettendo che il C. sia nato verso il 1420, è impossibile che questa poesia sia stata scritta dopo il 1450-1455, e sarà dunque coeva al cap. XVII. Al servizio del menzionato Ercole era stato probabilmente il padre del C., e tale personaggio andrà dunque ricercato nella cerchia patavina o in quella milanese.

Dalle scarse testimonianze che si sono citate, si ricava dunque che il C. esercitò la professione di maestro pubblico e privato a Padova e forse a Milano; nello stesso tempo coltivò la poesia latina e volgare in modo da procurarsi una notevole rinomanza, sebbene da molti scrittori del suo tempo egli fosse citato più come esempio di scostumatezza che non di elevata ispirazione. Dopo la fuga da Milano il C. sostò probabilmente a Padova, dove collaborò attivamente al cenacolo dei "poeti maledetti" della città, definito dai contemporanei "setta maccheronica" non solo in riferimento alle inclinazioni poetiche, e assistette al torneo organizzatovi per la festa di S. Antonio a spese dell'inglese John Chetwort nel 1466. Uno dei cantori della "giostra", il vicentino Bartolomeo Pagello, gli dedicò appunto fra altri componimenti un'elegia in cui si allude alle gare equestri del 1466 (De ludis ac spectaculis Patavii celebratis ad Cosmicum: Vat. Barb. lat. 1791, f. 28v). Subito dopo il C. prese la via di Roma e qui entrò a far parte dell'Accademia di Pomponio Leto.

Fu probabilmente in questa occasione che egli assunse il soprannome di "Cosmicus", anche per il fatto che i versi citati dell'Ariosto lo accostano, nella consuetudine di tale mutamento, al fondatore dell'Accademia Romana. Nel De honesta voluptate, scritto non dopo l'estate del 1467, Bartolomeo Platina nomina il C. quale assiduo convittore dell'Accademia Romana, e nel dialogo De fiosculis quibusdam latinae linguae, ambientato nella Roma degli anni anteriori al 1468, lo introduce come interlocutore a discutere con se stesso delle Elegantiae dei Valla e di importanti questioni di lingua. Da questa opera ricaviamo anche una notizia biografica sulla famiglia dei C.: era con lui a Roma, ammalato di angina, lo zio paterno Teodoro. All'attività dell'Accademia il C. partecipò specialmente con i suoi atteggiamenti spregiudicati e con le sue poesie latine ed italiane, nelle quali non faceva mistero della libertà che rivendicava nel campo religioso-filosofico e in quello amoroso.

Quando, eletto papa il severo cardinale Pietro Barbo (Paolo II), l'Accademia Romana fu chiusa d'ufficio e i suoi soci perseguitati e imprigionati, il C. abbandonò Roma, senza, a quanto sembra, subire inquisizioni. Infatti, mentre i suoi compagni languivano ancora nelle carceri pontificie, il C. si trovava a Padova, come membro della commissione composta di giuristi e studiosi, fra cui Demetrio Calcondila, che il 28 ag. 1469 licenziò in utroque iure Giovanni Lorenzi, il futuro bibliotecario della Vaticana. Il C., definito nel diploma di laurea "Venetus poeta", godeva dunque in patria di grande reputazione, nonostante le dicerie sulla setta maccheronica e la fama che doveva averlo accompagnato da Roma. Nel liberale ambiente patavino, come lo rappresenta una lettera scritta da Demetrio Calcondila al Lorenzi nell'agosto 1472, egli rimase per qualche anno, continuando a scrivere le sue poesie ed esercitando la professione di grammatico. Da un'altra lettera, che lo stesso C. spedi da Padova il 5 giugno 1475 al giovane Alessandro Strozzi, nipote del noto Palla, apprendiamo che il suo soggiorno a Padova era interrotto soltanto da brevi viaggi a Venezia, per fare visita all'amico. All'inizio del 1476 il C. lasciò nuovamente Padova per stabilirsi a Roma come familiare del cardinale e mecenate Francesco Gonzaga.

In una lettera dell'8 giugno 1476, scrivendo da Roma allo Strozzi, il C. raccomanda infatti di indirizzare eventuali comunicazioni per lui "a casa dil Mantua over in casa di misser Augustino de Maphei scriptor apostolico", ossia il noto letterato veronese, appena nominato abbreviatore pontificio. Il C. lamenta qui che a Roma i poeti come lui, che pur godono di qualche stima, siano poco apprezzati, e sarebbe già tornato, "ma li priegi delli amici et l'humanitate mi dimostra il Mantua mi ritiene contro mia voglia" (Patetta, p. 463). Nella lettera vi sono anche affermazioni, per altro da non sopravvalutare data l'intonazione pessimistica di tutto l'insieme, che rivelerebbero la propensione del C. per una concezione naturalistico-deterministica del mondo, governato da "divine intelligenze" senza intervento dell'uomo, ogni azione del quale "è fatale, e non sua opera". La nostalgia della patria e dell'amicizia dello Strozzi, che avrebbe permesso al C. di "havere cum cui communicare", e il disgusto, non si sa quanto sincero, per la "divversitate da costumi della giente e dilla vita di questi Sardanapali" (Rossi, N. L. C…, p. 151), traspaiono anche in una lettera dell'8 apr. 1477 scritta allo stesso Strozzi da Roma nella casa di Agostino Maffei, "il quale mi è mio Mecenate et habito cum lui".Nell'estate dello stesso anno il C. fece un momentaneo ritorno nel Veneto, come si ricava da una lettera inviata dal poeta Tifi Odasi allo Strozzi (Rossi, Di un poeta …, p. 9); di qui, il 15 ottobre, partì per Firenze, dove probabilmente fu presentato dall'amico Calcondila a Lorenzo de' Medici e introdotto nella cerchia di poeti e eruditi da lui protetta.

Infatti ricordi di lettere da lui scritte nel periodo fiorentino affiorano dai documenti medicei (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo av. il Principato, F.a LXIII, ff. 8r, 9v), mentre Marsilio Ficino, scrivendo all'amico Jacopo Bracciolini, lo invita una volta a salutare "Cosmum poetam" (Kristeller, Supplementum..., p. 34), invoca un'altra a sua difesa "Cosmicum... strenuum Palladis militem" (ibid., p. 39). L'ipotesi di qualche biografo, che il C. avrebbe assistito, ancora a Firenze, nell'aprile 1478, alla repressione della congiura dei Pazzi e all'impiccagione dell'arcivescovo Salviati, sembra contraddetta dal fatto che nello stesso periodo egli si trovava probabilmente a Venezia per curare la prima edizione delle sue poesie liriche, che infatti fu pubblicata qui da Bernardino di Celeri da Lovere, il 10 apr. 1478 (GKW n. 7803). L'opera conobbe un certo successo, come fanno fede le ristampe venete del "Maestro Rigo da Ca Zeno" (Vicenza 1481: cfr. GKW n. 7804), di Annibale Fossi (forse a Venezia e nel 1486: cfr. GKW n. 7805) e di Tommaso di Piasis (Venezia 1492: GKW n. 7806), alle quali il C. apportò lievi variazioni nell'onomastica femminile (Rossi, N. L. C. ..., p. 138). Nell'edizione dei 1492 compare il titolo di Canzonete, che, sebbene impropriamente, ha designato in seguito le opere del Q; si tratta di diciotto capitoli in terza rima, dei quali i primi sedici sviluppano non senza prolissità i luoghi comuni della lirica amorosa di ascendenza petrarchesca. Fuggevoli figure di donne balenano qua e là, Costanza, Maria, Cecilia, Paolina, Lucrezia, emergendo faticosamente da immagini retoriche e convenzionali e da stereotipi espressivi tanto infallibili quanto banali. Oltre ad imitare scolasticamente la lirica petrarchesca, il C. inserisce nei suoi capitoli una serie di reminiscenze dantesche, che pur nella loro ovvietà di citazioni denotano uno studio accurato, sebbene non profondo, della Divina Commedia. Raramente il C. riesce a liberarsi dalla soggezione ai suoi modelli, e questo avviene quando, nei momenti di solitudine, egli si rivolge direttamente agli elementi naturali "secretari de mie pene antiche", o quando descrive un silenzioso notturno, illuminato dalla luna "nuda sencia alcun velo". Come esponente del petrarchismo prebembesco, più maturo e musicale di quello dei primi imitatori del Petrarca, ha cercato di rivalutarlo di recente il Nigro (Il Quattrocento, III, 2, pp. 284 s.).

È probabile che il C., tornato a Padova per la pubblicazione del suo volume, abbia sostato nella sua città per circa un anno. Verso la fine del 1479 egli comunque ritornò a Roma, sempre al servizio del cardinale Francesco Gonzaga. La sua competenza letteraria e mitologica doveva essere così apprezzata che fu incaricato da Francesco Maffei, fratello di Agostino e uomo di fiducia del Gonzaga, della consulenza per la sistemazione dei graffiti che dovevano ornare le pareti del giardino cardinalizio (come si ricava da una lettera del Gonzaga stesso al Maffei, in data 4 dic. 1479). Che il C. fosse ancora a Roma nel nov. 1480 apprendiamo da una lettera del cardinale Giovanni d'Aragona alla sorella Leonora, moglie di Ercole I d'Este duca di Ferrara, nella quale la pregava di volersi "dignare fare restituire" 200 scudi d'oro, che erano stati sottratti al C. da un certo Pietro da Verona, nel frattempo arrestato a Ferrara, al legittimo proprietario "nostro familiare dilecto" (Bertoni, p. 370). Alla morte del Gonzaga (1483), il C. passò probabilmente al servizio del marchese Federico, fratello di lui, e soggiornò per qualche mese a Mantova. Tuttavia nel 1484 si trovava nuovamente a Roma, dato che qui gli faceva pervenire i suoi saluti Demetrio Calcondila, per mezzo di Giovanni Lorenzi, con una lettera in data 26 nov. 1484. Poco tempo dopo il C. passò da quello di Federico al servizio del vescovo di Mantova, Ludovico Gonzaga, e abbandonò definitivamente Roma. Dal 1484 al 1489 non si hanno nòtizie documentate del C., ed è probabile che egli sia vissuto tranquillamente a Mantova godendo il favore del suo illustre protettore. Nell'aprile del 1489 l'inquisitore di Mantova, fra Ambrogino, aveva in animo di allestire un processo contro di lui. Ludovico Gonzaga intervenne allora a difendere il suo protetto, come risulta da due lettere, una a Bonifacio Pico, l'altra alla cognata Antonia Del Balzo, entrambe del 15 apr. 1489.

Il Gonzaga affermava in esse di non essere a conoscenza di alcun "dolo" del C., nel qual caso "lo prenderessimo con le nostre mane et lo manderessimo ad esso inquisitore", e invitava il Pico e la cognata a intercedere presso fra Ambrogino affinché, per la calunnia "de qualche persona ignobile et di puocha existimatione", non si volesse "procedere aut inquirere" avventatamente con "uno huomo virtuoso et existimato per tuta Italia". Quanto alla presunta colpa del C., è probabile che si trattasse della sua dichiarata propensione verso il determinismo fatalistico e l'agnosticismo del libero pensatore, che egli aveva assorbito al tempo della sua appartenenza all'accadeinia del Leto. D'altronde l'accusa di incredulità e di eresia contro di lui compare anche nei sonetti maledici adespoti pubblicati dal Cappelli (pp. 223, 239 s.), senza che si possa escludere però, da parte dell'inquisitore, la precisa contestazione del vizio della sodomia, dal C. praticata ed esaltata nelle sue poesie (durante i soggiorni patavini, come si è visto, il C. aveva riunito intorno a sé, stando all'autore di uno dei sonetti maledici [Cappelli, p. 228], "una setta iniqua e scelerata", detta da lui "cosmicana", "academia a gente strana", ciò che fa pensare sia alla professione di ateismo sia alla spregiudicatezza di costumi di una compagnia libera nell'agire e nello scrivere).

Grazie all'influente intervento del Gonzaga, o perché le accuse si rivelarono infondate, il C. fu probabilmente prosciolto nella fase istruttoria. Intanto egli coltivava le sue relazioni estensi e a partire dal 1490prese stabile residenza a Ferrara, dove fu stipendiato con una certa regolarità almeno a partire da quest'anno. Nell'aprile 1491 ilvescovo Gonzaga gli scriveva, sollecitandogli l'invio di certi sonetti (Rossi, N. L. C. ..., p. 116), nel 1494 riceveva una somma di "lire 50" per non si sa quale incombenza (Bertoni, p. 371), nel 1496era interpellato da Isabella d'Este perché le trovasse un precettore da sostituire a Giambattista Pio. In una lettera del 4 dic. 1496 il C. rispondeva proponendole uno strano tirocinio epistolare del quale egli stesso doveva essere il maestro, in attesa di inviarle come precettore "un mio compagno il quale è doctissimo in latino et greco et è philosopho" (Renier, I sonetti ..., p. XXXIX). Alla corte ferrarese dunque il C. trovò finalmente sicuro rifugio dalla sua vita avventurosa ed errabonda e gli anni che vanno dal 1490al 1500 sono quelli della sua massima fortuna come poeta, cortigiano e precettore.

Qui egli venne conosciuto personalmente dal giovane Ariosto, che ne ammirò inizialmente la vena mordace e la capacità di improvvisazione, ma per motivi non ben chiari, forse per animosità verso Alfonso Trotti, fattore ducale, giudice nella successione dei beni di Rinaldo Ariosto e intimo amico del C., scrisse contro di lui un sonetto (la cui paternità peraltro non da tutti i critici è accettata), nel quale lo accusava di sacrilegio, libertinaggio, sodomia, eresia ed incesto (Segre, p. 151), salvo poi a piangerne la morte in un epitaffio latino del 1502, nel quale lo definiva "comis et lepidus" e caro alle Muse. Un altro esponente della cultura ferrarese, Lilio Giraldi (nato nel 1479), ricorda di averlo visto, fanciullo, alla corte estense, circondato di ammiratori che lo anteponevano a tutti, e lo descrive come un poeta "argutus et mordax impatiensque alienae laudis" (Depoetis, p. 21). Sempre a Ferrara, il C. fu in intimi rapporti di amicizia con Antonio Cammelli il Pistoia, che lo definì entusiasticamente "il miglior poeta di tutta Lombardia" (Percopo, I sonetti..., p. 109) e gli rivolse sonetti scherzosi, come quello contro un grammatico pedante accusato di aver "mangiato Prisciano" (ibid., p. 350), o l'altro serio, anteriore al 1496, in cui il Pistoia si lamenta di esser stato abbandonato dagli amici durante una sua malattia. All'amico anche il C. dedicò alcune poesie, fra cui, ad esempio, il sonetto del 1494 0 1495 nel quale deplorava la venuta in Italia di Carlo VIII e scherzava sulla situazione del papa, circondato a Roma dalle soldatesche francesi (Cappelli, p. 21). Si inserisce a questo punto la questione dei ventitré sonetti maledici adespoti, pubblicati per la prima volta dal Cappelli, nei quali il C. viene accusato di essere un ladro eretico, un falsario, un fratricida e un peccatore sodomita (quest'ultima accusa trova riscontro specialmente nelle poesie latine pederastiche "Ad Adrastum puerum" e "Ad Ianum", trascritte dal Rossi, N. L. C. ..., pp. 153-158, di su un apografo modenese). I sonetti furono scritti contro il C. quando costui era in età ormai avanzata e prossimo alla morte. L'attribuzione al Pistoia, pur sostenuta da parecchi critici, non appare del tutto convincente, anche se l'anonimità dei componimenti potrebbe autorizzare l'ipotesi di un amico che non voleva essere accusato di un voltafaccia troppo brusco. È lecito pensare che il Pistoia abbia elogiato il C. nei sonetti e nel Dialogo pubblicato dal Percopo (I sonetti..., p. 76), dove lo fa incoro nare poeta da Dante e Petrarca, ma che parallelamente abbia denigrato aspramente i vizi dell'amico, mantenendo l'incognito, sia sul piano letterario, con il definirlo "scabroso e crudo", sia su quello morale, con il metterne in luce le tendenze aberranti. Il comportamento del Pistoia si potrebbe accostare a quello dell'Ariosto; d'altra parte i rapporti fra il Pistoia stesso, il C., l'Ariosto e il comune amico Alfonso Trotti costituiscono un intrico tale di relazioni personali e letterarie, di amicizie e di polemiche, di rivalità e di riconciliazioni, che il problema non appare, ora come ora, facilmente risolvibile. Delle altre ipotesi che sono state fatte circa l'autore dei ventitré sonetti (Ariosto, Panciatichi) non mette conto parlare.

Altri contemporanei comunque elogiano il C. come poeta e testimoniano la fama e la diffusione dei suoi componimenti: l'anconitano Andrea Stagi nel poema Amazonida (Venezia 1501, c. 80v), il poeta Giacomo Filippo Pellenegra (Sonetti... del... Cornazano, ibid. 1502, c. 63v), Filippo Oriolo da Bassano nel poema inedito Monte Parnaso (c. XVII, 19-21: Rossi, Ilcodice..., p. 54), il poeta Cassio da Narni nell'opera La morte del Danese (Ferrara 1521, c. 71r), dove lo definisce "troppo scabro". Un raffinato giudice di poesia come Pietro Bembo attribuiva il merito del successo del C. al fatto che "egli non ha in tutto composto vinizianamente, anzi s'è egli dal suo natio parlare più che mezzanamente discostato" (Trattatisti..., p. 97), cosa che ha offerto lo spunto a recenti rivalutazioni della sua poesia. Il Bembo era, inoltre, al corrente sia delle opere inedite sia della passione dantesca dei C., dato che ne cita un sonetto in cui il C. "al Petrarca il secondo luogo avesse dato nella volgar poesia" (ibid., p. 161),e lo introduce come interlocutore nel secondo libro delle Prose a discutere di Dante con lui stesso e Paolo Canale. Il contemporaneo Marco Antonio Coccio Sabellico lo ricorda come poeta dell'Accademia Romana in una sua elegia (in Opera omnia, cc. 594 s.) e lo cita ammirativamente come uno di coloro che hanno contribuito alla rinascita della poesia latina nel De latinae linguae reparatione (ibid., c.331).

Tracce della presenza del C. a Ferrara si trovano ancora nei registri ducali del 1497 (Bertoni, p. 371); della sua influenza a corte testimoniano anche l'opuscolo De morbo gallico del medico Sebastiano Foroli, scritto nel 1497 (e pubblicato nel 1509), nella cui prefazione si avverte che esso fu dedicato al vescovo Ludovico Gonzaga "ab admonitione Cosmici nostri" (Gedda, pp. 268 s.), e la riduzione teatrale, perduta, del Trinummus e del Poenulus e di altre commedie di Plauto e di Terenzio, eseguita nel 1498 dietro invito di Isabella d'Este, nella quale il C. si atteneva "a la materia... solamente morale" e faceva "vulgari" anchei pomi propri (come il 7 e l'8 genn. 1498 scriveva ad Isabella: Renier, Isonetti..., p. XL).

All'inizio del secolo il C. lasciò definitivamente la corte di Ercole I e si ritirò a Teolo, non lontano da Padova, dove morì il 28 giugno 1500 (Ferrara, Bibl. com., cod. N. D. 3.408, f. 5v).

Nel 1903, traendolo dal codice Estense α.H.6.1, il Cian pubblicò un capitolo in terza rima, dedicato al nobile veneziano Tommaso Mocenigo, con cui il C. inaugurava, indipendentemente da altri tentativi, il genere satirico in lingua italiana. Il prolisso componimento, che non si può datare con sicurezza, è imperniato su di un tema caro ai moralisti dell'antichità, il "conviciuni saeculi", e si risolve in "un interminabile e noioso lamento sulla decadenza del mondo" (Cian, Satira..., p. 388). Il C. s'augura che il Mocenigo possa portare soccorso al "malvagio e rio seculo" e, in conformità con un luogo comune del tempo, conclude con un fichiamo all'onnipotenza della fortuna, il tutto appesantito da una frequenza fastidiosa di reminiscenze mitologiche e imitazioni dantesche.

Molti scritti del C. sono andati Perduti (fra cui l'Opera eroica invano fatta ricercare da Isabella d'Este dopo la sua morte) o sono tuttora inediti. Fra le più importanti raccolte anecdote delle poesie italiane dei C. si devono ricordare anzitutto il codice Marc. ital. IX151 (Cosmici... Rerum vulgarium fragmenta), ilcodice ferrarese N.D.3.408, ilcodice Estense di Modena già citato, i codici Marc. ital. IX 365 e 203. Altri componimenti volgari del C. si trovano in codici veneziani e vaticani. Lilio Giraldi (De poetis, p. 21) ricordava di aver letto "pauca latina" e di aver visto "eius epistolarum volumen carmine conscriptum sed non editum" presso l'amico Agostino Mosti. Giudicava, inoltre, i suoi epigrammi "dura sed arguta". Saggi di poesie latine del C., come si è visto, sono stati pubblicati dal Rossi; ma le principali collezioni di carmi latini del C., che sembra aver prediletto il metro elegiaco, sono contenute nel codice della Bibl. del Museo civ. di Padova, C.M. 830, ff. 6 ss. (63 elegie suddivise in tre libri, in parte dedicate ad Alessandro Strozzi e Ludovico Gonzaga) e nell'apografo della Biblioteca Ambrosiana di Milano R 12 sup., ff. 172v-247r. Altri componimenti latini si trovano nel codice della Biblioteca Estense di Modena Est. lat. 134 (Ad Hieronymum medicum).

Fonti e Bibl.: B. Piatina, De honesta voluptate et valetudine, Venetiis 1475 (dal libro V); Id.. De flosculis quibusdam latinae linguae, Mediolani 1481, c. 2v;A. Cornazano, Sonetti e canzone, Venezia 1502, c. 63v; M. A. Coccio Sabellico, De latinae linguae reparatione dialogus, in Opera omnia, IV, Basileae 1560, c. 331; Id., Elegiae, ibid., cc. 594 s.; G. M. Crescimbeni, Dell'istoria della volgare poesia, V, Venezia 1730, p. 37;G. Tiraboschi, Storia della lett. ital., VII, Modena 1790, pp. 951 s.; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, I, Padova 1832, pp. 298 s.; A. Cammelli detto il Pistoia, Rime edite e ined., a cura di A. Cappelli - S. Ferrari, Livorno 1884, pp. 21, 23-245;V. Cian, Un decennio della vita di M. Pietro Bembo, Torino 1885, pp. 231 s.; R. Renier, G. Visconti, in Arch. stor. lomb., XIII (1886), p. 81 s; V. Rossi, Di un poeta maccheronico e di alcune sue rime ital., in Giorn. stor. della lett. ital., XI (1887), pp. 9, 1-14, 30; E. Percopo, I sonetti del Pistoia, in Propugnatore, n. s., I (1888), pp. 33, 278-284 (ripubblica una saffica del C. come uno tra i primi esempi di poesia "barbara"); R. Renier, I sonetti del Pistoia giusta l'apografo trivulziano, Torino 1888, pp. XXXVI-XLVII; V. Rossi, N. L. C. poeta padovano del secolo XV, in Giornale storico della letteratura ital., XIII(1889), pp. 101-158; F. Flamini, Varietà, ibid., XVII(1891), pp. 393-395; A. D'Ancona, Origini del teatro ital., II, Torino 1891, pp. 372 s.; F. Patetta, Una lettera ined. di N. L. C., in Giornale stor. della letteratura ital., XXIII (1894), pp. 461-463; L. G. Giraldi, De poetis nostrorum temporum, Berolini 1894, p. 21; G. Rossi, Il codice estense X.*.34, in Giorn. stor. della lett. ital., XXX (1897), pp. 10-57; A. Luzio-R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie d'Isabella d'Este, ibid., XXXV(1900), pp. 222 s.; V. Cian, Una satira di N. L. C., Pisa 1903; A. Simioni, Un umanista milanese, Piattino Piatti, in Arch. stor. lomb., XXXI(1904), 2, p. 298; E. Percopo, I sonetti faceti di Antonio Cammelli secondo l'autografo ambrosiano, Napoli 1908, pp. XXVI s.,25 s., 72-74; V. Zabughin, G. P. Leto, I, Roma 1909, p. 35; B. C. Cestaro, Rimatori padovani del sec. XV, in L'Ateneo veneto, n. s.,XXXVII(1914), pp. 7-25 (pubblica canzoni inedite tratte dal cod. Marc. ital., IX151); A. Segarizzi, N. L. C., in Nuovo Archivio veneto, XXVII(1914), pp. 239 s. (dà notizia di un componimento latino del C.); G. Bertoni, N. L. C., in Giornale stor. della lett. ital., LXXVII (1921), pp. 370 s.; Ph. Monnier, Le Quattrocento, II, Paris 1924, pp. 358, 361; V. Cian, La satira italiana, I, Milano [1924], pp. 381-389, 511 s.; L. von Pastor, Storia dei papi, III, Roma 1925, pp. 97, 99; M. Gedda, Di N. L. C., e di L. Gonzaga vescovo di Mantova, in Giornale storico della letteratura ital., XCII(1928), pp. 267-270; G. Carducci, La coltura estense e la gioventù dell'Ariosto, Bologna 1936, pp. 321-323; P. O. Kristeller, Supplem. ficinianum, I, Florentiae 1937, pp. 32, 39; B. Croce, Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento, I, Bari 1945, pp. 269, 380; L. Ariosto, Opere minori, a cura di C. Segre, Milano-Napoli 1954, pp. 42 s., 44 s., 151; Mantova, Le lettere, II, a cura di E. Faccioli, Mantova 1962, pp. 205, 232, 266 s.; S. S. Nigro-F. Tateo, Il Quattrocento, III, 1, Bari 1971, p. 24; III, 2, ibid. 1972, pp. 284 s.; P. Bembo, Prose della volgar lingua, in Trattatisti del Cinquecento, I, Milano-Napoli 1978, a cura di M. Pozzi, pp. 97, 161; Gesamtkatalog der Wiegendrucke (GKW), VII, Leipzig 1938, pp. 185 s., nn. 7803-7806; M. E. Cosenza, Biogr... Dictionary of Italian Humanists, II, Boston 1962, pp. 1127 s.; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 266, 338 s., 378, 385; II, pp. 8, 21, 54 s., 99, 123, 168, 194, 258, 287, 356, 361, 437, 460, 503.

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