Nobiltà e borghesie

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Dario Ippolito
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Inclinazione militare e centralità del patrimonio fondiario caratterizzano ancora la nobiltà bassomedievale, nobiltà che ottiene però in questi secoli una codificazione giuridica. Resta piuttosto alta la permeabilità con lo strato superiore delle borghesie cittadine che cercano di condividere con l’aristocrazia il potere politico.

Permanenze e discontinuità nella configurazione dei ceti eminenti

Il nobile del Due e del Trecento conserva, durante il lungo processo della propria definizione, alcuni aspetti dell’aristocrazia altomedievale: il primo, in parte già caratteristico della tarda Antichità romana, è la tendenza a fare della terra il cuore del proprio patrimonio e della rendita fondiaria la base del proprio sostentamento; l’altro, di più diretta derivazione altomedievale e germanica, è l’inclinazione militare, che resta un contrassegno proprio della nobiltà ben oltre i confini dell’età medievale.

Al contrario, un elemento dinamico, che modifica il profilo nobiliare già tra XI e XII secolo, riguarda la legittimazione ideologica, in cui assumono un ruolo crescente l’ethos cavalleresco del miles christianus e, più avanti, l’interesse per la dimensione artistica e culturale, pressoché assente nel mondo delle classi dirigenti altomedievali, rimasto a lungo duro, pragmatico, aggressivo e contemporaneamente chiuso sulla difensiva.

Anche nel legame della nobiltà con la terra, d’altro canto, non tutto si svolge sotto il segno della continuità: dal rapporto di proprietà e dal sistema vassallatico-beneficiario, propri dell’alto Medioevo, alla formazione delle signorie territoriali, o di castello, o bannali, proprie dei secoli centrali, all’inserimento in una vera e propria gerarchia feudale legittimata da un’autorità sovrana, a partire dal tardo XII secolo, è evidente come il potente medievale si radichi sempre più profondamente nel territorio, sul quale esercita in modo sempre più marcato funzioni di governo e intorno al quale concentra i primi elementi di una vera e propria consapevolezza dinastica.

La codificazione del privilegio

L’ultima fase del processo è quella più direttamente connessa con la nascita di un vero e proprio ceto nobiliare. Quando, alla fine del XII secolo, si avvia il lento processo della riorganizzazione di poteri propriamente pubblici (nella forma delle monarchie feudali e degli stati regionali), comincia la progressiva sottomissione delle signorie territoriali.

Già nel XIII secolo queste ultime risultano inquadrate in strutture gerarchiche culminanti nell’autorità dei sovrani: i potenti di un regno rimangono in grado di esercitare il controllo sui rispettivi patrimoni, ma i sovrani riescono a far passare il principio in base al quale tale controllo deriva dalla loro unica e suprema autorità.

Dal processo in atto, la nobiltà non ricava solo un elemento di subordinazione politica: l’esercizio effettivo del potere è ottenuto dal princeps soprattutto integrando e usando a proprio vantaggio la rete di ordinamento territoriale e sociale che si era già costituita nell’epoca precedente, e che mostra agevolmente il ruolo politicamente cruciale che la nobiltà continua ad esercitare.

È proprio in questa fase, peraltro, che si può cominciare a parlare di una vera nobiltà: perché è appunto il potere statale, attingendo al riscoperto patrimonio giuridico romano, a disciplinare i rapporti di potere locale, a codificare il privilegio, a regolarne la trasmissione ereditaria e a conferire legittimità alla supremazia di una cerchia ristretta di famiglie, ancorandola espressamente alle funzioni militari, come si legge nelle Costituzioni melfitane promulgate da Federico II nel 1231: “[…] sancimus ut […] ad militarem honorem nullus accedat qui non sit de generi militum”.

Da questo momento, l’ordo militaris risulta giuridicamente circoscritto, e i sovrani sono gli unici a poter armare nuovi cavalieri. Ma, proprio mentre l’esercizio delle armi diventa cifra distintiva della nobiltà e il codice di valori cavalleresco ne permea la mentalità, l’ereditarietà del privilegio contribuisce a dare forma ad una consapevolezza dinastica e ad una centralità dei lignaggi che finiscono col diventare preminenti sullo stesso effettivo esercizio delle armi.

Ciò è particolarmente evidente nell’Italia degli Stati regionali, ove la supremazia politica è spesso conquistata da gruppi di potere di origine composita, provenienti dall’aristocrazia rurale di tradizione militare, ma anche da famiglie assurte alla conquista della preminenza economica mediante l’esercizio della mercatura e dell’attività finanziaria. Anche qui, in ogni caso, il XIII secolo rappresenta un momento di svolta: quando le oligarchie cittadine cominciano a limitare, su base dinastica, l’accesso alle magistrature principali, si determina un’analoga chiusura giuridica e si enuclea una nobiltà urbana (Ordinamenti sacrali, Bologna 1282; Ordinamenti di giustizia, Firenze 1293; Serrata del Maggior Consiglio, Venezia 1297).

Fine della mobilità sociale?

Malgrado le chiusure, la nobiltà medievale mantiene un buon grado di permeabilità all’accesso di nuovi elementi, dotati di risorse economiche e di prestigio sociale: lo richiede la necessità di reintegrare le fila di un ceto che si autolimita mediante l’istituzione della primogenitura e che si assottiglia per la continua esposizione ai pericoli della guerra.

Le chiavi dell’ascesa sociale sono rappresentate soprattutto dal possesso della ricchezza e dall’inserimento attivo nei gradi più elevati della burocrazia regia o delle cariche politiche degli stati regionali; per converso, il declassamento nobiliare (dérogeance) è legato soprattutto all’impoverimento (benché non manchino attestazioni di forme di solidarietà di lignaggio capaci di tutelare il nobile impoverito) o al legame con autorità superiori che risultano perdenti: per questa ragione, una fase centrale per la ridefinizione della nobiltà medievale è quella legata alle grandi trasformazioni economiche e politiche della crisi del Trecento.

Borghesia, borghesie

Una delle condizioni che rendono particolarmente riconoscibile la specifica connotazione della nobiltà è rappresentata dal confronto con un gruppo sociale diverso: l’uso corrente è quello di denominare tale gruppo come “borghesia”, ma il termine risente delle stratificazioni della storiografia e della sociologia ottocentesche.

Il borghese di età medievale ha invece poco a che fare con l’accezione moderna del termine: non è il proprietario dei mezzi di produzione né il nemico di classe dell’aristocratico e del proletario; è, invece, colui che viene da fuori, che vive nel borgo, vale a dire nella “superfetazione extramuranea” che segnalava nel modo più esplicito la crescita urbana del pieno Medioevo.

Il borghese può dunque essere un ex contadino o un proprietario terriero avventuroso, e può diventare un artigiano, un oste, un notaio, un mercante, un banchiere e una pluralità di altre cose diversissime fra loro: ciò che lo contraddistingue è il fatto che non viva di agricoltura, né come lavoratore né come percettore di rendita, e che prenda la sua dimora in città; come sostiene Salimbene da Parma: “i nobili vivono in campagna e nei loro possedimenti, invece i borghesi abitano nella città” (Salimbene da Parma, Cronica). Per questa ragione, con riferimento all’età medievale, è più corretto l’uso del termine al plurale: “borghesie”.

La fisionomia giuridica delle borghesie medievali si definisce precocemente soprattutto nelle città italiane, ove gli statuti comunali (che non vengono ottenuti solo per iniziativa di gruppi sociali di origine urbana) precisano privilegi e doveri dei cives et burgenses, che partecipano attivamente al governo cittadino e sui quali gravano le imposte dirette, le spese straordinarie della città, la costruzione e la tutela degli edifici cittadini e delle opere difensive.

Le opportunità offerte dalla ripresa economica pienomedievale accentuano la differenziazione fra i gruppi sociali borghesi, selezionando in particolare una ricca borghesia degli affari capace di inserirsi in profondità tanto nel possesso fondiario quanto nelle istituzioni del governo cittadino.

Per conseguire questo scopo, la maggiore borghesia non esita, in più circostanze, ad allearsi anche con componenti sociali meno ricche e prestigiose, medioborghesi o decisamente popolari, salvo poi reprimerne ogni istanza di ascesa politica: sebbene infatti gli scontri fra la componente propriamente nobiliare e quella altoborghese caratterizzino tanta parte delle vicende della storia urbana pieno e tardomedievale, l’alta borghesia mira più a inserirsi nei ranghi della nobiltà che a sostituirsi ad essa, sforzandosi di assumerne stile di vita e condotta, pur affermando gradualmente anche un nuovo orgoglio della ricchezza, della capacità produttiva, del lavoro ben fatto, di nuovi valori di prudenza, rispettabilità e credito che non appartenevano all’orizzonte ideale nobiliare.

Lo sforzo di vivere more nobilium si realizza in molti modi, comprese accorte strategie matrimoniali, e si esplicita in varie forme: ma i più vistosi tentativi di imitare lo stile di vita aristocratico si possono riconoscere nell’impegno tenace per conquistare e condividere con l’aristocrazia il potere politico (che costituisce anche una garanzia per il successo economico), nel radicamento del possesso fondiario (considerato, ancora per secoli, l’unica ricchezza realmente sicura e dignitosa) e nell’adozione di un codice di comportamento che ha la forza di imporre se stesso come misura universale: “urbanità” e “civiltà” diventano le cifre di un formalismo della parola e del gesto che, se si rifrange negli innumerevoli sotto-codici dei diversi gruppi sociali borghesi, si avvia a trionfare sulla “villania” del mondo rurale e ad assorbire in sé, nel lungo periodo, anche la “cortesia” aristocratica e gli ideali cavallereschi della nobiltà. Di questa commistione, ben rappresentata dai patriziati urbani tardomedievali, sarà cifra esplicita il comune e sussiegoso distacco nei confronti delle “borghesie” minori, per le quali la terminologia del tempo usa non solo la locuzione di “popolo minuto”, ma anche quelle ancor più spregiative di “popolaccio”, “plebe” o “plebaglia”, o addirittura di pestilens multitudo.

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