MINATO, Nicolò

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 74 (2010)

MINATO, Nicolo

Sergio Monaldini

MINATO, Nicolò. – Non sono certi luogo e la data di nascita di questo avvocato e librettista che, per una tradizione che risale a F.S. Quadrio (Della storia e della ragione di ogni poesia, III, 3, Milano 1744, p. 468), si è sempre indicato come nato a Bergamo: il dato non ha però trovato un riscontro sicuro. L’atto di sepoltura gli attribuisce nel 1698 settant’anni: si dovrebbe perciò collocare la sua nascita nel 1628, ma, tenendo conto che nel 1645 avvenne il suo debutto editoriale, è probabile che la data sia da anticipare di qualche anno, e che l’età registrata al momento della morte debba essere ritenuta solo approssimativa. In diverse occasioni, al suo nome è associato il titolo di conte.

Sin dall’età giovanile fu attivo a Venezia, dove studiò, esercitò la professione di avvocato, pubblicò i suoi primi lavori letterari e partecipò come librettista e impresario all’attività teatrale della città. Donato Calvi, ben informato anche sui concittadini che lavoravano lontano dalla patria, nella Scena letteraria de gli scrittori bergamaschi (Bergamo 1664) ignora completamente il M., benché avesse all’epoca già al suo attivo sei opere a stampa e altre composizioni in raccolte accademiche.

Avviato agli studi giuridici, il M. fu allievo dell’aretino Giuseppe Renzuoli, giureconsulto, letterato, pubblico lettore a S. Marco e membro della veneziana Accademia degli Incogniti.

Al maestro e al proprio campo professionale il M. fa riferimento nella sua prima pubblicazione, traduzione dal latino di un’opera attribuita a un anonimo fiammingo (Eruditioni per li cortigiani. Opera latina d’autor’ incerto fiammengo. Data in luce in volgar’ idioma da N. Minato cittadin veneto, Venetia 1645), dedicata ad Antonio Vasari, discendente del pittore Giorgio, amico e concittadino di Renzuoli. Nel titolo – caso unico – il M. dichiara la propria cittadinanza, senza far riferimento a un’origine bergamasca (benché in effetti non la si possa escludere, essendo Bergamo in quel periodo città della Serenissima). In calce ai sonetti che vari autori gli dedicano per celebrare la pubblicazione ne compaiono due a firma del M. indirizzati a Vasari, primi esempi conosciuti della sua produzione poetica.

Altre liriche composte in questo periodo si trovano in sillogi delle accademie veneziane degli Imperfetti (1651) e dei Discordanti (Ad illustriss. et excell. d. equitem Andream Contarenum divi Marci procuratorem poeticae amoenitatis selecti flore …, Venezia 1655). Negli Imperfetti il M. ricoprì l’incarico di consigliere, quando del sodalizio facevano parte altri due importanti librettisti: Giovan Francesco Busenello e Aurelio Aureli, verso il quale il M. dichiarò di nutrire un sentimento di profonda amicizia.

Il campo in cui il M. acquisì progressivamente un ruolo di primissimo piano fu la scrittura drammaturgica per musica. Il libretto che segna il suo esordio in questo settore è l’Orimonte, musicato da F. Cavalli (P.F. Caletti), messo in scena a Venezia nel teatro S. Cassiano durante il carnevale del 1650.

Nella dedica, indirizzata a Girolamo Contarini, il M. tiene a ribadire che la sua vera professione era quella di avvocato e che simili parentesi letterarie erano eccezioni sollecitate da richieste obbliganti: «Sappi ch’io non fo del poeta. Le mie applicazioni sono nel foro: per servire a chi puote comandarmi ho rubbate alcune ore al sonno per darle a questo drama». Dichiarazioni del genere erano quasi di prammatica tra i librettisti del tempo, ma in effetti per il M. la stesura di quel libretto fu allora una vera eccezione, visto che attenderà ben cinque anni prima di darne alla luce un altro. Il M. in seguito diede l’impressione quasi di voler disconoscere la paternità di questo primo tentativo, e non ne citerà mai il titolo quando nei successivi libretti riporterà un elenco delle proprie opere.

Nella dedica premessa al secondo libretto pubblicato, lo Xerse, verosimilmente facendo riferimento anche alla precedente esperienza, il M. chiarisce quello che per lui si doveva evitare nella scrittura drammaturgica per musica: frasi troppo «sollevate», discorsi «allungati, figure e traslati et altri freggi» che indeboliscono la forza della rappresentazione, perché quando si scrive per il teatro «non si scrive per l’ingegno ma per l’udito». Xerse, che segna il vero inizio della carriera teatrale del M., fu terminato ai primi di novembre del 1654, e l’opera andò in scena al teatro Ss. Giovanni e Paolo nel carnevale successivo, sempre con musica di Cavalli. Sulla genesi del testo un certo peso dovette averlo il rapporto con il marchese Cornelio Bentivoglio, ferrarese, al quale è dedicato, anch’egli letterato, attivissimo cultore di spettacoli in patria e coinvolto nella vita teatrale veneziana. Appena conclusa la stesura, il M. gliene spedì un esemplare. Gli scambi reciproci tra i due ebbero anche un seguito. Nell’estate del 1655 il M. cercò di fare stampare a Venezia un Panegirico per il marchese, ma senza successo, perché l’argomento toccato, i conflitti tra Francia e Spagna, fu giudicato troppo scottante.

Con lo Xerse, la cui trama è derivata da una commedia di F. Lope de Vega (Lo cierto por lo dudoso) attraverso una traduzione in prosa di Raffaele Tauro (L’ingelosite speranze, Napoli 1651), il M. inaugurò una fortunata serie di libretti di argomento storico – in questo caso lo spunto è riconducibile a Erodoto – e cominciò a dare una certa continuità alla composizione di melodrammi.

Del periodo di residenza del M. a Venezia si conoscono i seguenti libretti. Oltre all’Orimonte e allo Xerse: Artemisia (1656, Cavalli, Ss. Giovanni e Paolo); Antioco (1658, Cavalli, S. Cassiano); Elena (elaborazione di un lavoro incompiuto di Giovanni Faustini, 1660, Cavalli, S. Cassiano); Scipione Affricano (1664, Cavalli, Ss. Giovanni e Paolo); Muzio Scevola (1665, Cavalli, S. Luca); Seleuco (1666 e 1668, A. Sartorio, S. Luca); Pompeo Magno (1666, Cavalli, S. Luca); La prosperità di Elio Seiano (1667, Sartorio, S. Luca); La caduta di Elio Seiano (1667, Sartorio, S. Luca); Tiridate (di Ippolito Bentivoglio rielaborato dal M.; 1668, G. Legrenzi, S. Luca).

La regolarità di produzione riscontrabile a partire dal 1664, dopo una lunga pausa durata quattro anni, fu dovuta a un sostanziale cambiamento del rapporto del M. con il mondo teatrale. Dopo il carnevale 1664, in cui al Ss. Giovanni e Paolo andò in scena Scipione Affricano, egli rilevò una quota (un sesto) del S. Luca, di proprietà dei Vendramin, diventando compartecipe in prima persona dell’impresa, insieme con Girolamo Barbieri (che ne detenne prima cinque, poi tre sesti), Marco Mozzoni (due sesti), Tommaso Corner (protettore) e Pietro Antonio Cerva, pittore e scenografo. Con la nuova società il M. cercò innanzitutto di rendere il teatro competitivo nei confronti del Ss. Giovanni e Paolo, offrendo come il concorrente due allestimenti per stagione.

Non è ben chiaro se ciò sia stato possibile già nel carnevale 1665, poiché l’unico allestimento sicuramente documentato è quello del Muzio Scevola. Nella precedente estate, subito dopo l’arrivo del M. e Cavalli, era stato deciso di riservare la loro opera come seconda parte della stagione, affidando l’apertura a un lavoro di minor impegno, la cui musica avrebbe dovuto essere composta da Legrenzi. Ma questi rifiutò l’offerta. Probabilmente il M. e gli altri conduttori si orientarono allora verso la riproposizione di un’opera già scritta, e forse la scelta cadde sull’ampiamente sperimentato Giasone di G.A. Cicognini e Cavalli, di cui esiste un libretto edito a Venezia nel 1664 (forse more veneto).

Nei due anni successivi comunque il M. fornì personalmente i libretti per tutte e quattro le opere in cartellone. Con quelle del carnevale 1667 in particolare egli tentò un interessante esperimento. Anziché due opere indipendenti, egli scrisse due puntate della medesima storia da rappresentarsi in serate consecutive (La prosperità di Elio Seiano e La caduta di Elio Seiano). Per qualche ragione tuttavia il progetto non riuscì appieno e la seconda opera andò in scena solo un paio di settimane dal debutto della prima. Terminata la stagione 1667, il M. rinnovò il contratto con il S. Luca per un altro triennio. Il suo attivismo sembra però a questo punto spegnersi. Per il carnevale del 1668 non mise a disposizione alcun nuovo testo. Il teatro riprese il suo Seleuco, già rappresentato nel 1666, e per seconda opera allestì il Tiridate di I. Bentivoglio (figlio di Cornelio), messo in scena tre anni prima a Ferrara, su cui il M. compì solo un lavoro di adattamento. Analogamente, nel carnevale del 1669 non risulta rappresentata alcuna sua opera, anche se il libretto dell’Argia di A. Apolloni e P. Cesti, che andò in scena al S. Luca «abbreviato e fattavi qualche alterazione», potrebbe essere passato per le sue mani.

Il 1669 segna un radicale spartiacque nella vita del M.; verso la metà dell’anno fu chiamato a Vienna al servizio dell’imperatore Leopoldo I. Egli partì immediatamente e il trasferimento divenne definitivo. L’invito, secondo le sue stesse parole, giunse improvviso e inaspettato. Una conferma della premura con cui si avviò alla corte imperiale sembra venire dallo stato di trascuratezza in cui abbandonò i propri affari a Venezia. Non solo disattese gli impegni assunti con il S. Luca, interrompendo anticipatamente il contratto, ma lasciò la città senza definire una serie di importanti questioni finanziarie pendenti. Tanto che, sebbene nel giugno del 1669 avesse designato Tommaso Corner come procuratore a tutela dei propri interessi, tre anni dopo si trovò debitore di una notevole somma, circa 3300 ducati, dei quali poco meno di 900 erano dovuti ad Andrea Vendramin per l’affitto del S. Luca e 600 alla cantante Caterina Porri (che si era esibita nelle opere del 1666 e del 1667). Vedendosi costretto al pagamento, a quel punto chiese di poter estinguere gradualmente il debito, rimborsando i creditori in circa sei anni con rate di 500 fiorini l’anno.

In apparenza non sembra comunque che l’imperatore avesse ragioni di particolare urgenza per chiamare un nuovo poeta. È vero che Francesco Sbarra era morto l’anno precedente, ma Aurelio Amalteo si trovava ancora al servizio della corte (compare nei libri contabili sino al 1670, e il 15 luglio 1669 andò in scena il suo Perseo), come pure Antonio Draghi, che non aveva cessato di dividersi tra canto, composizione poetica e musicale. Tra aprile e giugno del 1669 però a Draghi fu affidata la carica di maestro di cappella dell’imperatrice vedova Eleonora Gonzaga, e da quel momento non scrisse più testi. È verosimilmente nell’ambito di questa riorganizzazione delle cariche musicali di corte che maturò la decisione di chiamare un nuovo librettista.

A Vienna il M. si immerse immediatamente nella vivace vita culturale della corte di Leopoldo ed entrò a far parte come poeta cesareo dello staff istituzionalmente preposto all’organizzazione spettacolare, composto dallo scenografo Ludovico Ottavio Burnacini, dai coreografi Santo e Domenico Ventura, e dai musicisti Johann Heinrich e Anton Andreas Schmelzer (di norma autori delle musiche per i balli) e Draghi. Insieme con quest’ultimo il M. ottenne immediatamente un sostanziale monopolio nella composizione di drammi per musica sacri e profani. Scandita dalle diverse occasioni mondane, cerimoniali e dinastiche della corte, la sua produzione raggiunse una straordinaria intensità. Il carnevale, la settimana santa, compleanni e onomastici dei membri della famiglia imperiale, e altre svariate occasioni legate alla vita cortigiana richiedevano continuamente testi da rappresentare.

Per avere un’idea della mole di lavoro è sufficiente scorrere il catalogo delle opere scritte dal M. in quel periodo. L’elenco veneziano supera di poco la decina di titoli in poco meno di vent’anni: dopo i trent’anni di permanenza presso la corte di Leopoldo se ne possono raccogliere oltre duecentoventi, dei generi più diversi, per la maggior parte drammi per musica e rappresentazioni sacre, ma anche intermezzi, introduzioni a balletti, feste musicali di vario tipo, serenate, sino a rappresentazioni emblematiche e canovacci per pantomime. In larga misura la produzione viennese ricalca negli stilemi e nelle situazioni drammaturgiche quella italiana. Il diverso contesto produttivo (carattere non commerciale delle rappresentazioni, pubblico rigidamente selezionato, necessità di adeguarsi all’ideologia e al cerimoniale di corte, varietà dei generi richiesti) non poté però non influenzare almeno negli aspetti più esteriori la sua scrittura. Rivolgendosi a una cerchia chiusa di fruitori, e avendo quasi sempre intenti celebrativi, i testi spesso richiamano più o meno direttamente circostanze relative alla vita di corte, alludono alla dimensione politica e non di rado (per le recite di carnevale destinate ai cortigiani) sono «a chiave», tali cioè da risultare comprensibili nel loro sottotesto unicamente a un ristretto gruppo di privilegiati. A volte i protagonisti delle recite rimandano direttamente a personaggi reali, come nei Pazzi Abderiti (1675), o nella Lanterna di Diogene (1674), in cui gli attori rappresentano occultamente altrettanti membri della corte, tra i quali l’imperatore Leopoldo (Alessandro), l’imperatrice Eleonora (Statira), e lo stesso M., nelle vesti di «Diogene, il poeta maldicente».

Come poeta cesareo al M. spettò anche il compito di animare l’accademia che Leopoldo I fondò nel 1674. In cinque verbali di sedute conservati alla Österreichische Nationalbibliothek di Vienna, si possono leggere alcuni discorsi da lui tenuti nell’anno di fondazione del sodalizio.

L’assoluta continuità del rapporto professionale al servizio dell’imperatore è certificata, oltre che dalla ininterrotta serie delle stampe delle sue opere, anche dai pagamenti riportati nei registri contabili della corte che, senza soluzione di continuità, dal 1669 al 1698 riportano gli emolumenti che gli venivano corrisposti, mediamente 1500 fiorini l’anno. Dal 1694 però, benché apparentemente non vi siano stati mutamenti nel ruolo ricoperto a corte, la sostanziale stabilità del compenso cessa, e la cifra appare dimezzata.

Per quanto è ampia la documentazione sull’attività professionale e sulla produzione letteraria del M. nei trent’anni del soggiorno viennese, tanto scarse rimangono le testimonianze sulla sua vita privata. Le poche tracce disponibili lo mostrano sempre in stretto rapporto con i membri della numerosa comunità di connazionali legata alla corte imperiale. Fu associato alla Confraternita della Divina Grazia, che vedeva tra i suoi membri molti italiani della parrocchia di St. Michael. E quando il 26 febbr. 1698, gravemente ammalato, dettò il proprio testamento, i pochi che paiono a lui più vicini sono tutti conterranei residenti a Vienna.

Il M. morì a Vienna tra la fine di febbraio e il 1° marzo 1698.

In esecuzione delle sue ultime volontà, il M. fu sepolto il 2 marzo nella cripta del S. Sacramento della chiesa di St. Michael a Vienna, la stessa in cui due anni dopo sarà seppellito Draghi, e in seguito P. Metastasio. Come erede universale nominò il dottor Giovanni Battista Albruni «in riguardo di molti servizi, et assistenze da lui avuti», e come esecutori testamentari Marco Antonio Corsi, medico dell’imperatore, e Giovanni Benaglia, diarista e diplomatico al servizio della corte. Manca nel testamento qualsiasi accenno a parenti diretti o acquisiti, sia a Vienna sia in Italia, circostanza che fa supporre che il M. non si sia mai sposato.

Un catalogo delle opere del M. si trova in A. Noe, N. M. Werkverzeichnis, Wien 2004.

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S. Monaldini

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