NUMERI

XXI Secolo (2010)

Numeri

Umberto Zannier

Quanti? Quanto? Quando? A che distanza? Domande a cui rispondiamo, di solito, con numeri. Di essi facciamo continuo uso, e l’importanza concettuale, oltre che pratica, della nozione di numero non può sfuggire. Il numero viene istintivamente associato a verità ineluttabili, come nei luoghi comuni ‘2+2=4’ e ‘la matematica non è un’opinione’. Dell’idea di numero colpiscono, tra l’altro, l’inevitabilità e l’universalità; siamo portati a pensare che i numeri, almeno quelli con cui si conta, in qualche modo esistano a prescindere da noi che li studiamo, e che ipotetici extraterrestri intelligenti e tecnologicamente evoluti, pur potendo essere totalmente diversi dagli umani, debbano possedere una nozione di conteggio e di numero, arrivando a risultati che necessariamente devono coincidere con i nostri (a parte i rispettivi linguaggi). Per es., che il 37 sia un numero primo è un fatto indipendente dalle nostre concezioni, storia, cultura o struttura biologica (nonché notazione).

Ma, dopotutto, sappiamo davvero cosa sono i numeri? In questa breve panoramica sfioreremo molte versioni ed evoluzioni del concetto di numero. Vedremo che se, da un lato, uno sviluppo di conoscenze astratte sofisticate ci ha forse portato vicino all’illusione di averne padronanza, da altri punti di vista, in un apparente paradosso, il numero si è rivelato sempre più sfuggente fino a convincerci dell’impossibilità intrinseca e definitiva di penetrarne alcuni aspetti.

Numeri naturali

Il matematico tedesco Leopold Kronecker (1823-1891) riassumeva la propria concezione delle costruzioni matematiche con la frase «Dio creò i numeri naturali, il resto è opera umana». Si chiamano numeri naturali, non a caso, quelli che prima si presentano alla nostra attenzione, e che prima sono apparsi nella storia dell’umanità: sono i numeri con cui si conta. Cosa vogliamo intendere con ‘contare’? Ebbene, contando noi prescindiamo dalla natura degli oggetti considerati e stabiliamo invece una corrispondenza biunivoca tra due insiemi, nel senso che ogni oggetto del primo insieme viene associato a un singolo oggetto dell’altro insieme, e viceversa. Se contiamo tre persone in una stanza, abbiamo in effetti fatto corrispondere le persone con un insieme standard di tre elementi, per es. un insieme ‘ǀǀǀ’ costituito da tre barrette allineate. Possiamo allora dire che il numero tre raccoglie e identifica tutti gli insiemi in corrispondenza biunivoca con ‘ǀǀǀ’, focalizza ed esprime questa proprietà comune. Il numero zero esprime un insieme vuoto, senza elementi. Quest’idea di identificare, pensare come uguali insiemi diversi ma che siano in corrispondenza biunivoca, definisce la nozione di cardinalità di un insieme; si può concepire, quindi, un numero naturale come una cardinalità, e si parla allora di numero cardinale.

Da tutto ciò vediamo che questo concetto basilare di numero comporta in effetti una certa astrazione e, pur motivato da ovvie esigenze concrete, sembra sfuggire a una facile definizione; tant’è che le altre specie animali apparentemente non ne hanno piena consapevolezza.

Un insieme rappresentativo standard associato a un dato numero cui si alludeva (ossia ‘ǀǀǀ’ nel caso del numero tre) può naturalmente variare; la notazione dei numeri, indispensabile per comunicare, rappresenta essenzialmente una scelta convenzionale per insiemi standard, uno per ogni numero naturale. La scelta delle barrette, in uso nella Roma antica e non molto comoda, venne presto abbandonata. Oggi usiamo una notazione decimale (o in base dieci), di origine indiana, importata e divulgata dagli arabi, la quale indica che, nel rappresentare un numero, lo si scompone raggruppando, a parte un resto, le unità in decine, che a loro volta, a parte un altro resto, vengono raggruppate in decine di decine (centinaia) e via dicendo. La scrittura finale del numero esprime questi raggruppamenti mediante i resti e la loro posizione: per es., 2547 significa 7 unità + 4 decine + 5 centinaia + 2 migliaia. La scelta del 10 rispetto a tutte le altre basi possibili (la base 60 apparve già 3000 anni or sono e la base 2, con cifre 0 e 1, è quella dei computer, sensibili al passaggio o no di corrente) fu indubbiamente motivata dal fatto che abbiamo dieci dita, da sempre usate per contare e raggruppare; in inglese digit significa «cifra» e deriva dal latino digitus («dito»). Questa notazione-concezione posizionale presenta enormi vantaggi rispetto a quella romana: anzitutto sono sufficienti dieci simboli, le cifre 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, usate tenendo conto della posizione, come nell’esempio precedente; inoltre, le operazioni aritmetiche diventano facili e veloci. Alludiamo qui alle quattro operazioni algebriche elementari; esse appaiono scontate, ma in effetti è la loro presenza che ha indotto tutto lo sviluppo matematico a cui siamo giunti: c’è una somma, che corrisponde a unire due insiemi in uno solo; e c’è un prodotto, che rappresenta una somma iterata: 3×5 significa 5+5+5. Sottrazioni e divisioni (con resto) sono le operazioni inverse. Con la notazione romana, eseguire operazioni con numeri moderatamente grandi sarebbe tuttora un’impresa, mentre con quella decimale tutto si riduce all’uso sistematico delle poche ben note regole che si imparano fin dalle scuole elementari, basate sulle proprietà commutativa e distributiva. Anche il DNA codifica le informazioni genetiche con un simile sistema in base quattro, in cui però molte combinazioni (terne) corrispondono alla stessa informazione, uno spreco che ha la provvidenziale funzione di limitare le possibilità di errore nella trasmissione.

Un fatto fondamentale è che con questo tipo di notazione il tempo necessario per scrivere un numero o memorizzarlo in un computer non è proporzionale al numero stesso (come accadrebbe allineando barrette), ma è al confronto sempre più trascurabile (è circa il suo logaritmo) a mano a mano che il numero cresce: allineare 9.876.543.210 barrette, una al secondo, occuperebbe oltre 313 anni, mentre bastano dieci secondi per scrivere questo numero nella forma decimale. Anche le operazioni elementari comportano tempi brevi, non molto superiori a quelli impiegati per memorizzare i dati. Dal punto di vista della complessità computazionale, su cui torneremo più avanti, si parla di complessità polinomiale di queste operazioni.

Il numero non va, tuttavia, confuso con la propria notazione: per quanto comoda per i calcoli con numeri specifici, essa non rispecchia, e anzi può contribuire a nascondere, importanti proprietà generali dei numeri naturali. Tanto per fare un esempio, le cifre di un numero non ne evidenziano la scomposizione in fattori. Si pensi inoltre che la scelta del 10 come base è alquanto arbitraria e dunque non può restituire informazioni intrinseche.

Come evidenziato dalla frase di Kronecker, i numeri naturali si considerano dati a priori; non pretendiamo di definirli. Piuttosto, si sono formulati precisi assiomi che ne regolano la struttura. Qui ricordiamo solo il fondamentale principio di induzione: ogni insieme non vuoto di numeri naturali ha un elemento minimo; è una proposizione facile da accettare, che non tentiamo nemmeno di giustificare.

Un’argomentazione logica ne mostra l’equivalenza con un altro principio: per dimostrare che un teorema matematico è valido per ogni numero naturale n, basta dimostrarlo per n=1, e poi far vedere che se è vero per n allora è vero per n+1. In pratica, se si conosce il caso n=1, quello che conta è il passaggio nn+1 da un numero al successivo, passaggio che genera, a partire da 1, di volta in volta tutti i numeri naturali. Suggestivo è l’enunciato poetico dantesco: «[…] così come raia / da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei» (Paradiso XV, 56-57).

La teoria dei numeri

I numeri naturali sono il materiale matematico di base, ma non per questo si lasciano studiare facilmente; anzi, pare che in un certo senso questa basilarità corrisponda a un’impenetrabilità. Essi sono il primo oggetto di studio della teoria dei numeri, disciplina essenzialmente speculativa che riflette la curiosità e lo stupore da sempre suscitati dai numeri nell’uomo; tant’è che, fin dall’antichità, comparvero nei riti religiosi e furono associati, come nella numerologia, a eventi e previsioni importanti per la vita e alle emozioni umane. I pitagorici erano attratti dai numeri figurati, come i numeri triangolari 1, 3, 6, 10,…, i numeri quadrati 1, 4, 9, 16,…, e così via; negli Elementi di Euclide (attivo attorno al 300 a.C.) comparvero i numeri perfetti (dati dalla somma dei loro divisori, esclusi sé stessi, per es. il numero 6) e i fondamentali numeri primi 2, 3, 5, 7, 11, 13,…, che non possono essere decomposti come prodotto di due fattori più piccoli. Euclide dimostrò che essi sono infiniti e da allora il tentativo di comprendere a fondo le regole con cui si distribuiscono ha stimolato ricerche matematiche della massima importanza e ricaduta; l’ipotesi di Riemann (1859, di cui tralasciamo qui la formulazione tecnica) è direttamente collegata con i numeri primi e viene oggi da molti considerata come la questione matematica centrale. È un fatto fondamentale che ogni numero naturale si può ricostruire in modo unico come prodotto di numeri primi (Euclide). I numeri primi nascondono molti fatti sorprendenti: se p è primo, allora la potenza p-esima di un numero naturale se divisa per p lascia lo stesso resto di quel numero naturale diviso per p (per es., 1913 diviso 13 dà resto 6, come 19 diviso 13); ogni primo del tipo 4m+1 è somma di due quadrati perfetti (per es., 13=4×3+1=22+32).

Queste e altre proprietà furono scoperte da Pierre de Fermat (1601-1665), giudice a Tolosa, ma scienziato importante per diletto e creatore della moderna teoria dei numeri; oltre alle singole scoperte in sé, un suo grande merito è stato avere per primo immaginato e riconosciuto che possano sussistere questi tipi di regolarità nei numeri; infatti, a priori i numeri potrebbero avere una struttura molto più disordinata e non osservabile attraverso enunciati così semplici. Ciò ha aperto la strada a profonde introspezioni e generalizzazioni, sviluppate via via da matematici come Eulero, Joseph-Louis Lagrange, Adrien-Marie Legendre, Carl F. Gauss, e riprese da studiosi contemporanei.

Questioni relative alla teoria dei numeri compaiono anche nello studio dei fenomeni periodici, come i moti planetari o, più semplicemente, lo scorrere delle ore o delle settimane. In questo tipo di problemi ciò che conta non è tanto il numero, quanto il resto che esso lascia se viene diviso per il periodo, detto anche modulo: per es., per sapere quale giorno della settimana sarà 9413 giorni dopo un martedì basterà soltanto trovare il resto di 9413 diviso per il periodo (in questo caso, 7), che risulta essere 5, e utilizzarlo per contare i giorni a partire da mercoledì, arrivando così a domenica. Considerare numeri naturali a meno di multipli di un dato modulo m porta alla nozione delle cosiddette congruenze e dei numeri modulo m. Studiati sistematicamente per la prima volta da Gauss, sono soggetti alle stesse operazioni dei numeri naturali, ma in un certo senso sono ancora più semplici e basilari, benché venuti alla luce più tardi.

Queste costruzioni astratte sono la prova e la conseguenza dell’impatto che il numero ha da sempre esercitato sull’immaginazione umana. A conferma poi di come spesso la conoscenza abbia ricadute imprevedibili, diremo che, inaspettatamente, alcuni studi originariamente motivati da pura curiosità intellettuale si sono oggi rivelati di grande importanza nel mondo reale, per es. affrontando problemi legati alla trasmissione di dati su larga scala, su cui torneremo. Nel frattempo, la teoria dei numeri si è sviluppata in direzioni sorprendenti, studiando molte altre proprietà dei numeri e avvicinandosi a (e avvicinando) campi di studio matematico che sembravano distanti.

Contare e misurare

Oltre che a contare, i numeri servono per misurare, due operazioni concettualmente legate: si misura una lunghezza contando quante volte questa contiene un’unità di misura (scelta convenzionalmente). Nella Grecia antica un numero si concepiva geometricamente come lunghezza su una retta; e anche oggi questa visualizzazione rappresenta un importante punto di vista. Anche le quattro operazioni algebriche hanno un chiaro significato geometrico: un’addizione (o una sottrazione) corrisponde alla giustapposizione di due segmenti; un prodotto di due quantità rappresenta l’area di un corrispondente rettangolo e la divisione si può ricondurre a una similitudine fra triangoli. Abbiamo qui una prima rudimentale corrispondenza tra algebra e geometria.

Pensando a una retta, immediatamente sorge l’idea di procedere in entrambi i sensi e ciò porta al concetto di numeri interi relativi: …, 2, 1, 0, 1, 2,…; rispetto ai numeri naturali, a essi si attribuisce un segno, che rappresenta un verso, e un cambio di segno corrisponde a un ribaltamento. Tutto ciò consente anche di dare significato ad arbitrarie operazioni di sottrazione. In tale rappresentazione, tuttavia, l’unità di misura non è sufficiente per misurare esattamente lunghezze qualsiasi: nasce dunque spontanea l’idea di dividerla in (molte) parti uguali, per aumentare la precisione, un po’ come in una riga graduata. Dividendo l’unità in q parti e prendendo p di queste parti si ottengono le frazioni p/q (p, q numeri interi, e q≠0), dette numeri razionali. Questi numeri, al variare di p e q, sono sufficienti per misurare con precisione arbitraria ogni lunghezza assegnata; si esprime ciò dicendo che i numeri razionali sono densi sulla retta.

Per quanto riguarda la precisione, le esigenze umane si sono ovviamente evolute nel tempo: a fronte delle misurazioni rudimentali, per quanto ingegnose, dell’antichità (Eratostene, 276-272 a.C. circa - 196-192 a.C. circa, misurò la circonferenza terrestre con un errore che i più pessimisti stimano attorno al 14%), i comuni GPS (Global Positioning Systems) montati su molte automobili sono sensibili a minuscoli effetti relativistici e i prossimi telescopi spaziali saranno in grado di visualizzare una monetina sulla Luna, mentre, per quanto riguarda le misure di tempo, nella fisica moderna si riescono a valutare agevolmente intervalli inferiori al centomiliardesimo di secondo.

I numeri razionali bastano per ogni esigenza pratica di misurazione; ciò nondimeno, viene da chiedersi se in effetti essi possano misurare esattamente ogni lunghezza, ossia se ogni punto sulla retta sia rappresentato da una frazione razionale, o ancora se tutte le lunghezze siano commensurabili tra esse. Fu la geometria a far comprendere che non è così: il teorema di Pitagora, per cui vale c2=a2+b2 per i tre lati di un triangolo rettangolo, suggerisce l’estrazione di radice quadrata come quinta operazione, allo scopo di ottenere

Formula

da a e b; ebbene, già nel caso semplice a=b=1, otteniamo il numero

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per la diagonale di un quadrato unitario; i pitagorici, con sorpresa, riconobbero questo numero, incommensurabile con il lato del quadrato, come diverso da qualsiasi frazione. Per rendercene conto, osserviamo che se

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fosse uguale a p/q, con p, q numeri naturali, allora avremmo anche l’uguaglianza

Formula

infatti,

Formula

,

da cui

Formula

Avremmo quindi un denominatore pq più piccolo di q ma, partendo con un denominatore minimo q, si ottiene una contraddizione! Un ragionamento analogo vale per il numero

Formula

,

ossia la celebre sezione aurea (la ‘divina proporzione’ di Luca Pacioli). Un rettangolo nella proporzione Φ:1 era considerato esteticamente perfetto; Φ è legato ai numeri di Fibonacci 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21,…, ognuno somma dei due che precedono, i cui rapporti consecutivi si avvicinano velocemente a Φ. Questi numeri si ritrovano in molti ambiti, come, per es., nella matematica, nell’arte (esemplari alcuni dipinti di Piet Mondrian) e anche nella regola di crescita di certe piante.

Stabilito che esistono lunghezze non esprimibili come frazioni razionali dell’unità di misura, diciamo che esse rappresentano numeri irrazionali. I numeri, razionali o irrazionali, corrispondenti ai punti della retta si chiamano numeri reali, e costituiscono quel che si dice il completamento dei razionali; gli antichi non ne avevano una chiara nozione, e fu solo nel 19° sec. che questa venne esplicitata (per es., con la teoria di Richard Dedekind).

Anche per i numeri reali vale una rappresentazione, o sviluppo, decimale, detto altresì digitale. L’idea è analoga a quella dei numeri naturali, ma in questo caso si usano cifre anche per la decima, centesima, millesima,..., parte dell’unità. Queste cifre si scrivono dopo una virgola, che le separa da quelle per le unità, decine, centinaia e così via. Tuttavia, vi è un cambiamento importante: la rappresentazione di alcuni numeri non termina, vi sono infinite cifre. In pratica, considerando un numero finito, ma sempre più grande, di cifre, ci si avvicina sempre di più al numero in questione; dietro a tale procedimento vi è l’importante idea matematica di limite. Vediamo quindi che il concetto di numero reale ci porta lontano rispetto a quello dei numeri naturali: già un singolo numero reale contiene l’idea di infinito. Inoltre, dal fatto che i numeri razionali hanno sempre uno sviluppo di cifre finito o periodico è facile capire che esistono i numeri irrazionali: basta produrre una successione infinita ma non periodica di cifre. I greci non se ne accorsero perché non possedevano il concetto di limite, né utilizzavano le cifre, ma ragionavano geometricamente. Aggiungiamo che la distribuzione delle cifre di numeri come

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è comunque tuttora molto misteriosa.

In parziale analogia con questa rappresentazione dei numeri reali come limiti, mediante successioni di cifre, Kurt Hensel concepì, nel 20° sec., i numeri p-adici; essi si definiscono a partire da un numero primo p e dai numeri modulo p, p2, p3,… (ossia dalle congruenze). Per questi numeri, molto utili in matematica, esiste una nozione di distanza p-adica, diversa da quella usuale.

Numeri per descrivere il mondo

Dal 17° sec. Cartesio introdusse le coordinate: come i numeri reali corrispondono ai punti di una retta, le coppie (o terne) di numeri reali corrispondono ai punti di un piano (oppure di uno spazio tridimensionale). Si trattò di un’idea semplice ma rivoluzionaria, che permetteva di tradurre in numeri ogni problema geometrico e che rivelava quanto fosse profondo il legame tra algebra e geometria; difficili problemi geometrici venivano ricondotti senza bisogno di intuizione a equazioni numeriche, che spesso si potevano risolvere sistematicamente in modo meccanico e, inoltre, senza il rischio di errori di visualizzazione.

Le coordinate si possono poi usare anche in spazi con più di tre dimensioni, per es. per rappresentare con un sistema numerico lo stato di un sistema fisico. Da qui può nascere, provocatoriamente, l’ambizione di digitalizzare il mondo, traducendo tutte le informazioni in numeri. Per certi versi, è proprio quello che la nostra civiltà ha iniziato a fare, per es., archiviando i dati (anagrafici, bancari ecc.), predisponendo reti elettroniche di comunicazione e consultazione. Anche le simulazioni al computer sono il frutto di analisi numeriche altamente sofisticate. Questa idea in effetti si presentò ben prima dell’avvento dei calcolatori: le leggi fisiche e matematiche formulate da Isaac Newton e dai suoi successori sembrarono poter essere il mezzo per prevedere, in linea di principio, l’evoluzione dell’Universo a partire dalla conoscenza numerica della posizione e della velocità di ogni singola particella in un dato istante; ciò perché, a partire dai dati numerici iniziali, le equazioni che regolano l’evoluzione hanno soluzione unica. Questa concezione deterministica fu però smontata quando si comprese che al livello delle particelle elementari il concetto di posizione-velocità non è nemmeno definibile. Inoltre, nell’infinitamente piccolo, è ben possibile che la complessità cresca al punto che gli stessi numeri reali non siano più sufficienti nemmeno teoricamente a descrivere la geometria soggiacente alla realtà fisica.

Tuttavia, nella pratica, malgrado queste limitazioni, l’evoluzione dei sistemi fisici s’interpreta ugualmente con i numeri; tutte le leggi note della fisica sono (direttamente o indirettamente) formulabili con funzioni numeriche, il che, tra l’altro, ha condotto a una simbiosi tra fisica e matematica, estremamente fruttuosa. E nel mondo reale i numeri funzionano talmente bene che ne abbiamo continui esempi. Tanto per sceglierne uno, si pensi ai successi delle missioni spaziali: al di là di una loro probabile ‘utilità’ per le società del futuro, queste forniscono anche una meravigliosa dimostrazione di come le leggi fisiche implementate con formule e calcoli numerici non siano sterili speculazioni, ma invece si accordino in piena armonia con certi aspetti della natura. Combinando poi le leggi deterministiche con modelli probabilistici, si ha una concreta possibilità di ottenere buoni risultati utilizzando i numeri per prevedere l’evoluzione di sistemi fisici, anche laddove la complessità sia tale da non permettere un’analisi numerica completa e deterministica, per es. nella meteorologia.

Di questo importante settore della matematica, nato anche da problemi sul gioco d’azzardo, ricordiamo solo la legge dei grandi numeri, che grosso modo prevede la distribuzione degli esiti di esperimenti ripetuti un grande numero di volte, quantificando inoltre le distribuzioni di probabilità degli errori di previsione. Visto il successo di queste applicazioni della matematica, e tenendo anche conto che siamo solo in una fase iniziale di questi sviluppi, una realtà numerica, digitale, non sembra in fondo tanto lontana dalla realtà fisica. Questi numeri che noi abbiamo inventato rappresentano molto fedelmente una parte del mondo, a un livello in fondo stupefacente: dopotutto, i fenomeni naturali accadono senza bisogno dei numeri e il nostro stesso cervello non assimila, pare, i dati in modo digitale.

Numeri e geometria

Il legame algebro-geometrico stabilito dalle coordinate cartesiane contribuì anche a chiarire alcune interessanti questioni sollevate anticamente dai greci, riguardanti le costruzioni con riga e compasso. Alludiamo a problemi quali: costruire un poligono regolare con un numero assegnato di lati, oppure un cubo di volume doppio di un cubo dato (duplicazione del cubo), o ancora, costruire un quadrato di area uguale a quella di un cerchio dato (quadratura del cerchio). Per costruire s’intende che possono essere usati solo una riga e un compasso (idealmente perfetti, naturalmente). Benché si sapessero eseguire molte costruzioni naturali (come dividere un segmento in parti uguali, o duplicare il quadrato), i problemi citati e altri analoghi restarono a lungo senza risposta. Traducendoli però in un linguaggio algebrico mediante l’utilizzo delle coordinate, si comprese l’importanza dei numeri che esprimono le lunghezze in questione, detti numeri costruibili se sono ottenibili con riga e compasso. Ora, riga e compasso individuano rette e cerchi, e le coordinate cartesiane mostrano che le rispettive intersezioni corrispondono algebricamente a soluzioni di equazioni quadratiche. Da ciò segue che le coordinate dei punti che via via compaiono in una siffatta costruzione sono precisamente i numeri che si possono ottenere (a partire dai numeri naturali) con iterazioni arbitrarie delle quattro operazioni e della radice quadrata; per es., i numeri

Fornula

sono costruibili, e così pure

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numero legato al poligono regolare di 17 lati, costruito per la prima volta dal giovane Gauss; il numero uguaglia il valore trigonometrico 2cos(2π/17).

Queste ricerche contribuirono a un profondo sviluppo dell’algebra e a nuove comprensioni sui numeri. Si è detto che le intersezioni tra una retta e un cerchio conducono a equazioni di secondo grado: ciò corrisponde al fatto che l’intersezione consiste al più di due punti; talvolta l’intersezione consta di un solo punto, e altre volte ancora retta e cerchio non si intersecano affatto. Se si esprime algebricamente quest’ultima situazione mediante le coordinate, si trova un’equazione quadratica senza soluzioni, come, per es., x2=−1: non esiste, infatti, alcun numero reale il cui quadrato sia negativo. Esiste, tuttavia, la situazione geometrica che origina l’equazione, e possiamo pensare che sia essa a rappresentare le ‘soluzioni’, che sono solo ‘immaginarie’. Considerazioni dapprima vaghe, forse anche simili a queste, convinsero a poco a poco ad accettare questo tipo di soluzioni ‘impossibili’, e portarono a concepire i numeri complessi. Essi si scrivono nella forma

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,

dove a, b sono ordinari numeri reali e

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si può pensare come un simbolo che stia a rappresentare una soluzione di x2=−1, ossia che verifica l’uguaglianza

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,

spesso indicato con la lettera i. Si può operare con questi numeri con le usuali regole e proprietà (come le proprietà commutativa e distributiva). L’iniziale diffidenza per i numeri complessi svanì soprattutto quando Gauss mostrò come essi si possano pensare come punti del piano (allo stesso modo in cui i numeri reali corrispondono ai punti della retta). Un fatto importante e sorprendente è che i numeri complessi sono sufficienti per risolvere qualsiasi equazione algebrica; in altre parole, i numeri reali e l’equazione x2=−1, alquanto speciale, bastano per risolvere tutte le altre equazioni, di grado arbitrario. I primi risultati in tal senso si ebbero con le formule per l’equazione cubica, pubblicate per la prima volta da Gerolamo Cardano (1501-1576).

Numeri algebrici

Per quanto si è detto, i numeri costruibili risultano in particolare numeri algebrici: questi ultimi, per definizione, sono i numeri (reali o complessi) ottenibili dai numeri naturali per mezzo soltanto di operazioni algebriche (dirette o inverse); ossia, essi sono soluzione di qualche equazione algebrica, i cui coefficienti siano numeri interi (intendiamo, per es., equazioni come 2x5−6x4+12x2+7x−3=0, che ha grado cinque e coefficienti 2, 6, 12, 7, 3). Per es., i numeri razionali sono algebrici, e così il numero irrazionale

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,

che verifica l’equazione x2−2=0, e pure il numero complesso

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,

soluzione di x2=−1; il numero di Gauss, sopra evidenziato, verifica un’equazione un po’ complicata di grado (minimo) otto. Tuttavia, non tutti i numeri algebrici sono costruibili: infatti si vede che questi ultimi verificano equazioni il cui minimo grado è sempre del tipo 1, 2, 4, 8, 16,…, ossia una potenza 2m di 2. Per contro, esistono numeri algebrici di qualsiasi minimo grado assegnato. Per es., il problema di duplicazione del cubo porta a costruire un segmento di lunghezza

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questo numero, detto talvolta numero di Delo, verifica l’equazione x3=2 di grado tre, e si può dimostrare che non verifica equazioni di grado inferiore. Se ne deduce che, pur essendo un numero algebrico, esso non è costruibile, e pertanto la duplicazione del cubo non si può eseguire con riga e compasso. Analogamente, si può vedere che non è possibile costruire un poligono regolare di 7 lati, mentre uno di 17 lati sì, come fece Gauss; in generale un poligono regolare con un numero primo N di lati è costruibile se, e solo se, N è un numero di Fermat, ossia del tipo 22n+1. Fermat aveva ipotizzato che tutti questi numeri fossero primi, come accade per n=0, 1, 2, 3, 4, ma per n=5 Eulero trovò 232+1=429.467.297=641×6.700.417 e da allora non si è trovato alcun altro primo di Fermat. Questa congettura di Fermat, nonostante sia clamorosamente falsa, è però stata pertinente appunto nelle costruzioni con riga e compasso.

I numeri algebrici si sono rivelati di fondamentale importanza anche per questioni che riguardano soltanto i numeri naturali; il celebre problema di Fermat (solo recentemente risolto) sui numeri potenza n-esima che sono somma di due numeri dello stesso tipo, ha condotto allo sviluppo di concetti per i numeri algebrici analoghi a quello di numero primo, con la creazione dei numeri ideali, che ha avuto conseguenze imprescindibili in tutta l’algebra. In queste fruttuose evoluzioni si è anche più di recente compreso che la struttura dei numeri algebrici presenta molte somiglianze con strutture geometriche in apparenza molto lontane: i numeri primi e gli ideali primi nei campi di numeri algebrici si possono vedere come punti su curve, e i singoli numeri algebrici diventano funzioni su queste curve.

Un altro fatto interessante è che i numeri algebrici consentono operazioni esatte. Per chiarire, pensiamo dapprima ai numeri interi: usando, per es., le cifre e le operazioni, possiamo individuare in modo non ambiguo un numero intero attraverso un’espressione come 285−13×6, o anche molto più complicata, e possiamo verificare se un numero espresso in forma diversa sia o non sia uguale al precedente, per es. 9×23 (in questo caso i numeri sono effettivamente uguali a 207). Ebbene, analogamente è possibile individuare in modo non ambiguo un numero algebrico mediante un numero finito di operazioni e disequazioni algebriche, ed è possibile decidere se due numeri algebrici assegnati (con espressioni diverse) siano o non siano uguali. Questo può sembrare ovvio, ma a priori non lo è affatto, e anzi vedremo che per numeri più generali non è nemmeno vero. A titolo di esempio, chiediamoci se il numero algebrico

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sia irrazionale, o intero; o se uguagli

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,

oppure 6; sarà vera una tra queste alternative?

Numeri trascendenti

Abbiamo ricordato che l’esistenza dei numeri irrazionali è stata riconosciuta attraverso

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siccome questo numero è algebrico, si apre la questione se tutti i numeri reali siano algebrici. Le conoscenze antiche non erano abbastanza evolute, anche soltanto per concepire questo problema. Più avanti, il concetto di limite e le funzioni trascendenti dell’analisi matematica (come le funzioni trigonometriche, esponenziali, logaritmiche) condussero alla considerazione di numeri definiti in modo non geometrico o algebrico; per es., il calcolo iterato degli interessi composti su un capitale porta al numero di Nepero

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E, come si è osservato, già una scrittura decimale infinita definisce un numero soltanto come limite di approssimazioni successive; è questo un caso di serie convergente, in cui si sommano infiniti addendi che diventano sempre più piccoli; bellissimi esempi storicamente rilevanti sono la serie di Leibniz per il numero π/4=1−(1/3)+(1/5)−(1/7)+…, o il calcolo di Eulero 1+(1/4)+(1/9)+(1/16)+(1/25)+…=π2/6 o ancora, le serie di Taylor per le funzioni analitiche, come senx=x−(x3/6)+(x5/120)+… e via dicendo. Questi sviluppi individuano sì dei numeri, ma comportano infinite operazioni elementari, al contrario di quanto accade definendo un numero intero con le sue cifre, o un numero algebrico con un’equazione. Ciò nondimeno, questo non esclude che numeri definiti con procedimenti infiniti si rivelino alla fine razionali o tutt’al più algebrici: per es., la somma infinita 1+(2/5)+(2/5)2+(2/5)3+… è uguale a 5/3.

Soltanto nel 1844 la questione fu chiarita: Joseph Liouville (1809-1882) dimostrò l’esistenza di numeri trascendenti, ossia non algebrici, che trascendono l’algebra. Dando inizio a un filone di ricerca ancora oggi molto importante, egli comprese che, benché ogni numero reale si possa approssimare con precisione arbitraria con numeri razionali, per i numeri algebrici questa precisione (in un particolare significato che qui non esplicitiamo) non può essere troppo accurata rispetto alla grandezza dei denominatori delle frazioni approssimanti. Per es., se approssimiamo

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con la frazione razionale p/q (p, q numeri naturali) si riesce a dimostrare che l’errore dato da

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non può essere inferiore a 1/(4q2). Per contro, è facile esibire numeri che ammettono approssimazioni così eccellenti da violare questo principio: ne segue che questi numeri devono essere trascendenti. Un esempio è il numero di Liouville 0,10100100000010…, in cui le file di zeri hanno lunghezza 1, 2, 2×3, 2×3×4 e così via. Questo numero, benché del tutto esplicito, è però costruito ad hoc; cosa dire invece di numeri che compaiono naturalmente nella matematica per motivi indipendenti? Quali sono algebrici e quali trascendenti? Progressi fondamentali furono compiuti da Charles Hermite (1822-1901) che, nel 1874, mostrò che il numero di Nepero e è trascendente; nel 1882, Ferdinand von Lindemann (1852-1939), seguendo metodi analoghi, fece lo stesso per il numero di Archimede π, comparso già nell’antichità (anche se non con questo simbolo) e definito come rapporto di una circonferenza con il proprio diametro, o, come mostrò Archimede, come l’area di un cerchio di raggio unitario. La trascendenza di π implica in particolare che esso non sia un numero costruibile; da ciò si deduce l’impossibilità della quadratura del cerchio, annosa questione eretta a simbolo di problema impossibile anche nel linguaggio corrente.

I problemi che cercano di stabilire se un dato numero sia o non sia trascendente si sono rivelati ardui, e restano aperte molte celebri questioni, come la trascendenza del numero di Eulero, così definito

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Ricordiamo la dimostrazione di trascendenza del numero eπ e di

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da parte di Aleksandr O. Gelfond (1906-1968) e, indipendentemente, di Theodor Schneider (1911-1988), avvenuta nel 1934, con cui venne risolto il celebre VII problema di Hilbert. Notiamo anche che talvolta certi numeri, pur trascendenti, sono legati da relazioni sorprendenti: un famoso esempio è l’equazione di Eulero eiπ+1=0, che coinvolge in modo semplice cinque numeri fondamentali: 0, 1, i, e, π. Considerando che questi numeri sono stati definiti individualmente in modo indipendente, è davvero singolare che esista una formula così essenziale, inevitabile e universale, che li mette in relazione.

Contare i numeri

Un’altra dimostrazione dell’esistenza dei numeri trascendenti risultò come corollario delle idee rivoluzionarie di Georg Cantor (1845-1918), che contò i numeri. Questo fatto può sembrare paradossale, poiché i numeri naturali sono già infiniti; ma il concetto di infinito è di quelli impenetrabili, che riservano sorprese. Per es., un insieme infinito ha la strana proprietà di potersi mettere in corrispondenza biunivoca con un suo sottoinsieme più piccolo, come accade con i numeri naturali, che sono in corrispondenza biunivoca con il sottoinsieme dei numeri pari mediante l’associazione n↔2n. Cantor intuì che esistono tipi diversi di infinito, ossia certi insiemi sono più infiniti di altri. In particolare, egli mostrò che, al contrario di quelli naturali, i numeri compresi tra 0 e 1 non possono essere enumerati in una lista, seppure infinita. In altre parole, qualunque lista lascerà fuori qualche numero tra 0 e 1. Perché mai? Ecco in sintesi il ragionamento di Cantor: consideriamo una tale ipotetica lista, per fissare le idee, 0,256…, 0,35617…, 0,5142097…, 0,47209267… e via dicendo. A questo punto, costruiamo un numero come segue: scegliamo la prima cifra (dopo la virgola) diversa da 2, la seconda diversa da 5, la terza diversa da 4, la quarta diversa da 0,..., ossia la k-esima cifra diversa dalla k-esima cifra del k-esimo numero della lista. Un tale numero deve essere diverso da tutti quelli della lista e dunque non vi è incluso. La terminologia tecnica esprime questa conclusione affermando che l’insieme dei numeri reali non è numerabile.

Questo semplice e ingegnoso ragionamento di diagonalizzazione fu ripreso in tante questioni (anche da Bertrand Russell nel suo celebre paradosso sugli insiemi che contengono sé stessi). Dal momento che era possibile mostrare che i numeri algebrici si possono invece enumerare in una lista (per es., le frazioni razionali si possono enumerare come 0/1, 1/1, 2/1, 1/2, 3/1, 1/3, 4/1, 1/4, 3/2, 2/3, 5/1,…), ne risultava inoltre che qualche numero tra 0 e 1 doveva essere trascendente. Una dimostrazione, quindi, prodigiosa, con il difetto di non essere costruttiva (essa non produce nemmeno un esempio di numero trascendente, al contrario di ciò che avviene con la dimostrazione di Liouville) e il pregio di mostrare che, in un certo senso, ci siano più numeri trascendenti che numeri naturali o numeri algebrici.

L’attività di Cantor si sviluppò molto oltre queste idee. Egli costruì un’intera teoria degli insiemi infiniti, o se si vuole dei numeri infiniti; a partire dal concetto di ordinamento numerico (ci sono numeri maggiori di altri), definì i numeri ordinali finiti e infiniti, e operazioni tra essi analoghe a quelle che esistono tra i numeri interi usuali (ma anche con importanti differenze). Queste teorie furono ulteriormente riconsiderate: per es., John Conway (n. 1937) ha creato una sua teoria dei numeri infiniti, definendo i numeri surreali, che stanno ai numeri ordinali un po’ come i numeri reali stanno ai numeri interi.

Tornando al contesto dei numeri reali, Cantor mo;strò anche che i punti del piano (espressi mediante coordinate da coppie di numeri) si possono mettere in corrispondenza biunivoca con i numeri (o punti) della retta; in altre parole, l’infinito della retta è dello stesso tipo di quello del piano, cosa forse inaspettata a prima vista. Peraltro, vi sono altre proprietà spaziali, non invarianti per corrispondenze biunivoche, che distinguono la retta dal piano. Queste proprietà sono oggetto di studio della topologia, costruita sul concetto di continuità; nel caso della retta, ossia del sistema dei numeri reali, la continuità esprime il fatto intuitivo che non vi sono buchi o interruzioni. Gli spazi studiati in topologia sono infiniti e (come per la retta e il piano) per distinguerli non basta contarli, nemmeno nel senso esteso di Cantor; ciò nondimeno vi saranno ancora dei numeri a esprimerne certe caratteristiche. Pensiamo, per es., alla dimensione, che rappresenta l’ampiezza dello spazio studiato, ove si tenga conto della continuità: la retta e il cerchio hanno dimensione 1, il piano e la superficie sferica 2, e così via; il numero dimensione conta i gradi di libertà di movimento piuttosto che gli elementi dell’insieme ed esprime qualcosa che va oltre il tipo di infinito.

Computabilità ed effettività

Il concetto di infinito, sorto parallelamente ai numeri, si sviluppa assieme al concetto di numero. Ciò che è finito appare alla portata; al contrario, non possiamo pienamente comprendere un insieme infinito: possiamo tutt’al più analizzarne certe proprietà. Parte della bellezza e della forza dei teoremi matematici deriva dal fatto che essi prevedono cosa accade in infinite situazioni di un certo tipo, che non potremmo mai enumerare e analizzare una a una. In effetti, già considerando numeri molto grandi siamo così vicini all’infinito che la situazione sfugge. Questi pensieri, decisamente vaghi, assumono forma più concreta quando si pensi alle ricerche sull’effettività di una teoria matematica e sulla relativa complessità computazionale: anche laddove un problema venga ricondotto a un numero finito di casi, può essere importante, sia concettualmente sia per applicazioni pratiche, che questi casi possano essere tutti verificati.

Un primo passo fondamentale, di natura concettuale, in questa direzione è sapere quante e quali verifiche siano in linea di principio necessarie. Non sempre questo è possibile, e si parla allora di ineffettività. Tra molti possibili esempi di conclusione in termini finiti, ma ineffettiva, scegliamo il caso dei numeri idonei, particolari numeri naturali già considerati da Eulero, rilevanti nel contesto della fattorizzazione dei numeri algebrici quadratici. Ebbene, si è dimostrato che i numeri idonei non sono infiniti. Anzi, se ne conoscono 65 (di cui il più grande è 1848) e si sa che ne esiste al più un altro; dunque, in un certo senso il problema di descriverli può considerarsi risolto a uno stadio soddisfacente. Tuttavia, non è noto, nemmeno in linea di principio, un metodo per decidere se un ulteriore eventuale numero idoneo esista davvero, per quanto grande sia la mole di calcoli: specificato che sia un numero, è possibile sì verificare (in tempo finito) se esso sia o non sia idoneo, ma non potendo eseguire un tale test per tutti i numeri non sappiamo e, soprattutto, non disponiamo di alcun metodo per sapere quale sia il più grande numero idoneo.

Ammesso invece che il problema matematico in questione ammetta soluzione effettiva, il secondo passo è quello di eseguire concretamente le verifiche necessarie; ciò è senz’altro importante nella tecnologia, ma anche per eventuali applicazioni matematiche del risultato cercato. Tuttavia, il numero di operazioni necessarie, quantunque finito, potrebbe essere tanto grande da eludere la potenza di qualsiasi computer. Per ridurre i tempi di calcolo si sono sviluppate teorie molto complesse e anche concettualmente profonde. Problemi di alto interesse provengono dalla comunicazione elettronica: per es., scambiare dati tra un grande numero di utenti e proteggere la segretezza di questi dati con sistemi crittografici avanzati. La crittografia venne rivoluzionata negli anni Settanta del Novecento con il concetto di chiave pubblica: tutti gli utenti conoscono il metodo con cui un messaggio viene codificato. Può sembrare che in tal modo la segretezza svanisca, ma l’idea è che talvolta computare la decodifica, benché possibile, possa comportare tempi troppo lunghi tranne che per chi abbia un’altra chiave apposita, questa sì segreta. Si pensi a un elenco telefonico: dato il nome di un utente, se ne ricava subito il numero, mentre l’operazione inversa, benché accessibile a tutti, può risultare troppo lunga per chi non possieda un elenco rovesciato. Alcuni sistemi a chiave pubblica assai semplici e, nello stesso tempo, efficienti poggiano sul fatto che è molto complesso scomporre in fattori (primi) un numero assegnato, mentre è facile moltiplicare due numeri naturali; questa differenza di complessità computazionale fra le due operazioni inverse moltiplicazione-scomposizione consente di creare una chiave pubblica sicura, almeno fino a quando qualcuno troverà un criterio per fattorizzare numeri molto grandi che sia veloce più o meno come la moltiplicazione. Con i sofisticati metodi della teoria dei numeri si riesce attualmente a fattorizzare un numero al massimo di circa 180 cifre nel giro di qualche mese (il metodo rozzo di eseguire le divisioni per i numeri inferiori sarebbe generalmente impraticabile anche con numeri di sole 20 cifre). In casi speciali, come i numeri di Mersenne (quelli del tipo 2p−1), si arriva a milioni di cifre. Tuttavia, già con numeri generici di 500 cifre i tempi di fattorizzazione sono attualmente troppo lunghi, motivo per cui una tale chiave pubblica potrebbe essere considerata sicura.

Il problema di fattorizzare numeri in tempi rapidi è molto interessante e, come si è detto, importante. Non soltanto non si conosce un metodo generale con complessità polinomiale, ma non si sa nemmeno se possa esistere. Si è ipotizzata l’esistenza di possibili metodi di soluzione mediante l’utilizzo dei cosiddetti computer quantistici, ma ancora non sono a disposizione risultati concreti.

A tale proposito è molto curiosa l’esperienza del celebre neurologo inglese Oliver Sacks (n. 1933), il quale raccontò di due gemelli con grave ritardo mentale che giocavano fra loro a scomporre in fattori primi numeri molto grandi; Sacks restò stupefatto quando lo scoprì, e tentò di inserirsi nel gioco. I gemelli arrivavano a produrre numeri primi di 20 cifre, cosa non facile nemmeno disponendo di un computer, a meno di procedere utilizzando complessi metodi matematici. Come si inserivano allora i numeri nella mente e nella memoria dei gemelli? Domanda affascinante che non trova tuttora una risposta completa e lascia spazio a ipotesi di notevole interesse su quanto i numeri siano davvero naturali e implicitamente presenti nell’organizzazione biologica del pensiero, a prescindere dalle costruzioni astratte umane.

Calcoli impossibili

I numeri sembrano a portata di mano, ma, come abbiamo detto, anche i numeri naturali conducono a questioni di semplice formulazione, a cui però non sappiamo rispondere: i numeri idonei sopra citati ne danno un esempio, che abbiamo scelto tra molti altri. Possiamo anche ricordare il caso delle equazioni diofantee (studiate da Diofanto di Alessandria, nel 250 d.C. circa), in cui si richiede che le incognite siano numeri naturali: Jurij V. Matijasevič (n. 1947) ha dimostrato intorno al 1970 che è impossibile istruire un computer affinché esso possa decidere in tempo finito se un’equazione diofantea assegnata (ma arbitraria) abbia o non abbia soluzioni. Altri problemi ancora della teoria dei numeri hanno resistito a secolari tentativi di soluzione, al punto che qualcuno sospetta che possano essere indecidibili in tempo finito, il che rappresenta una possibilità ben contemplata dalla logica matematica; in questi casi saremmo condannati a una perpetua ignoranza.

Se poi usciamo dall’ambito dei numeri naturali, le cose peggiorano al punto che anche eseguire calcoli esatti con numeri perfettamente individuati può rivelarsi impossibile. Abbiamo sopra ricordato che calcoli esatti si possono fare con i numeri naturali, così come con i numeri algebrici. Se però consideriamo arbitrari numeri reali, definiti quindi da procedimenti come la somma di una serie infinita o altri tipi di limite, diventa problematico anche semplicemente decidere in tempo finito se due dati numeri siano o non siano uguali, pur disponendo di espressioni o formule che individuino in modo non ambiguo due numeri.

Un esempio celebre, a cui in definitiva si può rispondere, ma che ben illustra la natura del problema matematico, viene dal numero

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Calcolando per esso approssimazioni razionali a partire dalla serie esponenziale e da qualche approssimazione per

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e per π, come, per es., la serie di Gregory

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troviamo per difetto

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con un errore minore di 0,0002. Viene il sospetto che il numero sia uguale a 262.537.412.640.768.744, altrimenti la presenza dei quattro 9 sarebbe una bella coincidenza (probabilità a priori 0,0001). Certo sembra molto strano che

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sia un numero intero, ma anche il numero

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ha un aspetto complicato, tuttavia si trova essere ugua;le a 6, e abbiamo già ricordato l’equazione di Eulero eiπ+1=0. Ebbene, con approssimazioni più accurate si aggiungono altri 9, fino a

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A questo punto il sospetto diviene quasi certezza. In effetti, agli scettici si potrebbe chiedere: quanti 9 vi servono ancora per ammettere che il numero è intero? Sennonché, in questo caso gli scettici avrebbero ragione: la cifra successiva è un 2, e i numeri

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e 262.537.412.640.768.744 sono diversi. Tuttavia, c’è da chiedersi come ce la saremmo cavata se si fossero aggiunti altri 9 con un’ulteriore approssimazione. Questo esempio notevole ha una radice profonda nella teoria aritmetica delle funzioni modulari.

La conclusione è che in effetti potrebbe ben accadere di non poter decidere, né in senso affermativo né negativo, un po’ come nel caso dei numeri idonei, o delle equazioni diofantee.

Aggiungiamo una nota positiva: per certe classi ristrette di numeri il dilemma di uguaglianza è invece risolto. Per es., Gelfond ha dimostrato che numeri come

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sono trascendenti (evitando a priori il dilemma di sopra) e Alan Baker (n. 1939) ha molto esteso quei teoremi intorno al 1970; in particolare, egli ha mostrato come decidere se due espressioni del tipo β1logα1+…+βnlogαn (dove α1,…, αn, β1,…, βn sono numeri algebrici) siano o non siano uguali tra loro. Si tratta di risultati apparentemente molto speciali, ma in realtà di primaria importanza e ricaduta. Infatti, in primo luogo i singoli addendi in queste espressioni sono usualmente numeri trascendenti e quindi, come abbiamo tentato di illustrare, stanno in un ambito che spesso sfugge al controllo; inoltre, si è visto che queste conclusioni sui numeri trascendenti hanno profonde conseguenze su altri problemi centrali riguardanti i numeri naturali, per i quali non si conoscevano approcci soddisfacenti. Per es., Baker ha applicato i suoi teoremi a certe classi, speciali ma significative, di equazioni diofantee, per decidere se vi siano o no soluzioni intere, andando in controtendenza rispetto al risultato negativo di Matijasevič.

Fatto strano, ma illuminante e istruttivo: per studiare i numeri naturali è stato prima utile studiare i numeri irrazionali algebrici e poi allontanarsi ulteriormente per studiare quelli trascendenti, tornando poi ai naturali con nuove conoscenze. Una simile ripercussione all’indietro accade spesso in matematica, ed è segno sicuro che l’evoluzione dei concetti e dei problemi collegati è stata naturale e non artificiosa, quasi inevitabile, similmente a come si è detto all’inizio alludendo all’idea di numero.

Bibliografia

A. Weil, Number theory, Boston 1984 (trad. it. Torino 1993).

J.H. Conway, R.K. Guy, The book of numbers, New York 1996 (trad. it. Milano 1999).

Si veda inoltre:

E. Bombieri, L’infinito matematico, in corso di pubblicazione, reperibile su http://www.math.it/eventi/BOMBIERI.pdf (22 luglio 2010).

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