NIOBE e NIOBIDI

Enciclopedia dell' Arte Antica (1963)

NIOBE e NIOBIDI (Νιόβη, Νιοβίδαι; Niobe, Niobidae)

G. A. Mansuelli

La rassegna minuta e la esposizione della problematica, già fatte molto diffusamente dallo Stark, poi dal Sauer e infine dal Lesky non sono da ripetere in questa sede, specie per il valore che le diverse redazioni del mito di N. hanno nella storia della religione greca. La pluralità degli epicentri della saga (Asia Minore, Argolide, Beozia) e la vastità degli interessi suscitati in tutto il mondo antico sono di per sè indice della importanza fondamentale della saga stessa, sia per il riferimento possibile ad uno strato molto antico della religione greca, sia per l'interpretazione etica che ne è stata data.

N. è indicata spesso come una tantalide, sorella perciò di Pelope, sposa di Amfione di Tebe, ma non mancano versioni allusive alla sua origine asiatica, sottolineata dall'esistenza della figurazione, ritenuta di N., al Sipilo (Simmia di Rodi, pr. Parten., 33) ed anche a rapporti di N. con Zeus, per cui essa sarebbe stata madre di Pelasgo (Acusilao d'Argo; cfr. Apollod., Biblioth., ii, 1, 7).

Il mito, nella sua forma definitiva e più completa rappresentata dalla narrazione di Ovidio (Meram., vi, 146-312), risente dell'inserzione di tre redazioni diverse, già del resto in parte sistemate dai tragici: Eschilo, di cui possediamo un frammento di una tragedia dedicata a N., Sofocle, Euripide (cfr. Schol. Eurip., Phoen., 259; Aristoph., Ran., 911; Apollod., Biblioth., iii, 5, 6, 2; Gell., Noct. Att., xx, 7), il mito essendo già noto all'Iliade (xxiv, 602-618), ad Esiodo (pr. Apollod., l. c.), ai lirici: Saffo, Alcmane, Mimnermo (Gell., l. c.). Le notizie contrastanti che abbiamo delle redazioni tragiche impediscono di conoscere la precisa elaborazione e impostazione del mito in un momento particolarmente importante per la storia delle sue interpretazioni figurative.

Di fronte a questo problema di fondo appaiono affatto secondarie le discussioni, che già nella antichità si facevano circa il numero dei figli di Niobe (dodici nell'Iliade, venti in Esiodo, Mimnermo e Pindaro, diciotto in Saffo, dieci in Alcmane, quattordici nei tragici, dodici in Euforione; cfr. Gell., cit.), sulla identificazione del luogo della strage, sul numero e sui nomi dei figli superstiti, secondo una tradizione, sembra, non anteriore a Telesilla (pr. Apollod., cit.). Tuttavia questa varietà di tradizioni ha indubbiamente un riflesso nelle redazioni figurative, specie nelle più antiche, fino alla metà del V secolo. I nomi di dodici figli sono dati dal solo Ferecide (Frag. Hist. Gr., i, p. 95) ma anche per questo argomento esistono divergenze; anche ciò tuttavia ha poca importanza: i Niobidi non hanno ciascuno una caratterizzazione individuale, che è stata data solo alla madre, ma sono stati intesi soltanto come gruppo. La caratterizzazione è venuta particolarmente per esigenze figurative, perché il sesso e l'età dei Niobidi si prestava a numerose variazioni sul tema e a creare intorno alla tragedia della madre una sorta di riecheggiamento corale, che per necessità doveva apparire multivoco: il rapporto è quindi il motivo fondamentale, quello della madre, riflette e riassume in sé la tragedia di ciascuno dei figli, mentre la molteplicità dei motivi impersonati da questi, individua una varietà e pluralità di cause che concorrono e determinano il motivo fondamentale. Tutto questo sembra sia una invenzione degli interpreti figurativi, non dei poeti, per quello almeno che conosciamo e resta sempre l'interrogativo se i più recenti interpreti poetici del mito, come Ovidio che ce ne ha lasciato la più completa narrazione, non abbiano, come pare probabile, risentito l'influsso delle redazioni figurative. Un rapporto invero rispetto a quello enunciato, cioè compartecipazione dei figli, individualmente o collettivamente presi, al dramma della madre, non c'è, la madre essendo vista - e soltanto nell'episodio della figlia minore - come rifugio e protezione. Anche questa, sembra, è una invenzione figurativa, giacché la situazione quasi di inconoscenza dei figli riguardo alla madre, di concentrazione in questa di tutto il pathos della vicenda, rivela un'impostazione del mito che non può essere se non tragica, poiché sul teatro, salvo il caso, forse, della Niobe di Sofocle, la strage era piuttosto - dobbiamo immaginare - narrata dall'àngelos di fronte alla protagonista. Questa interpretazione è legata anche alla staticità della figura della madre, solo in parte da spiegarsi con la saga della sua trasformazione in roccia.

La rappresentazione più antica finora nota è quella su un'anfora a collo distinto e corpo ovoidale, di tipo "tirrenico", nel Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo. È attribuita al Pittore Castellani ed è databile nel secondo venticinquennio del VI sec. a. C. Oltre ai fregi di loti e palmette e di animali presenta sulle spalle un fregio più grande con una scena di Eracle e Nesso da un lato e una, identificabile con l'uccisione dei Niobidi, dall'altro. Vi appaiono infatti alle estremità Apollo a sinistra, barbato, con chitonisco aderente e pelle ferma, con turcasso, in atto di scagliare le frecce e, a destra Artemide, con chitonisco, elmo, e turcasso, ugualmente saettante; fra le due divinità sono raffigurati due giovani alternati a due fanciulle, tutt'e quattro fuggenti da sinistra verso destra, volgendo indietro la testa verso Apollo; i giovani sono nudi e portano un mantelletto pendente dalla spalla sinistra, le fanciulle hanno il peplo con paryphè e bordo incisi; tutti alzano il braccio sinistro in un gesto vivace.

Segue un'anfora da Tarquinia a figure nere: a sinistra è Leto, poi in successione paratattica, seguono Artemide e Apollo saettanti, ambedue con elmo in capo, quindi N., che aprendo il mantello cerca interporsi fra gli dèi e due figli in fuga verso destra. La centralità della figura e il suo significato sono così dichiarati, ma tutta la scena è svolta in tono esclusivamente narrativo. La data si può porre intorno al 550. Non è quindi il mito dei Niobidi uno di quelli che sono stati più anticamente trattati dall'arte figurativa greca. La sua principale elaborazione è opera della classicità.

Tre sculture assai famose del primo classicismo, sicuramente pertinenti al mito dei Niobidi, sono state spesso attribuite ad una decorazione frontonale oppure ad un gruppo paratattico. La Niobide che si accascia portando le mani al dorso del Museo delle Terme e le due statue della Gliptoteca Ny Carlsberg, il giovane morente e la giovane in fuga, provengono tutte dalla zona degli Horti Sallustiani e sono degli originali. Queste circostanze di rinvenimento e di qualità depongono a favore dell'unità del gruppo, nel quale sono tuttavia da riconoscere diversi temperamenti e un sostanziale eclettismo. Iconograficamente si aveva l'alternanza di figure erette, cadenti o riverse, come nel cratere di Orvieto. La Niobide delle Terme è indubbiamente la più alta ed intensa, per la costruzione organica che non indulge ad esteriorità emotive ed è perciò più profondamente drammatica. Più generica la figura corrente di Ny Carlsberg e meno profondamente caratterizzato il giovane disteso della stessa collezione. In realtà ciascuna delle statue costituisce un problema a sè (E. Paribeni). Non sembra sicuro il riferimento al ciclo dei Niobidi di altre due sculture che si dicono provenienti da Castel Gandolfo, nella stessa collezione danese, un torso di fanciulla in corsa e un giovanetto, datati circa al 420 a. C., cioè dopo la grande esperienza fidiaca del trono di Olimpia. È sintomatico che delle diverse sculture pertinenti o attribuite al ciclo di N. nessuna sia in bronzo o appaia copia da originale bronzeo: il complesso gruppo era veduto quindi come idoneo a funzioni che nella mentalità greca erano subordinate ad un'architettura, cioè "decorative".

Il cratere di Orvieto, da una delle rappresentazioni del quale è stato denominato il Pittore dei Niobidi (v.), è la più intensa rappresentazione del classicismo, concepita e realizzata come espressione della potenza delle dominanti figure divine: non vi è preoccupazione di rendere la moltitudine dei Niobidi, che sono ridotti a quattro; la sintesi tragica non ammette deviazioni episodiche che ne incrinino la concentrazione. Si può ammettere che la riduzione ceramografica abbia motivato la riduzione delle figure, ma è certo che una precisazione numerica non era necessaria, anzi parrebbe contraria al risultato drammatico. Il giovane e la fanciulla già morti e distesi a terra, i due giovani in procinto di cadere riassumono la situazione, che invece in modo alquanto più generico è diluita in sei figure di fuggenti in direzioni diverse nei lati minori della kỳlix da Vulci ora a Londra, attribuita al Pittore di Cadmo. Difficile farsi un'idea delle composizioni dei frammenti da Populonia a Firenze e da Orvieto a Bonn, nei quali tuttavia si riconosce una tipologia particolare, quella del giovane caduto che porta le mani al dorso. Dopo il cratere di Orvieto, da mettersi in rapporto con la megalografia della metà del sec. V, la maggiore espressione di questo mito da parte dell'arte classica era contenuta nelle fiancate del trono di Zeus a Olimpia (Paus., v, ii, 2). Purtroppo, se il cratere di Orvieto ha la freschezza dell'originale, i rilievi che la maggioranza degli studiosi considerano copie dei fregi di Olimpia sono pervenuti in redazioni corrette ma fredde e nelle quali i diversi schemi sono stati assortiti in varia maniera in funzione decorativa. È tuttavia possibile individuare nella ricchezza dei motivi e delle situazioni e nel vario svolgimento in gruppi e in figure singole l'altezza di un'invenzione che partecipa dello spirito delle sculture partenoniche. Anzi è questa un'opera per la quale la paternità fidiaca sembra meno discutibile. Se i temi dei giovani feriti, di fronte e di dorso, che portano la mano alla schiena e quelli dei caduti riversi trovano paralleli nelle rappresentazioni ceramografiche un po' più antiche, invenzioni nuove sembrano i gruppi della giovane che ne sorregge un'altra accasciata sulle ginocchia e della sorella nelle cui braccia cade riverso il fratello minore. Gli dèi, anziché campeggiare al centro, si trovano ciascuno all'estremo di una serie: la versione tragica si è di nuovo umanizzata e nella molteplicità delle figure e delle situazioni si colorano efficacemente gli aspetti diversi nell'unità del dramma, la cui concitazione è sottolineata grandiosamente dal movimento violentemente ondulato dato dai dislivelli del suolo e dall'alternarsi di figure erette e riverse. L'artista non si è sentito vincolato al problema dell'ambientazione ed ha svolto tutta la scena, come il Pittore dei Niobidi, nell'aperto spazio di un terreno roccioso. Il dramma è ancora risolto nella sola figurazione della strage dei giovani, nel numero di quattordici accreditato dalla tragedia attica. Manca la madre e mancano le figure, assai meno necessarie, della trophòs e del pedagogo, che diventeranno obbligatorie più tardi.

Appartiene all'orizzonte del classicismo la figurazione dell'anfora Creuset (465-50) dove la scena ha diverso svolgimento: N. con la figlia minore in braccio, fugge davanti ad Artemide che si appresta a scagliare un dardo. La tradizione figurativa classica è dunque duplice: da un lato le redazioni che hanno come protagonista N., nella quale si concentrava tutto il dramma, dall'altro la strage dei giovani. A quest'ultima serie appartiene forse il rilievo di Cirene con Apollo saettante e un Niobide caduto in ginocchio. Dagli originali classici derivano le redazioni minori dei rilievi melî (un Niobide che sostiene la sorella che si accascia), per cui la data del 460-50 è forse troppo alta, e le serie decorative di Panticapeo e di Gnathia (peraltro complicate da nuovi elementi tematici che ne rivelano il carattere eclettico), nonché le poche redazioni della glittica e della monetazione.

Il cratere Jatta da Ruvo contiene già il motivo del pedagogo; gli altri episodî, risolti in gruppi o in figure singole, riecheggiano più o meno la morfologia delle figurazioni precedenti. Semplici espedienti di repertorio sembrano i carri su cui sono montati Apollo e Artemide. Il pedagogo figura anche negli excerpta dipinti su una tazza di Nola, già Canino, perduta già ai tempi dello Stark. Assai dubbia è l'interpretazione di una nota anfora da Ruvo ora a Napoli, come N. e personaggi della sua famiglia presso la tomba dei figli defunti. Il mito ha destato, del resto, scarso interesse nell'ambiente italico: un sarcofago etrusco di Toscanella ripete genericamente gli schemi consueti di derivazione classica e postclassica e conchiude la scena fra le due figure degli dèi.

È naturale che la saga di Niobe e dei Niobidi si prestasse specialmente ad interpretazioni che ne enfatizzassero il carattere patetico. Nè si trattava sostanzialmente di inventare nuovi motivi figurativi, ma di volgerne alcuni alle nuove tendenze, il che spiega le rielaborazioni ellenistiche nel campo soprattutto delle arti applicate e poche versioni di rinnovato e grandioso impegno. Così è che il barocco riprende il tema della madre e torna a riassumere in essa e nell'episodio della figlia minore, tutto intero il dramma. Perciò sembra da accogliere la tesi che la Niobe conosciuta nella copia degli Uffizî non sia stata inizialmente concepita come parte di un gruppo comprendente tutti i personaggi della ormai canonica tradizione mitica. Le differenze stilistiche, messe ulteriormente in rilievo più sotto, ne confermano l'autonomia. Il gruppo stilisticamente e concettualmente alquanto diverso da Iraldion, a Creta, è stato rinvenuto insieme con una statua di Artemide saettante: forse il dramma è stato risolto, come nell'anfora Creuzet, ancora nell'antitesi fra la dea e Niobe. Oltre la fiacca testa Yarborough, e quella classicheggiante Radziwill, l'unica copia del tipo Uffizi è quella frammentaria e ridotta del Giardino Comunale di Chiusi, di provenienza sconosciuta. La Niobe degli Uffizi, indubbiamente grandiosa per la dimensione, tuttavia non esente da enfatizzazione retorica come è sempre nelle opere barocche, è realizzata con insistenze virtuosistiche nel panneggio che la stacca, per lo meno dal punto di vista esecutivo, dalle restanti statue con essa rinvenute. Il gruppetto di Iraklion è più coerente, anche perché il braccio destro della madre, avvolto nel mantello, esprime più immediatamente l'atteggiamento protettivo e imprime alla scultura una maggiore conclusione. Lo stesso movimento della testa, nel gruppo cretese, ha un più umano contenuto "difensivo", mentre nella statua di Firenze e nelle repliche della testa assume un aspetto deprecativo, in cui forse l'artista ha voluto non far dimenticare l'antico atteggiamento di hỳbris, che sembra rimasto anche nella pittura su marmo da Pompei a Napoli, che nella mediocrità della replica decorativa non tradisce la qualità di un grande originale patetico; l'atteggiamento protettivo del braccio destro col mantello del gruppo di Iraklion si combina qui con lo atteggiamento deprecatorio del volto del gruppo di Firenze, cui la pittura si collega anche per l'enfatizzazione delle dimensioni della figura. La fanciulla nel pìnax pompeiano si torce volgendo il volto allo spettatore. Forse il pìnax è la chiave di qualche aspetto del problema: lo sguardo volto in alto della madre presuppone una collocazione in alto delle figure divine, Apollo e Artemide, che invece erano allo stesso livello nel gruppo di Iraklion, in cui N. non ha lo sguardo volto al cielo. Così forse prima della redazione della Niobe di Firenze si può presupporre un intermediario pittorico, sempre nell'ambito del patetico. Nelle statue di Vigna Tommasini questo atteggiamento tipicamente barocco e suscettibile di riecheggiamenti scopadei, si è ripercosso con una non dissimulabile monotonia in diverse altre figurazioni del gruppo: la Niobide con la mano alla nuca, i due giovinetti che salgono sulle rocce, il giovane caduto sul ginocchio, il fanciullo che fugge, il pedagogo, meno nel Niobide adulto, che faceva gruppo con la sorella caduta (gruppo frammentario Vaticano) e che ripete nel largo gesto del braccio destro avvolto nel mantello, il tema della madre. In effetti, per quanto più descrittivo, meno conserto, svolto in una visione frontale, questo gruppo è il solo che si avvicini alla grandiosità di concezione del gruppo principale della madre con la figlia minore: il terzo gruppo, del fanciullo più piccolo col pedagogo, che è completo solo nella copia di Soisson (Espérandieu, v, 3790) è tenuto insieme soltanto da ripetizioni di schemi abbastanza meccanici. Nemmeno questo terzo gruppo ha la conserta volumetria di quello della madre, ma è svolto in veduta frontale e con una pronunziata paratassi, tanto è vero che i suoi componenti potevano indifferentemente essere copiati uniti, come nella replica di Soisson, oppure separati come in quella degli Uffizi. La ovvietà di questi gruppi (fratello-sorella minore; pedagogo-fanciullo) fa sospettare la necessità di creare dei temi secondari che riecheggiassero, senza sostituirvisi, quello fondamentale, oltre ad una esigenza più pratica di stabilire dei Gegenstücke. Sempre nel gruppo di Vigna Tommasini il Niobide adulto, il fanciullo che corre, le due Niobidi maggiori correnti partecipano, ma in chiave più accademica, specialmente i primi due, dello stile e del patetico del gruppo principale; il giovane caduto sul ginocchio e più ancora i due che salgono sulle rocce hanno tutto l'aspetto di riempitivi, traduzioni plastiche di cartoni pittorici. La "Psyche" è un inserto di completamento, che deriva da una tradizione diversa; l'"Achirrhoe" non fa parte del gruppo. Uno stile affatto diverso, per l'assenza del patetico barocco, ha il giovane morente, riverso al suolo, tipologicamente quasi identico all'analogo esemplare della Gliptoteca di Monaco di Baviera e di quello frammentario di Torino. Il Niobide morente tipo Uffizi-Monaco introduceva un secondo elemento statico nel dinamismo, più intenzionale che reale, tuttavia dichiarato, del complesso; con il gruppo della madre, pur essendo di tradizione e di stile differente, è l'unica figura che non sia in posa da manichino, ma appunto il suo isolamento, quanto a stile e sensibilità, rende estremamente complesso e praticamente insolubile il problema della ricomposizione del gruppo di Vigna Tommasini, del quale si può dire soltanto che era decorativamente paratattico e pseudoprospettico, in quanto le figure non hanno un unico modulo, ma a coppie sono di dimensioni gradualmente ridotte. L'unità di visione frontale e quindi pittorica di diverse fra le statue di Firenze, è solo occasionale, perché la copia dell'Aventino del Niobide caduto in ginocchio non presenta l'esecuzione abbreviata delle analoghe copie di Firenze. Il gruppo di Vigna Tommasini è eclettico, poiché riunisce elementi di tradizioni molteplici e fra loro indipendenti, solo parzialmente unificati da un'analogia di fattura.

Il suo valore, nella storia delle redazioni figurative del mito, è comunque alquanto relativo. Il gruppo del tempio di Apollo Sosiano, eretto nel Campo Marzio nel 32 a. C., rappresentava Niobae liberos morientes (Plin., Nat. hist., xxxvi, 28) e si discuteva se attribuirlo a Prassitele o a Skopas, dilemma che ha generato non pochi equivoci, soprattutto perché si è messo in rapporto il gruppo Sosiano con quello oggi agli Uffizi. Il rapporto si annulla da sé, dal momento che la citazione pliniana non comprendeva la figura della madre, la quale ovviamente non sarebbe stata dimenticata da uno che certamente aveva visto il gruppo. Quindi il complesso del tempio Sosiano era incompleto o apparteneva ad una redazione nella quale la figura della madre non aveva parte. Né si può pensare che si trattasse di una decorazione frontonale, perché evidentemente Plinio nel passo citato e altrove, allude ad opere esposte nell'interno del tempio. Sicché dovremo semplicemente concludere che noi non abbiamo elemento alcuno per stabilire a quale delle differenti redazioni il gruppo Sosiano appartenesse e che quindi non lo conosciamo né quanto al numero né quanto alla tipologia delle figure. Circa l'attribuzione ed alla questione cui Plinio accenna, essa ha carattere puramente generico ed erudito, dovendo le opere dei maestri del IV sec. apparire inconfondibili anche agli antichi, quindi le statue Sosiane erano opere senza paternità sicura, a meno che il Prassitele e lo Skopas non siano dei tardi maestri accademici, omonimi dei due più illustri. La Niobe attribuita a Prassitele da un epigramma dell'Anthologia Palatina (xvi, 129, di ignoto; cfr. Auson., Epitaph., 28) era certamente sola. L'origine asiatica, quindi ellenistica e barocca, del gruppo Sosiano è puramente congetturale. Tipicamente ellenistica nel gusto è la versione scenografica, che conosciamo in due redazioni, entrambe piuttosto modeste, di Pompei (Casa Reg. vii, ins. 15.2) e del colombario romano di Villa Pamphili. La prima è in sostanza un "paesaggio animato" che riprende la versione della strage compiuta durante la caccia, con l'aggiunta di alcune figure muliebri. La frammentazione episodica estingue qualsiasi valore non puramente iconografico. Lo stesso può dirsi della pittura Pamphili, che ripete tipologie classiche. L'interesse di queste pitture sta soprattutto nella collocazione a livello più alto delle figure divine, già accennata a proposito del pìnax pompeiano con Niobe e la trophòs.

Una serie di estremo interesse delle rappresentazioni figurate del mito dei Niobidi è offerto da sarcofagi romani a rilievi. Le figurazioni che nell'età classica si dividevano in gruppi e nelle composizioni statuarie del tipo Uffizi si risolvono in gran parte in figure singole, nei sarcofagi sono estremamente conserte e obbligate da una sintassi indistricabile nel suo periodare barocco. Una delle iconografie è conclusa ancora classicamente fra le due figure degli dèi saettanti, l'altra dal gruppo della madre e da quello, affatto nuovo, di un guerriero anziano che con lo scudo cerca di difendere un fanciullo che si accascia, certamente Amfione, che è estraneo alle precedenti redazioni figurative; i gruppi che oltre a quelli indicati si possono enucleare dal complicato contesto sono nella prima categoria quelli della madre che sorregge una figlia giovinetta, della trophòs che ne soccorre un'altra, del pedagogo che protegge il fanciullo più piccolo, del Niobide adulto che sorregge un fratello morente, più le figure singole della giovane colpita alle spalle veduta di dorso, del giovane caduto riverso, di giovinetti e giovinette fuggenti. La disposizione nel contesto non è sempre la stessa e talora alcuni soggetti trovano posto nei lati minori: non si tratta quindi della replica di un unico cartone, ma di rielaborazioni abbastanza libere che articolano in maniera differente i diversi termini. Nella parte frontale dei coperchi, sia nell'esemplare vaticano che in quello di Monaco di Baviera, sono rappresentati i corpi dei Niobidi morti, accatastati nel ritmo imposto dal parapetasma del fondo. Nelle repliche della seconda categoria il tumulto della scena tragica è reso ancora più denso dalla presenza di giovani fuggenti a cavallo, uno dei quali sta per cadere e l'altro, disarcionato, è trascinato dall'animale impaurito. Tre repliche diverse per stile e proporzioni - Venezia, Laterano e Wilton - presentano a un di presso gli stessi schemi nella stessa disposizione sintattica, solo variata nel primo per il minore sviluppo in altezza della composizione, che invece negli altri due permette di individuare diversi piani. Le principali varianti rispetto alla categoria accennata prima sono: l'inserzione del gruppo di Amfione, la positura del pedagogo che è inginocchiato, il gruppo della madre che accoglie essa i due figli più piccoli, il gruppo di un secondo pedagogo che sorregge una ragazza, la giovinetta caduta riversa, il giovane ancora in sella al cavallo caduto. Anche in questi casi le redazioni sono libere, ma meno indipendenti di quelle del tipo Vaticano-Monaco e tali da consentire la ricostruzione di un archetipo. Le figure degli dèi sono assenti dal quadro principale e solo nell'esemplare laterano riprodotte in piccolo nella fronte del coperchio. Pur riecheggiando spesso tematiche precedenti e costituendo anzi la conclusione di tutto il ciclo figurativo, i sarcofagi nella convulsa composizione esprimono con rinnovato impeto e con una insistenza di situazioni particolari il dramma della strage dei Niobidi, dando evidenza, negli episodî, agli aspetti umani, e ne accentuano, rimuovendo ogni dettaglio suscettibile di distrarre, la concitazione e l'intensità. Lo stile dei sarcofagi del medio Impero romano offre anche alla redazione di questo mito una possibilità di espressione, nonostante l'evidente bagaglio culturale, nuova in certo senso ed originale.

Monumenti considerati. - Ceramica: i vasi citati figurano nei due articoli di E. Loewy, op. cit. in bibl., ad eccezione di: anfora tirrenica ad Amburgo: H. Hoffmann, The Oldest Portrayal of the Niobids, in Archaeology, xiii, 1960, p. 182 ss.; kỳlix a figure rosse da Nola, già nella Collezione Canino, ora dispersa (?): K. B. Stark, op. cit. in bibl., p. 151; anfora a figure rosse da Ruvo, Napoli, Museo Naz.: C. Watzinger, Stud. zu Unterital. Vasen, 1909, p. 47. Pittura: pitture su marmo, di Alexandros, da Ercolano: Napoli, Museo Naz.: E. A. A., vol. i, p. 249, fig. 362; da Pompei, Napoli, Museo Naz.: E. Pfuhl, Mal. u. Zeichn., ii, pp. 624-8; pitture parietali di Pompei: K. Schefold, Die Wände Pompejis, 1957, p. 371; pittura del Colombario di Villa Pamphili: G. Bendinelli, in Monumenti Pittura Antica, iii, v, Roma 1941, tav. iv. Rilievi: trono di Zeus: G. Becatti, Problemi fidiaci, 1951, p. 134; di Cirene: E. Paribeni, Catalogo sculture di Cirene, 1959, n. 48; rilievi melî: P. Jacobsthal, Mel. Reliefs, p. 62, tav. 42; sarcofago da Tuscania, Roma, Musei Vaticani: R. Herbig, Die jüngeretruskischen Steinsarkophage, 1952, n. 8o, tav. 30; sarcofagi romani: C. Robert, Sark.-Rel., iii, 3, 313 (Vaticano); 312 (Monaco); 315 (Laterano); 316 (Venezia); 317 (Wilton). Scultura: Niobidi dagli Horti Sallustiani (Roma e Copenaghen): E. Paribeni, Museo Naz. Romano. Sculture gr. del V sec., 1953, n. 4; gruppo del tempio di Apollo Sosiano: G. A. Mansuelli, Galleria degli Uffizi. Le sculture, 1958, p. 101 ss. Per altri monumenti (terrecotte, gemme, ecc.), v. elenco in Pauly-Wissowa.

Bibl.: K. B. Stark, N. und Niobiden, Lipsia 1863; E. Loewy, Niobe, in Jahrbuch, XLII, 1927, p. 80 ss.; id., Zu den Nibidendenkmälern, ibid., XLVII, 1932, p. 47 ss.; A. Lesky, in Pauly-Wissowa, XVII, 1936, c. 644 ss., s. v.