NONNO

Enciclopedia Italiana (1934)

NONNO (Νόννος, Nonnus)

Angelo Taccone

Poeta greco. Pochissimo ci è noto della sua vita. Un periodo del Violario dell'imperatrice bizantina Eudocia c'informa: "Nonno di Panopoli in Egitto, che parafrasò San Giovanni in esametri". Viceversa una glossa dell'Etymologicum Magnum parlando dell'autore delle Dionisiache tace sulla Parafrasi. È evidente che le due fonti rispecchiano l'una la tradizione cristiana cui nulla importava delle Dionisiache, l'altra la pagana che non faceva nessun conto della Parafrasi. Che le Dionisiache fossero di N. risulta e dalle intestazioni dei mss. e da un passo di Agazia di Mirrina (sec. VI) e da testimonianze di papiri recentemente scoperti. Inoltre un epigramma dell'Antologia Palatina (IX, 198) dice: "Nonno son io, Panopoli fu la mia patria, ma in Alessandria (propriamente: Faria) con la mia sanguinosa lancia falciai le generazioni dei Giganti". Donde taluno volle ricavare che N. fosse pure autore di una Gigantomachia, altro poema a sé, ma l'ipotesi, che si presentava già come punto necessaria avuto riguardo al contenuto del maggior poema, cade ora senz'altro dopo che il Collart ha dimostrato che quell'epigramma, dovuto certo a un discepolo pagano di N., è, nel secondo verso, messo insieme con emistichi delle Dionisiache. Nella prima parte adunque della sua vita N., pagano, scrisse il poema pagano, nella seconda, convertitosi al cristianesimo, la parafrasi di S. Giovanni. Ma se la grazia divina gli toccò il cuore, non sembra avergli toccato gran che la mente: la lingua e lo stile permangono immutati. L'epoca in cui si svolse la vita di N. non si può stabilire se non con una certa approssimazione. Non vi sono elementi sufficienti per identificarlo col vescovo di Edessa dello stesso nome. Un terminus post quem è dato dall'imitazione nonniana di carmi di Gregorio Nazianzeno (che furono composti fra il 381 e il 390 d. C.), un terminus ante quem dalla menzione di Agazia e dal ricordo della città di Berito (Dionys., XLI, 388 segg.) che fu distrutta da un terremoto nel 529 d. C.

Il poema principale, le Dionisiache, comprende 48 canti; una lunghezza dunque pari a quella dell'Iliade e dell'Odissea messe insieme. I canti in generale sono più brevi di quelli dell'Iliade e s'avvicinano di più, per estensione, a quelli dell'Odissea; alcuni tuttavia sono enormi: il 47 è di 741 versi e il 48 addirittura di quasi 1000. Argomento: la spedizione di Dioniso per sottomettere l'India. Si capisce che la favolosa letteratura cui diede origine la reale spedizione di Alessandro Magno fornì non poca materia al nostro poeta. Il quale ebbe una larghissima conoscenza della poesia greca, che in gran parte mise a profitto, traendo da Euripide, Callimaco, Apollonio Rodio, Teocrito, Appiano, Nicandro, ecc., ma specialmente da Omero, Esiodo e Pindaro che nomina nel suo poema. La sua larga conoscenza delle opere dei grandi naturalmente non gl'impedì di mettere a profitto pure qualche vasto repertorio mitologico; infine, molto è dovuto pure alla sua vulcanica e prodigiosa fantasia.

Il poema è ben lontano dal presentare salda e compatta unità d'argomemo ed equilibrio di svolgimento. Ma unità ed equilibrio di architettura sì, e la cosa risulta evidentissima dallo schema del Collart, p. 59, donde si vede a occhio come alle avventure amorose di Zeus con Europa nel eanto 1 corrispondano quelle di Dioniso con Pallene e Aura nel 48; alla Gigantomachia dei libri 1-2 la Gigantomachia del libro 48; al viaggio di Cadmo e alle nozze di lui con Armonia nei libri 3-5 il viaggio di Dioniso e le nozze di lui con Arianna nel libro 47; alle disgrazie nella famiglia di Dioniso del libro 5 le disgrazie nella famiglia di Dioniso nei libri 44-46; al triste romanzo di Zeus con Persefone e poi con Semele nei libri 5-8 il triste romanzo di Dioniso e Beroe nei libri 41-43, alla nascita e infanzia di Dioniso (9-10) la fine della guerra e la morte di Deriade (39-40); alle avventure di Dioniso con Ampelo e Nicea, mescolate alla battaglia con Oronte e alla sottomissione degli Assiri (10-18) le avventure di Morreo e di Calcomede e il mito di Fetonte, mescolati agli ultimi avvenimenti della guerra (23-26 e 28); giuochi funebri per Stafilo (19), giuochi funebri per Ofelte (37); centro del poema, operazioni nell'India (20-32). Dunque un piano architettonico prestabilito e anche con molta cura; manca invece vera unità d'argomento in quanto con digressioni continue, che hanno spesso l'estensione di veri poemetti, e che cominciano non appena enunciato l'argomento e prima che esso argomento si prenda a svolgere, si fa entrare nel poema quasi tutta la mitologia. E lo svolgimento degli episodî è spesso così terribilmente vasto da occupare libri interi e da far perdere pienamente il filo del racconto e, diciamolo pure, l'interesse a quello che dovrebb'essere il vero argomento.

Venendo al posto che N. occupa nella storia della letteratura greca, si può rilevare che all'epica fredda e piatta e pressoché priva d'invenzione, ma limpida, tersa, cristallina nella sua lingua poco men che omerica, di Quinto Smirneo, segue la mastodontica creazione di N., in una veste ben degna della caotica fantasia: lingua estremamente ricca, stile estremamente fiorito, a cui hanno collaborato tutti gli artifici dell'eloquenza asiatica; esaltazione pressoché sempre parossistica, sia nella concezione sia nella forma. Talché viene a mancare nell'opera di N. quella sapiente gradazione di mezzi che nei grandi maestri ammiriamo e che per tanta parte contribuisce all'umanità e alla verità delle loro creazioni; tutto vi è riprodotto sullo stesso piano, che è press'a poco quello d'una esaltazione quasi, direi, convulsa. Con tutto ciò errerebbe di gran lunga chi credesse che proprio tutto sia in N. da buttare; la sua sensibilità è pronta e viva e gli suggerisce descrizioni ed esami di stati d'animo che dimostrano in lui non comuni attitudini d'artista. Senza contare che la sua fervida inesauribile fantasia merita pure la sua parte d'ammirazione. E il suo esametro è di struttura armoniosa e signorile. L'aver ridotto, per soverchio amore di armoniosità di suono, le 32 possibili forme di esametro a 9 sole, ha portato per forza, in tanta congerie di versi, a molta uniformità; considerati invece ciascuno di per sé, gli esametri nonniani, con la loro abbondanza di dattili, l'assenza di due spondei consecutivi, la prevalenza della cesura dopo il terzo trocheo, hanno un molto gradevole suono. Altre prove stanno a dimostrare (lacune, ripetizioni, doppioni) che il poema non ebbe l'ultima mano. Probabilmente in ancor giovane età N. si convertì al cristianesimo e quello stesso ardore che aveva dedicato all'opera pagana riserbò tutto poi alla cristiana e forse l'opera pagana giunse a disdegnare o magari a respingere da sé. Forse essa fu salvata da qualcuno dei numerosi discepoli, come Ciro di Panopoli, Cristodoro di Copto, Colluto di Licopoli, ecc.

Infinitamente meno interessante è l'altra opera, la quale per il contenuto non poteva permettere molta libertà al nostro poeta e quanto alla forma dimostra le medesime caratteristiche.

Edizioni: L'edizione di gran lunga migliore delle Dionisiache è la teubneriana di A. Ludwich (Lipsia 1909 e 1911) succeduta alla teubneriana del Koechly (1857-1858). La sola edizione commentata è quella di F. Graefe (Lipsia 1819 e 1826). L'unica traduzione intera che meriti di essere ricordata è la francese del conte De Marcellus (Parigi 1856, voll. 6). Nel 1924 si costituì in Germania una Nonnosgesellschaft che ha iniziato a Monaco la pubblicazione della versione di Thassilo von Scheffer. La Parafrasi ha due eccellenti edizioni, la teubneriana di A. Scheindler (Lipsia 1881) e quella di R. Janssen in Texte und Untersuchungen (n. s., 8, 4, Lipsia 1903).

Bibl.: Libro capitale su N. è ora quello di P. Collart, Nonnos de Panopolis: Études sur la composition et le texte des Dionysiaques, Cairo 1930, completato dal bello studi odi R. Keydell, Eine Nonnos-Analyse, in L'Antiquité classique, I (1932), pp. 173-202.