di Valerio Verra
Nichilismo
sommario: 1. Origini e significati del termine. 2. Nichilismo, esistenzialismo e ontologia. 3. Nichilismo, teologia e religione. 4. Nichilismo, etica e costume. 5. Nichilismo e politica. 6. Nichilismo ed estetica. □ Bibliografia.
1. Origini e significati del termine
Nell'uso più corrente e consueto il termine nichilismo indica, da un lato, quella corrente di pensiero e di azione ateistica, materialistica, positivistica e rivoluzionaria che è stata cosi efficacemente descritta dai romanzi russi dell'Ottocento (da Turgenev a Dostoevskij, per non citare che i nomi più noti), e, dall'altro, il nucleo centrale del pensiero di Nietzsche come annuncio dell'inevitabile compiersi della ‟logica della decadenza" attraverso, appunto, l'avvento del nichilismo ‟nei prossimi due secoli". È noto, però, che il termine era entrato in circolazione già tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento nella filosofia tedesca, nel corso di polemiche sul criticismo kantiano e sull'idealismo (
Già questi pochi cenni, necessariamente sommari, sulle origini e sugli sviluppi del nichilismo nell'Ottocento mostrano come il termine abbia assunto una gamma estremamente varia di significati tra loro diversi, che, tanto per schematizzare, vanno dall'accentuazione del momento etico-politico e dalla fiducia nella scienza e nel progresso, tipiche di tanto nichilismo russo, all'accentuazione invece del momento estetico-filosofico congiunta a una serrata critica del positivismo e dello storicismo, tipica del nichilismo nietzschiano. Già per questo appare dunque impossibile, o, quanto meno, illecito muovere da una qualsiasi definizione rigida e univoca del nichilismo per rintracciarne la presenza nella vita e nella cultura del nostro secolo, dove infatti sono stati recepiti i suoi esiti più diversi; ma tale difficoltà risulta, se possibile, ancora accresciuta dal fatto che il nichilismo come categoria storiografica, ossia come concetto usato per comprendere e spiegare intere epoche della civiltà, ha subito già con Nietzsche e poi, nel nostro secolo, soprattutto con Heidegger una straordinaria dilatazione del proprio ambito di riferimento cronologico, al punto da venir esteso all'intero sviluppo della civiltà greco-cristiana e, di conseguenza, portare a una diversa e più ampia valutazione della sua incidenza anche nel Novecento. In altri termini, se nella storia della filosofia e della cultura è abbastanza diffusa la tendenza a cercare anticipazioni o precorrimenti di una corrente di pensiero, risalendo oltre le sue prime formulazioni esplicite e oltre il comparire del termine che la designa, nel caso del nichilismo questo procedimento assume un aspetto particolarmente radicale, in quanto non si va timidamente alla ricerca di sue radici più o meno nascoste nel passato, ma se ne afferma categoricamente la presenza decisiva e operante già nella filosofia greca; anzi l'intero sviluppo della civiltà occidentale (e non solo della filosofia) fino a oggi viene commisurato alla svolta compiuta dall'umanità quando in
Del resto, sempre riguardo all'impossibilità di una definizione rigida del nichilismo, non è forse casuale che in studi relativamente recenti (v. Rauschning, 1954) si sia ritenuto necessario sottolineare che il nichilismo non può mai presentarsi direttamente, esplicitamente, ma sempre soltanto in ‟maschere e metamorfosi", altrimenti il nichilismo dovrebbe assumere una forma positiva tale da contraddirsi e perderebbe quella funzione intrinsecamente distruttiva di ogni indebita certezza che lo contraddistingue e gli consente di mettere in luce come tutto consti di apparenze che rinviano sempre e soltanto ad altre apparenze. A questo proposito vanno pure ricordate indicazioni suggestive venute anche più di recente da ambienti del tutto diversi, soprattutto dalla
Per tutte queste considerazioni sarebbe dunque problematico e, al limite, controproducente muovere da una definizione troppo rigida di nichilismo per indagarne la presenza nella cultura e nella vita del Novecento, mentre con- verrà forse cercare di individuarne appunto le ‛maschere' e le ‛metamorfosi', ossia il modo in cui motivi nichilistici anche diversi tra loro abbiano operato in diversi campi, ora congiuntamente, ora scontrandosi, ma sempre imprimendo alle tematiche in questione (metafisica, teologia, morale, politica, estetica ecc.) un profondo rivolgimento interno destinato a concludersi o nella loro stessa dissoluzione o in radicali tentativi di trasformazione. Qualcosa di più preciso, invece, si può forse dire a proposito dello sviluppo storico di tale processo sul quale hanno ovviamente inciso i grandi mutamenti politici e sociali del secolo. Se infatti, agli inizi del Novecento, il nichilismo ha avuto fortuna soprattutto all'interno di certe élites come una sorta di entusiasmante avventura estetico-culturale, come un messaggio d'avanguardia, più cauto e pessimistico (si pensi ad es. alla risonanza della dottrina del ‟tramonto dell'Occidente" di Spengler) si è fatto l'atteggiamento quando si è avuta, con la
2. Nichilismo, esistenzialismo e ontologia
Anche se il nichilismo è sempre stato e ha voluto essere molto di più di una semplice dottrina filosofica, può essere utile iniziare l'esame della sua presenza nel Novecento proprio dal suo rapporto con la filosofia, per individuare alcuni dei suoi sviluppi tematici più complessi. In questa direzione è anzitutto necessario fare riferimento a quel tipo di filosofia che è stata considerata come la quintessenza del nulla nella cultura europea del Novecento, e cioè l'esistenzialismo appunto come ‟incontro con il nulla" (v. Kuhn, 1950). A parte lo spazio dato da grandi filosofi esistenzialistici come Jaspers e Heidegger al confronto con Nietzsche, è indubbio che l'esistenzialismo per tanti aspetti ha recepito e sviluppato temi nichilistici, quali il senso dell'angoscia di fronte al crollo di un sistema millenario di valori, la sfiducia nella razionalità, che da Platone a Hegel sembrava costituire l'asse portante della civiltà europea, un interesse, a volte quasi patologico, per tutte le sfumature più riposte della psicologia individuale nei suoi aspetti soprattutto negativi e deformati, il senso di una crisi ormai irrevocabile delle credenze religiose tradizionali e la convinzione che una via d'uscita dalla crisi non potesse esser cercata nelle grandi ideologie storico-politiche, ma piuttosto in un impegno radicale dell'individuo nella sua libertà, tanto se fondata ateisticamente, quanto se collegata a un senso nuovo e spesso laico di religiosità.
Al di là, però, di questi innegabili punti di contatto tematici, non è lecito stabilire un rapporto troppo stretto tra nichilismo e esistenzialismo, se appena si ricordino gli esiti molto lontani dal nichilismo a cui sono approdati autori usualmente considerati come esistenzialisti. Basti pensare ad esempio a Sartre, a cui si devono, particolarmente nella Nausée, magistrali descrizioni del senso di assurdità profonda e radicale dell'esistenza e, nella sua intera opera letteraria e teatrale, rappresentazioni così vive ed efficaci della negatività dei rapporti umani. Ora, proprio Sartre, affermando una concezione decisamente ‛umanistica' dell'esistenzialismo, vede nella scomparsa e nella distruzione di tutti i valori tradizionali e di ogni loro possibile fondamento metafisico o religioso la ragione di un ‛ottimismo' come dottrina dell'azione e dell'impegno umano nella progettazione, anzi nell'invenzione della libertà, un ottimismo che si è venuto sempre più indirizzando verso una forma di milizia politica motivata da un ripensamento della dialettica marxista. Venendo poi a Jaspers, non è poco significativo il fatto che, nella sua interpretazione di Nietzsche, egli tenda a escludere che il concetto di nichilismo possa valere come una diagnosi totale del corso della civiltà occidentale (essendo per Nietzsche infondata ogni considerazione totale della storia in senso hegeliano o storicista), e ad accentuare il carattere psicologico ed esistenziale del nichilismo come atteggiamento umano di cui si possono additare esempi già nell'antica sofistica e nell'antico scetticismo. Secondo
Una contestazione radicale di ogni interpretazione umanistica, e quindi anche di quelle esistenzialistiche del nichilismo è venuta poi proprio da un filosofo come Heidegger che, pure, per un certo tempo è stato considerato un maestro dell'esistenzialismo, ma il cui pensiero si è, però, sempre più indirizzato in senso ontologico. Proprio in base all'ontologia, ossia al riferimento al problema dell'essere, Heidegger ha attaccato tanto ogni concezione soggettivistica e antropocentrica del nichilismo, come se esso concernesse soltanto la scomparsa o la trasvalutazione di certi valori, quanto ogni considerazione puramente storico-culturale del nichilismo quale semplice fenomeno di decadenza, quanto, infine, ogni pretesa di superare il nichilismo stesso in virtù della scoperta di nuovi valori (v. Heidegger, 1961). Quello che divide Heidegger da Nietzsche o, più esattamente, quello che Heidegger imputa a tutte le concezioni correnti del nichilismo, è di non aver riportato il problema del nichilismo al rapporto originario tra essere e nulla, o, meglio, di non aver posto il problema ontologico del nulla, dissimulandolo invece sempre in un semplice problema storico-cuiturale del tramonto di certi valori e dell'invenzione di altri. Tuttavia merito, sia pur inconsapevole, di Nietzsche è stato di aver manifestato nel modo più crudo e lampante l'origine di questo fraintendimento radicale del nichilismo, nella
Che il nichilismo vada considerato come l'estrema propaggine della filosofia occidentale e, al tempo stesso, che non abbia senso la pretesa di un suo superamento sono tesi che si trovano pure nella ‟dialettica negativa" di Theodor W. Adorno (v., 1966), però in aperta polemica contro l'esistenzialismo e i suoi fondamenti ontologici, considerati come ulteriore frutto di una prospettiva soggettivistica ormai condannata e consumata nell'‛irrazionalità' e assurdità del mondo a cui ha dato luogo il processo di razionalizzazione sviluppato dalla ragione ‛strumentale' e tecnologica. Per Adorno il nichilismo teorico e astratto non è altro che una forma secolarizzata o, peggio, ‟depravata" dell'idealismo speculativo, giacché porre in blocco il problema del ‛senso' della vita e affermare che tutto è nulla, che tutto è vano, significa mettersi in una prospettiva altrettanto vuota e mitica di quella da cui Hegel fa cominciare nella logica il movimento del concetto, con la differenza, però, che Hegel non si ferma affatto alla vuota e morta identità, ma la assume per andare oltre la sua nullità e giungere alla determinatezza. Il nichilismo come teoria non va, però, solo respinto in quanto vuoto e contraddittorio, ma soprattutto perché ‛ideologico'; domandarsi se la vita abbia un senso, e cioè se possa essere soddisfacente, significa infatti assumere come criterio ultimo di giudizio la cupidigia, il desiderio, e quindi mantenere tanto la domanda quanto la risposta in quel ciclo di soddisfazione e di appropriazione da cui derivano appunto gli aspetti assurdi e terrificanti della società su cui il nichilismo profonde le sue geremiadi. L'irrazionalità della società tardo-borghese non è qualcosa che può essere espresso teoricamente o mediante formule generali, e tanto meno qualcosa a cui si possa contrapporre un'alternativa ‛teorica' come pretendono i ‛superatori' del nichilismo; piuttosto, una situazione così disperata può essere espressa solo indirettamente attraverso il ritegno perfino a nominarla. In questo senso la contraddizione interna alla situazione assurda in cui si è conclusa la ragione apre la possibilità di un vero che neppure può essere più pensato: l'ontologia negativa è la negazione dell'ontologia. Non alla filosofia tocca dunque il discorso sull'assurdità della realtà, ma piuttosto al ‛dramma' che ammutolisce nel gesto, si irrigidisce nel mezzo del dialogo; quel dramma del non senso che ha la sua realizzazione esemplare in Beckett (specialmente in Fin de partie) dove l'assurdo, il fatto che ormai l'intera realtà è un campo di concentramento, non viene tematizzato, ma realizzato concretamente in quanto il processo di razionalità e di comunicazione si ripiega su se stesso e sfocia nella propria distruzione e nella propria impossibilità (v. Adorno, 1961). Parlare quindi di superamento del nichilismo significa per Adorno semplicemente allearsi con ogni volgarità sussistente e con il principio distruttivo stesso, contrapponendogli soltanto fruste ‛positività' che ne sono frutto e conferma, mentre il filosofo, al più, dovrebbe dichiarare di non essere mai abbastanza ‛nichilista' nella misura in cui è troppo ‛freddo', non prova abbastanza simpatia per chi soffre.
Quale sviluppo radicalmente antistoricistico e anticristiano del nichilismo va infine ricordata la posizione di
3. Nichilismo, teologia e religione
Alla radicalità della critica del nichilismo contro l'intero sviluppo della filosofia greco-cristiana corrisponde una critica non meno violenta, che in Nietzsche spesso assume la forma dell'invettiva, contro la teologia e la religione, che per tanti aspetti a quella filosofia sono state strettamente legate. Nel nostro secolo, tuttavia, il rapporto tra nichilismo, teologia e religione si è venuto configurando in modo assai più complesso di quanto potevano far pensare i toni accesi dell'anticristianesimo e dell'ateismo professati dal nichilismo ottocentesco. Questo non certo nel senso che dal nichilismo siano scaturite direttamente nuove rilevanti forme di teologia o di religione, tali da contraddire l'accusa rivolta da Nietzsche alla civiltà occidentale di aver perso qualsiasi capacità creativa in campo religioso e, in quasi duemila anni dopo Cristo, di non aver saputo neppure inventare un nuovo Dio. Episodi come il tentativo di Klages e del suo seguito di ‛cosmici' di instaurare una nuova mistica dell'‛eros cosmogonico' venata di elementi dionisiaci, per realizzare quel ritorno all'unità originaria che poteva mettere in salvo la ricchezza della vita dell'‛anima' minacciata dalla forza disgregatrice dello ‛spirito', hanno sì contribuito a creare una certa atmosfera agli inizi del Novecento, ma un'atmosfera che ha finito con l'avere un carattere piuttosto estetico, nel senso lato del termine, che non con l'imporre nuovi modelli di religiosità capaci di rivaleggiare con la diffusione e la penetrazione di quelli tradizionali. Così pure la contrapposizione nietzschiana di
Anche i tentativi espliciti di ricavare una vera e propria teologia filosofica dal nichilismo sembrano rimasti limitati alla cerchia di una discussione specialistica piuttosto ristretta, come dimostra per esempio il recente dibattito sulla possibilità di una ‟teologia all'ombra del nichilismo" sollevato dal filosofo tedesco Weischedel con la sua radicalizzazione del nichilismo (v. Weischedel, 1971; v. AA.VV., 1971 e 1975). Secondo Weischedel, infatti, il nichilismo non può essere limitato alla semplice negazione della verità, di Dio, del senso della vita; alla base di tali negazioni c'è un interrogarsi dell'uomo che non si spiegherebbe senza ammettere una problematicità originaria da cui tale interrogarsi proviene e a cui si riferisce. Certo, questo non autorizza minimamente a tornare a una concezione di Dio come esistente o come persona, ma, tuttavia, legittima, secondo Weischedel, una ‟teologia filosofica" come coscienza del carattere radicale della problematicità evidenziata dal nichilismo.
Incomparabilmente più vasta l'efficacia del pensiero heideggeriano sulla teologia del nostro secolo, ma questo non nel senso che in Heidegger si sia concretato in un nuovo discorso teologico lo spiraglio verso il divino indubbiamente lasciato aperto dalla sua interpretazione del nichilismo (v. Caracciolo, 1976), bensì piuttosto nel senso che la teologia contemporanea ha utilizzato in genere metodi heideggeriani (prima l'analitica dell'esistenza e poi l'ermeneutica) per una ripresa e un rinnovamento di temi cristiani del tutto estranei alla concezione heideggeriana del nichilismo.
Molto diverso invece dev'essere il giudizio se si considera quello che il nichilismo ha significato per la teologia e la religione del nostro secolo nella sua veste di istanza critica, o, quanto meno, di interlocutore privilegiato che, attaccandone le fondamenta, ha costretto il pensiero teologico ad assimilarne motivi ed esigenze per un fecondo riesame della propria possibilità e validità. In questo senso, allora, è possibile riscontrare tutta una gamma di posizioni che vanno dalle repliche di ispirazione più tradizionale, secondo le quali il nichilismo è uno dei tanti allontanamenti dell'uomo da Dio verificatisi nella storia, ma sostanzialmente privo di fondamenti validi e, perciò stesso, già da sempre ‟superato" dall'annuncio evangelico (v., per es., Fries, 1949), all'accettazione della ‟morte di Dio" come principio di rinnovamento, l'unico possibile, della teologia e del cristianesimo. Così, fin dai primi decenni del Novecento, il nichilismo ha dato un importante contributo al dibattito teologico-religioso con la sua polemica - anzi rottura radicale - non solo rispetto alla religione tradizionale, ma anche contro i tentativi, tipicamente ottocenteschi, di sostituirvi forme laiche di ‛religione dell'umanità', o di cercare nella storia e nella società la realizzazione di quei valori umani che erano stati indebitamente ‛alienati', ossia trasferiti in un Dio trascendente. Il nichilismo infatti si pone come critica radicale di tutti i valori di cui la religione e, in particolare, il cristianesimo si erano fatti assertori, ma non soltanto in quanto sono considerati trascendenti, bensì per la loro natura stessa di valori intrinsecamente negatori della vita, volti ad assicurare l'indebita protezione dei deboli e dei risentiti, o addirittura il loro predominio, rispetto ai forti e agli spietati; in questa posizione estrema si comprende perché nell'Also sprach Zarathustra la traiettoria della morte di Dio venga considerata tanto più vicina al suo compimento quanto più Dio mostra di aver perso i caratteri dispotici e addirittura vendicativi del Vecchio Testamento, per diventare sempre più un esangue coacervo di valori morali. Se ancora si ricorda quanto Nietzsche aveva affermato, e cioè che, propriamente, era stato soltanto il ‟Dio morale" a essere stato ‟confutato" o, ancora, che Dio non si era veramente distrutto, ma stava soltanto ‟cambiando pelle" per riapparire presto ‟al di là del bene e del male", non è difficile comprendere come si sia potuta realizzare una certa convergenza tra la polemica antireligiosa del nichilismo e la rinascita di una religiosità del tutto opposta a ogni forma di religione umanistica e moralistica, quale appunto si manifesta nel pensiero di Kierkegaard con la sua ben nota emblematizzazione della religione nella figura di Abramo chiamato da Dio a un sacrificio assurdo, moralmente immotivabile e inspiegabile. È questa l'atmosfera che vede fiorire nei primi decenni del secolo una ‛teologia dialettica' o ‛teologia della crisi' tutta fondata sul paradosso e sull'impossibilità e illegittimità di una qualsiasi giustificazione morale o razionale della salvezza.
Più tardi è stato un altro motivo
Tuttavia un cenno almeno è ancora necessario riguardo agli sviluppi di un motivo centrale nella polemica antireligiosa del nichilismo nietzschiano, e cioè il motivo del ‟risentimento", la cui critica in Nietzsche, com'è noto, coincide con il rifiuto del cristianesimo. Ora, già nei primi decenni del secolo, M. Scheler con la sua analisi della funzione del risentimento nella fondazione dell'etica (v. Scheler, 1955) aveva respinto tale identificazione, sostenendo che non solo il risentimento non coincide con il cristianesimo, ma che le sue matrici vanno piuttosto cercate nella filantropia universale dell'età moderna, come protesta contro l'amore cristiano quale amore di Dio e del ‟prossimo", ma non dell' ‟umanità". Ma è soprattutto con Bonhoeffer e la sua contrapposizione del cristianesimo alla religione, quale frutto appunto di un senso di impotenza e di frustrazione, che si hanno un rovesciamento e un'utilizzazione della critica nietzschiana contro il risentimento, in polemica contro ogni tendenza a portare l'uomo al cristianesimo valendosi dello psicologismo, della psicanalisi e dell'esistenzialismo, nella misura in cui queste correnti fanno leva sul sentimento di debolezza, di frustrazione, di colpa, e al limite, di disperazione dell'uomo. Alla base di questo ‟metodismo secolarizzato", che postula una contraddizione tra esterno e interno, tra palese e occulto, del tutto estranea al cristianesimo, Bonhoeffer ravvisa infatti una sorta di gioia sadica volta a intaccare tutto ciò che è puro, sano, semplice per riportarlo a elementi patologici e perversi; un atteggiamento, in ultima analisi, di astio e di diffidenza che esprime ‟la rivolta dei mediocri" e di cui non c'è traccia in Gesù, che opera sì il ‟rovesciamento di tutte le valutazioni umane", ma non certo per mettere in questione la salute, la forza e la felicità dell'uomo, bensì per rivendicare per sé e per Dio l'intera vita umana in tutte le sue manifestazioni.
4. Nichilismo, etica e costume
Se l'incidenza del nichilismo è apparsa già notevole nel campo del pensiero religioso, anche maggiore è la sua rilevanza rispetto all'etica, di cui sembra messa in dubbio la stessa possibilità di sopravvivenza in base ai presupposti tanto del nichilismo russo, quanto di quello nietzschiano. Se infatti Dio è morto, se Dio non c'è, non si dovrà trarre la conclusione che tutto è ugualmente lecito e illecito, ovvero per dirla con Camus (v., 1951) che tanto vale attizzare i forni crematori quanto consacrarsi alla cura dei lebbrosi, poiché malizia e virtù sono caso o capriccio? Anche qui, però, o forse qui più che mai, va osservato che il problema degli esiti del nichilismo nel nostro secolo è assai più complesso e articolato di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Cominciando dai suoi aspetti polemici, va rilevato che il nichilismo non si è affatto chiuso in un semplice rifiuto del problema morale, ma piuttosto ha operato o, comunque, ha contribuito a operare un profondo rovesciamento di valori e di criteri di valutazione. Così, attaccando alla radice quelli che per secoli erano stati i valori della civiltà occidentale, il nichilismo ha aperto la strada a una sorta di esaltazione dell'eroe negativo di fronte a quella morale che si considerava frutto di risentimento, mistificazione o ipocrisia. Se, per un verso, Nietzsche aveva sostenuto che era di gran lunga migliore una cattiva azione piuttosto di un cattivo pensiero, per altro verso, molto romanzo russo dell'Ottocento, secondo una linea destinata ad avere ampio successo, aveva ravvisato nei reietti e, al limite, perfino negli assassini, una sostanza etico-religiosa molto superiore a quella delle persone considerate ineccepibili secondo la morale vigente. E non è poi certo un caso che un autore così sensibile alla problematica nichilistica come
Al di là di queste linee polemiche, venendo al rapporto diretto tra nichilismo e morale, si possono forse distinguere tre posizioni fondamentali, da quella che vuole ricondurre il nichilismo alla più rigorosa coerenza in campo etico, coerenza ravvisata nel suicidio, a quella che dal nichilismo prende lo spunto per cercare nuovi e diversi modelli morali rispetto a quelli mostratisi ormai irrimediabilmente falsi e consunti e, infine, a quella che è stata la conseguenza di più vasta portata del nichilismo, e cioè l'abbandono della stessa problematica morale, l'accettazione della vita senza più alcuna richiesta di senso e, al limite, senza neppure più avvertirne l'assurdità. Per quanto riguarda il primo punto, va ricordata anzitutto la posizione assunta da
5. Nichilismo e politica
Per quel che riguarda la portata politica del nichilismo va fatta una netta distinzione tra il nichilismo russo e quello nietzschiano, giacché in questo campo la loro efficacia ha avuto un andamento cronologico opposto. Il nichilismo russo infatti è stato al centro di grandi dibattiti soprattutto nella seconda metà del secolo scorso quando, a torto o a ragione, è stato considerato uno dei maggiori responsabili o artefici di tutta una serie di movimenti insurrezionali a carattere anarchico. Al contrario il nichilismo nietzschiano è stato chiamato ripetutamente in causa rispetto ai profondi e spesso terribili sconvolgimenti del nostro secolo, non solo per la radicalità delle sue tesi metafisiche, religiose e morali, ma anche per l'asprezza della sua polemica tanto contro quelli che erano stati i fondamenti millenari della vita politica e sociale, quanto contro le correnti che si proponevano come rinnovatrici in senso democratico e socialista. In effetti Nietzsche ha sviluppato una polemica piuttosto violenta contro il socialismo e la democrazia, considerati come ultima incarnazione di quella religione del risentimento che era stato il cristianesimo, manifestando una sostanziale sfiducia in qualsiasi forma di ‛rappresentanza' e sostenendo che alla decadenza sarebbe stato possibile mettere argine soltanto attraverso un addestramento estremamente severo di una nuova classe dirigente. Si tratta di una concezione sostanzialmente aristocratica della vita politica, dove il termine aristocratico non va, ovviamente, inteso in senso ereditario (Nietzsche stesso irride a chi pensa all' ‛almanacco di Gotha') o tanto meno razziale (è ormai largamente nota la deformazione e strumentalizzazione del pensiero nietzschiano operata dalla sorella Elisabeth Förster Nietzsche e dai teorici del nazionalsocialismo), quanto piuttosto in senso culturale: Nietzsche pensa cioè a quelle aristocrazie che avevano reso possibile lo splendore della civiltà greca o di quella rinascimentale. Questo non esclude che, ad esempio in Francia, nei primi decenni del secolo ci siano stati tentativi di dare addirittura un'interpretazione socialista del pensiero nietzschiano o, comunque, di fondere temi nietzschiani con l'esigenza socialista di formare una classe operaia europea egemone (v. Bianquis, 1929, pp. 89-95), ma in complesso sono state molto più diffuse le tendenze a scorgere nel nichilismo nietzschiano il fondamento di dottrine ‛decisionistiche', fasciste e totalitarie. Per quanto riguarda il ‛decisionismo' va fatto soprattutto riferimento all'opera del giurista e politologo
Il rapporto tra nichilismo e politica infine è stato considerato in un quadro più ampio, che abbraccia le diverse forme di nichilismo e l'intera storia degli ultimi due secoli, da
6. Nichilismo ed estetica
Mentre nel nichilismo russo, come già si è accennato, il rapporto con l'estetica tendeva sostanzialmente a una funzionalizzazione dell'arte rispetto alla politica, nel nichilismo nietzschiano, invece, esso assume una portata decisiva nella concezione stessa della filosofia, della sua storia e del suo futuro, o, più esattamente, il nesso tra arte e nichilismo e la sua centralità all'interno della filosofia appaiono strettamente legati allo sviluppo e al superamento del nichilismo. Proprio il fatto che il nichilismo passivo stia ormai avvicinandosi al suo compimento con il dissolversi della metafisica platonico-cristiana e, di conseguenza, della contrapposizione tra un presunto mondo vero e uno apparente, fa sì che per Nietzsche, come già si è accennato, la realtà non appaia ormai più giustificabile se non come fenomeno estetico. Ma questo, come ha sottolineato Heidegger nella sua interpretazione della storia del nichilismo, non va inteso nel senso puramente ricettivo, fruitivo, come dice Nietzsche stesso, ‟femminile" dell'estetica, bensì comporta un rovesciamento di prospettiva, per cui l'estetica va considerata dal punto di vista dell'‟artista" come produttore, creatore, come colui che ‟dà" e non che riceve. In questo senso l'estetica non può essere limitata al problema del bello e dell'arte bella, e, come del resto era ovvio prima di Kant e del romanticismo, l'arte va riferita al ‛produrre' in generale, e quindi al far venire alla luce, far apparire le possibilità della realtà. L'arte appare così, sempre secondo l'interpretazione heideggeriana, strettamente legata alla ‟volontà di potenza" e rivela un'intrinseca portata ‟metafisica", giacché si connette appunto alla concezione dell'essere in termini di volontà di potenza, così radicalmente esplicitata da Nietzsche. Ma questo, per Heidegger, è anche il limite dell'estetica nichilistica nietzschiana, che vede nell'arte così intesa l'unico possibile ‟contro-movimento" rispetto alla religione, alla morale e alla filosofia come forme di decadenza. Proprio per questo, ancora, l'esaltazione dello ‟stile grandioso", la rivendicazione dell'importanza dell'ebbrezza, la riscoperta di una sensibilità assai più ampia di quella a cui aveva voluto limitarla la moderna contrapposizione tra spirito (o ragione) e corpo, sono tutti temi che non possono venir ridotti a prospettive e valutazioni semplicemente culturali dell'estetica come un ramo particolare della filosofia, bensì corrispondono al significato più profondo del nichilismo nietzschiano; considerazione questa che non impedisce, però, a Heidegger di riconoscere che nel nostro secolo l'influenza del nichilismo nietzschiano si è dispiegata per lungo tempo in modo assai più generico o, quanto meno, al di fuori di una piena consapevolezza di questa unità tematica e portata storica del nesso tra nichilismo e arte, quale del resto soltanto l'interpretazione ontologica poteva mettere pienamente in luce. Sempre per quanto riguarda Heidegger, il rapporto tra filosofia ed estetica assume nel suo pensiero una funzione sempre più importante, anche se nel quadro non di un ‟superamento" del nichilismo, ma piuttosto, come già si è detto, di un ‟passo indietro" rispetto a ciò che la metafisica e il nichilismo hanno lasciato come ‟non-pensato". È infatti nel linguaggio, e precisamente nel linguaggio poetico, distinto dal linguaggio subordinato unicamente alle regole della logica e della scienza, che si fa sentire l'appello dell'essere e l'esigenza di una forma di pensiero non-metafisico e, in questo senso, l'arte stessa, come accadere della verità, è, nella sua essenza, poesia.
Venendo poi al dispiegarsi del nichilismo nietzschiano in un campo più strettamente estetico, è abbastanza facile individuare alla fine dell'Otto e nei primi decenni del Novecento alcune tendenze polemiche caratteristiche, come una forte reazione contro le concezioni naturalistiche e realistiche dell'arte, e, insieme, la presenza di certi motivi che in parte si sono visti incidere anche sulla concezione della morale, della religione e della politica: esaltazione dell'artista; privilegiamento di ciò che non è comune, abituale, ma ‛eccelso' e magari anche ‛efferato'; rivendicazione della validità degli impulsi vitali e, al limite, del dionisiaco; disprezzo di ogni forma di morale o di precetto, a favore di tutto ciò che è ‛gesto' eroico e geniale. Non c'è, si può dire, corrente della prima metà del Novecento, dal neoclassicismo al neoromanticismo, dal decadentismo al futurismo, dall'espressionismo al surrealismo, dove non si senta la presenza operante di queste tematiche, anche se ben diversi e complessi ne sono stati gli esiti, di cui sarà opportuno ricordare qui alcuni tra i più sintomatici. Così, al di là di quello che può essere il giudizio sul valore artistico di un autore come
La consapevolezza di una profonda dissoluzione nichilistica non solo dei valori metafisici e religiosi, ma anche di quelli specificamente umani che ha caratterizzato i primi decenni del secolo - e di cui si è trovata testimonianza anche nell'opera di critica e di protesta del Brecht giovane sì da parlare di un suo ‟nichilismo illuministico" e ‟nichilismo anarchico" (v. Schwarz, 1971 ; v. Pietzcker, 1974) - ha poi avuto ampio sviluppo nell'espressionismo; a questo proposito anzi può essere utile ricordare alcuni dei termini essenziali con cui si è creduto di poter caratterizzare il costituirsi della lirica espressionistica ‟all'ombra del nichilismo": infantilismo, narcisismo, volontà di annientamento, efferato fantasticare, macabra autodifesa ecc. (v. van Bruggen, 1946). Ma, al di là di queste indicazioni tematiche, va ricordato che proprio all'interno dell'espressionismo si è avuto a opera di
Muovendo da premesse analoghe (prospettivismo, acuto senso dell'irrealtà non solo di ciò che ci circonda, ma dello stesso io inafferrabile e inesprimibile, rinuncia a qualsiasi illusione di poter trovare un bandolo nel labirinto del mondo in cui ci aggiriamo), Kafka con la sua tematizzazione dell'incomunicabilità è giunto a una valutazione del tutto opposta dell'arte. Non solo l'artista appare isolato e incompreso, come ogni uomo e più di ogni uomo, ma in realtà, come risalta in modo particolarmente efficace da novelle quali l'Hungerkünstler e Josefine die Sängerin, la questione di fondo è se, nell'assurdo e nel terrore in cui siamo condannati a vivere, l'arte abbia una qualche consistenza effettiva o non sia essa stessa una sorta di inganno più o meno reciproco; questo è il dubbio da cui l'artista è continuamente roso e tormentato e da cui finisce con l'uscire soltanto mediante quella forma di sublimazione e ritorno ‟al popolo dei padri" che è la morte sua e dell'arte (v. Ries, 1977). Così, mentre da George all'espressionismo il nichilismo aveva aperto la speranza di un suo sviluppo positivo nella ricerca e nella costruzione della ‛forma', attraverso la corrosione ironica del linguaggio da una parte e, dall'altra, attraverso la sempre maggiore consapevolezza dell'insufficienza del linguaggio stesso rispetto alla dimensione smisurata del vuoto e dell'incomunicabilità dell'esistenza, il nichilismo si rivolge contro la stessa ‛forma' o, quanto meno, si esplica in estetiche e in poetiche dell'informale, dell'assurdo, del contraddittorio e, al limite, del silenzio. Già in parte si è accennato all'importanza, evidenziata da Adorno, dell'opera di Beckett e, sempre a questo proposito, vanno certamente ancora ricordati autori come un Jonesco o un Dürrenmatt per la struttura del loro teatro sospeso sul vuoto e sul non senso. Resta, però, l'interrogativo se in tal modo il nichilismo abbia concluso la propria parabola o se si tratti semplicemente di una fase di transizione verso nuove ‛metamorfosi'; un interrogativo sul quale, proprio per i caratteri specifici del nichilismo, sembra impossibile azzardare qualsiasi tentativo di risposta.
bibliografia
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