CARAVITA, Nicolò

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 19 (1976)

CARAVITA, Nicolò

Salvatore Fodale

Nacque a Napoli, nella parrocchia dei Vergini, il 24 maggio 1647 da Giuseppe e da Margherita Boiano. La famiglia, originaria della Spagna, apparteneva alla nobiltà. Nel 1660, seguendo le tradizioni giuridiche della famiglia, il C. si immatricolò nell'università di Napoli, laureandosi in giurisprudenza nel 1665 con dispensa dall'età legale, e attese all'attività forense. Studiò anche letteratura, greco, matematica, filosofia, specialmente cartesiana.

Già tra il 1682 e il 1684 Tommaso Cornelio ne lodò la dottrina in un dialogo inedito, ma fino al 1690, anche per dichiarazione di un altro contemporaneo che gli dedicò un sonetto, Basilio Giannelli, non aveva raggiunto alcuna magistratura pubblica (cfr. B. Giannelli, Poesie, Napoli 1690). Seguace nelle lettere dell'indirizzo antibarocchista e neopetrarchista, il C. scrisse l'introduzione alla Lettura sopra la concione di Marfisa a Carlo Magno di Gregorio Calopreso (Napoli 1691), opera tra le maggiori di critica letteraria dell'ultimo Seicento napoletano e fonte per le dottrine estetiche del Vico. Nello stesso anno, in occasione di un'epidemia di peste, fu uno dei due giudici speciali eletti il 3 gennaio dalla deputazione della Salute, con competenza in materia civile "in tutto quello che occorrerà concernente all'affare del contaggio". Il 24 febbr. 1693, per incarico ricevuto dalla "piazza" di Porto, espresse con altri tre giuristi, tra i quali Pietro di Fusco e il cronista Domenico Confuorto, un parere su una richiesta di reintegrazione in quel "seggio". Il 25 ag. 1694 fu tra i promotori della rappresentazione a Posillipo de La rosa di Giulio Cesare Cortese. Nel 1695 ottenne l'assoluzione per l'anticurialista Alessandro Riccardi, accusato di avere schiaffeggiato in chiesa, mentre confessava, l'economo dell'arcivescovato.

In quello stesso anno la deputazione per l'Inquisizione dette incarico al C. di redigere una memoria da presentare al re contro l'applicazione di un editto pontificio del 1º febbr. 1695. L'opera, intitolata Ragioni a pro' della fedelissima città e Regno di Napoli contr'al procedimento straordinario nelle cause del Sant'Officio, era probabilmente già terminata alla data del 16 agosto, quando fu menzionata nella cronaca del Confuorto, benché la redazione ultima possa essere più tarda. Un libello anonimo pubblicato alla macchia nel febbraio 1696, Turris fortitudinis propugnatq a filiis lucis adversus filios tenebrarum, accusò il C. di eresia e d'ateismo e il gesuita Giovan Battista De Benedictis (Benedetto Aletino), che guidava la lotta contro il rinnovamento culturale napoletano, in una lettera del 7 marzo all'arcivescovo di Benevento indicò il C., con Giuseppe Valletta, come uno dei due maggiori animatori dell'opposizione all'Inquisizione.

Nelle Ragioni il C. affermò preliminarmente l'inefficacia dell'editto pontificio per mancanza dell'exequatur regio. Sostenne quindi l'incompatibilità del procedimento inquisitorio sia con i principi di carità del cristianesimo, spingendosi ad auspicare (ma è solo una vaga coloritura giansenista) un ritorno alla Chiesa delle origini, sia con il diritto naturale dell'individuo alla pienezza della propria difesa. Previde infine con tono appassionato le conseguenze negative che l'applicazione dell'editto avrebbe prodotto a Napoli, soffocando ogni libertà di pensiero del nuovo ceto intellettuale secondo le vere intenzioni dei suoi promotori ecclesiastici.

Nel 1696 difese l'arcivescovo di Reggio nella controversia giurisdizionale per la riscossione in quella diocesi della gabella sulla seta prodotta dagli ecclesiastici. Un anno dopo assume la difesa in un caso di omicidio. Nel marzo 1696 curò una raccolta di Vari componimenti in lode dell'Ecc.mo sig. D. Francesco Benavides conte di S. Stefano (Napoli 1696), scrivendo egli stesso la prolusione e affidando a Giambattista Vico la redazione dell'orazione latina. Il 4 nov. 1696, giorno onomastico del re Carlo II, organizzò a palazzo reale una nuova riunione, o "accademia", di letterati per festeggiarne il miglioramento delle condizioni di salute. Nel discorso introduttivo, alla presenza del nuovo viceré Medinaceli, cui poi dedicò l'opera a stampa (Componimenti recitati a' di IV novembre MDCXCVI nell'Accademia ragunata nel RealPalagio in Napoli per la ricuperata salute di Carlo II Re di Spagna..., Napoli 1697, il C. celebrò il buon governo spagnolo. Una terza miscellanea pubblicò a Napoli nel 1697 per la morte della madre del vicerè, Caterina d'Aragona (Pompe funerali celebrate in Napoli per Caterina d'Aragona).

Il Vico, entrato ormai sotto la protezione del C., che lo incitò a concorrere per la cattedra di retorica, partecipò anche a queste due raccolte encomiastiche. Paolo Mattia Doria, Costantino Grimaldi e Pietro Giannone furono col Vico tra i maggiori frequentatori delle riunioni che si tenevano a casa del C., il quale ormai, secondo l'espressione ostile del Confuorto, tirava "al suo volere tutta la setta nuova de' letterati".

Nel 1698 convinse il Medinaceli a istituzionalizzare le riunioni a palazzo reale creando l'Accademia Palatina. Il C. vi pronunciò dissertazioni sugli imperatori Caligola e Settimio Severo, sulla durata e il fine della vita, sulle capacità conoscitive dei bruti. Il 4 giugno 1699 tenne con Pietro di Fusco nel duomo di Napoli, presente il cardinale arcivescovo, un'argomentazione giuridica. Nel 1701 sostenne le ragioni di Nicola Capasso, professore di diritto all'università, contro i gesuiti che volevano impedirgli di dare lezioni in una casa contigua al loro collegio.

Nel 1702, durante la visita a Napoli di Filippo V, il C. venne inserito nella giunta incaricata della compilazione di un codice di leggi. Il 12 maggio dello stesso anno fu nominato presidente della Regia Camera della Sommaria, succedendo a Vincenzo Vidman. Già nel 1702 entrò pure a far parte della giunta di giurisdizione, come documentano i verbali delle riunioni del 5 ottobre e dell'11 novembre. Nello stesso anno scrisse l'introduzione alle Rime in morte del regio consigliere don Fulvio Caracciolo di Sebastiano Biancardi (Napoli 1702). Tutti gli uffici concessi da Filippo V, e anche quelli del C., vennero revocati il 5 sett. 1707, dopo la vittoria austriaca.

La pubblicazione anonima nel 1707 del Nullum ius Romani Pontificis maximi in Regno Neapolitano coincise con il breve periodo di disgrazia politica del C. e forse servì a conciliare all'autore la clemenza e il favore del nuovo sovrano (Carlo VI non aveva ottenuto l'investitura pontificia), ma l'opera prescindette nella sostanza dalla contingente situazione politico-giuridica, che ne favorì e permise la stampa, per assurgere ad un'affermazione di principio della indipendenza del Regno dalla Sede apostolica sulla base delle dottrine giusnaturaliste. L'opera fu pubblicata con l'indicazione di Alithopoli [Napoli] s. d.

Il C. si propose di dimostrare l'assoluta inesistenza di qualsiasi diritto pontificio sul Regno di Napoli, per farne discendere la completa irrilevanza giuridica del pagamento del censo, dell'investitura e del giuramento di fedeltà nonché la pienezza dei poteri del sovrano napoletano. Presupposto aprioristico del Nullum ius era la teoria della pienezza e assolutezza della sovranità e, secondariamente, il postulato della sua indivisibilità. Di fatto, storicamente, la Sede apostolica non ha mai acquistato la sovranità sul Regno di Napoli negli unici modi consentiti iure gentium et naturae: né per diritto di guerra, né di successione, né di elezione. Ogni altro argomento, basato sulle donazioni imperiali o sulla consuetudine, era per il C. irrilevante. Contestò infatti, criticando su questo punto Grozio, con Pufendorf, una delle sue fonti maggiori, la concezione patrimoniale dello Stato e affermò l'assoluta inalienabilità della sovranità sempre riconducibile, ma solo teoricamente e nell'ambito di una concezione rigidamente assolutista, alla volontà popolare, espressa (elezione), tacita (successione), o coatta (diritto di guerra).

Nel 1708 il C. ottenne la riabilitazione da parte dei nuovi governanti, in concomitanza con un viaggio alla corte di Barcellona del figlio Filippo. Tornò a ricoprire l'ufficio di presidente togato della Sommaria e di avvocato fiscale della giunta di giurisdizione, mentre Filippo fu reintegrato nella carica di regio consigliere. Successe inoltre a Giuseppe Cosentino nella cattedra universitaria di diritto feudale, che mantenne fino al 1713. Nel 1709, essendo risorta la polemica sull'Inquisizione, Giovanni Acampora curò la pubblicazione anonima delle Ragioni, poste all'Indice con breve di Clemente XI del 17 febbr. 1710. Uguale condanna colpì anche il Nullum ius il 15 genn. 1714. Nel marzo 1710, con coerenza ai principi affermati nelle Ragioni, il C. si oppose nella giunta di giurisdizione allo sfratto dal Regno di Carlo Maiello e Giovanni Rortone, autori di scritti curialisti, perché il provvedimento, chiesto come rappresaglia alle condanne pontificie che avevano colpito anche il C., non avrebbe rispettato il diritto alla difesa, ma si sarebbe seguita quella procedura straordinaria riprovata nella polemica contro l'Inquisizione.

Il C., malato, trascorse a Portici, in una sua villa, gli ultimi anni di vita. Sposò Giulia di Capua, dalla quale ebbe due figlie femmine e due maschi: Filippo e Domenico, protettore del Vico dopo la scomparsa del padre. Tra gli allievi del C. furono Saverio Panzuti, Agostino Ariani, Alessandro Riccardi e Francesco Santoro. Morì a Napoli il 22 nov. 1717 nella parrocchia del duomo e fu sepolto nella Congregazione della Croce di S. Agostino.

Fu celebrato, tra gli altri contemporanei, dal Vico e dal Giannone. Il Nullum ius venne ristampato, a Napoli nel 1788 e tradotto in italiano nel 1790 da Eleonora Fonseca Pimentel, in occasione della soppressione dell'offerta al papa della chinea.

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