CANAL, Nicolò

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 17 (1974)

CANAL, Nicolò

VVentura

Nato a Venezia nel 1415 da Vito (Guido) di Giacomo e Bianca Muazzo (da non confondere con un omonimo nato nel 1410 da un altro Vito Canal figlio di Francesco), era presentato per l'estrazione della "balla d'oro" il 13 nov. 1433, avendo compiuto 18 anni. Nell'età giovanile si dedicò agli studi letterari e giuridici nell'università di Padova, conseguendo l'11 genn. 1434 il dottorato nelle arti (promotori Stefano Dottori e Sigismondo Polcastro, professori di medicina teorica). Iscrittosi subito dopo alla facoltà giuridica, ne frequentò i corsi per cinque anni, fino al dottorato in utroque iure, ottenuto l'11 marzo 1439, avendo come promotori alcuni dei più insigni professori dello Studio: Paolo Dotti e Paolo di Arezzo per il diritto canonico, Paolo di Castro, Giovanni Francesco e Francesco Capodilista per il civile. Dopo questo secondo dottorato il C. lesse pubblicamente le Decretali per alcuni mesi, e fino all'agosto del 1439 il suo nome comparve spesso, accanto a quello dei suoi vecchi maestri, tra i promotori per gli esami. Poi la sua vita conobbe una svolta che lo avviò decisamente ai negozi politici.

Erano stati, questi di Padova, anni intensi e fecondi di studio e di maturazione intellettuale, alla scuola di alcuni maestri della cultura veneta, in compagnia di altri giovani veneziani destinati a brillare nella carriera politica od ecclesiastica e nella cultura, come Zaccaria Trevisan il Giovane, Iacopo Zeno, Andrea Venier, Andrea Dandolo, Domenico de Dominicis, Lorenzo Dolfin. Da questo tirocinio traeva una solida cultura ed una consuetudine con le lettere ed i letterati, che gli valsero l'amicizia e la stima di umanisti come Francesco Barbaro, Ludovico Foscarini e Francesco Filelfo. Ma per il C., che come tanti altri patrizi veneti ligi alla tradizione avvertiva istintivamente la superiorità della pratica sugli studi, il richiamo della politica doveva giungere puntualmente alle soglie della maturità. Al promettente rampollo d'una famiglia aristocratica ricca ed influente la preparazione letteraria e giuridica spianava quasi automaticamente la strada degli incarichi diplomatici.

Cosi nel dic. 1441, succeduto Lionello d'Este a Niccolò III, il C. fu inviato con Andrea Giussoni a congratularsi col nuovo signore. Mandato poi ambasciatore a Firenze, nel 1444 lavorava intensamente a rinsaldare la lega veneto-fiorentina in funzione antiviscontea, stipulando a nome di Venezia il trattato con Lucca e Firenze che impegnava le due maggiori repubbliche a difendere la libertà e il regime popolare di Lucca (26 giugno 1444), e rinnovando per dieci anni l'analogo trattato di alleanza con il Comune di Bologna. Il 9 ottobre dello stesso anno in Perugia rappresentò la Repubblica nella stipulazione della pace tra il legato pontificio e Francesco Sforza, concluso con la mediazione degli oratori della lega veneto-fiorentina, che si faceva garante per lo Sforza, ponendo tregua alla guerra che insanguinava l'Italia centrale.

Compiuta con successo la missione in Toscana, il C. fu scelto come oratore in Portogallo, certamente anche per la sua preparazione giuridica che lo rendeva particolarmente idoneo a. trattare la controversia. Egli doveva persuadere l'infante Pietro, reggente di quel regno, a rinunciare al marchesato di Treviso, concessogli dall'imperatore Sigismondo, dimostrandogli l'invalidità di tale investitura, dal momento che la città e il suo territorio appartenevano legittimamente a Venezia. Armato di soli argomenti giuridici, il C. era votato all'insuccesso. Infatti già il 20 sett. 1445 Pietro comunicava alla Serenissima di aver ritenuto opportuno congedare l'ambasciatore, senza neppure aver esaurito la discussione di merito.

Dopo il ritorno in patria, il C. dedicò per alcuni anni la sua attività al governo della Repubblica. Nel luglio 1446 era capo del Consiglio dei dieci (nel settembre dello stesso anno è presente con Lauro Querini a un esame di dottorato all'università di Padova). Nel marzo 1449 lo troviamo savio di Terraferma. Poi l'attività diplomatica lo riprende. Nel giugno successivo è a Firenze e il 24 settembre compare a Venezia tra i firmatari della pace con Milano con cui si cercava di isolare lo Sforza, costringendolo a desistere dal tentativo di abbattere la Repubblica ambrosiana ed impadronirsi di Milano. Nel 1450, oratore della Serenissima a Roma, ne ritornò portando al doge una spada d'oro e altri doni del papa. Il 3 ag. 1450 il Senato eleggeva il C. ambasciatore a Costantinopoli.

Scopo principale della missione era la richiesta all'imperatore Costantino XI Paleologo, di recente salito al trono, di revocare alcune imposizioni introdotte a carico dei Veneziani, soprattutto una tassa sulle senserie, i diritti di dogana sulle pelli e i vini importati da Adrianopoli e altre imposte, che danneggiavano i commercianti veneti, e soprattutto violavano le clausole della tregua stipulata da Venezia col precedente sovrano. La Repubblica annetteva tanta importanza alla questione, che il C., se non avesse ottenuto almeno la revoca della tassa sulle sensene, avrebbe dovuto ordinare al bailo e ai mercanti veneti di imbarcarsi sulle galee del viaggio di Romania, un luogo più sicuro, che avrebbe dovuto essere Eraclea, nel Ponto. A questo scopo il C. doveva recarsi dal sultano Murād II per avviare trattative.

A Costantinopoli il C. ottenne almeno la sospensione dell'imposta sulle senserie e la conferma dei patti di tregua (23 ott. 1450). Vane furono invece le sue vigorose proteste contro le violazioni territoriali e i saccheggi di cui si rendeva responsabile Tommaso Paleologo, fratello dell'imperatore e despota d'Acaia, e contro i diritti di dogana stabiliti da questo a detrimento degli interessi mercantili veneziani e a danno in particolare di Modone e Corone. Anche se avesse voluto intervenire, Costantino era impotente nella situazione di semianarchia e di acuta rivalità tra i fratelli, in cui permaneva l'Impero in via di dissoluzione.

Nella primavera del 1451 il C. fu inviato dalla Repubblica a consegnare il bastone del comando a Gentile da Leonessa, appena allora nominato capitano generale dell'esercito veneto. Quindi, rimasto provveditore in campo, partecipò con le truppe di Gentile e di Iacopo Piccinino al colpo di mano ordinato dal Consiglio dei dieci per catturare Bartolomeo Colleoni, che se ne stava accampato con le sue milizie ad Isola della Scala, e, sdegnato con la Repubblica che gli aveva preferito il Leonessa per il comando supremo, si accingeva a passare al soldo del nemico alla prossima scadenza della condotta. Il Colleoni riuscì a stento a sottrarsi alla cattura, ma vide disperse e disarmate le sue milizie (21 maggio 1451). Nel frattempo il Maggior Consiglio aveva eletto il C. capitano di Brescia.

Egli prendeva possesso della carica agli inizi di giugno, mentre già si profilava in un clima di acuta tensione la ripresa del conflitto con Francesco Sforza, nuovo duca di Milano, che scoppierà nel maggio del 1452. La piazzaforte di Brescia e la sua provincia, situate in una posizione strategica chiave per il controllo della Lombardia e la difesa dei confini, furono così affidate durante quella difficile guerra al governo del C., cui l'umanista Francesco Barbaro, che anni innanzi aveva retto la città durante il memorabile assedio posto dalle milizie viscontee, ed ora aveva caldeggiato la nomina del C., prodigava por via epistolare incoraggiamenti e consigli pratici. Al governo di Brescia egli rimase almeno sino ai primi mesi del 1453.

L'anno successivo, il C., assieme a Zaccaria Trevisan il Giovane, fu eletto oratore alla Dieta indetta dall'imperatore Federico III a Ratisbona con lo scopo di formare una lega di tutti gli Stati cristiani contro i Turchi.

Gli ambasciatori veneti dovevano illustrare gli sforzi e i sacrifici compiuti da Venezia per soccorrere Costantinopoli, la cui caduta era costata alla Repubblica molti uomini ed ingenti ricchezze, ma soprattutto giustificare la pace stipulata con Maometto II, necessaria per guadagnare tempo, dal momento che la caduta dell'Impero d'Oriente aveva aperto le porte all'invasione d'Italia. Ma se le altre potenze avessero assunto precisi impegni, Venezia sarebbe tornata a combattere con entusiasmo. Queste istruzioni agli oratori erano state approvate dal Senato il 17 maggio 1454 - con ritardo forse deliberato - sebbene l'invito dell'imperatore risalisse al 12 gennaio e l'inizio della Dieta fosse fissato al 23 aprile. Gli oratori, di conseguenza, erano ancora in viaggio, avendo appena superato Innsbruck, quando furono raggiunti dalla notizia che la Dieta era stata sciolta dall'imperatore che ne aveva convocata un'altra a Francoforte per il giorno di s. Michele. Il Senato scrisse allora agli ambasciatori di riferire direttamente all'imperatore la posizione del governo veneto. In questa occasione Federico III conferì il 12 luglio al C. la dignità di conte palatino. I rappresentanti veneziani non andarono però a Francoforte, e presumibilmente tornarono in patria prima della Dieta.

S'era intanto stipulata la pace di Lodi, e mentre gli ambasciatori di Venezia, di Firenze e del duca di Milano partivano per Roma e Napoli, per negoziare l'adesione di Niccolò V e di Alfonso il, Magnanimo alla lega italica, il Senato eleggeva due oratori (settembre 1454) nella persona del C. e di Paolo Barbo, che già aveva avuto una parte di primo piano nella conclusione della pace di Lodi.

Loro compito, oltre quello di stringere più saldamente i troppo recenti legami d'amicizia, era soprattutto di concertare un comune comportamento nelle trattative col papa e col re di Napoli, sul problema della riduzione e del controllo dei condottieri e delle genti d'arme, sulla questione dell'ammissione di Genova alla lega, sulla guerra tra Siena e il conte di Pitigliano e altre spinose questioni che si dovevano risolvere per ottenere l'ingresso degli altri Stati nell'alleanza.

Il 26 marzo 1455 il C. è certamente già a Venezia, poiché figura tra i rappresentanti della Repubblica che firmano un accordo con l'ambasciatore del duca Borso d'Este per regolare alcune controversie.

Successivamente il C. fu capitano di Bergamo, almeno dall'aprile 1456, e in tale ufficio figurava tra i rappresentanti della Repubblica che definirono col duca di Milano alcune questioni di confine, di giurisdizioni di acque, e di esenzioni dai dazi, insorte dopo la pace di Lodi (4 ag. 1456). Ritornato da Bergamo, presumibilmente verso la fine del 1457, per un paio d'anni non abbiamo notizie del Canal. Nel dic. 1459 fu eletto nella giunta straordinaria del Consiglio dei dieci formata per giudicare le gravi accuse mosse contro Orsato Giustinian e Ludovico Foscanni, ambasciatori veneti alla Dieta di Mantova, a carico dei quali fu alla fine emessa il 31 genn. 1460 una lieve condanna. Nel 1460 era savio di Terraferma. Il 9 agosto di quell'anno il Senato lo elesse ambasciatore a Costantinopoli, con l'incarico di sondare le reali intenzioni di Maometto II, la cui crescente pressione in Morea preoccupava gravemente i Veneziani, che vi scorgevano non equivoci segni dei propositi aggressivi della Porta.

Non sappiamo però se la missione fosse effettivamente compiuta. Possiamo dubitarne considerando che il 26 settembre il C. presentava ancora una "parte" in Senato, e che il 26 febbr. 1461, dovendosi trattare col Turco, veniva spedito a Costantinopoli il segretario Nicolò Sagundino.

Nel luglio-ottobre 1461 e nel 1462 era savio di Terraferma; nel 1462 uno dei quarantuno elettori del doge Cristoforo Moro, e il 4 novembre di quell'anno era nuovamente eletto ambasciatore al duca di Milano per comporre la contesa tra Sigismondo Pandolfo Malatesta signore di Rimini ed il fratello Domenico Malatesta signore di Cesena.

L'anno successivo, turbata dalle indiscrezioni trapelate sulle trattative segrete tra Francesco Sforza e Luigi XI per la cessione di Genova al duca di Milano - novità che avrebbe alterato l'assetto politico italiano a favore della potenza rivale - e al tempo stesso vivamente preoccupata di ottenere l'adesione del re di Francia alla lega stretta tra Pio II, Filippo il Buono duca di Borgogna e Venezia contro i Turchi, con i quali la Repubblica aveva cominciato in quell'anno il suo primo grande conflitto armato, la Serenissima decideva il 14 nov. 1463 d'inviare in Francia un ambasciatore esperto ed autorevole, accompagnato da un seguito imponente destinato ad impressionare il re e la corte. La scelta cadde sul C., "homo superbo, astuto et versuto" - come lo giudicava allora l'oratore milanese a Venezia Antonio Guidobono, - che aveva avuto in Senato una parte di rilievo nel determinare la politica veneziana verso la Francia.

Secondo il Perret, con la sua vanità, l'intemperanza di linguaggio e l'arroganza, il C. avrebbe compromesso per lungo tempo i rapporti fino allora cordiali tra la Repubblica e la Francia: questo è quanto meno giudizio eccessivo e avventato, se si tien conto delle difficoltà. della missione, determinate dall'obiettivo contrasto tra i disegni politici del re di Francia e gli interessi reali della Repubblica. Ed infatti le istruzioni del Senato lo incaricavano di sollecitare l'adesione francese alla lega antiturca con sostanzioso apporto di truppe e di denaro, ma nulla promettendo in contropartita, ed anzi lasciando senza risposta il recente ultimatum con cui Luigi XI faceva dipendere la sua partecipazione alla crociata dalla libertà d'azione su Napoli e Genova. Tutt'al più il C. era autorizzato a intrattenersi sull'argomento, se il re vi avesse fatto allusione, a puro titolo personale e con esplicita dichiarazione che in proposito non aveva ricevuto alcuna istruzione dal suo governo. Il 22 dicembre, intanto, mentre il C. doveva trovarsi ancora in viaggio, Luigi XI concedeva al duca di Milano il possesso di Genova e Savona, a titolo di feudo. La missione del C. era quindi già sostanzialmente compromessa.

Egli raggiunse Arras, dove allora risiedeva la corte, verso il 24 genn. 1464. Dopo le prime accoglienze formalmente corrette ed anzi cordiali, non appena si cominciarono a sfiorare i temi politici i rapporti si inasprirono bruscamente, anche a causa di alcune inopportune iniziative personali del C., che tra l'altro si recò presso il duca di Borgogna, rischiando di complicare le relazioni con quello Stato per il linguaggio intempestivo usato (in quell'occasione spinse il suo viaggio fino a Bruges, donde tornò a Parigi nel marzo). Secondo le malevole testimonianze dei suoi avversari egli si sarebbe addirittura ingerito nelle vicende interne francesi, brigando con gli avversari del re.

Ma se il comportamento dell'ambasciatore veneto poteva apparire censurabile e tale da contribuire al peggioramento dei rapporti tra i due Stati, indubbia appariva la volontà di Luigi XI di inasprire le relazioni con la Serenissirna, mentre proseguiva con maggiore determinazione la politica di alleanza con lo Sforza e di disimpegno verso la crociata.

La missione poteva ormai considerarsi esaurita, ed inutile risultava una ulteriore permanenza in Francia dell'oratore, al quale il Senato accordava il 18 maggio il permesso di ritornare in patria. Il C. poteva mettersi in viaggio appena giuntagli tale autorizzazione, soltanto alla fine di maggio o ai primi di giugno, quando ormai ogni rapporto anche formale tra il re e l'ambasciatore veneziano era cessato, ed anzi si era passati alle minacce da parte di Luigi XI, che voleva costringere il C. a lasciare immediatamente il paese, e a gesti di aperta sfida da parte di quest'ultimo, che credeva di dover respingere un'intimidazione che nella sua persona colpiva la dignità della Repubblica.

Dopo questo insuccesso diplomatico e due anni di forse minore impegno politico, il C. torna, alla ribalta agli inizi del 1467, quando viene eletto provveditore in armata con l'obbligo di risiedere a Negroponte e di assumere la carica di vicecapitano generale da mar nel caso che venisse a mancare improvvisamente il comandante dell'armata veneziana, impegnata nella lunga e dura guerra contro i Turchi.

Può sorprendere a prima vista questa nomina del C. ad un ufficio per cui non aveva la necessaria esperienza militare e marinara, ma forse il Senato contava su di lui soprattutto in previsione di possibili negoziati, che tuttavia non si poterono neppure avviare.

Forse anche per questo il C. già nella primavera del 1468 rientrava a Venezia, da dove presto ripartì per recarsi oratore della Serenissima presso il Colleoni, eletto capitano generale contro i Turchi in Albania allo scopo principale di trovare una onorevole via d'uscita al condottiero bergamasco ormai sconfitto e costretto ad accettare la pace paolina (8 maggio 1468), i cui capitoli il C. principalmente doveva far attuare, curando la restituzione dei castelli di Romagna occupati dal Colleoni. Alla fine del novembre di quell'anno egli figura tra i dodici nobili veneziani inviati ad incontrare l'imperatore Federico III a Padova, durante il suo viaggio a Roma.

Nel gennaio del 1469 il Senato, con decisione sorprendente, eleggeva il C. a succedere a Giacomo Loredan nella carica di capitano generale da mar, cioè di comandante supremo dell'armata veneta nella guerra che si combatteva nell'Egeo contro i Turchi.

Il "general dottor, atto più presto a leger libri che a governar le cose da mar" - secondo il sarcastico giudizio del Sanuto - partiva all'inizio della primavera salutato dalle encomiastiche declamazioni dei letterati, portando con sé la Ciropedia di Senofonte nella traduzione dedicatagli dall'amico Filelfo, e accompagnato dal poeta umanista Paolo Marsi, destinato ad essere il cantore delle sue future imprese. Un miraggio di gloria, nutrito forse di suggestioni letterarie classiche, deveva velargli la lucidità di giudizio, inducendolo ad assumere un compito al quale era totalmente impreparato, e per il quale all'inesperienza non poteva supplire con una certa energia di carattere, che poi gli venne meno nel momento decisivo.

L'impresa del C. sembrò tuttavia cominciare sotto favorevoli auspici. Dopo aver saccheggiato alcuni centri abitati lungo il golfo di Salonicco al comando di 20 galee, giuntigli altri sei legni di rinforzo occupava le isole di Lernno e Imbro e il 14 luglio 1469 assaliva di sorpresa Aenos nella Tracia, dinanzi alle porte dei Dardanelli. La disgraziata città fu sottoposta ad un saccheggio spietato e all'eccidio indiscriminato della popolazione, benché in maggioranza greca e cristiana; furono violati i luoghi sacri e tradotti a Negroponte 2.000 prigionieri e 200 donne greche. L'impresa fu aspramente rimproverata al C. dopo la sua disgrazia, ma allora fu festeggiata a Venezia come una grande vittoria con fuochi, scampanii e processioni di ringraziamento a Dio. Il C. si volse poi contro Focea Nuova, sulle coste della Lidia, che prese e saccheggiò egualmente, ma fu ributtato da Focea Vecchia. Ritornò allora verso la Morea, impadronendosi di Vostitza, nel golfo di Patrasso, dove si fortificò respingendo diversi contrattacchi turchi.

Se il C. pensava con queste molestie d'indurre il sultano alle trattative, i suoi calcoli erano completamente errati. Nulla, secondo il Babinger, aveva tanto indignato Maometto II quanto il colpo di mano contro Aenos, da cui semmai trasse incitamento a concentrare le sue maggiori cure nell'allestimento d'uni, grande armata per la spedizione contro Negroponte, chiave dei possessi veneziani nel Levante. Quando finalmente nei primi giorni di giugno del 1470 la poderosa armata turca composta di oltre cento galee e numerosi altri legni uscì in mare aperto, ben poco restò da fare alla squadra veneta di 35 galee, salvo che seguirla da lontano, assistendo impotente allo sbarco delle truppe nemiche sull'isola di Negroponte, l'antica Eubea (15 giugno 1470).

Intanto un esercito condotto dal sultano in persona attraversava la Tessaglia accampandosi sui margini dello stretto braccio di mare che separa la costa greca dall'isola; su questo fu gettato un lungo ponte di barche attraverso il quale i Turchi alimentavano incessantemente con uomini e rifornimenti il potente esercito che assediava la città di Negroponte. In tanto frangente l'armata veneta abbandonava le acque dell'isola minacciata e si ritirava a Candia, accolta con stupore dal rettore veneto. Qui il capitano generale sostò per tre giorni, facendo incatramare i legni e imbarcando rifornimenti; poi, lasciata Candia (28 giugno), indugiò altri giorni preziosi forse presso qualche isola delle Cicladi, e infine si accostò all'isola di Eubea da settentrione, anziché dalla parte meridionale, perdendo così almeno altri due giorni. Soltanto all'alba dell'11 luglio i difensori, ormai duramente provati, avvistarono l'armata veneta, composta di 52 galee, una galeazza e 18 navi con oltre 20.000 uomini.

Il vento era fresco e propizio, le navi turche, colte di sorpresa, erano sparpagliate e con gli equipaggi in parte a terra. Facile sarebbe stato investire e distruggere il ponte di barche ed infliggere un grave colpo alla flotta nemica. Ma l'armata veneta diede l'ancora a poche miglia dalla città, rimanendo immobile per tutta la giornata. Invano gli assediati facevano disperati segnali di soccorso, e diversi sopracomiti scongiuravano il C. di passare all'azione. Preoccupato di non gettare la flotta allo sbaraglio, il capitano generale rispondeva ai suoi ufficiali che bisognava attendere quelle galee che erano rimaste alquanto indietro rispetto al grosso dell'armata e davano manifesti segni di non voler combattere, come non di rado allora accadeva a causa degli equipaggi raccogliticci e dei comandanti improvvisati.

Allora il sopracomito Antonio Ottobon si slanciò con la sua galea in mezzo alle navi nemiche arrivando indenne nel porto. I comandanti delle galee di Candia si offrirono di attaccare da soli il nemico. Ma il C. proibì severamente che alcuno si muovesse finché la squadra non fosse tutta riunita. Con quest'ordine il C. suggellò il destino di Negroponte, caduta - come giudicherà il diarista contemporaneo Domenico Malipiero - "per defetto del general, bon da far preda e scorrarie, e mai atto a far el so officio". Il sultano, che già aveva creduto persa la partita, ordinò durante quella stessa notte un ultimo assalto che travolse la disperata resistenza del presidio veneziano. All'alba, quando l'armata veneta levò l'ancora mostrando di voler muovere all'attacco, la città era ormai caduta. Quando se ne rese conto, il C. ordinò il ripiegamento, limitandosi più tardi a seguire da lontano la flotta turca che faceva vela verso i Dardanelli.

Intanto a Venezia, dove la caduta di Negroponte aveva provocato profonda emozione, il Senato destituiva il C., nominando in suo luogo il 19 agosto Pietro Mocenigo, al quale il Consiglio dei dieci ordinava d'inviare in ferri a Venezia il C., il figlio Pietro e il segretario Alvise Sagundino. Il Mocenigo raggiunse l'armata proprio mentre il C., tornato di fronte a Negroponte, metteva in atto, forse nel tentativo di riabilitarsi, un assurdo tentativo di riconquistare la città, mandando allo sbaraglio un piccolo corpo da sbarco. Tradotto in ferri a Venezia, il C. fu processato (l'atto d'accusa degli avogadori di Comun porta la data del 7 nov. 1470) e condannato dal Senato alla relegazione perpetua nella vicina Portogruaro.

La pena invero era assai mite, sicché a un breve del papa che, pregatone dal C., ne chiedeva la grazia alla Repubblica, il Consiglio dei dieci poteva rispondere che era stato giudicato non secondo giustizia, ma con misericordia e clemenza, tanto da ingenerare in alcuni il dubbio che fosse stato trovato innocente. E al C. fu severamente vietato di rivolgersi ancora al papa o ad altro principe. Tra gli scritti in sua difesa va annoverata una lettera del Filelfo. Una postuma autodifesa dev'essere con tutta probabilità, una lettera latina dello stesso C., che figura indirizzata al papa e ai cardinali l'8 di giugno, nel momento cioè, in cui uscendo in mare aperto la flotta turca mostrò la sua sterminata potenza, contro cui - ed è questo il motivo dominante dello scritto - nulla potevano le 35 triremi venete.

Così, mitigando, come diceva al Sabellico, la nostalgia della patria con la caccia e lo studio, il C. trascorse tristemente nella cittadina veneta gli ultimi anni della sua vita, spentasi il 12 maggio 1483.

Eredi delle sue sostanze lasciò tre figli: Iacopo, Giovanni e Pietro, nati dal matrimonio celebrato nel 1438 con Orsa Soranzo, figlia di Giorgio "dal Banco" di Gabriele, dalla quale aveva avuto altri tre figli: Vincenzo, Girolamo e Paola. Il suo ritratto, in abito di dottore, era effigiato nella sala del Maggior Consiglio.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, reg. 162 ("Balla doro", I), c. 49v; Ibid., reg. 106 (Cronaca matrimoni), c. 83v; Ibid., Senato, Secreta, reg. 21, cc. 18v, 31v, 48v; Ibid., M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, pp. 211, 217; Milano, Biblioteca Ambrosiana, ma. 323 sup.: H. Landus, Nicolai Canalis obitus; I. I. Canis Elogia gratulatoria ad Nicolaum Canalem apud Turcas Imperatorem a Veneta Republica designatum, Padova s.d. (ma secolo XV); F. Filelfo, Epistolae, Venezia 1502, pp. 198, 203 s., 220, 226-228, 250; M. Sanuto, De origine urbis venetae et vita onmium ducum, in L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, XXII, Mediolani 1733, coll. 1103, 1138-1140; Francisci Barbari et aliorum ad ipsum epistolae..., a cura di A. M. Querini, Brixiae 1743, pp. 199, 210 s., 237-239, 242; Appendix, pp. 48-87; D. Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, in Archivio storico italiano, VII (1843), 1, pp. 22, 42, 52-55, 62; G. Rizzardo, La presa di Negroponte fatta dai Turchi ai Veneziani nel MCCCCLXX…, a cura di E. A. Cicogna, Venezia 1844; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni veneziane, VI, Venezia 1853, pp. 606 s.; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, IV, Venezia 1896, pp. 286-289, 295, 297; V, ibid. 1901, pp. 26, 38 s., 55, 57, 75, 77, 107 s., 127 s., 293; Diplomatarium veneto-levantinum sive acta et diplomata res veneta graecas atque Levantis illustrantia, a. 1351-1554, II, a cura di G. M. Thomas-R. Predelli, Venezia 1899, pp. 379-381; Cronaca di anonimo veronese 1446-1488, a cura di G. Soranzo, Venezia 1915, pp. 22, 162, 254, 257 s., 263, 270 s., 275 s., in cui è pubblicato anche il testo della lettera del C. al papa e ai cardinali, della quale va pure segnalata una copia nella Biblioteca Marciana di Venezia, mss. Lat., cl. XIV, 9 (= 4267), c. 68v; Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno MCCCCVI ad annum MCCCCL, a cura di G. Zonta-G. Brotto, Padova 1922, ad Indicem; F. Thiriet, Régestes des délibérations du Sénat de Venise concernant la Romanie, III, Paris-La Haye 1961, pp. 157-159, 161, 197, 233 s.; G. B. Egnazio, Exemplis illustrium virorum venetae civitatis..., Venetiis 1554, pp. 47, 236; M. A. Coccio Sabellico, Historia veneta, in L. A. Muratori, Rerum Ital. Script., XXIII, Mediolani 1733, coll. 1126-1130; G. Degli Agostini, Notizie istorico critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, Venezia 1752, I, pp. 55, 61, 381; II, pp. 89-107, 159, 161 s.; I. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, Padova 1757, p. 38; P. O. Kristeller, Iter italicum, pp. 32, 303; II, pp. 110, 197, 246, 372, 388, 566, 587.

Tra le opere storiche che maggiore attenzione dedicano al C., cfr. P. M. Perret, Histoire des relations de la France avec Venise du XIIIe siècle à l'avènement de Charles VIII, Paris 1896, I, pp. 210, 217, 373 s., 408-436, 440, 551; G. Soranzo, La lega italica (1454-1455), Milano s.d., pp. 65 s.; A. Della Torre, Paolo Marsi da Pescina. Contributo alla storia dell'Accademia Pomponiana, Rocca San Casciano 1903, pp. 170-178, 182 s., 191; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IV, Venezia 1913, pp. 221, 318, 334, 336-349; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Gotha 1920, pp. 371, 377-379, 411, 493; F. Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Torino 1957, pp. 403 s., 411-416; L. Fincati, La perdita di Negroponte (luglio 1470), in Archivio veneto, XXXII (1886), pp. 282-286, 297-307; C. Manfroni, Storia della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto, Roma 1897, pp. 67-77, 81; Id., La campagna navale di Pietro Mocenigo, in Riv. marittima, XI, (1912), 6, pp. 70-77.

Il nome del C. ricorre in quasi ogni opera concernente il periodo e in molte fonti dell'epoca. Per limitarsi a quelle da cui si è tratta qualche notizia, cfr. ancora: E. Resti, Documenti per la storia della Repubblica Ambrosiana, in Arch. stor. lomb., LXXXI-LXXXII (1954-55), pp. 246 s.; Cristoforo da Soldo, Cronaca, in Rer. Ital. Script., 2 ediz., XXI, 3, a cura di G. Brizzolara, p. 104; Le vite di Paolo II di Gaspare da Verona e Michele Canensi, ibid., III, 16, a cura di G. Zippel, Appendice, p. 198; B. Belotti, La vita di Bartolomeo Colleoni, Brescia 1951, pp. 168-170, 322; G. B. Picotti, La Dieta di Mantova e la politica dei Veneziani, Venezia 1912, pp. 44, 223, 302, 323, 393, 496-498; L. von Pastor, Storia dei papi, II, Roma 1942, pp. 250, 410-412; H. Noiret, Documents inédits pour servir à l'histoire de la domination vénitienne en Crète de 1380 à 1485, Paris 1892, pp. 509, 511, 523; N. Iorga, Notes et extraits pour servir à l'histoire des croisades au XV siècle, III, Paris 1902, p. 257; Listine o odnošajih izmedju južnoga Slavenstva i mletačke republike (Lettere sulle relazioni fra gli Slavi merid. e la Rep. di Venezia), X, in Monumenta spect. histor. Slavorum Merid., XXII, a cura di S. Liubić, Zagabria 1891, pp. 189, 401, 433; E. Bertanza-G. Dalla Santa, Documenti per la storia della cultura in Venezia, I, Maestri, scuole e scolari in Venezia fino al 1500, Venezia 1907, p. 325.

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