Machiavelli, Niccolò

Dizionario di Storia (2010)

Machiavelli, Niccolo


Machiavelli, Niccolò

Pensatore e letterato (Firenze 1469-ivi 1527). Figlio di Bernardo, dottore in legge (1430 o 1431-1500), e di Bartolomea de’ Nelli. Studiò grammatica dal 1476, abaco dal 1480 e dal 1481 seguì le lezioni di grammatica di ser Paolo Sasso da Ronciglione nello Studio fiorentino. Fra i classici latini, storici come Livio e Giustino ebbe fra le mani fin dall’adolescenza; e alla giovinezza dovrebbe appartenere una lettura impegnativa come quella di Lucrezio, documentata dal ms. Vaticano Rossiano 884, copia autografa e firmata del De rerum natura (e dell’Eunuchus terenziano). È possibile che dopo il 1494 M. frequentasse le lezioni di Marcello Virgilio allo Studio. Non c’è prova che conoscesse il greco. Tra il 1492 e il 1494 cercò di stringere rapporti con Giuliano de’ Medici, destinatario, forse, del capitolo pastorale Poscia che a l’ombra e della canzone Se avessi l’arco e l’ale. Caduti i Medici e affermatasi l’autorità di Savonarola, M. si avvicinò a quei settori di aristocrazia che passarono all’opposizione aperta nei confronti del frate e ne provocarono la rovina. In questa luce si spiega come, entrato in concorso fin dal febbraio 1494 per un minore ufficio, subito dopo il supplizio di Savonarola, M. fosse designato e nominato segretario della seconda cancelleria, e poi anche segretario dei Dieci. L’attività ufficiale di M. è documentata da un’imponente mole di corrispondenza tenuta, in nome degli organi di governo centrali, con i funzionari e i comandanti militari sparsi per il dominio fiorentino. Ma è ancora più importante il servizio diplomatico che a M. toccò di svolgere presso le principali corti italiane e straniere. A M. venivano richiesti speciali rapporti su questioni del dominio ovvero sui risultati delle missioni oltre confine: del maggio 1499 è la prima prosa politica conservata, il Discorso sopra Pisa. Nel luglio M. ricevette il primo incarico diplomatico di rilievo, una missione presso Caterina Sforza, contessa di Forlì. L’anno dopo fu inviato, con Francesco Della Casa, in Francia per richiedere un maggiore impegno nella guerra pisana (luglio 1500-gennaio 1501). Fra gli scritti sul soggiorno francese spiccano il Discursus de pace inter imperatorem et regem (apr. 1501) e i ricordi De natura gallorum (elaborato fino al 1503). Nell’autunno del 1501 M. sposò Marietta Corsini (da cui ebbe Primerana, Bernardo, Lodovico, Guido, Piero, Baccina e Totto). Nel giugno dell’anno seguente fu coadiutore di Francesco Soderini nell’ambasciata a Cesare Borgia, allora impadronitosi di Urbino; dall’ottobre 1502 al gennaio 1503 svolse una seconda legazione al Valentino, in coincidenza con la ribellione dei luogotenenti, che il Borgia domò ricorrendo all’astuzia e alla crudeltà. Dall’ottobre al dicembre del 1503 M. fu in missione a Roma per seguire il conclave da cui uscì eletto Giulio II; dal gennaio al marzo 1504 fu di nuovo alla corte del re di Francia. Intanto, nel settembre 1502, era stato eletto gonfaloniere perpetuo della Repubblica fiorentina Piero Soderini, cui M. si legò di sincera, ma non acritica, fedeltà. Nella discussione e nei conflitti fra Soderini e gli ottimati, M. intervenne con promemoria e documenti consultivi (Parole da dirle sopra la provisione del danaio, marzo 1503, e Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, luglio 1503) e col poemetto in terzine dantesche Compendium rerum decemnio in Italia gestarum (finito nel 1504, ma dato alle stampe nel 1506 col titolo Decemnale), che è una vivace cronistoria degli anni 1494-1504. Come provano gli ultimi versi del poemetto, M. si dedicò al progetto di una milizia «propria» della Repubblica, ossia formata da cittadini e sudditi, non da mercenari né da alleati stranieri. Nonostante il sostegno del cardinale Francesco Soderini, soltanto nel dicembre 1505 si poté dare inizio al reclutamento e all’addestramento dei primi contingenti. La provvisione definitiva fu votata il 6 dicembre 1506. Tra l’agosto e l’ottobre di quell’anno M. aveva svolto una legazione al seguito di Giulio II attraverso l’Umbria e la Romagna per una campagna contro i signorotti locali: agli eventi di quella spedizione allude l’epistola a Giovan Battista Soderini, nota come Ghiribizzi, la cui materia passa nel coevo Di Fortuna, indirizzato al medesimo Soderini. Nominato in seguito (1507) cancelliere dei Nove ufficiali della milizia fiorentina, M. si occupò ancora del reclutamento nel contado. Fu quindi designato per una missione presso l’imperatore Massimiliano, ma subito dopo, per l’opposizione della parte aristocratica, revocato e sostituito da Francesco Vettori (è forse di questi tempi un capitolo intitolato Ingratitudine; motivi analoghi ritornano nel Canto dei ciurmadori, scritto per il carnevale del 1509; fra il 1502 e il 1524 M. scrisse altri cinque canti carnascialeschi). Solo alla fine del 1507 il gonfaloniere riuscì a far partire per il Tirolo anche M., con funzioni di segretario. Al rientro in patria, nel giugno 1508, questi stese un Rapporto di cose della Magna (in seguito trasformato nel Ritracto di cose della Magna, 1509-12). Tornato ai suoi uffici militari, ebbe parte notevole nella riconquista di Pisa (giugno 1509). Nel novembre-dicembre fu a Verona presso l’imperatore, intervenuto nella guerra della Lega di Cambrai contro Venezia; a questo soggiorno appartiene il capitolo Dell’ambizione, dedicato a Luigi Guicciardini. Nel giugno-ottobre tornò per la terza volta in Francia: a missione conclusa, cominciò a elaborare un Ritracto di cose di Francia (lasciato, imperfetto, dopo il 1512). Intanto il contrasto fra il papa e i francesi si era aggravato e la posizione della Repubblica fiorentina si faceva più difficile. A M. toccarono nuove incombenze militari e delicati servizi diplomatici: in Francia (sett.-ott. 1511), quindi a Pisa (novembre) presso il concilio dei cardinali contrari a Giulio II, per indurli a lasciare il territorio fiorentino. Dopo la battaglia di Ravenna e il ritiro dei francesi dalla Lombardia, forze militari spagnole al seguito del cardinale Giovanni, capo della famiglia de’ Medici e legato pontificio, entrarono in Toscana (ag. 1512). Le fanterie fiorentine furono annientate e Prato sottoposta a saccheggio; Piero Soderini dovette fuggire da Firenze e i Medici presero il potere (16 sett.). M. aveva esortato i vincitori a continuare la linea antiottimatizia del Soderini (appello Ai Palleschi), ma fu cassato dall’ufficio e condannato a un anno di confino entro il dominio fiorentino. Sospettato di aver preso parte alla congiura ordita da A. Capponi e P. Boscoli contro i Medici, nel febbr. 1513 fu arrestato e torturato. Sembra che rischiasse il carcere perpetuo e lo evitasse grazie a Giuliano de’ Medici, e fu condannato a pagare una malleveria. Ma poté uscire di prigione grazie all’amnistia seguita all’elezione papale di Giovanni de’ Medici (Leone X, 11 marzo). M. si ritirò nel podere dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina. E qui, mentre tentava di ottenere qualche incarico dai nuovi signori, compose forse un trattato sulle repubbliche (destinato a trasfondersi nei Discorsi), un secondo Decennale (incompiuto), il Tradimento del Duca Valentino al Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo et altri, e soprattutto il trattato De principatibus, universalmente noto con il titolo che gli applicò la stampa romana del 1532: Il Principe. La prima parte dell’opuscolo (capp. I-XI) spiega quali siano i generi dei principati: ereditari, nuovi, misti di una parte antica e di una nuovamente acquisita; quali i modi di tale acquisto: virtù e forze proprie, fortuna con forze altrui (il VII cap. è imperniato sulla figura del Valentino), il delitto, il favore dei concittadini. Dopo i tre capitoli dedicati ai diversi tipi di esercito (mercenario, ausiliario, proprio, misto), M. discute le qualità per cui un principe, ovvero in generale un capo politico, è lodato o vituperato: contro la tradizione moralistica, l’autore afferma il valore supremo della «verità effettuale», cioè la necessità di affrontare gli altri uomini per quello che sono e non per quello che dovrebbero essere. Infine, spiegato perché i signori d’Italia hanno perso i loro Stati di fronte alle invasioni straniere (cap. XXIV) e riassunta la propria complessa dottrina della fortuna (cap. XXV), M. rivolge un’appassionata esortazione alla casa dei Medici perché guidi una riscossa italiana contro il «barbaro dominio» di spagnoli e svizzeri. Il libretto fu concepito e steso tra l’autunno del 1513 e l’aprile del 1514; doveva essere indirizzato a Giuliano, ma infine M. lo dedicò al giovane Lorenzo di Piero de’ Medici, il futuro duca di Urbino, che dall’estate del 1513 reggeva la signoria medicea in Firenze. Dopo qualche positivo cenno di riscontro (ai primi del 1515, M. fu consultato in materia militare e compose i Ghiribizi d’ordinanza), dalla corte di Roma venne un fermo diniego a ogni riabilitazione di M. (febbr. 1515). Nei mesi successivi M. si accostò a un gruppo di giovani letterati di ispirazione repubblicana, che si riuniva attorno a Cosimo Rucellai. A quest’ultimo e a Zanobi Buondelmonti sono dedicati i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-17 ca.), il capolavoro machiavelliano, grandiosa opera di meditazione storico-politica in forma di libera glossa al testo liviano. I medesimi Cosimo e Zanobi, con Battista della Palla e Luigi Alamanni, sono interlocutori accanto al protagonista Fabrizio Colonna nei dialoghi De re militari (più noti come Arte della guerra, compiuti tra il 1519 e il 1520), in cui è ribadita la necessità di ritornare ai principi dell’arte militare romana e al modello della «popolazione armata» contro l’uso moderno dei mercenari, oltre al predominio della fanteria contro quello della cavalleria e dell’artiglieria. Sul versante letterario M. attese in questi anni al poemetto L’asino d’oro (incompiuto) e al volgarizzamento dell’Andria di Terenzio; scrisse inoltre la Favola misogina di Belfagor arcidiavolo, ma anche una raffinata serenata. Dopo la morte di Lorenzo (4 maggio 1519) la diffidenza della famiglia nei confronti di M. parve attenuarsi. Grazie ai buoni uffici di Lorenzo Strozzi fu ricevuto da Giulio de’ Medici (marzo 1520); nello stesso periodo, fu rappresentata in Firenze la Mandragola, che subito dopo papa Leone volle vedere anche a Roma. Nell’estate del 1520 M. svolse una missione semiufficiale a Lucca, componendo in quell’occasione un Sommario delle cose di Lucca e un esercizio di prosa storica, la Vita di Castruccio Castracani, dedicata a Z. Buondelmonti e L. Alamanni. L’8 novembre fu «condotto» dallo Studio per comporre gli annali fiorentini e sbrigare altre incombenze politico-letterarie (fra cui il parere sulla riforma costituzionale, Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, 1520-21). Va registrata la missione del maggio 1521 al capitolo dei frati minori in Carpi per conto degli Otto di Pratica, perché in quella occasione si approfondì l’amicizia fra M. e Francesco Guicciardini, allora governatore di Modena, e tra i due cominciò a intrecciarsi uno scambio epistolare straordinario per finezza psicologica e vivacità letteraria (altrettanto importanti sono le lettere di M. a Francesco Vettori degli anni 1513-14). Nell’agosto seguente, M. poté stampare L’arte della guerra a Firenze, con dedica a Lorenzo Strozzi. Mentre continuava a lavorare agli annali fiorentini, intervenne ancora nel dibattito sulla nuova Costituzione (Minuta di provvisione, apr. 1522); poco dopo, tale dibattito si concluse con la scoperta e la repressione di una congiura antimedicea ordita da Buondelmonti e Alamanni: lo stesso M. ne ebbe qualche «imputazione», se non un vero e proprio sospetto di complicità. Di nuovo tornò a concentrarsi sull’opera letteraria e nel giugno del 1525 presentò al dedicatario Giulio de’ Medici – dal 1523 salito al soglio pontificio come Clemente VII – gli otto libri delle Istorie fiorentine: queste vanno dalla fondazione della città al 1492, ma hanno per vero soggetto il conflitto civile in Firenze, dallo scontro fra guelfi e ghibellini alla vittoria dei Medici; M. ripensa la storia della sua città, straziata dalla partigianeria, a contrasto con quella di Roma antica. Nel gennaio del 1525 M. aveva fatto rappresentare a Firenze la commedia amorosa Clizia, basata sulla Casina di Plauto. All’autunno del 1524 potrebbe risalire un Dialogo sul «fiorentinismo» di Dante, con cui M. volle intervenire nelle polemiche linguistiche del tempo (l’autenticità del testo è stata a lungo discussa). La situazione politica andava facendosi più cupa, dopo la sconfitta dei francesi a Pavia (24 febbr. 1525): M. fu inviato in Romagna, presso F. Guicciardini, per organizzarvi la milizia; nel 1526 fu nominato cancelliere dei procuratori alle mura. Nel maggio si strinse una lega tra il papa, i fiorentini, i francesi e i veneziani contro l’imperatore Carlo: presto la guerra si accese in Italia settentrionale e M. seguì con varie incombenze le vicende belliche. Sembra si trovasse a Civitavecchia quando, nel rovescio della Lega (il 6 maggio 1527 Roma venne messa a sacco), i Medici furono scacciati da Firenze e fu restaurata la Repubblica (17 maggio). I nuovi governanti, di estrazione savonaroliana, non erano favorevoli a M., che non fu richiamato in ufficio. Egli era, in effetti, già minato nel fisico e si spense («burlando», secondo la leggenda) il 21 giugno tra i pochi amici rimasti: Buondelmonti, Alamanni, Strozzi. Fu sepolto in S. Croce l’indomani. Fin dai primi scritti risulta percepibile un modo caratteristico di impostare l’analisi politica, sulla base di una considerazione realistica dei rapporti fra gli individui e fra gli Stati e di un confronto razionale fra i casi moderni e l’esempio degli antichi romani. Alcuni capitoli dei Discorsi (I, 5-6) sono imperniati sul confronto fra Venezia e l’antica Roma. La debolezza militare della prima è il prezzo della Costituzione aristocratica con cui Venezia ha voluto escludere da sé i conflitti interni. L’antica Roma si dette invece una Costituzione in cui alla plebe era concesso un potere rilevante: il che si tradusse in una sempre più pesante conflittualità interna, ma anche in una straordinaria potenza militare. La disunione e la debolezza dell’Italia del suo tempo erano causate dalla presenza in essa di una entità come la Chiesa di Roma, che non aveva potuto unificarla sotto di sé, ma aveva saputo render vani, appellandosi ad alleati stranieri, tutti i tentativi che altri, dai longobardi ai veneziani, avessero operato in quella direzione (Discorsi I, 12). La situazione italiana richiedeva una guida politica ferrea e consapevole. Nella recente storia, Cesare Borgia aveva offerto, a dire di M., un limpido esempio delle virtù necessarie al «principe nuovo»: aveva egli dato la prova, nella sua Romagna, che era possibile domare l’anarchia feudale coll’opportuna ferocia e spietata determinazione, e conquistare in tal modo l’amore dei popoli finalmente uniti e pacificati (Principe VII). Al principe nuovo Machiavelli non prospettava i principi di un’etica pubblica riferita a «come si dovrebbe vivere», ma le crude leggi dell’operare politico dettate dalla «verità effettuale della cosa» (Principe XV). La verità effettuale della storia è il conflitto: fra gli Stati, fra i gruppi sociali, fra gli individui, si combatte una lotta senza soste e senza regole (a meno che un potere superiore non costituisca, appunto, delle regole e obblighi gli altri a rispettarle). Nella dimensione della politica l’unica antitesi dotata di senso è quella che oppone alla mera violenza della dissoluzione il comando razionale della forza: tale valore positivo va dunque perseguito con totale inflessibilità, anche quando ciò obblighi a «entrare» in azioni cui la coscienza morale dà il nome di «male» (Principe XVIII). Il principe nuovo e l’uomo di Stato si muovono per un campo avvolto da una profonda zona d’ombra, da un margine di rischio, in cui si annidano le forze e le decisioni degli avversari, che solo in parte può essere sondato e distinto dalla ragione: resta un momento incalcolabile, rispetto al quale l’uomo politico non può far altro che tendere al massimo la sua capacità di resistenza. Questo momento non distintamente calcolabile e prevedibile M. chiama Fortuna. La Fortuna può schiantare ogni cosa: ma la virtù del politico deve allestire tutti «i ripari e gli argini» che sia in grado di alzare perché l’urto delle forze avverse ne venga, se non stornato, almeno attenuato (Principe XXV). La teoria politica di M. non si presenta in forma di «sistema», ma come vivo svolgimento di pensieri che dà, ai temi fin qui esposti, sviluppi complessi e variamente tormentati nelle diverse opere e anche in più luoghi della medesima opera. Le maggiori opere machiavelliane furono date alle stampe, a Roma e Firenze, nel 1531-32, soprattutto come eccellenti prove della civiltà letteraria fiorentina. Sul piano della cultura politica, invece, la lezione di M. subì, in Italia, una dura sconfitta, perfezionata con la messa all’Indice del 1559. I capitoli più significativi della fortuna di M. sono perciò legati alla storia dei grandi Stati europei: dalla formazione dello Stato nazionale francese (J. Bodin), alla Rivoluzione inglese (J. Harrington), alla rinascita tedesca dell’Ottocento (J.G. Fichte, G.W. F. Hegel). L’Italia del Risorgimento riscoprì M. con U. Foscolo e con F. De Sanctis, che attribuiscono al «segretario fiorentino» un ruolo di protagonista nella storia dello spirito nazionale.

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