NICCOLO V

Enciclopedia dei Papi (2000)

NICCOLÒ V

Massimo Miglio

Tommaso Parentucelli nacque, con ogni probabilità, il 15 novembre 1397 a Sarzana, da Bartolomeo e Andreola Tomei, di famiglie non secondarie della società della Lunigiana. La famiglia paterna aveva espresso in passato anche esponenti politici nella vita della Terra di Sarzana, meno rilevante sembra il ruolo della famiglia materna proveniente dai pressi di Fivizzano; il padre era medico. Non trova riscontro la notizia fornita da Giannozzo Manetti della nascita di Tommaso a Pisa, e di un successivo trasferimento della famiglia a Sarzana per l'esilio del padre; i Parentucelli sono infatti testimoniati a Sarzana diversi decenni prima della nascita di Tommaso. A circa quattro anni, nel 1401, perse il padre e l'accaduto segnò profondamente la sua vita. La madre, alla quale Tommaso rimase sempre legatissimo, sposò in seconde nozze Tommaso Calandrini, che non ebbe mai un buon rapporto con il figliastro; Andreola e Tommaso Calandrini ebbero tre figli: Filippo, Federico e Caterina. A dieci anni, secondo la testimonianza del Manetti, Tommaso ebbe una gravissima malattia che avrebbe messo a rischio la sua vita; in quest'occasione l'apparizione in sogno di un pontefice avrebbe tranquillizzato la madre sul futuro del figlio e avrebbe fatto pronosticare per lui i maggiori onori sacerdotali purché avesse scelto la tonsura. Le fonti contemporanee insistono concordi sulle eccezionali capacità di apprendimento di Tommaso che, giovanissimo, a soli tredici anni, avrebbe abbandonato Sarzana per proseguire gli studi a Bologna. Dopo i primi due anni di studio rientrò al paese natìo in estate per alcuni mesi, nella vana speranza di ottenere qualche aiuto economico. Tornò deluso a Bologna dove, in altri due anni, concluse il corso di studi acquisendo tali conoscenze culturali, capacità oratorie e dialettiche da richiamare l'attenzione su di sé. Dovette essere un periodo intenso di formazione, ma anche di relativa povertà, tanto da accettare per quattro anni, dal 1415 al 1419, l'incarico di precettore a Firenze, prima per i figli di Rinaldo degli Albizi e poi per quelli di Palla Strozzi. Aveva circa ventidue anni quando tornò a Bologna, non sappiamo se per approfondire gli studi o per cercare una qualche occasione di lavoro. È da sottolineare il fatto che preferisse ritornare a Bologna (anche se non è possibile individuare le ragioni della decisione), dove nel febbraio del 1421 risulta "studens in artibus", piuttosto che rimanere a Firenze: gran parte della formazione culturale di Tommaso si svolse nella città felsinea e in essa rimase per circa venti anni. Vescovo di Bologna era Niccolò Albergati che qualche tempo dopo, intorno al 1420, lo accolse nella sua "familia", e che lo volle maestro di casa, responsabile dell'organizzazione e dell'amministrazione della stessa. L'incontro con l'Albergati segnò profondamente la vita di Tommaso. Già noto negli ambienti culturali bolognesi, grazie al vescovo dovette ampliare le sue conoscenze: l'Albergati accolse presso di sé negli anni successivi anche Pietro da Noceto ed Enea Silvio Piccolomini; inoltre per il suo tramite Tommaso dovette entrare in rapporto con Ambrogio Traversari, Francesco Filelfo, Biondo Flavio. Lo stesso vescovo lo ordinò sacerdote, sembra nel 1423, quando è testimoniato come studente in teologia, "studens in sacra pagina", e quando presenta all'Albergati una supplica, chiedendo la concessione del canonicato di S. Maria di Sala Bolognese, di cui prende possesso il 26 ottobre dello stesso anno; è probabile che per suo intervento abbia ottenuto il canonicato nella cattedrale di Sarzana. L'attenzione dell'Albergati per il Parentucelli è testimoniata dalla concessione di altri benefici, alcuni dei quali, come quello di Cento, importanti nella politica di recupero delle prerogative dell'arcivescovado: nel luglio del 1425 ha l'affidamento della chiesa di S. Maria di Borgo Panigale; nel gennaio del 1426 l'arcipretura dell'importante e ben dotata collegiata di S. Maria Maggiore di Pieve di Cento; circa negli stessi anni il canonicato nel Capitolo della cattedrale di Bologna, di cui nel 1437 risulta anche camerario. Ma soprattutto i rapporti con l'Albergati proiettarono Tommaso Parentucelli tra i grandi protagonisti della politica e della diplomazia pontificia, tanto più quando il vescovo di Bologna venne nominato cardinale nel 1426. Già nel 1422, secondo il Manetti, il Parentucelli partecipò con l'Albergati alla lunga missione diplomatica in Inghilterra durata diciotto mesi e voluta da Martino V per tentare di porre fine alla guerra dei Cent'anni, così come lo accompagnò in Francia e Inghilterra, tra il 1434 ed il 1435, quando Eugenio IV rinnovò lo stesso incarico all'Albergati. Per il nuovo impegno cardinalizio l'Albergati fu sempre più frequentemente assente da Bologna (fu costretto per ragioni politiche ad allontanarsi anche nel 1427 e nel 1429) e sempre più presente a Roma, dove venne accompagnato dal Parentucelli, che continuò ad avere la gestione della casa dell'Albergati. La permanenza romana fu interrotta dai diversi impegni del prelato: a Venezia nel 1427 per il trattato tra Firenze, Venezia, Amedeo VIII di Savoia e Filippo Maria Visconti, dove Tommaso appare tra i testimoni con la qualifica di baccelliere in teologia; a Basilea per il concilio (1433), e rimane la testimonianza di Enea Silvio Piccolomini del violento giudizio del Parentucelli su Basilea "sinagoga di Satana"; di nuovo a Ferrara per confermare l'accordo; in Francia nel 1434-1435 ancora per i problemi della guerra dei Cent'anni; in Germania per tentare una mediazione tra i principi tedeschi; ancora a Ferrara e Firenze per il concilio (1438). Furono esperienze di grande importanza per il Parentucelli, che gli permisero la conoscenza del complesso panorama politico europeo e insieme di qualche biblioteca, come nel caso di quella della grande Chartreuse. Nel 1434 l'Albergati, e con lui Tommaso Parentucelli, aveva seguito la Corte pontificia a Firenze, dove Eugenio IV si era rifugiato in seguito alla ribellione dei Romani. Alla permanenza a Firenze è dovuto un più stretto legame del Parentucelli con gli umanisti fiorentini, testimoniato da Vespasiano da Bisticci che racconta di un Tommaso, libero dagli impegni con il cardinale, che partecipa alle discussioni con i maggiori umanisti, tra i quali Giovanni Aurispa, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini. Oramai la sua cultura è ampiamente riconosciuta e un documento del 1441, che ricorda come abbia trovato anche una collocazione curiale come suddiacono, pur se prodotto dal Capitolo di Sarzana, lo definisce "famosissimus". La morte del cardinale Albergati nel 1443 (9 maggio) coincide con il ritorno del pontefice e della Curia a Roma (19 settembre); si interrompe così una lunga e fedelissima collaborazione, che formò per molti aspetti la sua personalità. Le fonti, confermate anche dagli incarichi amministrativi come canonico, sottolineano iterativamente come la gestione della "domus" cardinalizia fosse affidata per tutti gli aspetti a Tommaso e indicano anche la fiducia completa dell'Albergati, per situazioni pur delicate: a Basilea il cardinale gli delega ad esempio la sottoscrizione delle suppliche, al concilio di Firenze Tommaso tratta personalmente con i Greci. Brevissima deve essere stata la successiva collaborazione, ricordata da qualche fonte, con il cardinale Gerardo Landriani, scomparso nell'ottobre del 1445; anche perché Eugenio IV aveva affidato a Tommaso nel 1443 l'importante incarico di vicecamerlengo, mentre era camerlengo Francesco Condulmer che qualche fonte indica tra i grandi protettori del Parentucelli. Nei mesi successivi il pontefice mise a frutto l'esperienza diplomatica acquisita da Tommaso con l'Albergati e gli affidò missioni diplomatiche a Firenze e Napoli, in Francia e in Inghilterra, anche se queste ultime furono senza risultato. La successiva scelta di Eugenio IV riconduce ugualmente al nome dell'Albergati. Resasi vacante la sede episcopale di Bologna, nel 1444 il Parentucelli venne nominato vescovo della città. L'attività episcopale del Parentucelli, quasi mai residente e impegnato in missioni diplomatiche in Germania e in Borgogna oltre che nella riforma del clero lateranense, ebbe brevissima durata, ma coincise con il ritorno di Bologna all'obbedienza romana. Nel 1446 il Parentucelli è impegnato ancora una volta in Germania, insieme con Giovanni di Carvajal, auditore di Camera. I risultati positivi ottenuti spinsero Eugenio IV a nominarli entrambi cardinali, mentre erano ancora in viaggio per raggiungere Roma. Parentucelli e Carvajal ricevettero le insegne cardinalizie, secondo alcune fonti contemporanee, alle porte della città e fecero ingresso quasi in trionfo nel dicembre del 1446. Pochi mesi dopo Eugenio IV moriva (23 febbraio 1447), affidando sul letto di morte la Chiesa ai cardinali, raccomandando l'unità di quest'ultima e la scelta di un successore che la conservasse. Tommaso Parentucelli gli impartì l'estrema unzione e tenne al termine dei novendiali l'ultima orazione funebre, ripercorrendo le parole estreme di Eugenio IV ed esortando i cardinali a non lasciarsi trascinare da passioni o interessi personali nella scelta. Enea Silvio Piccolomini afferma che il suo discorso fu tanto veemente da sembrare più quello di un angelo che di un uomo e che molti nell'occasione lo profetizzarono pontefice, così come avrebbe fatto Eugenio IV pochi mesi prima della morte. Il candidato favorito era in realtà il cardinale Prospero Colonna, che godeva dell'appoggio di Alfonso d'Aragona. Il conclave si tenne in S. Maria sopra Minerva, perché il Palazzo Vaticano sembrava poco sicuro; molti baroni romani furono allontanati dalla città per paura di pressioni. Furono necessari pochi scrutini per la scelta del nuovo pontefice: al primo e al secondo il Colonna ebbe dieci voti, il Parentucelli cinque e tre. Per impedire l'accessione del Parentucelli sul nome del Colonna il cardinale di Taranto Giovanni di Tagliacozzo, di un ramo degli Orsini, propose lo stesso Parentucelli e sul suo nome concordarono tutti, o quasi tutti (6 marzo 1447). Inutili furono le resistenze del Parentucelli, che infine accettò e scelse il nome di Niccolò a ricordo del cardinale Niccolò Albergati. Su un cavallo bianco cavalcò da S. Maria sopra Minerva fino a S. Pietro e il castellano di Castel S. Angelo gli consegnò le chiavi della rocca. Ad Enea Silvio Piccolomini che immediatamente lo raggiunse e informalmente gli portò l'obbedienza di Federico d'Asburgo, re di Germania e imperatore eletto, il nuovo pontefice delineò il suo programma di governo: conferma dell'autorità giurisdizionale dei vescovi troppo limitata dai pontefici precedenti e recupero dell'autorità pontificia a fronte delle pretese del concilio di Basilea. Nessuno accolse sfavorevolmente la designazione: tutti avevano da temere qualcosa da una scelta diversa. Ma nello stesso Collegio cardinalizio dovette esserci sconcerto per l'esito, se Domenico Capranica chiese di controllare personalmente le schede e se il cardinale Antonio Martini de Clavibus, detto del Portogallo, affermò, uscendo dal conclave, che solo Dio aveva scelto il nuovo pontefice e non i cardinali. L'elezione del Parentucelli fu forse provocata dalla volontà di escludere Prospero Colonna e, probabilmente, in questo senso fu una scelta di compromesso, anche se un manipolo consistente di cardinali concentrò sin dal primo scrutinio il voto sul suo nome. Anche altre ragioni concorsero alla scelta, prima tra tutte la forte esperienza diplomatica, quanto mai necessaria nella situazione contemporanea, e insieme l'abitudine all'amministrazione e la conoscenza dei meccanismi burocratici curiali acquisita con molti anni di presenza in Curia e con la funzione di vicecamerlengo. Inoltre dovette influire la sua fama di esperto teologo e di ottimo oratore, oltre che di uomo di grande cultura. Ma non fu sicuramente solo quest'ultimo aspetto a guidare la scelta. Per l'incoronazione venne prefissata la IV domenica di Quaresima "Laetare". Il pontefice decise di non usare un'arma personale, ma che nel suo scudo comparissero soltanto le chiavi della Chiesa e come divisa: "paratum cor meum Deus". Il 19 marzo 1447 il pontefice eletto ricevette più volte l'obbedienza di tutto il clero; venne acclamato dal clero di Curia sulla tomba di s. Pietro e, in cima alla scalinata di S. Pietro, fu incoronato dal cardinale Colonna e acclamato dal popolo. Salì quindi a cavallo per la processione che doveva condurlo a S. Giovanni in Laterano. Il pontefice aveva nella mano sinistra la rosa d'oro, con la destra benediceva. Il suo cavallo era addestrato dagli Aragonesi e dai baroni romani. A Monte Giordano gli ebrei presentarono come di tradizione il Libro della legge e, come d'uso, N. ne condannò la loro interpretazione. Dopo le cerimonie in Laterano fu nel pieno dei suoi poteri pontifici. Nei mesi successivi si affollarono a Roma ambascerie da moltissime città italiane e da molti Stati europei per confermare obbedienza al pontefice; le risposte di quest'ultimo, come affermano concordi tutte le fonti, misero ancora una volta in evidenza la sua eccezionale cultura e la sua raffinata oratoria. Le prime decisioni confermarono quello che era stato l'impegno più forte del predecessore: fin sul letto di morte Eugenio IV si era preoccupato di porre fine allo scisma e in questo senso uno snodo quanto mai importante era che Federico III d'Asburgo, re di Germania e imperatore designato, si esprimesse per l'abbandono da parte tedesca della neutralità tra il pontefice eletto da Basilea e quello romano. L'accordo era stato definito da Enea Silvio Piccolomini, segretario di Federico III e suo ambasciatore, negli ultimi giorni di vita di Eugenio IV, e uno dei primi atti di N. fu la conferma del documento relativo emesso dalla Cancelleria pontificia il 7 febbraio del 1447; a questo fece seguito un intenso lavorio diplomatico che portò al concordato di Vienna (febbraio-marzo 1448) con cui Roma conservava il diritto alla provvista beneficiale mentre perdeva il diritto alla nomina di vescovi e abati: questi ultimi potevano soltanto essere revocati dal pontefice per l'inosservanza delle disposizioni del diritto canonico. Allo stesso fine vennero immediatamente inviati nunzi nelle diverse regioni europee: in Germania, come legato, il cardinale Giovanni di Carvajal per riaffermare l'invalidità di quelle decisioni conciliari che limitavano l'autorità pontificia; in Francia il vescovo d'Acqui Tommaso de Regibus; in Polonia Battista Malatesta vescovo di Camerino. Per la composizione dello scisma l'opera dei legati venne facilitata dall'atteggiamento favorevole di Federico III, del re di Francia Carlo VII e di Renato duca di Provenza. Nel gennaio del 1448 un'ambasciata di Carlo di Francia, di Renato di Provenza e del Delfino di Vienna portarono a Roma una proposta d'accordo, concordata con l'antipapa Felice V e solo parzialmente accolta dal pontefice; nel luglio dello stesso anno si ebbe il riconoscimento da parte del clero e del popolo di Basilea dell'autorità di N.; nell'aprile del 1449 infine Felice V rinunciò al pontificato e ottenne da N. l'incarico di vicario a vita per la Savoia e quello, evidentemente solo onorifico, di legato generale per la Germania, oltre che la convalida del titolo cardinalizio, confermato anche ad altri cardinali d'obbedienza conciliare. Il pontefice annullò anche le censure pronunciate contro quanti avevano aderito al concilio di Basilea e confermò le concessioni di benefici fatte da questo (decisione che innescò subito una lunga serie di controversie). L'attività diplomatica fu intensa e caratterizzerà l'intero pontificato nicolino, privilegiando la completa soluzione dello scisma, l'impegno contro gli Ottomani a Oriente e contro Granada a Occidente, una politica di affermata neutralità nei confronti degli Stati italiani, il controllo dell'ortodossia a fronte delle diffuse tendenze ereticali. L'opposizione al pericolo turco era strettamente collegata alla situazione politica europea e uno dei primi interventi del pontefice fu volto a sanare le discordie e le guerre tra Germania e Ungheria, incarico affidato al Carvajal, inviato, secondo un'antica terminologia della Cancelleria pontificia utilizzata frequentemente da N., "tamquam pacis angelus"; ma la spedizione tentata da Giovanni Uniadi nel 1448 ebbe esito infelice e venne travolta, con gravissime perdite da ambo le parti, nella pianura del Kosovo. Anche se l'anno successivo Giovanni Uniadi e Giorgio Scanderbeg riuscirono ad ottenere qualche parziale successo contro le armate del sultano ottomano, la situazione continuò ad aggravarsi, anche per contrasti politici interni in Ungheria, tanto che il pontefice nel 1450 inviò come legato il cardinale Sbigneo Olesnecki e nel 1451 frate Eugenio Somma con l'incarico di concedere l'indulgenza "in articulo mortis" a quanti combattevano contro i Turchi in Bulgaria, nella Serbia meridionale e in Albania. La situazione precipitò ulteriormente quando divenne sultano Maometto II (1451), che accentuò l'espansionismo ottomano. L'atteggiamento pontificio nella difesa dal pericolo turco era fortemente condizionato dal mancato rispetto da parte dei Bizantini degli accordi d'unione tra la Chiesa greca e quella latina, concordati durante il concilio di Ferrara e Firenze. La lettera inviata dalla Cancelleria pontificia nel 1451 all'ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino XII, esprime compiutamente l'ideologia di N.: la Chiesa è una e deve avere una sola guida. Il pontefice romano è il successore di Pietro e il vicario di Cristo. La situazione deplorevole dell'Impero orientale è conseguenza dell'idolatria e del sacrilegio bizantino, che hanno separato, con lo scisma di Fozio, Costantinopoli dalla Chiesa romana. Al concilio di Ferrara e Firenze Eugenio IV e Giovanni Paleologo avevano messo fine dopo cinquecento anni allo scisma; il decreto d'unione era stato inviato in tutto il mondo cattolico, in greco e in latino, con le sottoscrizioni di quanti erano intervenuti: nell'Impero bizantino il decreto non era stato ancora promulgato, ma il pontefice ricordava come il vangelo (Luca 13, 7) ammonisca che l'albero non fruttifero dopo tre anni deve essere tagliato (e i contemporanei interpretarono il passo come una profezia della successiva conquista turca di Costantinopoli). L'aiuto richiesto contro i Turchi verrà dal pontefice e dall'intera Chiesa universale se il decreto d'unione sarà rispettato. Il patriarca latino di Costantinopoli deve essere richiamato alla sua sede e accolto con tutti gli onori; deve avere completa giurisdizione ecclesiastica; il nome di N. deve essere iscritto nei dittici della Chiesa di Costantinopoli ed essere ricordato in tutte le liturgie. Quanti non vogliono aderire devono essere inviati a Roma. La situazione politica nei Balcani continuò a mantenersi molto fluida per le lotte intestine, come ad esempio quelle veri½catesi in Albania nel 1452 tra lo Scanderbeg e Paolo e Nicola Dukacagini. Nel maggio del 1452 venne inviato come legato a Costantinopoli Isidoro di Kiev. Richieste di aiuto vennero a Roma da Costantinopoli ancora agli inizi del 1453 ma, secondo la testimonianza di s. Antonino da Firenze, furono accantonate dal pontefice, convinto che i Bizantini fossero più preoccupati dei propri interessi personali che di quelli dello Stato e che avrebbero potuto impegnare le proprie ricchezze per la difesa solo che lo avessero voluto. Soltanto alla fine di aprile venne armata una flotta affidata al vescovo di Ragusa Giacomo da Recanati. A Roma si continuava a discutere sull'opportunità di inviare aiuti a Costantinopoli mentre già la situazione stava precipitando drammaticamente. Quando la notizia della conquista turca di Costantinopoli (29 maggio 1453) giunse dopo qualche tempo a Roma, il panico colpì tutti. La reazione fu lenta. Solo il 30 settembre dello stesso anno la Cancelleria pontificia emanò il documento che indiceva la crociata contro i Turchi. In esso si esprimeva il timore che il sultano, figlio di Satana assetato di sangue cristiano, volesse conquistare l'intera Europa; si richiamavano tutti i principi laici al rispetto della professione di fede fatta con il battesimo; si concedeva completa remissione dei peccati e perdono a chi nei successivi sei mesi si fosse impegnato contro i Turchi; si concedeva l'uso dell'insegna della croce sulle vesti; si decideva di devolvere tutte le entrate della Camera apostolica per la crociata; si informava che i cardinali avrebbero devoluto per parte loro la decima di tutte le loro rendite e si stabiliva che ugualmente tutti gli uffici della Curia romana avrebbero devoluto la decima, così come avrebbe dovuto versarla il clero in ogni parte del mondo; si ribadiva il divieto assoluto di commercio con gli infedeli; si ordinava una pace generale tra tutti gli Stati cristiani. La pacificazione dell'intera Europa cristiana era difficile da imporre con la sola forza dello spirito e sarebbe rimasta solo un pio proposito, ma non migliore risultato ebbe il tentativo di organizzare un esercito e una flotta per opporsi all'espansionismo ottomano. Interlocutore principale del pontefice non poteva che essere l'imperatore Federico III, molto tiepido a questo proposito e preoccupato della situazione politica interna. Tra il 1453 ed il 1455, anno della morte di N., si succedette una serie di Diete (Ratisbona, Francoforte, Wiener-Neustadt) che non conclusero nulla; così come per molti anni in seguito si continuò a pensare senza alcun risultato ad una crociata. Ugualmente senza grandi risultati, durante il pontificato nicolino, rimasero gli sforzi in Spagna per la riconquista di Granada. Nel 1448 il pontefice aveva appoggiato con promesse d'aiuto e di protezione spirituale i tentativi del re di Castiglia Giovanni II; l'anno successivo aveva stabilito indulgenze per chi finanziasse l'impresa; nel 1451 aiutava ancora il re di Castiglia che continuava a subire sconfitte e perdite di città e di castelli lanciando la scomunica e l'interdetto su quanti, laici ed ecclesiastici, commerciassero con i musulmani; nel 1452 tentava di porre un argine a sconfitte militari e conversioni più o meno forzate chiedendo aiuti per il re, reiterando le indulgenze già in precedenza concesse ed esentando il sovrano di Castiglia dal rispetto degli accordi fissati con i suoi oppositori interni che prevedevano un suo viaggio a Gerusalemme in caso di inosservanza; nel 1453 di fronte a nuove sconfitte e perdite di territori concedeva indulgenze a quanti avessero contribuito alla ricostruzione e al rafforzamento delle mura di Medina. Più fortunata fu la politica italiana del pontefice, anche se per il risultato migliore, la pace di Lodi del 1454, testimonianze contemporanee ricordano il disappunto di N. di fronte a un accordo ottenuto a sua insaputa e anche se il suo maggiore biografo, Giannozzo Manetti, precisa che il raggiungimento della pace non era considerato da N. funzionale agli interessi della Chiesa. A vent'anni dalla morte del pontefice il Platina imposterà invece tutta la biografia di N. sulla sua disperata ricerca di pace. Appena eletto N. inviò ad Alfonso d'Aragona, accampato a Tivoli, i cardinali Condulmer e Scarampo che, riconfermati gli accordi tra l'Aragonese ed Eugenio IV, ottennero la restituzione della città alla Chiesa e il possesso pontificio di Terracina e Benevento (marzo 1447); anche negli anni successivi i rapporti con Alfonso d'Aragona si mantennero buoni, quasi privilegiati, tanto da far scrivere al Ryder che N. concesse ad Alfonso tutto quello che questi aveva richiesto; riconobbe ad esempio le sue pretese in materia di benefici e - aspetto molto importante in un pontefice attentissimo alle prerogative pontificie ed alle loro manifestazioni simboliche - lo esentò dalla consegna annuale della "bianca chinea" e della somma dovuta come riconoscimento della dipendenza feudale del Regno dal pontefice. Nell'agosto dello stesso anno la morte di Filippo Maria Visconti (13 agosto 1447) fece scomparire dal panorama italiano uno dei fautori di Basilea, ma aprì aspri contrasti sulla successione, a cui aspiravano lo stesso Alfonso, Federico III, Carlo duca d'Orléans e Francesco Sforza. L'aspirante più pericoloso nelle prospettive pontificie era sicuramente Alfonso che, caduta la speranza di un accordo con Firenze per la richiesta dei Fiorentini di coinvolgere anche Venezia, pace che gli avrebbe permesso di dedicarsi alla conquista di Milano, riprese la campagna contro Firenze e inutile fu l'invio del cardinale Giovanni Juvenis come legato. L'atteggiamento del pontefice di fronte alle continue guerre dei potentati italiani fu formalmente di neutralità, una neutralità che non favorì la pacificazione. Quando nel 1450 Francesco Sforza conquistò Milano e pose fine alla breve esperienza della Repubblica ambrosiana, il pontefice si affrettò a stabilire buoni rapporti con il nuovo signore di Milano, che aveva indirettamente finanziato acquistando da lui nell'autunno del 1447 per 35.000 scudi d'oro la città di Iesi. L'indulto concesso dal pontefice il 1° aprile 1450 al duca di Milano in materia di benefici costituì in pratica il riconoscimento pontificio dello Sforza, sulla legittimità del quale come signore di Milano gravavano in Italia ed Europa notevoli riserve; l'indulto stesso non soddisfece Francesco Sforza perché ribadiva la "plenitudo potestatis" del pontefice e il suo ruolo di "dominus beneficiorum", ma un'intensa trattativa diplomatica portò a una maggiore attenzione verso le necessità e gli equilibri politici interni dello Stato. Lo stesso cardinale Juvenis venne inviato nel 1451 per firmare un concordato con Alfonso in cui il re si impegnava alla restituzione di beni ecclesiastici e si definivano i rapporti tra il Regno di Napoli e la Chiesa di Roma. L'anno successivo (1452) il pontefice rimase neutrale di fronte alle guerre che erano riprese per la successione di Milano. Solo nel 1453, sull'onda dell'impressione per la caduta di Costantinopoli, tentò di affrontare con maggiore vigore il problema della pace tra gli Stati italiani. Nella prima metà di settembre di quell'anno, prima dell'indizione della crociata, N. convocò a Roma un congresso di pace. Lentamente arrivarono i rappresentanti di Napoli, Firenze e Venezia; solo ai primi di novembre quelli del duca di Milano. Le discussioni furono del tutto inconcludenti. Lo stesso pontefice si convinse che "la guerra tra i principi di quasi l'intera Italia avrebbe significato la pace della sua Chiesa, mentre la concordia tra loro avrebbe invece portato alla Chiesa la guerra" (Giannozzo Manetti, Vita Nicolai V summi pontificis [...], in R.I.S., III, 2, 1734, col. 943; Id., Vita di Nicolò V, a cura di A. Modigliani, Roma 1999, p. 164). Con queste premesse non sorprende che le trattative siano completamente fallite. Ebbero buon fine qualche mese dopo (1454), quando al tavolo di pace non si sedettero N. e Alfonso d'Aragona e l'iniziativa venne presa da un agostiniano, Simone da Camerino, inviato in segreto a Milano dai Veneziani. A conoscenza della trattativa era Cosimo de' Medici, preoccupato dall'insofferenza dei Fiorentini per le forti tassazioni legate alle spese di guerra, la stessa preoccupazione che spingeva Venezia e Milano a trattare. L'accordo fu raggiunto a Lodi il 9 aprile 1454. Violentissime furono le reazioni di Alfonso; "meravigliato e doluto" il pontefice, che però accolse i sei ambasciatori inviati al re di Napoli, li rassicurò sul suo atteggiamento e li fece accompagnare dal cardinale Capranica come legato pontificio. Alfonso ratificò il 26 gennaio del 1455 il trattato, che venne infine sottoscritto dal pontefice il 25 febbraio e promulgato il 2 marzo. La notte fiaccole e fuochi illuminarono Roma; si inneggiò a N., quasi morente. La città di Roma era stata negli anni precedenti una delle preoccupazioni più forti del pontefice. Già durante la sede vacante successiva alla morte di Eugenio IV i Romani si erano riuniti all'Aracoeli in Campidoglio e Stefano Porcari aveva chiesto di "vivere ad capitulo colla Ecclesia et collo sommo pontefice", in pratica aveva chiesto una maggiore autonomia politica (Diario della città di Roma di Stefano Infessura, p. 45). N. appena eletto, riprendendo in gran parte decisioni di Eugenio IV, aveva assicurato ai Romani autonomia amministrativa, confermato gli Statuti, affidato a cittadini romani le magistrature cittadine e i benefici ecclesiastici locali, destinato le rendite della gabella del vino al funzionamento dello "Studium" e in subordine al restauro delle mura, confermato i provvedimenti di Eugenio IV a favore dell'Arte della lana, destinato le gabelle della città soltanto al soddisfacimento di necessità interne, definito il peso delle gabelle del vino e del macinato abolendo gli oneri aggiunti con il ritorno di Eugenio a Roma, affermato la libertà di esportazione di ogni tipo di merci e di sfruttamento della terra. Aveva inoltre favorito, esentandoli dalle gabelle (1447), gli abitanti della regione Monti residenti nell'area tra S. Vito in Macello e S. Maria Maggiore, in una zona dove era forte l'influenza dei Colonna e che sarà interessata anche dagli interventi sulla basilica. Non è chiaro se per decisione pontificia, ma sicuramente non contro la sua volontà, era stato affidato al Porcari il governo della Marittima e della Campagna. Furono perdonati Lorenzo Colonna, Orso Orsini, Everso degli Anguillara (e nel 1449 Dolce degli Anguillara, che era stato al servizio dello Sforza), Giovan Battista, Marino e Francesco Savelli, che erano stati privati dal Vitelleschi dei loro possedimenti feudali per aver aiutato Antonio da Pontedera; i Colonna ebbero il permesso di riedificare Palestrina rasa al suolo dal Vitelleschi; nel giugno del 1447 per intercessione di Alfonso d'Aragona vennero graziati Evangelista Sordi e i suoi compagni colpevoli di rivolta; nel 1449 Orsino Orsini. N. scelse come governatore di Roma e vicecancelliere Giovanni del Poggio, già docente dello Studio di Bologna, che era stato nominato nel 1446 arciprete di Cento e quindi vicario generale della diocesi bolognese da Tommaso Parentucelli, quando era vescovo di Bologna, e che lo stesso Parentucelli, ormai pontefice, aveva nominato vescovo della città felsinea il 22 marzo 1447. Giovanni del Poggio morì improvvisamente a Roma nel dicembre dello stesso anno. Tra i provvedimenti relativi alla città va soprattutto ricordata la nuova stesura nel 1452 degli Statuti dei Maestri delle strade, con un rigido controllo degli spazi pubblici, e il compito affidato al senatore, nello stesso anno, di perseguire e giudicare ladri e rapinatori. Il rapporto con Roma rimase sempre molto complicato. La scelta dei Colonna e degli Orsini o, in ogni caso, del vecchio ceto dei baroni, come interlocutori privilegiati e destinatari dei vantaggi delle scelte politiche pontificie, gli alienò l'appoggio di quel gruppo sociale di mercanti e proprietari fondiari maggiormente legato all'attività produttiva cittadina, che era emerso nella seconda metà del Trecento e si era consolidato nei primi decenni del Quattrocento. Altri esponenti dell'aristocrazia mirarono alla definizione di signorie personali; è quanto tentò di realizzare, nel territorio a nord di Roma, Everso degli Anguillara, coinvolto in una congiura a Viterbo contro Princivalle Gatti, fedelissimo alleato del pontefice, ucciso nel 1454. Everso continuò la sua politica di espansione territoriale e di autonomia decisionale ed in uno di questi episodi venne coinvolto Angelo Roncone, condannato a morte dal pontefice per non aver rispettato i suoi ordini. La sempre sotterranea linea politica municipale romana, segnata dal repubblicanesimo e da rivendicazioni autonomistiche, torna a riemergere improvvisamente con la congiura di Stefano Porcari del 1453, che ebbe sicuramente coinvolgimenti anche esterni alla città e che prevedeva la cattura del pontefice e dei cardinali durante la liturgia dell'Epifania. Una delazione tradì i congiurati; Stefano Porcari venne impiccato ai merli di Castel S. Angelo, dopo un processo sommario, e uguale sorte subirono nei mesi successivi altri capi della tentata rivolta, ricercati in tutta Italia. Gli ultimi mesi del pontificato di N. furono profondamente condizionati dall'avvenimento, che ebbe larga eco anche fuori di Roma e che trovò ampio spazio nella prosa e nei versi dei curiali. Il tentativo del Porcari accentuò le preoccupazioni nei confronti dei Romani del pontefice, molto sospettoso dei loro atteggiamenti, e che sul letto di morte, nel suo Testamento ai cardinali, tracciava una breve storia del papato dall'età carolingia fino ai suoi giorni, individuando sempre e solo in essi i protagonisti delle più gravi disavventure dei pontefici. Più felice e con risultati più duraturi fu la politica interna nicolina in altre terre dello Stato pontificio. A cominciare da Bologna, le cui tensioni politiche N. conosceva bene. Il pontefice indicò come vescovo della città, alla morte di Giovanni del Poggio, il fratello per parte di madre Filippo Calandrini, che successivamente sarebbe stato nominato cardinale; nominò nel 1450 legato "a latere" per Bologna, la Romagna e la Marca d'Ancona il cardinale Bessarione; ma soprattutto nei primissimi mesi del suo pontificato concordò con i Bolognesi i Capitoli, che guidarono i rapporti tra città e Chiesa fino alla Rivoluzione francese, con i quali si concedeva da parte papale un ampio riconoscimento delle autonomie locali e da parte bolognese si riconosceva la sovranità pontificia esercitata attraverso rappresentanti "in temporalibus et spiritualibus". Subito dopo l'elezione vennero confermati anche i vicariati alle signorie dello Stato pontificio: nel luglio del 1447 fu confermato il vicariato apostolico di Federico da Montefeltro su Urbino e sulle terre montefeltrine compreso Gubbio, quello di Alessandro Sforza su Pesaro, dell'Ordelaffi su Forlì, dei Varano su Camerino e le terre circostanti, dei Malatesta su Cervia, Cesena, Rimini, Fano e Senigallia. In anni più tardi il pontefice non si oppose alla politica di unificazione dei propri territori sviluppata da Borso d'Este. Anche nei confronti dei Comuni dello Stato venne perseguita una politica di conferma dell'esistente e di privilegio delle oligarchie già consolidate, così a Perugia con i Baglioni, a Todi, a Spoleto e a Orvieto. Fin dai primi mesi N. impostò un'attenta opera di difesa dell'ortodossia, difesa che in molti casi non era estranea a preoccupazioni politiche. Alcune aree, come la Boemia, si proposero con prepotenza all'attenzione e posero problemi la cui soluzione fu trovata soltanto ben oltre il pontificato nicolino. In altre, come in Italia, la marginalità della presenza ereticale nelle fonti contemporanee è contraddetta dall'evidenza degli interventi del pontefice, che sembra indirizzarsi soprattutto contro i Fraticelli "dell'opinione" o "del barilotto", diffusi, secondo quanto afferma Biondo che descrive i loro riti a sfondo mistico-sessuale, in molte importanti città italiane e in Grecia, soprattutto ad Atene (nel 1451 venne affidato l'incarico a Simone da Candia di imprigionare il "papa" dei Fraticelli attivi in Grecia; nel 1453 venne inviato a Creta Onofrio di Castel Durante). In questo senso già il 3 luglio del 1447 il pontefice dava incarico a Giovanni da Capestrano di estirpare l'eresia e di ricondurre i Fraticelli all'ortodossia; negli anni successivi questo compito rimase assegnato soprattutto ai predicatori itineranti. A difesa dell'ortodossia nel 1447 a Milano venne reiterata la condanna di Amedeo Landi; venne inviato Antonio da Oliveto in Albania (sostituito poi da Tommaso di Lesina) e ad Andrea da Costantinopoli arcivescovo di Nicosia fu affidato il controllo dei Maroniti; nel 1448 si ha un deciso intervento in Borgogna contro gruppi ereticali che predicavano contro la confessione, la penitenza e il valore delle indulgenze; ancora in Francia, nel 1451, il pontefice interviene contro aberrazioni sessuali, negromanti, indovini "etiam si heresim non sapiant manifeste", eretici quarreristi. Nel 1449 il minorita Matteo da Regio viene designato per combattere l'eresia dei "Nuovi cristiani" in Campania e Puglia; nel 1450 al cardinale Dionigi Szech è affidata la riforma dei conventi in Ungheria, nel 1451 al Cusano la riforma religiosa della Germania e a Giovanni da Capistrano il compito dell'Inquisizione; sempre nel 1450 il cardinale Guglielmo d'Estouteville è legato in Francia, con la prospettiva di far abrogare la Prammatica Sanzione (compito fallito per la forte adesione alla Prammatica manifestata dal clero francese a Bourges nel luglio del 1452), Bartolomeo Roverella e ancora il Cusano sono inviati in Inghilterra. Nel 1452 il pontefice delegò allo Scarampo la riforma di tutte le chiese romane, a cominciare da S. Pietro (incarico questo affidato a Rodrigo Sánchez de Arévalo e al vescovo Alfonso de Segura che si concretizzò nel 1454 con la pubblicazione di una costituzione che definiva modi e usi dell'abbigliamento dei canonici e confermava statuti e prerogative della basilica); emanò inoltre nello stesso anno una bolla Ad futuram rei memoriam indirizzata a tutti i religiosi che ricoprissero incarichi in Curia e fuori di essa, in cui condannava il concubinato e obbligava in modo perentorio all'abbandono della concubina entro nove giorni. Un coinvolgimento insieme religioso e politico richiese invece la situazione boema e quella nei Balcani. Il compito venne affidato, anche per le implicazioni politiche, al cardinale legato Carvajal, incaricato nella Dieta di Praga (1448) di difendere gli interessi dinastici di Ladislao Postumo. Nel 1452 venne designato come legato Enea Silvio Piccolomini, al quale fu affiancato Nicolò Cusano anche con il compito di pacificare la Germania e gli oppositori di Federico III. Con l'aiuto di Casimiro re di Polonia il pontefice riuscì, nei primissimi mesi del pontificato, a riportare all'obbedienza romana l'arcivescovo di Gniezno in Polonia Olesnicki, mentre il re di Bosnia Stefano Tommaso abbandonò l'eresia, anche se, ancora nel febbraio del 1448, il papa doveva reiterare l'incarico di legato a Tommaso vescovo di Lesina per riportare all'ortodossia nobili, baroni e religiosi, tra i quali si distinguevano soprattutto Stefano voivoda e Giovanni Paulonich voivoda, consentendo la confisca delle loro proprietà, la loro uccisione o riduzione in schiavitù, vietandone la sepoltura cristiana. Per tentare di sanare le forti resistenze greche all'accettazione delle decisioni conciliari fu affidata la legazione ad Andrea di Costantinopoli vescovo di Nicosia, che nel 1450 fu incaricato di reprimere i forti fermenti ereticali presenti nell'isola di Cipro; nel 1448 si ha la proibizione in Grecia del rito greco per i Latini, con la precisazione che il concilio di Firenze non aveva mai permesso la mescolanza dei riti; nel 1450 un deciso intervento per riformare abitudini e costumi dei Cavalieri Gerosolimitani, che prevedeva il controllo del loro abbigliamento, dei loro movimenti, della vita in convento e pene severe per i trasgressori. Nello stesso anno vennero annullati gli accordi stipulati tra i Cavalieri di Rodi e i musulmani, che danneggiavano anche gravemente gli interessi di Alfonso d'Aragona, così come nel 1451 si reiterò il divieto di commercio con gli infedeli, soprattutto di grano e alimenti, rafforzato anche con puntuali precisazioni per i musulmani di Spagna, che trovavano complicità nei nemici di Giovanni re di Castiglia. A fronte di ciò è l'atteggiamento di apertura in Spagna nei confronti dei convertiti che, nonostante le forti resistenze locali, si ribadisce in più occasioni possano ricoprire tutti gli uffici laici ed ecclesiastici (1449, 1451), mentre si decreta il divieto totale di alcun rapporto tra la comunità cristiana ed ebrei e musulmani (1451), si vieta la costruzione di nuove sinagoghe, si stabilisce l'invalidità della testimonianza di musulmani e di ebrei, si impone l'uso di abiti diversi e segni distintivi per loro. La situazione turbolenta dell'Europa centroorientale richiese continui interventi: in Ungheria vennero inviati i cardinali Sbigneo Olesnicki, per risolvere i problemi politici anche con l'aiuto di re Casimiro, e Dionigi Szech per riformare la disciplina monastica. Molto importante fu la missione affidata nel 1450 in Germania a Nicolò Cusano, che coinvolse anche la Boemia, pur se con grandi opposizioni e relativi risultati. Nel 1448, con due successive promozioni, N. creò cardinali Antonio de la Cerda (16 febbraio), Astorgio Agnesi, Latino Orsini, Alano de Coetivy, Giovanni Rolin, il fratellastro Filippo Calandrini e Nicolò Cusano (20 dicembre). Furono scelte in qualche caso molto felici per la personalità di alcuni, che tenevano anche conto dell'equilibrio politico europeo; così come nel 1449 furono conseguenza dell'accordo con l'antipapa Felice V le nomine cardinalizie dello stesso Amedeo di Savoia e di Giovanni d'Arsy, Ludovico de la Palud e Guglielmo d'Estaing; nella stessa occasione venne reintegrato Luigi d'Aléman, destituito nel 1440 da Eugenio IV. Non è chiaro se una riforma della Curia, progettata da Domenico Capranica e rimasta senza seguito, sia riconducibile alla volontà del pontefice; l'unico intervento sicuramente nicolino in proposito è relativo alla Camera apostolica, di cui era stato vicecancelliere e verso la quale dimostrò sempre grande attenzione, che rinnovò quasi completamente nel personale, riducendo inoltre a sette il numero dei chierici di Camera. Va anche ricordata la scelta come segretari pontifici di personaggi di rilievo, alcuni legati da antica amicizia e consuetudine con il pontefice: tra questi Giannozzo Manetti, Orazio Romano, Nicolò Perotti, Pietro da Noceto, Pietro Lunense, Giovanni Tortelli, Lorenzo Valla; così come non è senza significato il contestuale allontanamento da Roma di Poggio Bracciolini e Biondo Flavio. N. fu anche il primo pontefice a far uso di un "secretarius domesticus" o segreto, scelto nella persona di Pietro da Noceto. Una ricerca prosopografica complessiva sulla Corte nicolina non è stata ancora realizzata, si può però segnalare la presenza, con compiti di grande responsabilità, di personaggi provenienti dalla Lunigiana e da Bologna. Nel gennaio del 1449 venne pubblicata la bolla d'indizione del giubileo del 1450, che sarebbe stato l'avvenimento religioso più importante del pontificato. Nell'incipit del documento si ricordavano i doni immensi e innumerevoli della misericordia divina; nell'arenga si rievocava l'incarnazione di Cristo a pro della salvezza e della redenzione del genere umano e si citava il vicariato concesso da Cristo a Pietro e il completo potere trasmessogli di sciogliere e di legare; si affermava inoltre che la volontà divina aveva stabilito che la "plenitudo potestatis" rimanesse a tutti i pontefici romani successori di Pietro. Il dettato della Cancelleria inseriva tra i doni celesti la decisione presa da alcuni pontefici di scegliere i tempi durante i quali i doni della misericordia divina fossero più abbondanti per i popoli fedeli. Per questa ragione i pontefici avevano istituito sull'esempio biblico il giubileo, durante il quale chiunque, anche colpevole di delitti gravissimi, purché veramente penitente e confesso, avrebbe potuto ottenere completa indulgenza di tutti i suoi peccati, dopo aver visitato, nei modi e nelle forme dovute, S. Pietro, S. Paolo, S. Giovanni in Laterano e S. Maria Maggiore. Il documento ripercorreva quindi integralmente le bolle d'indizione di Clemente VI e di Gregorio XI e infine, nella parte dispositiva, indiceva a partire dal prossimo Natale il giubileo, sulla base del potere nicolino di vicario di Cristo e non tenendo conto della scelta fatta dai pontefici precedenti di svolgere il giubileo ogni trentatré anni. Il giubileo del 1450 vide un'enorme affluenza di pellegrini soprattutto per le cerimonie natalizie e per tutto gennaio, per la Pasqua fino a maggio all'Ascensione, quando una violenta epidemia che colse la città interruppe l'afflusso, quindi di nuovo da ottobre fino alla fine dell'anno. Durante l'Anno santo, il 24 maggio, venne anche canonizzato Bernardino da Siena, con grandissime spese e altrettanto concorso di folla. Nei primissimi mesi dell'anno farina e grano non furono sufficienti a sfamare tutti; durante la Settimana santa l'affluenza su ponte S. Angelo fu tanta da costringere i fanti del Castello a sfollare la gente con i bastoni; negli ultimi giorni del giubileo sullo stesso ponte i pellegrini vennero presi dal panico per lo scalpitare di una mula e oltre centosettanta morirono calpestati o affogati nel Tevere. Nei periodi di maggiore affollamento ogni casa dei Romani era albergo e la gente dormiva anche nei porticati, nelle vigne, sui banchi di vendita dei mercati e delle botteghe; era difficile camminare per le strade; durante l'epidemia, forse di peste, le strade erano piene di appestati "che cascavano morti per le strade come cani". Per l'affluenza il pontefice modificò le prescrizioni della bolla giubilare e le consuetudini liturgiche, ridusse nei primi mesi a tre giorni la permanenza dei pellegrini in città, durante la peste a cinque, diede ordine che la Veronica venisse mostrata ogni domenica, ogni sabato i busti reliquiari di s. Pietro e s. Paolo; nell'ultimo mese concesse l'indulgenza plenaria anche a chi fosse rimasto a Roma per un solo giorno. Il guadagno economico per i Romani e per la Chiesa fu notevole. L'affluenza di un così gran numero di persone, non quantificabile a dispetto delle mirabolanti cifre dei cronisti, fece moltiplicare la resa dei dazi e delle gabelle sulle merci introdotte in città, lievitò a dismisura le offerte dei pellegrini, portò nelle casse della Chiesa un'abbondanza quasi senza limite di denaro, arricchì osti e tavernieri, banchieri e venditori di oggetti sacri. L'unica cifra conosciuta è l'entrata di 16.000 ducati per la dogana di mare. N., seguendo le sue naturali inclinazioni, scelse di usare le rendite del giubileo per ricostruire Roma e per rifondare la cultura: "Usava dire che dua cose farebbe s'egli mai potesse ispendere, ch'era in libri, et in murare; et l'una et l'altra fece nel suo pontificato". L'affermazione di Vespasiano da Bisticci e l'attenzione per questi due aspetti della biografia nicolina di Giannozzo Manetti, così come la quasi totale coincidenza degli altri biografi pontifici, hanno condizionato l'interpretazione del pontificato di N. fino a giorni recenti, distraendo da una sua completa valutazione e riducendo il giudizio sul pontificato alla sua opera di umanista e alla sua attività di committente. La presenza in Curia di Leon Battista Alberti ha fatto inoltre pensare, anche se in assenza totale di evidenze documentarie, che il progetto nicolino di ricostruzione della città fosse opera sua. La città che i pellegrini venuti a Roma per il giubileo avevano potuto vedere era la sedimentazione naturale dei secoli medievali, addensata in un'area molto ristretta della città classica: le chiese erano ancora paleocristiane e medievali, le case ancora in legno e mattoni. L'unico grande cantiere privato aperto in età nicolina è quello del cardinale Barbo per la costruzione del palazzo di Venezia. Un pellegrino d'eccezione come Giovanni Rucellai può registrare tra gli edifici "moderni" il palazzo pontificio e quello del cardinale Guglielmo d'Es-touteville. Se l'Alberti riflette nel suo De re aedificatoria sulle grandi città italiane che da fanciullo ha visto completamente costruite in legno e ora vede di marmo, tra queste sicuramente non c'è ancora Roma. N. decide una rifondazione di Roma, ma una rifondazione funzionale alle necessità del papato. Prima del giubileo del 1450 gli interventi voluti dal pontefice erano stati di ordinaria amministrazione. I biografi curiali e le fonti contemporanee ricordano restauri e riedificazioni, secondo un'antichissima tradizione pontificia, ma i titoli citati (con l'esclusione, per la qualità, degli interventi in S. Pietro) rientrano appunto nella tradizione; più significativi possono essere i lavori voluti per S. Stefano Rotondo, S. Susanna e S. Teodoro; sicuramente importanti quelli intrapresi per i Palazzi Apostolici Vaticani e altrettanto significativi quelli di restauro dell'intera cinta muraria, così come lo sono le costruzioni difensive in Castel S. Angelo e in Campidoglio, e come saranno, fuori di Roma, quelle nei Comuni dello Stato pontificio, in Spagna a Medina, in Cipro a Nicosia. Giannozzo Manetti ricorda il programma di restauro delle sette chiese più importanti della città e delle quaranta chiese stazionali, anche questo secondo tradizione e probabilmente in previsione del giubileo, ma è solo un programma, come quello ancora più ampio relativo alla completa trasformazione di Borgo e al resto della città che rimase completamente inattuato. Borgo avrebbe dovuto diventare una vera e propria città curiale, strettamente collegata con S. Pietro e con i Palazzi Vaticani, separata dalla città dei Romani; inoltre avrebbe dovuto essere costruita ex novo S. Pietro. L'elemento caratterizzante del progetto era la fortissima preoccupazione militare. Fortificata era la basilica, con un progressivo restringimento delle vie d'accesso; fortificati i Palazzi Vaticani con un controllo anche degli spazi interni; fortificato sarebbe stato il nuovo Borgo. Nel suo Testamento ai cardinali, in punto di morte, N. chiariva che l'intero progetto non era stato pensato per ambizione personale, ma per dare tranquillità ai suoi successori. E il progetto sembra realmente condizionato dalle recenti esperienze di Innocenzo VII e di Eugenio IV, costretti ad abbandonare Roma dalle rivolte dei Romani. Anche l'impegno culturale del pontefice, come quello edilizio, ha nelle biografie un rilievo eccezionale. Il Parentucelli non scrisse però nessuna opera; non è rimasta nessuna trascrizione delle sue orazioni; rimane solo il cosiddetto "canone bibliografico", realizzato per Cosimo de' Medici, che è la proposta di una biblioteca ideale; rimangono pochissime lettere e le glosse da lui apposte sui margini dei manoscritti, ancora tutte da studiare queste ultime nella loro complessità; rimane la testimonianza della sua scrittura personale ancora in bilico tra la gotica e l'umanistica. Bisognerebbe anche ricordare le molte Università che vennero fondate durante il suo pontificato e per le quali rimane la sua bolla di fondazione: Barcellona e Besançon (1450), Glasgow (1451), Valencia (1452), Treviri (1454) ed i suoi interventi a favore di Università già esistenti (Bologna e Canterbury: 1448; Roma, in anno incerto). I biografi di N. raccontano un pontefice umanista e protettore degli umanisti, attento ricercatore di codici, rifondatore della biblioteca pontificia, che aveva subito perdite gravissime in seguito allo scisma. L'impegno del pontefice nella ricostruzione della biblioteca fu straordinario e strettamente legato alla sua personalità culturale dalle forti tensioni enciclopediche: vennero commissionati molti manoscritti, realizzato un piano imponente di traduzioni di opere dal greco - soprattutto, ma non soltanto, Padri della Chiesa; vennero acquisiti manoscritti da biblioteche romane, italiane ed europee. Lo spirito che animava N. è espresso in un breve ad Enoch d'Ascoli, redatto da Poggio Bracciolini, in cui si fa riferimento all'utilità comune di tutti gli studiosi e si esprime la volontà di realizzare una biblioteca pontificia dotata di codici latini e greci, adeguata alla dignità del pontefice e della Sede apostolica. Utilizzando le entrate del giubileo, il pontefice stipendiò traduttori per realizzare la versione latina di opere greche, fece lavorare filologi alla migliore definizione di testi classici, fece trascrivere e comprare manoscritti. Impegnò a guidare l'impresa Giovanni Tortelli e, in pochi anni, soprattutto dopo il 1450, raccolse oltre milleduecento manoscritti greci e latini, alcuni di eccezionale importanza, che spaziano in molti campi della cultura umanistica. Tradussero dal greco per il pontefice, e in qualche caso conosciamo la loro lautissima retribuzione, Giovanni Aurispa, Poggio Bracciolini, Pietro Balbi, Pier Candido Decembrio, Francesco Filelfo, Teodoro Gaza, Giorgio da Trebisonda, Gregorio Tifernate, Guarino da Verona, Jacopo da San Cassiano, Lilio Tifernate, Giannozzo Manetti, Carlo Marsuppini, Orazio Romano, Nicolò Perotti, Lorenzo Valla, Rinuccio da Castiglione che, ancor prima dell'elezione al pontificato, aveva tradotto per il Parentucelli le Favole di Esopo, Maffeo Vegio. Altrettanto ampio il novero di coloro che dedicarono loro opere e loro traduzioni a N.: come Andrea Contrario, Antonio Agli, Antonio da Bitonto, Antonio Tridentone, Rodrigo Sánchez de Arévalo, Bartolomeo Facio, Basinio da Parma, Benedetto da Norcia, Bernardo da Rosergio, Biondo Flavio, Lampugnino Birago, Poggio Bracciolini, Filippo Calandrini, Michele Canensi, Leonardo Dati, Pietro del Monte, Gaspare da Verona, Giano Pannonio, Giovanni da Capestrano, Giovanni Giusti, Pietro Godi, Girolamo Guarini, Leonardo da Chio, Lorenzo da Pisa, Lupo da Speio, Paolo Maffei, Timoteo Maffei, Giovanni Marrasio, Nicolò Cusano, Porcellio Pandoni, Nicolò Perotti, Lauro Quirini, Giovanni Serra che si offrì anche come biografo, Raffaele da Pornassio, Rinuccio da Castiglione, Giovanni Torquemada, Giovanni Tortelli; in più casi erano opere sul potere papale, in altri versi laudativi, in altri ancora opere sulla congiura del Porcari e sui Turchi. Durante il pontificato di N. si ebbe anche l'ultima incoronazione imperiale a Roma. L'avvenimento era stato preparato da una lunga trattativa e più volte rinviato per le difficoltà di Federico in Germania e per le preoccupazioni di Niccolò. Il pontefice temeva che la presenza dell'imperatore, come era accaduto in altre simili circostanze, riaccendesse in Italia fervori neoghibellini e a Roma tensioni repubblicane e municipali. L'accordo fu infine raggiunto con le più ampie assicurazioni da parte di Federico III e con l'abile mediazione di Enea Silvio Piccolomini, e nel marzo del 1452 l'imperatore designato giungeva alle porte di Roma, dove sarebbe stato celebrato anche il suo matrimonio con Eleonora del Portogallo. Nel più rigoroso rispetto del cerimoniale di corte Federico III venne accolto la sera del 9 marzo da cardinali, curiali, cortigiani e Romani alle pendici di Monte Mario. Il pontefice, che era giunto in processione solenne con tutti gli ufficiali di corte e con i cardinali e il clero parati in pluviale, la mattina del 10 marzo aspettava Federico in cima alla scalinata di S. Pietro, su un trono affrontato a una delle tre porte chiuse della basilica. L'imperatore baciò piedi, mani e bocca del pontefice. Nella vicina chiesa di S. Maria "in Turribus" giurò davanti a Dio e a s. Pietro di difendere la Chiesa romana, il pontefice e i suoi successori. Il 16 marzo il cardinale Alano de Coetivy celebrò il matrimonio secondo la liturgia di un antico messale portato da Avignone (e che era stato già usato per l'incoronazione pontificia). Il 19 marzo, quinto anniversario della consacrazione di N. (anche la data fu scelta dal pontefice), Federico fu incoronato imperatore. L'unica modifica nello svolgimento della cerimonia per l'incoronazione imperiale fu voluta dallo stesso pontefice che, a sottolineare il proprio ruolo di vicario di Pietro, prese dall'altare della confessione, "dal corpo del beato Pietro", la spada sguainata e con questa cinse Federico. Ufficiali del Comune di Roma acclamarono infine l'imperatore per tre volte. L'attenzione per un rigoroso rispetto della liturgia fu sempre fortissimo in N., a sottolineare la continuità del papato e della Chiesa, a difesa delle prerogative pontificie e della Chiesa di Roma, nella riproposta dell'ideologia papale di sovrano nello spirituale e nel temporale, a conferma della sacralità della persona del papa. Il pontificato nicolino si connoterà in tal modo con una forte cura per la simbologia, per i gesti, per gli oggetti simbolici. Acquistano così un particolare significato l'uso per l'incoronazione di N., per la prima volta dopo lo scisma, della tiara che era stata utilizzata ad Avignone e che si riteneva fosse quella di papa Silvestro; l'utilizzazione per liturgie importanti del messale avignonese; il ricorso al termine classico "pontifex maximus" nell'epigrafia d'apparato; l'arcaismo delle contemporanee iconografie pontificie e le committenze pittoriche affidate soprattutto al Beato Angelico; la concessione della rosa d'oro, che venne consegnata a Casimiro re di Polonia (1448), Ludovico Campofregoso doge di Genova (1450), Alfonso d'Aragona (1451), Federico III (1452), Alfonso V del Portogallo (1454). Negli ultimi anni del pontificato le fonti raccontano di un pontefice sempre più tormentato per quanto accadeva, privo di fiducia verso i suoi collaboratori più vicini e verso i loro pareri, sfinito dalle malattie. La morte arrivò il 24 marzo 1455. Prima di morire aveva raccolto intorno a sé i cardinali, così come aveva fatto Eugenio IV e come farà Pio II, per lasciare loro il suo testamento spirituale, in cui giustificava quelle che erano state le scelte di fondo del pontificato e raccomandava l'unità nella scelta del successore. Durante i novendiali la prima orazione funebre fu pronunciata da Nicolò Palmieri, quella conclusiva da Jean Jouffroy, tra i suoi più stretti collaboratori curiali, che, a commento di Numeri 16, 7, proponeva la santità di N., un tema che era stato già più che suggerito nel 1451 da Michele Canensi nel De laudibus et de divina electione (il pontefice testimone del martirio in difesa della "potestas" della Chiesa), e che Giannozzo Manetti svilupperà ampiamente nella biografia del pontefice, pubblicata a pochi mesi dalla morte. Il Manetti si è sicuramente valso di fonti curiali e in molte circostanze della stessa testimonianza di N. o di persone a lui molto vicine. Accade questo per i sogni, che costituiscono uno degli elementi fondanti della biografia (la madre Andreola sogna un pontefice che la tranquillizza e predice le più alte cariche religiose per il figlio giovanissimo gravemente ammalato; il Parentucelli sogna durante il conclave che Eugenio IV lo riveste dei paramenti pontificali; di nuovo Eugenio IV appare a N. ammalato per predirgli la morte nell'ottavo anno di pontificato; il pontefice ha in sogno l'apparizione di Stefano Porcari che attenta alla sua vita). La santità del pontefice è tema che non venne ripreso dai biografi pontifici nei decenni successivi (non compare ad esempio nella biografia nicolina del Platina), ma testimonia l'atmosfera di estrema tensione religiosa che circondò il pontificato di N. (con il recupero anche di tradizioni agiografiche d'età gregoriana) e che portò quanti scrissero di lui alla stesura di testi sempre fortemente condizionati e a presentare l'immagine di un pontificato che ha bisogno ancora di un accurato restauro storiografico. Fonti e Bibl.: Blondi Flavii Forliviensis De Roma triumphante libri decem [...] Italia illustrata, Historiarum ab inclinato Romano imperio Decades III, Basileae 1559, pp. 337-38; Aeneae Silvii Senensis Frederici Romanorum regis secretarii et oratoris de morte Eugenii IV creationeque et coronatione Nicolai V summorum pontificum Oratio coram ipso rege habita [...], in R.I.S., III, 2, 1734, coll. 878-98; Giannozzo Manetti, Vita Nicolai V summi pontificis [...], ibid., coll. 907-60; I.B. Mittarelli, Bibliotheca codicum manuscriptorum monasterii S. Michaelis Venetiarum prope Murianum, Venetiis 1779, coll. 716-21; A. Theiner, Codex diplomaticus dominii temporalis S. 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