NUOVI RAPPORTI TRA ECONOMIA E PSICOLOGIA

XXI Secolo (2009)

Nuovi rapporti tra economia e psicologia

Roberta Patalano

Premessa

«Capire le persone normali»: questa è, secondo Colin Camerer (2003), una tra le maggiori sfide della ricerca economica contemporanea.

Se l’esortazione può suonare scontata all’orecchio dei profani, tale non è per gli economisti i quali tradizionalmente si sono mossi entro un quadro teorico vicino alle idealizzazioni, piuttosto che alla normalità. Attore dei modelli economici standard è infatti un soggetto ideal-tipico, l’agente rappresentativo, che si ritiene riassuma in sé le caratteristiche rilevanti di tutti gli individui operanti nel mercato.

In termini semplici, fare riferimento all’astrazione dell’agente rappresentativo – noto anche come Homo œconomicus – significa tarare la teoria non su come le persone effettivamente siano, ma piuttosto su come è l’unico individuo ideale preso a riferimento. Questa operazione concettuale persegue l’obiettivo di semplificare l’analisi e si fonda sull’ipotesi che astrarre dalla soggettività e dalle imperfezioni dei singoli non tolga significato ai risultati della ricerca. La grande rivoluzione che i nuovi rapporti tra economia e psicologia stanno contribuendo a generare trae origine dalle falle di questa ipotesi.

Molti economisti oggi non cercano più di capire cosa sceglierebbe o come agirebbe un soggetto fit-tizio, ma piuttosto sono interessati a comprendere perché gli esseri umani, nella loro complessità, limi-tatezza e reciproca differenza, si comportino in determinati – e osservabili – modi.

Per procedere in questa direzione, da un lato, l’economia si è aperta all’interazione con altri campi di studio, in particolare con la psicologia e le neuroscienze; dall’altro lato, gli economisti hanno sviluppato un rigoroso lavoro di analisi sul campo, che è basato sull’osservazione diretta dei comportamenti in esperimenti controllati (Novarese, Rizzello 2004; Handbook of contemporary behavioral economics, 2006). L’attività sperimentale, tipica della psicologia, ma ormai diffusa anche nella ricerca economica, non modifica il problema di fondo: sviluppare una teoria in grado di interpretare la vasta mole di dati ottenuti in situazioni di laboratorio che vedono interagire esseri umani (e non soggetti astratti).

Il premio Nobel per l’economia attribuito nel 2002 allo psicologo Daniel Kahneman incanala la ricerca verso un aspetto chiave, rappresentato dal funzionamento della mente. Nella sua prolusione, Kahneman pone a fondamento del discorso sul comportamento degli agenti la comprensione dei loro meccanismi di ragionamento, saldando in maniera inequivocabile il nesso tra mente ed economia. Questo nesso, d’altra parte, è già presente nell’opera di alcuni importanti economisti del passato, tra i quali Alfred Marshall, Friedrich August von Hayek, Thorstein B. Veblen, Carl Menger, Kenneth Boulding, George Lennox Sharman Shackle e Herbert Simon, sebbene solo nell’ultimo ventennio sia stato riscoperto e valorizzato dal programma di ricerca dell’economia cognitiva o behavioral economics (Cognitive economics, 2004).

In tale ambito teorico, un passo fondamentale e in buona parte già compiuto riguarda il ridimensionamento del ruolo onnivoro della razionalità.

Nell’approccio ortodosso alle decisioni, la razionalità è l’unico strumento cognitivo considerato. Basandosi sul suo impiego, Homo œconomicus è sempre in grado di massimizzare la propria utilità di fronte all’orizzonte delle scelte. In particolare, si ritiene che egli possa esaminare in modo lucido e completo le informazioni a propria disposizione, individuando tutte le possibili alternative decisionali e le rispettive conseguenze, per poi scegliere l’opzione che gli garantisce il beneficio massimo. Un comportamento così articolato è definito razionale.

I lavori di Simon nella seconda metà del Novecen-to hanno fatto scricchiolare questa rappresentazione di razionalità ipertrofica e sovrumana, evidenziandone i limiti. Amartya Sen ha definito idioti razionali gli agenti dotati di capacità computazionali e logiche, ma poveri di qualsiasi altro meccanismo psichico. Gli sviluppi dei rapporti tra economia, psicologia e neuroscienze negli ultimi anni hanno permesso di compiere un passo ulteriore, evidenziando che la razionalità è solo una delle modalità che la mente ha di operare, in grado di spiegare, da sola, una porzione molto limitata di comportamenti. Piuttosto, se l’economia ha bisogno di rappresentare nel proprio spettro teorico i processi di pensiero degli individui, non può limitarsi a una rappresentazione semplicistica e riduttiva del funzionamento mentale. Essa necessita invece di porre a fondamento dei propri modelli un’architettura cognitiva ricca, che tenga conto esplicitamente delle motivazioni, delle credenze, dei desideri e degli scopi che il soggetto ha rispetto a sé e agli altri (Castelfranchi 2003; Handbook of contemporary behavioral economics, 2006).

L’acquisizione di questa consapevolezza modifica il programma di ricerca degli economisti in varie direzioni, che spaziano dall’esigenza di confronto con altre discipline alla ridefinizione del proprio oggetto di studio, da una trasformazione degli obiettivi da perseguire a un cambiamento negli strumenti impiegati. Alle numerose implicazioni teoriche, si affianca la possibilità di una nuova interpretazione del rapporto tra economia e società, come proveremo a evidenziare nelle conclusioni.

Le rappresentazioni mentali

Nei passaggi dalla realtà alla teoria è sempre necessario operare alcune semplificazioni in termini di rappresentabilità: non tutti gli aspetti della realtà possono far parte dei modelli teorici che aspirano a essere generali. La scelta epistemologica di fondo, che frequentemente consente di distinguere una teoria dall’altra, consiste nell’individuare quali caratteristiche della realtà vanno conservate nei modelli teorici perché funzionali alla loro capacità esplicativa, e quali invece possono essere espunte.

Le scienze cognitive suggeriscono che per comprendere il comportamento degli individui sia necessario includere le loro rappresentazioni mentali nell’impianto della teoria. Per gli economisti attenti a questo messaggio, il legame tra rappresentazioni mentali e comportamento non costituisce una novità assolu-ta, come testimoniano del resto i contributi di Boulding, Shackle e Simon (Patalano 2005). Tuttavia oggi esiste un approccio sistematico a questo tema, sviluppato non più solo attraverso intuizioni pionieristiche di singoli autori, ma nella forma di un programma di ricerca consapevole e interdisciplinare. L’ipotesi di fondo è che i soggetti operanti nel mercato rappresentino a sé stessi il mondo in cui vivono, i propri scopi, le proprie intenzioni, attraverso mezzi e formati che includono pensieri, immagini, schemi e sentimenti; che abbiano sistemi di credenze e opinioni, in parte personali, in parte socialmente condivise; che si collochino in un contesto strutturalmente incerto, ovvero caratterizzato da aspetti fondanti che non sono prevedibili con certezza e spesso neanche in termini probabilistici.

In un ambiente siffatto, gli esseri umani sono guidati dalle proprie rappresentazioni mentali in un duplice senso: in quanto gli obiettivi e le azioni compiute per perseguirli sono influenzati dal contenuto e dal formato delle rappresentazioni; e in quanto il loro comportamento è diretto a risultati che essi si sono prerappresentati nella mente (Castelfranchi 2003). La ricerca recente in merito alla natura di queste rappresentazioni e alle relative conseguenze per le decisioni economiche ha già evidenziato aspetti particolarmente interessanti.

Un primo tema che è emerso all’attenzione degli studiosi riguarda la fallibilità della mente. Gli individui, si è visto, sono inclini a compiere errori cognitivi che non costituiscono eventi occasionali, ma sistematici. Non solo. Quando sbagliamo, tendiamo tutti a sbagliare nello stesso modo. Per es., ci lasciamo fuorviare dal modo in cui le informazioni ci vengono presentate, al punto che variando la modalità di presentazione cambia la nostra interpretazione dei medesimi fatti (effetto cornice). Sugli ‘errori cognitivi’ esiste ormai un’ampia casistica sperimentale (per una discussione generale, v. Ariely 2008).

Una linea di ricerca contigua concerne la tendenza degli esseri umani a imboccare scorciatoie (routine) durante i propri processi di pensiero (prevalentemente nella forma di rappresentazioni mentali semplificate). Si tratta di un tema che Simon aveva già introdotto negli anni Cinquanta, la cui analisi ora si avvale di competenze e strumenti d’indagine nuovi. I progressi della ricerca in questo ambito seguono principalmente due direzioni. Da una parte, il ricorso alle scorciatoie non è più visto soltanto come un sintomo dei limiti intrinseci alle risorse cognitive umane. All’opposto, esso è interpretato come un’espressione della capacità adattiva della mente, che consente agli individui di gestire la complessità dell’ambiente fisico e sociale nel quale vivono semplificandone alcuni aspetti. Questa linea di ricerca, sviluppata soprattutto da Gerd Gigerenzer e collaboratori (Todd, Gigerenzer 2003), si è avvalsa della contaminazione tra economia e psicologia evoluzionista.

La seconda novità consiste nel fatto che lo studio delle routine ha affiancato la ricerca sugli automatismi del pensiero. L’analisi degli economisti aveva rilevato che, per es., le strategie usate per risolvere problemi, una volta apprese, tendono a diventare un’abitudine, vengono cioè riutilizzate ogni qual volta si presenti un problema analogo, o addirittura vengono trasferite da una situazione problematica all’altra, in modo apparentemente meccanico e spesso inconsapevole. Gli psicologi cognitivi hanno evidenziato come la tendenza dei processi mentali a diventare automatici sia molto più generale e pervasiva. In un brillante articolo John A. Bargh e Tanya L. Chartrand (The unbearable automaticity of being, «American psychologist», 1999, 54, 7, pp. 462-79) parlano di «insostenibile automatismo dell’essere» proprio per descrivere quanta parte della vita mentale sia in effetti guidata da consuetudini e meccanismi involontari, che cadono al di fuori del nostro controllo. Questo filone di analisi ha molta affinità con il dibattito sulla conoscenza inconsapevole – e dunque tacita – che ha suscitato l’interesse degli economisti fin dai contributi di Karl Polanyi nel secolo scorso, e che oggi coinvolge studiosi provenienti da ambiti teorici diversi, con applicazioni che spaziano dai processi decisionali, alla natura dell’innovazione, al trasferimento delle tecnologie, ai processi organizzativi, alla teoria delle istituzioni.

Temi di grande rilevanza, ma ancora insufficientemente esplorati, riguardano inoltre le motivazioni e la creatività.

Nella teoria economica tradizionale il concetto di razionalità, quando correttamente interpretato, ha carattere puramente strumentale. Esso non spiega nulla sulle preferenze e sugli obiettivi del decisore: ci dice soltanto che l’individuo, per es. un consumatore, nei più svariati contesti di mercato prende sempre quella decisione che massimizza la sua utilità, subordinatamente ai vincoli che il proprio budget gli impone. Affinché lo strumento ‘razionalità’ si doti anche di contenuto è necessario specificare gli scopi e le motivazioni dell’agente. Gli scienziati cognitivi rimproverano alla teoria economica l’assenza di una trattazione adeguata degli scopi e delle spinte motivazionali (per un approfondimento, v. Castelfranchi 2003).

La letteratura degli ultimi anni comprende vari tentativi di ampliare la prospettiva sul tema. Mentre tradizionalmente gli economisti hanno ristretto il concetto di motivazione agli incentivi di carattere pecuniario, si è fatta strada l’idea che sia necessario prendere in considerazione anche finalità di natura non materiale come, per es., il bisogno di considerazione sociale, l’interesse intrinseco per determinate attività, il piacere della reciprocità negli scambi, il desiderio di non avere rimpianti e altre ancora (Fehr, Falk 2002). Riconoscere l’esistenza di motivazioni interne al soggetto (‘intrinseche’) ha certamente consentito di ampliare l’angolo di indagine.

Sebbene si tratti di un primo importante passo, peraltro supportato da una vasta mole di risultati sperimentali, postulare motivazioni aggiuntive mantenendo inalterato il meccanismo decisionale di fondo non può considerarsi sufficiente. «Una teoria migliore del comportamento umano, individuale e sociale, non dipende soltanto da un migliore spettro degli incentivi umani. […] Una nuova micro-fondazione richiede necessariamente (anche) un differente ‘meccanismo’ che guidi la decisione e l’azione» (Castelfranchi 2003, p. 262). In altri termini, sembra necessario che la ricerca coinvolga le competenze specifiche degli psicologi e lavori alla costruzione di un approccio articolato alle decisioni, in cui le scelte economiche rappresentino l’esito dell’interazione tra spinte motivazionali multiple e spesso in conflitto.

L’altro aspetto certamente significativo concerne l’immaginazione e i suoi legami con i processi di innovazione e creatività. Il lavoro di ricerca sull’immaginazione nei contesti socioeconomici coinvolge questioni legate alla fonte dell’innovazione, all’origine dello spirito imprenditoriale, alla capacità di sviluppare soluzioni nuove per risolvere problemi, alla possibilità di svincolarsi da logiche e percorsi decisionali sedimentatisi nel tempo. Soprattutto, esso investe la possibilità per gli individui di immaginare le situazioni in modo diverso da come sono in quel momento, scavalcando dunque il dato di realtà e accedendo alla possibilità di modificarlo: l’immaginazione è essenziale al cambiamento.

Nella letteratura economica contemporanea l’argomento è ancora poco sviluppato, sebbene i materiali da cui partire per un’analisi più approfondita siano numerosi. Autori di primo piano quali Adam Smith, Marshall, Edith Penrose, Boulding, Shackle, Simon, James March e Cornelius Castoriadis ci hanno lasciato in eredità contributi densi di suggestioni. Tentativi di attualizzare il pensiero di Boulding e Castoriadis, alla luce degli sviluppi che si sono ottenuti in ambito psicologico, hanno fino a ora riguardato la teoria della decisione e i processi di coordinamento (Patalano 2005), l’analisi delle istituzioni e il rapporto con il cambiamento (Patalano 2007).

In tali contributi, l’immaginazione è definita come la capacità della mente umana di produrre rappresentazioni che non si limitano a ritrarre la realtà, ma possono amplificarla, deformarla o trasformarla attraverso l’apporto più o meno consapevole del soggetto pensante. Gli ‘ingredienti’ dei processi immaginativi sono le percezioni attuali dell’individuo e quelle che si sono sedimentate nella sua memoria, in forma di percezioni semplici oppure nella veste più elaborata di pensieri, eventi e associazioni tra idee. Una caratteristica particolarmente importante delle immagini risiede nella loro struttura aperta, che le rende definite ma al tempo stesso suscettibili di cambiamento. In particolare, è possibile cambiare immagine sia se muta il significato attribuito alle percezioni e/o ai ricordi, sia se si modificano gli stati emotivi/affettivi dell’individuo rispetto a ciò che percepisce o richiama dalla memoria. In tale prospettiva, proprio l’emotività acquisisce ruoli fino a pochi anni fa totalmente trascurati dalla letteratura.

La rivalutazione delle emozioni

Nel tentativo dichiarato di assimilare l’economia a una scienza esatta, la teoria economica ortodossa si è mossa in un orizzonte teorico astratto, in cui predominano meccanismi di decisione/comportamento puramente logici e formalizzabili in termini matematici. In particolare, gli economisti hanno tradizionalmente escluso le emozioni dal proprio campo di indagine, sottovalutandone il ruolo e considerandole, al più, come un elemento di interferenza (con qualche importante eccezione, come evidenziato da Hanoch 2002). Proprio su questa tematica, tuttavia, i primi anni del 21° sec. hanno registrato un’importante inversione di tendenza che si è articolata su due fronti.

La prima linea di ricerca, sviluppatasi a partire dai lavori di George A. Akerlof e Rachel E. Kranton (2000), Mathew Rabin (2002), Jean Tirole (2002), ha prodotto modelli in cui le ‘variabili emotive’ vengono aggiunte al modello di scelta tradizionale, senza modificarne la struttura di fondo. Secondo questo filone di studio gli individui sono dotati di un solo strumento cognitivo, la razionalità, e le emozioni influenzano le scelte attraverso i benefici e/o i costi che comportano (in termini più precisi, le emozioni diventano una variabile aggiuntiva della funzione di utilità). L’ipotesi di base è che gli stati emotivi generati da una certa situazione siano prevedibili in anticipo e quantificabili (per una discussione più ampia, v. Patalano 2005). Per es., sono state esaminate situazioni in cui il soggetto, posto di fronte a una gamma di decisioni possibili, prova ad anticipare le emozioni che scaturirebbero dalle scelte a sua disposizione, con un ragionamento del tipo: ‘se scelgo A proverò l’emozione E. Qualora E corrisponda a un’emozione sgradevole, l’individuo le assegna un costo di cui poi tiene conto al momento della scelta.

Da un lato, dunque, gli stati emotivi ricadono nel raggio di controllo della logica del decisore, dall’altro, il concetto di emozione è rimasto indefinito, spaziando, a seconda dei casi e degli autori, dai sentimenti, al senso di identità agli istinti viscerali. A questa linea di ricerca va l’indubbio merito di aver riaperto il dibattito su una tematica a lungo trascurata dalla letteratura attraverso contributi autorevoli. Tuttavia, essa è stata oggetto di critiche da parte di psicologi ma anche di alcuni economisti, insoddisfatti dell’approccio costi/benefici alle variabili emotive, nonché di un’analisi che procede senza una visione più generale della mente e dei suoi meccanismi di funzionamento (Castelfranchi 2003).

Nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, George Loewenstein ha preso in esame casi in cui l’individuo può trovarsi fuori dal controllo razionale perché frenato da ‘fattori viscerali’, tra cui rientrano anche i sentimenti e le emozioni. Jon Elster, poi, ha evidenziato l’esigenza di esplicitare le relazioni di influenza tra emozioni e razionalità, sottolineando che gli stati emotivi non si aggiungono semplicemente a quest’ultima, ma ne modificano le potenzialità. Proprio in questa direzione si è sviluppata dagli inizi del Duemila una nuova linea di ricerca, genuinamente collocabile al crocevia tra economia, psicologia e neuroscienze. Come in altri casi già visti, si tratta di un filone di analisi che ha sfruttato la convergenza di due processi, da un lato, la riscoperta di contributi pionieristici e fino a oggi insufficientemente valorizzati, in particolare quelli dell’economista-psicologo Amitai Etzioni (Hanoch 2002); dall’altro lato, gli sviluppi degli studi sulle emozioni in ambito neuropsicologico.

In primo luogo, è venuta meno l’idea che parlare di emozioni significhi spalancare la porta al mondo confuso e minaccioso dell’irrazionale; filosofi e neuroscienziati hanno, infatti, ritratto le emozioni come funzionali alla sopravvivenza e al benessere degli individui e, soprattutto, regolate da meccanismi logici che possono essere oggetto di rigorosa analisi scientifica (Pham 2007).

Hanoch (2002) ha sottolineato come le dinamiche emotive siano dotate di una propria logica interna che orienta il comportamento degli agenti insieme ai processi di riflessione razionale, non già in antitesi a essi. In particolar modo, nei processi di decisione le emozioni svolgono due ruoli principali, entrambi coinvolti nella gestione delle informazioni che il soggetto riceve da sé stesso e dall’ambiente in cui vive: esse concorrono a fissare le priorità dell’individuo e orientano la sua attenzione.

Rispetto al primo punto, gli stati emotivi influiscono sulla gerarchia degli obiettivi da perseguire, contribuendo a stabilire delle gradazioni di importanza: l’individuazione di ciò che conta di più, e che dunque diventa irrinunciabile nelle rappresentazioni mentali del soggetto, dipende in larga misura da considerazioni che coinvolgono l’emotività e gli affetti. L’influenza delle emozioni sull’ordine di priorità tra gli scopi è particolarmente evidente in condizioni di pericolo, quando, per es., l’obiettivo della sopravvivenza prende il sopravvento su tutti gli altri, ma coinvolge più in generale la quotidianità.

In secondo luogo, le emozioni inducono il soggetto a focalizzarsi su determinati aspetti della realtà, escludendone altri. In questo senso, esse selezionano le informazioni e gli elementi salienti su cui soffermare l’attenzione, contribuendo a definire un modo di vedere, specifico e soggettivo. Per es., in un contesto decisionale in cui vi siano più alternative tra cui scegliere, i sentimenti concorrono a individuare quali parametri prendere in esame per valutare le alternative disponibili e a quali attribuire maggiore peso, definendo così il registro ‘dei pensieri e dei desideri’.

In ambito psicologico, la ricerca ha prodotto una vasta mole di lavori sperimentali sui meccanismi attraverso cui le emozioni diventano una fonte di informazione e aiutano il soggetto nei processi di attribuzione di valore (per un’eccellente rassegna critica, v. Pham 2007). Le applicazioni all’economia sono potenzialmente molto vaste e in parte hanno già iniziato a svilupparsi.

L’ambito più immediato e fino a ora più battuto dagli economisti è per l’appunto quello che coinvolge la teoria della decisione. Come mostrato dai risultati di laboratorio, gli stati emotivi possono influenzare l’accuratezza delle percezioni e dei pensieri, condizionare la flessibilità di ragionamento e la capacità di recuperare i ricordi, aumentare o diminuire il ricorso agli stereotipi, modificare la capacità di autocontrollo ed enfatizzare sia la propensione sia l’avversione al rischio. Lo studio delle emozioni e dei loro sostrati neurologici avvicina dunque l’economia a una comprensione più strutturata della mente, dotandola di strumenti efficaci per comprendere quei comportamenti che violano in modo sistematico gli assiomi della teoria ortodossa, e che quest’ultima può soltanto relegare al campo dell’irrazionalità o dell’errore.

Un esempio interessante in tale prospettiva è rappresentato da un gioco alla base di numerosi esperimenti economici, noto come ultimatum game. Il gioco funziona così: ci sono due soggetti, X e Y, e una data somma di denaro. X deve proporre a Y come spartirsi la somma: se Y accetta la proposta, entrambi ricevono la quantità di soldi convenuta, se Y rifiuta nessuno dei due prende nulla. Supponiamo, per es., che la cifra di partenza sia 500 dollari e che X proponga a Y di cedergliene 100, tenendo quindi gli altri 400 per sé. Y ha due possibilità: se accetta, guadagna 100 dollari e X ne prende 400; se rifiuta nessuno dei due ottiene alcunché.

Quando analizzato nell’ottica della teoria delle decisioni tradizionale, questo gioco dovrebbe avere una soluzione univoca: a Y conviene accettare qualunque offerta, al limite anche 499 dollari contro 1, perché guadagnare dollari, per pochi che siano, è comunque preferibile a non guadagnarne affatto. I risultati sperimentali, tuttavia, evidenziano che gli individui non ragionano così e tendono a rifiutare proposte percepite come troppo inique (sebbene la valutazione di iniquità rimanga soggettiva e possa variare a seconda del contesto socioculturale in cui viene proposto il gioco). Come spiegare questo risultato?

Stando agli assiomi della teoria delle decisioni tradizionale, gli individui si comportano in modo irrazionale. Se invece si tiene conto degli scopi, delle emozioni e dei meccanismi di pensiero degli agenti diventa possibile elaborare ipotesi alternative e più articolate. Non necessariamente rifiutare l’offerta corrisponde a una decisione irrazionale: può benissimo darsi che chi rifiuta abbia motivazioni ulteriori rispetto al guadagno materiale di qualche dollaro, e che queste ultime risultino prioritarie. Per es., può darsi che per Y sia relativamente più importante punire X per avergli proposto un’offerta poco equa, oppure non farsi ingannare, oppure rinunciare a un arricchimento personale in favore di un principio ideale di onestà (in proposito, è stata documentata una maggiore propensione ad accettare proposte inique quando Y sa che X non è una persona, ma un computer e dunque il fattore umano ha meno peso).

Questa situazione sperimentale costituisce anche un buon esempio dei ruoli prosociali che le emozioni possono svolgere. A tale proposito, si è osservato, da un lato, che lo scambio emotivo in varie forme, dalla comunicazione empatica alla manifestazione di altruismo, dall’imitazione al contagio di stati d’animo, può favorire il coordinamento e la cooperazione tra gli individui che popolano il mercato. Dall’altro, che le emozioni sono particolarmente coinvolte nel rapporto tra l’individuo e le norme.

Fondamenti psicologici delle istituzioni

L’interazione tra mente e istituzioni ha radici ben consolidate nella storia del pensiero economico. I contributi sviluppati nell’ultimo decennio possono a nostro avviso essere ricondotti a tre filoni principali, che si riallacciano idealmente all’opera di Hayek e Simon, alle teorie della vecchia scuola istituzionalista e in particolare i lavori di Veblen, John Roger Commons e Dan Mitchell, ai contributi sull’immaginazione, principalmente dovuti a Boulding e Castoriadis.

Hayek e Simon collegano il bisogno di norme e vincoli istituzionali, da un lato, alle caratteristiche della mente, soprattutto alla sua limitata capacità di ritenere ed elaborare informazioni, dall’altro, alla complessità del contesto economico-sociale, impossibile da conoscere e prevedere in ogni sua piega. In particolare, vivendo in una realtà incerta, gli agenti economici sentono l’esigenza di individuare una base affidabile per le proprie previsioni (per es., sugli assetti futuri del mercato). Rispetto a questo obiettivo, le istituzioni garantiscono una semplificazione importante in quanto offrono codici standardizzati di comportamento, nella forma di norme, prescrizioni e leggi che restringono l’insieme di scelte possibili e rendono le azioni altrui più facili da prevedere. Esse offrono in tal senso una base per la costruzione di aspettative (Rizzello, Turvani 2002).

Il premio Nobel per l’economia Douglass North, nel 1993, sviluppa questo filone di analisi e lo estende attingendo ampiamente agli sviluppi della psicologia. Nei suoi contributi, le istituzioni (ampiamente definite, Hodgson 2007) compaiono nella doppia veste di vincolo all’azione umana e matrice di opportunità: esse definiscono al tempo stesso le regole del gioco e le opportunità di profitto per chi opera nel mercato.

L’origine delle istituzioni è fondamentalmente cognitiva. Ricollegandosi a Hayek (The sensory order, 1952) verso cui esplicita un particolare debito di riconoscenza, North pone le percezioni e l’apprendimento al centro del processo di costruzione delle conoscenze. Di fatto, «la chiave per comprendere le scelte degli individui è data dalle loro percezioni, ovvero dal modo in cui la loro mente interpreta le informazioni che riceve» (North 2005; trad. it. 2006, p. 90). Dall’elaborazione dei dati percettivi emergono le strutture cognitive che North definisce modelli mentali e che consistono di categorie concettuali e classificazioni sviluppatesi gradualmente, a partire dall’infanzia e sulla scorta delle diverse esperienze vissute dall’individuo. I modelli mentali sono strutture flessibili che evolvono attraverso l’apprendimento e che servono al soggetto per dare significato alle proprie percezioni, inserendole in una rappresentazione mentale del mondo esterno.

Le credenze condivise all’interno del medesimo gruppo sociale generano la nascita di codici e comportamenti standardizzati, dapprima informali, e poi, con lo sviluppo progressivo della società, organizzati in regole e leggi soggette a meccanismi di controllo e sanzionamento. In particolare, «le credenze dominanti – quelle degli imprenditori politici ed economici che sono in condizioni di assumere decisioni – determinano con il tempo lo sviluppo di un’elaborata struttura di istituzioni, la quale a sua volta determina la performance economica e politica» (p. 21).

North ribadisce, a più riprese, l’esigenza di comprendere come gli schemi percettivi e interpretativi degli individui evolvano e vengano condivisi al fine di spiegare i processi di cambiamento economico. Ciò in quanto i cambiamenti programmati attraverso le scelte politiche hanno una effettiva possibilità di trasformare il tessuto sociale solo se vengono recepiti e si consolidano nella mente del soggetto.

Per dare conto delle dinamiche cognitive, la teoria delle istituzioni deve avvalersi di strumenti interdisciplinari che coinvolgono la filosofia della mente, la psicologia e le neuroscienze. Le indicazioni del premio Nobel agli economisti sono molto chiare su questo punto: «Le credenze, sia quelle singole degli individui, sia quelle possedute collettivamente che formano i sistemi, costituiscono la fondamentale base di partenza per comprendere il processo di cambiamento economico.[…] Il nostro compito è quello di capire il modo in cui i sistemi di credenze evolvono; ancor più stiamo cercando di comprendere il modo in cui le stesse strutture sociali a essi connesse evolvono nel corso della storia» (pp. 115-16). In particolare, «dobbiamo conoscere non soltanto la struttura di credenze su cui si fondano le istituzioni esistenti, ma anche i margini entro i quali quel certo sistema di credenze può essere disponibile a cambiamenti che rendano possibile lo sviluppo di istituzioni più idonee» (p. 213).

Parallelamente al programma di North, Geoffrey Hodgson ha sviluppato un approccio che recupera i contributi dei ‘vecchi istituzionalisti’ e che pone al centro del rapporto mente-istituzioni il concetto di abitudine.

Le abitudini sono la base del comportamento ripetitivo e anche del pensiero perché sia il ragionamento sia la volontà si sviluppano entro la consuetudine a vedere la realtà in un certo modo, piuttosto che in altri. Già Veblen, Commons e Mitchell consideravano le abitudini come l’origine delle istituzioni e del loro riprodursi. Da un lato, avere abitudini simili e per di più istituzionalizzate, consente agli individui di gestire la complessità del mondo in cui vivono rendendone stabili e condivisi alcuni tratti; dall’altro, le istituzioni rafforzano le abitudini esistenti e orientano lo sviluppo di nuove disposizioni di pensiero. È proprio questo doppio nesso che Hodgson (2007) riprende e sviluppa.

Le abitudini rappresentano ‘propensioni e disposizioni’ a comportarsi in un certo modo, all’interno di una classe di situazioni. Soprattutto, sono regolate da meccanismi in larga misura inconsapevoli: per comprendere la realtà, infatti, facciamo continuamente af-fidamento ad associazioni tra stimoli e significati che si sono stratificate nella nostra mente e che fanno ormai parte della nostra consuetudine a interpretare. La ragione per cui si sviluppano le abitudini risiede, ancora una volta, nella natura incerta e composita dell’ambiente umano: l’asimmetria esistente tra la complessità dell’esterno e i limiti delle risorse cognitive individuali rende necessario il ricorso a un bagaglio di strumenti interpretativi che non può costituirsi di volta in volta ex novo, ma che si forma in tutto l’arco del vissuto individuale e viene custodito nella memoria del soggetto.

Il rapporto tra abitudini e istituzioni è duplice. Le istituzioni emergono e si consolidano sulla base di modalità organizzative dei rapporti sociali e dei comportamenti divenute consuetudinarie e considerate legittime all’interno di una determinata cerchia sociale. D’altra parte, entrando a far parte della società e della sua rappresentazione nelle menti degli individui, le istituzioni vincolano e indirizzano lo sviluppo dei modi di pensare, dei gusti e delle intenzioni che precedono i comportamenti.

Si tratta senza dubbio di un filone di ricerca importante che riporta il discorso sui rapporti tra economia e psicologia al tema degli automatismi del pensiero e del tacito che, divenuto tale, sfugge al controllo consapevole. Si tratta altresì di un terreno scivoloso su cui la ricerca futura dovrà muoversi con cautela. In Hodgson (2007) il tema delle abitudini sembra talvolta bypassare completamente la mente, come se ciò che è inconscio non ne facesse parte o trasformasse gli esseri umani in meri strumenti, condannati a reagire automaticamente agli stimoli provenienti dal mondo esterno. In realtà, la presenza di componenti inconsapevoli nel comportamento dei soggetti economici amplifica, non già riduce (e meno che mai scavalca) il ruolo della mente e in particolare dei suoi meccanismi rappresentativi. Infatti le abitudini, le routine e gli automatismi possono acquisire significato e risultare più o meno efficaci solo all’interno di una rappresentazione mentale del problema che li attiva, non indipendentemente da questa. Come la psicologia suggerisce nelle sue diverse branche, tale rappresentazione mentale può articolarsi su più livelli di consapevolezza.

Proprio partendo da un’angolazione che pone in primo piano le potenzialità rappresentative della mente e proseguendo sulla scorta dei contributi di Castoriadis, Patalano (2007) ha proposto di estendere l’approccio di North per tenere conto dei ruoli che l’immaginazione e l’affettività svolgono nell’ambito del legame individuo-società.

Nel delineare il rapporto tra mente e istituzioni North si sofferma su determinati processi mentali, principalmente la percezione e l’elaborazione di credenze a partire dai dati percepiti, escludendone altri, in particolare ignorando il ruolo dei sentimenti e della creatività. In realtà, gli esseri umani ricorrono di continuo alla propria capacità di espandere l’immagine di sé e del mondo esterno al di là di ciò che è già un dato di realtà. L’immaginazione ha due funzioni principali: da un lato, consente agli individui di dare significato alle percezioni grezze collocando gli elementi percepiti e/o ricordati entro una ‘scena’ dotata di senso; dall’altro, essa offre uno sbocco agli stati emotivi-affettivi del soggetto, che investe gli elementi della propria rappresentazione mentale di valutazioni e sentimenti. Attraverso la messa in immagine dei percetti e dei ricordi si esprimono, intrecciandosi, la capacità semantica e al tempo stesso affettiva della mente.

L’immaginazione, d’altro canto, non è un’attività astratta ma sintonica con il contesto entro cui prende forma. In particolare, le istituzioni incarnano sul piano di realtà quei significati e quei valori elaborati a livello immaginario e condivisi entro una medesima cerchia sociale (C. Castoriadis, L’institution imaginaire de la société, 1975; trad. it. 1995). Attraverso l’immaginazione dei suoi membri, la società identifica i problemi e la gerarchia di bisogni condivisi a cui tenta di dare spazio con il proprio tessuto istituzionale. Le attribuzioni di significato e gli stati emotivi ‘portati al mercato’ dalle scelte dei singoli individui vengono in reciproco contatto, possono essere appresi e socializzati, entrano a far parte delle modalità di relazione con la realtà del gruppo sociale che li ha elaborati. Contribuendo a definire un comune modo di dare senso e valore agli oggetti esterni, essi acquisiscono un potere strutturante: consentono infatti di identificare quel nucleo comune di obiettivi e priorità entro cui si articola l’organizzazione della società e dei suoi rapporti.

Passaggi dal soggetto al gruppo

Un elemento focale del rapporto mente-istituzioni concerne i meccanismi attraverso cui è possibile passare dalle strutture cognitive individuali a quelle condivise, entro un gruppo di riferimento.

Il tema si inserisce in un ambito teorico più generale e di grande rilievo per la teoria economica. Nella microeconomia standard, il passaggio dal singolo individuo all’insieme degli agenti avviene aggregando per somma i dati individuali; per fare solo un esempio, la domanda di mercato di un bene qualsiasi si ottiene attraverso la somma della quantità domandate dai singoli consumatori. Tale procedura richiede che i dati di riferimento siano quantificabili.

Se invece il tessuto teorico include variabili che non possono essere trasformate in numeri, o che perdono significato in tale trasformazione, il passaggio dalla dimensione del singolo a quella collettiva deve articolarsi su modalità alternative rispetto alla semplice aggregazione per somma.

I nuovi rapporti tra economia e psicologia hanno inciso su questa tematica secondo due approcci principali. Nel primo approccio, il processo di quantificazione viene esteso anche a eventuali aspetti psicologici: per es., come abbiamo già evidenziato nel paragrafo sulle emozioni, alcuni autori hanno proposto di quantificare queste ultime in termini di costi-benefici, trasformandole in variabili numeriche non difformi dalle altre.

Un approccio più innovativo consiste nel rinunciare alla quantificazione come unica modalità interpretativa della realtà economica, affiancando a essa strumenti e categorie concettuali mutuandoli da altri ambiti disciplinari. A tale proposito, nei primi anni del 21° sec. l’interscambio tra economia e scienze cognitive ha permesso di integrare il concetto di aggregazione con quello di emergenza, il cui presupposto è l’eterogeneità degli attori sociali (dunque la rimozione dell’ipotesi di un unico agente rappresentativo). Al fondo di questo secondo concetto, originariamente sviluppatosi nell’ambito delle teorie sull’intelligenza artificiale, c’è un’idea molto semplice: una volta che più individui, ciascuno con le proprie caratteristiche, entrano in contatto tra loro in un contesto sociale tipico, quale è il mercato, la loro interazione produce delle regolarità macroscopiche. Queste ultime si generano e crescono attraverso lo scambio interpersonale, anche al di fuori delle intenzioni dei singoli, emergendo ‘dal basso’ e configurandosi all’osservazione esterna come comportamento collettivo. Importante in tale prospettiva è il fenomeno dell’emergenza cognitiva (Castelfranchi 2003): attraverso le relazioni con i propri simili, gli agenti sviluppano consapevolezze che emergono dall’inconscio e che riguardano le rappresentazioni mentali alla base dei loro comportamenti. Modificandosi la percezione di sé anche il comportamento si modifica secondo tracciati che non sono prevedibili e che il soggetto stesso può anticipare soltanto in minima parte.

Il ruolo dell’imprevedibilità nel passaggio dalle scelte dell’individuo a quelle collettive richiama d’altra parte un altro tema a cui gli economisti sono sensibili da lungo tempo. Illustri autori del passato, tra cui Hayek, Menger, John Stuart Mill e Smith hanno evidenziato come la società ospiti in sé un ‘ordine non intenzionale’, ovvero non prerappresentato nella mente degli agenti che involontariamente concorrono al suo affermarsi come ‘fatto’ non previsto.

Nella storia del pensiero economico questo tema ha coinvolto soprattutto le istituzioni. Per Hayek, per es., la natura delle istituzioni è connessa all’imprevedibilità che caratterizza i vari stadi della cognizione e dell’azione. Esiste una dimensione di incertezza che, a partire dalla percezione, permea i processi generativi della conoscenza: insieme alla complessità ambientale essa fa sì che dall’operare volontario e consapevole scaturiscano anche esiti non pianificati e non previsti. Su tale base argomentativa e in accordo con Menger, egli considera le istituzioni come il risultato non intenzionale di azioni umane intenzionali.

Riallacciandosi ad Hayek, North (2005) interpreta le istituzioni come la soluzione condivisa a un problema avvertito dalla collettività. In tale prospettiva, affinché emerga un’istituzione, è necessario che una maggioranza di individui identifichi il medesimo problema e trovi adeguata alla sua soluzione una specifica configurazione istituzionale.

Proprio con l’intento di chiarire come le rappresentazioni mentali di un individuo possano omogeneizzarsi a quelle di altri individui, Salvatore Rizzello e Margherita Emma Turvani (2002) focalizzano l’attenzione sui processi di apprendimento per imitazione e che sono stati analizzati da Albert Bandura nel 1977. La capacità di imparare osservando i comportamenti altrui, principalmente motivata dal desiderio che l’altro ci riconosca come membri della propria comunità, può rappresentare un incentivo ad accettare le stesse norme, la stessa legislazione, le stesse convinzioni politiche, e incanala l’apprendimento individuale verso configurazioni che si prevede saranno socialmente legittimate e condivise (vicarious learning).

L’assegnazione, nel 2005, del Nobel per l’economia a Thomas Schelling ha riportato all’attenzione degli economisti proprio il ruolo dell’empatia e dell’imitazione. Studioso delle interazioni strategiche e della possibilità che queste degenerino in conflitti o evolvano in cooperazione, Schelling affrontava direttamente questi temi già nel 1960 nell’opera Strategy of conflict (ristampata in italiano nel 2006). Nel tentativo di capire come due individui coinvolti in una situazione che richiede coordinamento arrivino a una soluzione condivisa, anche quando non sia possibile contrattare esplicitamente un accordo, Schelling attribuisce importanza cruciale all’analisi dell’altro, volta a rintracciare nella controparte eventuali tratti di familiarità e a intuirne le intenzioni. L’esito dell’interazione dipende in larga misura dalla capacità di mettersi nei panni altrui, a sua volta influenzata dal saper percepire le disposizioni interne dei nostri simili, sia consapevolmente sia sul piano tacito. Questo approccio ha costituito la base per nuovi sviluppi sui processi di coordinamento (Patalano 2005). Recentemente, inoltre, i meccanismi neurofisiologici alla base dell’empatia sono stati compresi in dettaglio, aprendo un nuovo importante varco per il dialogo delle neuroscienze con altre discipline. In particolare, le ricerche sui neuroni specchio (che si attivano non solo quando compiamo un’azione ma anche quando la osserviamo in qualcun altro) hanno suscitato l’attenzione di molti scienziati sociali proprio perché promettono di fare luce su fenomeni significativi in contesti di interazione fra individui, quali l’imitazione, l’intenzionalità, la costruzione di aspettative sul comportamento altrui, l’apprendimento e la possibilità di cooperare (Gallese 2001).

Al fine di capire come le visioni del mondo si propaghino e possano costituire una base condivisa, l’apprendimento rimane sicuramente un terreno di studio molto promettente. Sebbene gli economisti abbiano fino a ora privilegiato l’analisi dell’imitazione come meccanismo che predispone ad apprendere, si tratta di un ambito che richiede ulteriori esplorazioni. D’altra parte, il passaggio dalla dimensione individuale alla dimensione collettiva costituisce attualmente uno dei principali programmi di ricerca delle scienze sociali (Castelfranchi 2003). L’analisi della mente e della sua capacità di entrare in relazione con altre menti viene considerata come un tassello fondamentale del dibattito, cui anche l’economia sta contribuendo con apporti di rilievo.

Conclusioni

I nuovi rapporti tra economia e psicologia stanno determinando cambiamenti significativi.

Cambiano le variabili della teoria economica: in particolare la mente diventa una sorta di variabile intermedia che collega l’ambiente al soggetto. Per capire il comportamento del singolo individuo si cerca di far luce sui suoi processi psichici; per comprendere fenomeni macroeconomici complessi diventa rilevante studiare l’interazione più o meno consapevole tra una molteplicità di soggetti pensanti.

Cambia il rapporto tra la teoria e la realtà. La teoria economica tradizionale ha carattere normativo, ovvero crea modelli che si occupano di come la realtà dovrebbe essere, supposte valide certe ipotesi. L’approccio tradizionale alle decisioni rappresenta un esempio ricco e coerente di benchmark, vale a dire di rappresentazione ideale rispetto alla quale l’economista può valutare di volta in volta gli scostamenti osservabili nella realtà e progettare eventuali interventi correttivi di avvicinamento. I nuovi rapporti tra economia e psicologia contribuiscono a rovesciare la logica ideale-reale che è stata appena descritta: gli studiosi esplicitamente tentano di descrivere situazioni mal definite, e quindi difficili da standardizzare e proprio per questo caratterizzate da una natura unica e transitoria, mentre la rappresentazione ideale rimane del tutto fuori ed è semmai interpretabile come allontanamento dalla realtà.

In questa nuova prospettiva cambiano gli strumenti d’indagine: le analisi di carattere sperimentale diventano importanti per non perdere l’aggancio con la realtà e con quella ‘normalità’ che la teoria si propone di spiegare. Soprattutto, cambia il peso della soggettività: viene meno l’ipotesi di un unico soggetto ideal tipico e irrompono nella teoria l’eterogeneità dei comportamenti individuali, i vissuti pregressi, le esperienze accumulate, le conoscenze acquisite, la capacità di apprendere, l’umanità insomma, con il suo nucleo fatto di errori, adattamenti e compromessi. Può sembrare, e certamente è, un cambiamento profondo nel modo di fare teoria.

Non privo tuttavia di conseguenze per quello che Hayek definiva l’uomo sul posto, ovvero per l’individuo che si trova in un luogo qualsiasi della sua vita di tutti i giorni. C’è una tendenza diffusa nella società di oggi a rappresentare l’economia come modellata da macroforze di cui siamo più o meno succubi, nonostante il loro impatto sulla nostra esistenza.

Il precariato nel mondo del lavoro, la fluttuazione delle borse, l’andamento della produttività, l’irruzione continua sul mercato di nuova tecnologia vengono descritti dai mezzi di informazione come ‘fatti’ da includere nella dinamica delle cose.

Di fronte a questi fenomeni complessi, il messaggio dell’economia che studia i comportamenti è molto chiaro: non c’è fatto economico che non riguardi gli individui e che non passi per la trama delle relazioni intersoggettive. Il mercato non è una forza oscura che disegna il futuro dell’umanità senza coinvolgerla; il mercato è un meccanismo di coordinamento, scambio e condivisione di scelte e di rappresentazioni del mondo che l’individuo elabora e può cambiare. Purché a questa possibilità attribuisca valore.

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