NICOLA Pisano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)

NICOLA Pisano

Francesco Aceto

NICOLA Pisano. – Figlio di Pietro, ne sono ignoti luogo e data di nascita. È menzionato la prima volta nel testamento dettato a Lucca il 5 aprile 1258 dallo scultore Guidobono Bigarelli da Como (Appendice, in Nicco Fasola, 1941, p. 207, n. 1).

In forza della sua attività, accertata su base stilistica dal 1248, è verosimile che sia nato nella seconda decade del secolo, dato compatibile con la carriera del figlio Giovanni, pisano d’origine e suo valido aiuto sin dal 1265. In carte d’archivio ed epigrafi coeve è identificato con l’appellativo «Pisanus» o «de Pisis».

Due atti notarili redatti a Siena l’11 maggio 1266 da uno stesso notaio, noti dall’Ottocento (von Rumohr, 1827, p. 152), lo segnalano rispettivamente come «Nichola Pietri de Apulia» e «Nichola de Apulia». Dopo iniziali esitazioni, indotte da fuorvianti congetture toponomastiche, i due referti senesi sono stati assunti quale prova dell’origine anagrafica meridionale di Nicola, con importanti esiti in ordine al suo apprendistato artistico. Nonostante qualche autorevole resistenza (Swarzenski, 1926, pp. 10-27; Weinberger, 1960; 1963), la critica è da tempo convinta che la miscela formale delle opere iniziali, in bilico tra pungenti rilevazioni naturalistiche e gotiche trascrizioni di modelli antichi, affondi le sue radici nell’ambiente artistico promosso al Sud dall’imperatore Federico II (1194-1250), sensibile per ragioni ideologiche all’appello del mondo classico e insieme aperto alle più audaci forme di sperimentalismo culturale della sua età. Con varie sfumature, i prestigiosi cantieri imperiali della porta di Capua (1234-39) e di Castel del Monte (1240-46), assunti a paradigmi di queste tendenze artistiche, sono stati additati come il luogo fisico del tirocinio di Nicola, mentre minor fortuna hanno incontrato le proposte di identificarne gli incunaboli all’interno del loro variegato repertorio di sculture (Bottari, 1959; Mellini, 1978, pp. 314-322).

La traccia fondativa meridionale ha tratto nuova linfa dalla persuasiva attribuzione a Nicola degli aggressivi bocchettoni animali che decorano la mostra a parete della fonte di Piombino, datata da un’iscrizione al 1248 (Bucci, 1978; Belcari, 2007), e subito dopo della stupefacente serie di mensole figurate per la cupola del duomo di Siena, segnalate da Enzo Carli (1979) e criticamente valorizzate da Alessandro Bagnoli (1981; 2003) quale caposaldo della sua prima maturità.

Anteriori al 1263, quando si provvide a sistemare al vertice della copertura la ‘mela’ metallica fusa da Rosso «padellaio», i marmi senesi forse erano già stati approntati nel 1259, se il 29 ottobre si pagava il coro ligneo dei canonici da allestire proprio sotto il vano della cupola (Bagnoli, 1981). L’attribuzione a Nicola e alla sua officina di questo multiforme campionario di tipi umani e di animali, indagati con divertito spirito documentario, ha dato concretezza a una tradizione locale d’incerto fondamento (Malavolti, 1599), distinta da quella accreditata da Vasari (1568, p. 63), tendente a riconoscergli la responsabilità del progetto del duomo duecentesco. Su queste premesse, dopo la loro edizione (Bagnoli, 1981), sulla cronologia delle sculture si è acceso un vivace dibattito, con proposte oscillanti dal 1245 al 1263 circa prima del recente assestamento verso il 1255 (Colucci, 2009; 2011), motivato con la più esplicita coloritura svevo-meridionale dei manufatti, già metabolizzata nel pergamo pisano.

Il concorso della bottega di Nicola alla costruzione del duomo di Siena, indiziato anche da un discusso documento dell’aprile 1259 ben noto alla storiografia (Tigler, 2009, p. 130 n. 5), si sarebbe intensificato con l’acquisizione della cittadinanza senese nel 1272, in cambio dell’obbligo «ad faciendum intallias et alia opera subtilia pro opere beate Marie Viginis», da parte dei suoi discepoli Lapo, Donato e Goro (Giorgi, 2006, p. 740 n. 43), prima che il testimone venisse raccolto nel 1284 dal figlio Giovanni (Middeldorf Kosegarten, 1984). Allo sfuggente Lapo, in particolare, noto da altre carte senesi, sono stati riferiti nove pannelli figurati, distribuiti tra il Museo dell’Opera di Siena e il Victoria and Albert Museum di Londra, aderenti allo stile di Nicola intorno al 1260 e fondatamente connessi al recinto presbiteriale della cattedrale (Carli, 1949). Altri precoci riflessi del maestro sono stati riconosciuti nei quattro bassorilievi con Storie dell’infanzia di Cristo, pure nel Museo dell’Opera di Siena, pertinenti al parapetto del pergamo un tempo allogato nella pieve di S. Giovanni Battista a Ponte allo Spino presso Sovicille (Colucci, 2011), e nella diramata produzione toscana di Giroldo da Como (Bardelloni, 2000).

Allo scadere del sesto decennio Nicola licenziò il pergamo esagonale per il battistero di S. Giovanni Battista a Pisa, il capolavoro della sua prima maturità. Conti di spesa del capitolo dei canonici (Middeldorf Kosegarten, 1999), verosimili committenti dell’impresa, suggeriscono che questo plurifunzionale ‘palcoscenico’ (Seidel, 1993), conforme ai canoni costruttivi gotici, fosse giunto a termine nella seconda parte del 1259, in ogni caso non oltre il 24 marzo dell’anno successivo, come impone la data 1260 in stile pisano tramandata dall’epigrafe metrica di paternità vergata su un listello sotto il Giudizio.

Fatti salvi sporadici dissensi (Testi Cristiani, 1987, pp. 193, 213; Fiderer Moskowitz, 2005, p. 42), è opinione comune che il sontuoso manufatto occupi tuttora il sito primitivo. La tribuna poggia su sette colonne di vario marmo, tre delle sei esterne sostenute da maestosi leoni, quella centrale da un alto piedistallo figurato. Con la sua vibrante sagoma isolata nello spazio, baluginante dei riflessi prodotti dal colore e dagli inserti di pasta vitrea, il pergamo asseconda il moto rotatorio dell’erto contenitore architettonico. La perfetta ambientazione dell’organismo progettato da Nicola, armonicamente bilanciato tra telaio architettonico e apparati scultorei, toglie ogni valore condizionante agli antefatti meridionali e di area adriatica invocati quale fonte ispiratrice del suo assetto. Al tempo stesso, il metro monumentale, emulo degli ‘antichi’, e il senso di palpitante verità coi quali Nicola declina la vicenda cristologica confinano gli illustri precedenti offerti dal pergamo di Guglielmo per la vicina cattedrale (1159-62) e da quello di Guido Bigarelli per S. Bartolomeo in Pantano a Pistoia (1250) al rango di meri rilevatori della ricorrente predilezione dei committenti toscani per articolati sistemi narrativi. Gli scarti stilistici con i precedenti toscani, pur così rilevanti, sono tuttavia cosa quasi trascurabile rispetto all’empito nuovo, di alto tono morale, col quale Nicola sa ripensare la storia sacra, accordando cielo e terra, e alla sua geniale capacità di ordinare in un eloquente congegno figurativo le astratte indicazioni dottrinarie dei committenti, oggetto in passato di fumose interpretazioni ideologiche (Valentiner, 1952; Seymour, 1963), talvolta viziate da discutibili esegesi iconografiche (Angiola, 1977).

Il poema sacro, impropriamente collegato ad alcuni sermoni dell’arcivescovo pisano Federico Visconti (Pesenti, 1975; Cristiani Testi, 1975), ha il suo fulcro nei cinque specchi istoriati del parapetto (al sesto lato s’agganciava la perduta scala, d’indefinita composizione materica), divisi da fasci di colonnine, dove in prospettiva escatologica è icasticamente illustrata la missione salvifica di Gesù attraverso i misteri dell’Incarnazione (Annunciazione e Natività, abbinate nel primo pannello), dello svelamento della sua regalità divina (Presentazione al tempio e Adorazione dei magi) e della morte (Crocifissione), culminanti, in un crescendo drammatico, nel Giudizio universale, col trepidante serrarsi degli eletti attorno al sereno Cristo apocalittico, cui fa da contrappasso la rassegnata e muta disperazione stampata sui volti dei reprobi. Nei pennacchi delle sottostanti archeggiature trilobate si affrontano, nello stesso ordine, sei accigliati Profeti, preannunzianti l’avvento del Salvatore, e gli evangelisti Giovanni, Marco, Luca e Matteo, araldi della sua parola, uno più stupefacente dell’altro per la concentrata potenza di moto con la quale s’adattano all’infelice campo a disposizione. Agli angoli del registro intermedio prendono posto quattro Virtù (Carità, Fortezza e altre due attendibilmente proposte come Umiltà e Fede), modello di comportamento etico-morale rivolto alla meditazione dei fedeli, oltre al Battista e all’arcangelo Michele, effigiato sotto il Giudizio nell’atto di esibire una tavola scolpita con la Crocifissione, spiegata da Seidel (1978) col contenuto di un sermone sugli angeli recitato a Pisa da s. Bonaventura nel 1257. Completano l’ideale edificio teologico le figure umane e animali scolpite attorno al piedistallo della colonna centrale, allusive al mondo terreno riscattato dal sacrificio di Gesù.

Ragioni stilistiche inducono a ritenere che Nicola, coadiuvato da collaboratori, abbia intagliato i pannelli cristologici nel rispetto dell’ordine narrativo, lungo il filo di un progressivo affinamento delle sue idee formali e compositive, stimolato anche dall’incandescente materia storica degli ultimi specchi, investiti da emozioni forti e vere quali mai si erano registrate nell’arte italiana. Dalla ferma intavolazione plastica dei primi due episodi, nel giro di pochi mesi lo scultore sarebbe pervenuto, così, al ritmo più sciolto di quelli finali, dove sotto l’erompere della passione il solenne e concentrato racconto si frange in tanti rivoli intorno a una partecipe umanità, messa in scena con senso nuovo di aria circolante, grazie alla vigorosa modellazione dei corpi distribuiti su più piani. Le avvisaglie di un simile svolgimento si erano colte nel raddoppio dei fuochi figurativi della Presentazione al tempio, con l’indimenticabile camuffamento liturgico, sotto le spoglie di un patriarca biblico, del Dioniso ebbro effigiato sul «vaso del talento» (Seidel, 1975), il celebre cratere neoattico pisano assurto nel Basso Medioevo a emblema dello speciale legame della città con la Roma imperiale. Al cambio di registro espressivo s’accompagna l’attenuazione delle scorie intellettualistiche della fase formativa di Nicola. Messe da parte le suggestioni bizantine soggiacenti agli schemi della Natività e dell’Adorazione dei magi, anche la passione per l’antico, mai pedante o accademica pure quando sfiora la citazione, com’è per i puntuali e replicati prelievi dal sarcofago d’Ippolito, il secondo dei cimeli pisani, oltre al citato vaso dionisiaco, chiamati in causa già da Vasari (1568, p. 59), si converte per intimo accrescimento dello scultore nello studio penetrante dei caratteri, mentre le creste geometrizzate e metalliche dei panneggi, intagliati a risentiti sottosquadri, si fanno più cedevoli sotto i colpi dello scalpello.

All’accordo della critica sui punti nodali del pergamo di Pisa fa da contraltare la ridda di ipotesi circa la data e l’autografia degli altorilievi del portale nord del duomo di Lucca, che possono giovarsi di un’antica attribuzione proprio del biografo cinquecentesco (Vasari, 1568, p. 61). Incastonati tra preesistenti ornati vegetali di gusto tardo-romanico, essi raffigurano l’Annunciazione, la Natività e l’Adorazione dei magi, impaginate senza soluzione di continuità sull’architrave, e la Deposizione di Cristo dalla croce nel timpano. Nell’impresa lo scultore era subentrato a Guido Bigarelli, morto nel 1257, responsabile della restante decorazione del supportico (Cavazzini, 2009). Questa circostanza, unita all’occorrenza nel 1258 del nome di Nicola nel testamento di Guidobono Bigarelli, ha indotto più d’uno studioso a considerare l’intervento lucchese un antefatto del pergamo pisano in contrasto con quanti, accogliendo le pertinenti rilevazioni stilistiche di Swarzenski (1926), Nicco Fasola (1941) e Bottari (1962), lo hanno posposto al 1260, incoraggiati dall’affiorare di modi figurativi preannunzianti la svolta ‘patetica’ senese. A conciliazione delle opposte tesi non è mancata la proposta d’intrecciare le due imprese, ponendo l’intervento lucchese dopo l’esecuzione dei primi tre rilievi di Pisa (Salvini, 1963; Kosegarten, 1967).

Quale che sia la soluzione giusta, a dispetto di risorgenti scetticismi specie per il danneggiato architrave (Wundram, 1997, p. 694), va difesa con forza la responsabilità di Nicola per l’intero apparato figurativo del portale, e non solo per la mirabile Deposizione, dove con inusitato respiro monumentale lo scultore dà corpo a un commovente dramma collettivo attraverso l’armonioso legamento delle comparse nel vano lunettato.

Un largo ventaglio di opinioni si è cristallizzato anche sull’Arca di S. Domenico nell’omonima chiesa mendicante di Bologna, un vero caposaldo nella storia tipologica delle ‘tombe di santi’. La sua realizzazione si sovrappone all’avvio dei lavori per il pergamo senese, di cui prefigura punto di stile e organizzazione del racconto, impaginato con ritmo annodato in forma di fregio continuo. Una notizia tràdita dal necrologio del convento domenicano di S. Caterina a Pisa (ante 1407), risalente per via di mediazioni a testimonianze di un secolo prima (Appendice, in Nicco Fasola, 1941, p. 208 n. 3), ne attesta la paternità a Nicola Pisano con la collaborazione di fra Guglielmo, alla cui mano una perduta iscrizione riferisce il pergamo di S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia (1270).

La decisione d’allestire nella nuova chiesa dedicata al patriarca dell’Ordine un suo sepolcro – il terzo, dopo un primo terragno (1221) e un secondo lapideo, ma non scolpito (1233) – capace di soddisfare con la sua visibile mole e con un adeguato corredo narrativo la crescente devozione popolare dopo la canonizzazione, era maturata intorno al 1264. Al tempo del capitolo generale dell’Ordine, celebrato a Montpellier nel 1265, la «structura solemnis» era già in lavorazione (Acta…, in Monumenta…, 1898; Alfonsi, 1934, p. 149); il 5 giugno 1267 la tomba era sicuramente pronta per accogliere le spoglie del santo. Sistemata nella navatella destra, prima del tramezzo (Acta Sanctorum, Augusti, I, 1867, p. 530), l’arca si elevava libera su alti sostegni, forse per lungo, entro l’ultimo intercolunnio (Medica, 1997). La sezione duecentesca del monumento, oggi assai stratificato, è costituita dalla cassa foderata di rilievi narrativi risaltanti su un fondo incrostato di vetri dorati. Le ‘storie’, tutte ante mortem, sono tratte dalla leggenda del santo compilata tra il 1256 e il 1260 da Umberto de Romanis. Esse sono scandite da sei statuette, due al centro dei lati maggiori raffiguranti Cristo e la Vergine stante col Bambino, e quattro angolari dai nomi incerti, dopo che l’identificazione tradizionale con i quattro antichi Dottori della Chiesa è stata messa in dubbio per palesi incongruenze iconografiche (ibid.).

Un problema insoluto concerne la configurazione dei sostegni, genericamente descritti nel Trecento come colonne (ActaSanctorum, Augusti, I, 1867, p. 532; Romano, 1999). Un erudito frate seicentesco afferma, invece, che in antico il sepolcro era «sostenuto da dodici Angeli, tre per ogni quadro», ancora esistenti ai suoi tempi (Piò, 1620, col. 119). Storicizzando il contenuto delle fonti, la quasi totalità degli studiosi moderni si è mostrata incline ad accogliere la proposta di Cesare Gnudi (1948), compatibile col dato stilistico, di connettere all’arca con funzione di telamoni i due gruppi ternari di chierici salmodianti acquisiti agli inizi del Novecento dal Museo del Bargello di Firenze e dal Museum of fine arts di Boston. Malgrado l’avallo recente di altri studiosi (Moskowitz,1994), va invece rigettata, per varie ragioni, la congettura di Pope-Hennessy (1951) d’integrare i sostegni della cassa con i notevoli arcangeli Gabriele e Michele nel Victoria and Albert Museum, provenienti da una chiesa nei dintorni di Pisa (Williamson, 1996), e con la Fede del Louvre, disputati tra Nicola e i suoi aiuti. Proposte fortemente discordanti continuano ad aver corso anche per quel che concerne la divisione delle mani, compito non agevolato dalla sostanziale omogeneità della resa stilistica. L’analisi più puntigliosa in questa direzione, ma tutt’altro che risolutiva, è quella condotta da Gnudi (1948), il quale ha isolato tre collaboratori noti del Pisano, oltre a un quarto, anonimo aiuto. In generale, va rilevato che dopo l’iniziale ripartizione dei rilievi tra Nicola e fra Guglielmo, dagli anni Trenta del Novecento si è registrato un ingiustificato ridimensionamento del ruolo del frate domenicano e dello stesso capobottega a vantaggio soprattutto di Arnolfo di Cambio oltre che dell’evanescente Lapo, facendo leva sulla qualità più sostenuta dei rilievi bolognesi in confronto al pergamo di S. Giovanni Fuorcivitas, e non sempre tenendo nel giusto conto gli effetti della regia operosa e condizionante di Nicola, al quale in ultima istanza pare legittimo ascrivere il merito principale dell’arca.

Il 29 settembre 1265 Nicola stipulò il contratto di allogagione del pergamo ottagonale del duomo di Siena, accordandosi col relativo operaio, il converso cistercense fra Melano, sulle modalità operative, i tempi e il compenso (Appendice, in Nicco Fasola, 1941, pp. 209-214 nn. 4-5; Giorgi, 2006, pp. 736-738 n. 35). Lo scultore prometteva di trasferirsi a Siena dal 1° marzo 1266 fino a compimento dell’opera. Egli si sarebbe avvalso della collaborazione di Arnolfo, di Lapo e di un terzo anonimo aiuto, identificato con Donato. Era rimessa a lui la decisione di cooptare anche il figlio Giovanni. Nell’atto, pervenuto in duplice redazione originale, era definito il salario giornaliero di ognuno: Nicola avrebbe riscosso otto soldi, Giovanni quattro, Arnolfo e Lapo sei, ma è controverso se collettivamente (Seidel, 1970) o a testa, come si era sempre creduto. Una cadenzata serie di pagamenti, scalati dal 16 luglio 1267 al 6 novembre 1268 (Appendice, in Nicco Fasola, 1941, pp. 215-218 n. 8; Giorgi 2006, pp. 738 s., n. 37), mostra all’opera accanto a Nicola tutti e quattro i collaboratori, ma con una incidenza maggiore del figlio.

Dal contratto si ricavano indirette indicazioni sull’assetto del pergamo, simile a quello di Pisa. L’opera finita si discosta da quella progettata solo per l’occorrenza di gruppi plastici angolari a divisione degli specchi, introdotti in fase esecutiva al posto delle previste colonnine binate. Un inventario del 1435 segnala il pulpito «all’entrata del coro sopra colonne […], messe le figure a colori e a oro e una tenda rossa che chuopre el detto pergolo atorno» (Seidel, 1970, p. 60). Nel 1329 le colonne duecentesche in marmo di Carrara furono sostituite con altre in diaspro colorato (Della Valle, 1785, p. 122 n. 2). Nel 1543, per il riordino del presbiterio, il pulpito fu spostato dal lato destro al lato sinistro e, inoltre, fu arretrato verso la tribuna, sopra un alto podio marmoreo. Nel nuovo allestimento, oltre alla perdita della scala originaria, sostituita da quella intagliata da Bernardino di Giacomo (Fattorini, 2009), fu in parte manomessa la sequenza delle figure angolari della balconata (particolarmente disturbante è l’effetto di spiazzamento patito dagli Angeli tubicini del Giudizio).

Dalle carte nulla trapela sul programma iconografico, lasciato alla discrezione dei committenti. L’orditura concettuale e figurativa è in sostanza quella di Pisa, ma la sua traduzione materiale s’accende a Siena di una più intensa carica vitalistica, estesa ai gotici capitelli, tra i cui fogliami s’insinuano uccelli beccanti e ridenti maschere di adolescenti. La narrazione cominciava nel punto d’innesto della scala al ballatoio col mutilo Angelo annunziante conservato al Bodemuseum di Berlino e definitivamente connesso al pergamo senese da Seidel (1970). L’arcangelo Gabriele dialogava con la tenera Annunciata, che in quanto porta coeli faceva ala al varco d’ingresso alla balconata. Il primo specchio ripropone la composizione della Natività pisana, ma con più scoperta corrente d’affetti. Nel secondo, l’accalorato omaggio dei magi al Bambino offre a Nicola lo spunto per imbastire una pittoresca parata equestre. Nel terzo pannello lo scultore inanella con ritmo incalzante la Presentazione al tempio, il Sogno di Giuseppe e la Fuga in Egitto, su cui incombe come un’ombra minacciosa Erode con i suoi consiglieri. Nella Strage degli innocenti, che occupa da sola il quarto specchio, i gesti di disperazione ‘all’antica’ e i volti sfigurati dal dolore di madri e di anziane parenti preparano lo spettatore al dramma, figurativamente altissimo, della Crocifissione, dove sui due gruppi assiepati ai lati della croce, scossi da opposte passioni, s’impone per l’atteggiamento di nobile e composta rassegnazione, indice di superiore natura, il toccante Cristo in agonia, solo lontano parente del vigoroso atleta di Pisa. Al Giudizio universale sono riservate ben due lastre, per dare pieno sfogo alle contrastanti reazioni emotive del microcosmo umano chiamato a render conto del proprio operato, alla fine dei tempi, dagli Angeli tubicini. Oltre all’Annunciata, facevano da contorno all’epopea cristologica altri sette gruppi angolari raffiguranti, nell’ordine odierno, S. Paolo coi discepoli Tito e Timoteo, la Vergine col Bambino, un gruppo di Angeli tubicini, Cristo mistico, il Tetramorfo, Cristo giudice, un secondo gruppo di Angeli tubicini. Nei pennacchi del registro intermedio i Profeti ed Evangelisti di Pisa sono integrati da una Sibilla, mentre agli spigoli, sotto le spoglie di floride figure femminili assise, sono proposte le Virtù teologali e cardinali, oltre a un’ottava Virtù minore stante. Il piedistallo della colonna centrale per la prima volta in Italia s’arricchisce delle personificazioni delle sette Arti liberali in aggiunta alla Filosofia, associate all’idea morale delle attività terrene quale scala di perfezione spirituale.

Opera della piena maturità, il pergamo di Siena consegna un Nicola Pisano superbo narratore sempre più intento allo studio dei sentimenti. Sotto l’affinato scalpello dello scultore i volti si individualizzano, i gesti s’accordano con naturalezza all’azione, ben assecondati da panneggi morbidi e avvolgenti, i corpi femminili acquistano movenze sciolte e aggraziate sotto vesti preziose, alla maniera degli scultori d’Oltralpe. Tanto radicale è il cambiamento stilistico, che più di un critico ha ipotizzato un viaggio d’aggiornamento in Francia dello scultore, sottovalutando le molte, indirette opportunità di conoscenza che s’offrivano a un artista così incline a mettere in discussione i risultati raggiunti. La documentata operosità degli allievi, alcuni dal nome altisonante, ha da sempre costituito un’allettante sfida per i cultori dello stile, per nulla scoraggiati dalla pratica di lavoro medievale non meno che dalla consapevolezza dell’inestricabile intreccio delle mani, in alcuni casi persino nell’ambito della stessa figura.

L’estrema varietà delle proposte rende arduo il loro rendiconto. L’aiutante meglio riconoscibile per i volti larghi e grassocci, ma un po’ inespressivi, è l’esecutore delle Arti liberali, oltre che di altre parti secondarie, quali, per esempio, le figure femminili al seguito della Visitazione. Identificato con Lapo, egli è largamente presente anche nell’Arca di S. Domenico. Per quel che concerne gli altri discepoli, Arnolfo per lo più è stato ricercato nelle sculture di più risentita definizione geometrica, in linea con i modi di Pisa, mentre a Giovanni sono state associate le parti contraddistinte da un più svolto naturalismo espressivo e da fluidità gotica (la Vergine col Bambino, Cristo mistico, Cristo giudice, gli Angeli tubicini, qualche parte dei Reprobi), anche se va riconosciuto che a tutti gli aiuti Nicola ha saputo imporre il sigillo unificante del suo stile.

Una clausola del contratto per il pergamo di Siena consentiva a Nicola di assentarsi due mesi l’anno, ogni volta per periodi non superiori a 15 giorni, «pro factis» (Appendice, in Nicco Fasola, 1941) suoi o riguardanti la cattedrale e il battistero di Pisa. Nell’edificio battesimale gli è stata attribuita, a cominciare da Adolfo Venturi (1904), la fodera gotica del secondo ordine esterno, arricchita da un cospicuo numero di sculture figurate di vario formato e stile. Le più antiche, parzialmente sostituite tra il 1841 e il 1848, sono quelle architettoniche che decorano gli archi a tutto tondo. Sopravvivono in sito 32 busti e 44 mascheroni, cui vanno aggiunti gli altri cinque conservati nel Museo della Primaziale. Eseguito nel corso del settimo decennio, com’è stato possibile appurare ultimamente con un’accostante dimostrazione stilistica (Seidel, 1999), questo notevole campionario di tipi umani permette di seguire lo svolgimento in senso naturalistico del linguaggio di Nicola culminante nel pergamo senese, ben illustrato anche da una Testa muliebre nel Museo Bardini a Firenze (Id., 1978), prima d’approdare alla sintesi plastica delle più tarde sculture delle vimperghe, dove, però, ha il sopravvento il figlio Giovanni (Kosegarten, 1968).

Gli esiti formali della stagione senese sono riecheggiati da altre opere spettanti inconfutabilmente a Nicola, quali il singolare busto di Gesù Bambino docente (h 14 cm), montato su un reliquiario nell’abbazia cistercense di St. Marienstern in Sassonia (Kreytenberg, 1999) e la Madonnina del Museo nazionale di S. Matteo a Pisa, ben valorizzata da Middeldorf Kosegarten (1978, p. 137). Tra le ultime aggiunte al catalogo di Nicola un posto di rilievo occupa la lastra con le Stimmate di s. Francesco nel Museo civico di Pistoia (Bartalini, 2004).

Essa costituiva il pannello destro della fronte tripartita di un sarcofago di un anonimo presule già nella locale chiesa di S. Francesco, al cui centro campeggiava il noto rilievo pistoiese con l’Elevatio animae, acquistato nel 1842 dai Musei di Stato di Berlino col giusto riconoscimento a Nicola e oggi giudicabile solo in virtù del calco in gesso tratto dall’originale prima della sua dispersione nel 1945. Come aveva intuito Middeldorf Kosegarten (1978), e poi ha meglio argomentato Bartalini (2004), si trattava con ogni verosimiglianza di una tomba figurata a parete su colonne, una tipologia con qualche precedente nel XII secolo, ma foriera di importanti sviluppi nella riformulazione nicoliana.

I rapporti dello scultore con la città toscana erano forse cominciati qualche anno prima con l’acquasantiera di S. Giovanni Fuorcivitas, ed erano proseguiti col rinnovamento del perduto altare di S. Iacopo in cattedrale, commissionato nel luglio 1273 e saldato il 13 novembre successivo (Appendice, in Nicco Fasola, 1941, pp. 220-222 nn. 11-12).

Gli specchi del sepolcro pistoiese, modellati con senso respirante del rilievo, emergente da un fondo liscio con un effetto di spazio indeterminato, lanciano un ponte verso i raggiungimenti finali di Nicola nella fontana Maggiore di Perugia, firmata alla pari con Giovanni nel 1278.

Cominciata un paio d’anni prima (a tener conto della mole del lavoro), la sua costruzione coronava degnamente i più che ventennali sforzi dei perugini per condurre l’acqua in città dal Monte Pacciano. La documentazione d’archivio edita da Nicco Fasola (Appendice, 1951) è ricca di dati sulla travagliata esecuzione delle opere idrauliche, ma desolatamente muta sul monumento. Di un «fonte fiendo», di cui ancora non si era decisa l’ubicazione, si fa parola la prima volta in alcune carte scalate dal 16 agosto al 10 settembre 1277, che però chiamano in causa Arnolfo di Cambio. L’intreccio di date con quelle fornite dal corredo epigrafico del manufatto (nel 1277 maestro «Rubeus» aveva già fuso la tazza di bronzo del bacino superiore, destinata ad accogliere un elaborato gruppo bronzeo disputato tra Nicola e Giovanni) obbliga a ritenere, a correzione di una fortunata tesi accreditata da Nicco Fasola (1951), che i contatti avviati dalle autorità perugine con l’antico allievo di Nicola riguardavano il progetto di una seconda fontana, quella effettivamente licenziata da Arnolfo nel 1281 in pede plateae. Nel disegno generale, risultante dalla sovrapposizione di due vasche poligonali sfalsate tra loro e lievemente scentrate, l’opera porta alle estreme conseguenze il concetto dinamico della forma caro a Nicola. Eretta nel cuore della città, tra il palazzo comunale, la cattedrale e il palazzo vescovile, la fontana nasce come espressione di orgoglio civico, alimentato dal florido presente ma anche dall’autocoscienza del millenario passato di Perugia.

Di questi concetti, nei quali il sacro si mischia al profano, il mito e l’allegoria alla storia, si fanno portavoce nell’ottica enciclopedica della cultura del tempo le 24 statuette sistemate agli spigoli della vasca superiore e i 50 bassorilievi, due per ogni lato, della vasca inferiore raffiguranti Personaggi del VecchioTestamento, i Mesi, le Arti liberali, apologhi e trascrizioni di Favole di Fedro (Hoffmann-Curtius, 1968). Nel 1948-49 la fontana è stata oggetto di un radicale restauro conservativo che ha consentito un riordinamento più ragionevole delle statuette del bacino superiore, sconvolte da precedenti e ripetute ricostruzioni. Come per le altre imprese di Nicola, anche la fonte perugina pone il problema della collaborazione (Kosegarten, 1968), con una netta prevalenza quantitativa di Giovanni, che ha firmato anche nella spalletta sopra il dittico con le aquile. In questo caso, la divisione delle mani risulta facilitata dal chiaro emergere dello stile di Giovanni, avviato con decisione sulla strada del dinamismo espressivo che connoterà l’intera sua carriera, alla cui sfida il vecchio maestro, in un estremo tentativo di rinnovamento, risponderà con una più accentuata sintesi formale. Nelle specchiature del bacino inferiore tale sintesi si traduce nell’inattesa proposizione di un modellato pittorico tendente allo stiacciato, foriero d’imprevedibili sviluppi soprattutto a Siena, nel clima di fronda antigiovannea insorto a fine Duecento. Queste qualità di Nicola rifulgono al più alto grado nelle Allegorie di Perugia e di Chiusi, nei ritratti di Matteo da Correggo ed Ermanno daSassoferrato, nel dittico di Gennaio, nella Geometria, nella Musica.

La fontana perugina costituisce l’ultima opera documentata di Nicola. Non si conoscono il luogo e la data della sua morte. Una carta senese del 13 marzo 1284 lo dà per morto (Appendice, in Nicco Fasola, 1941, p. 226, n. 19).

In anticipo su Giotto, Nicola seppe ritrovare nell’arte antica, rimeditata con accenti di nobile e contenuta passione, la via maestra per recuperare la realtà umana nella pienezza delle sue manifestazioni al ruolo di protagonista della storia sacra, imprimendo una svolta al corso della scultura italiana, consolidata dall’autonoma forza d’espansione dei suoi talentuosi discepoli Arnolfo di Cambio e Giovanni.

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