Nuovi sviluppi in materia di legalità penale

Il libro dell anno del diritto 2018 (2018)

Vedi Nuovi sviluppi in materia di legalita penale dell'anno: 2017 - 2018

Nuovi sviluppi in materia di legalità penale

Francesco Viganò

Il principio di legalità in materia penale – nei suoi corollari della sufficiente precisione della norma incriminatrice e della prevedibilità della sua applicazione, del divieto di una sua applicazione retroattiva in malam partem e dell’obbligo di una sua applicazione retroattiva in favore del reo – è stato oggetto anche nel 2017 di nuovi ed importanti interventi della Corte costituzionale e della Corte di cassazione: a cominciare dall’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Consulta che sollecita la Corte di giustizia dell’UE a chiarire gli obblighi statuiti a carico dei giudici penali italiani nel caso Taricco, prospettando esplicitamente l’attivazione – per la prima volta nella storia della nostra giurisprudenza costituzionale – dei cd. controlimiti alle limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione dell’Italia all’Unione europea.

La ricognizione

Anche quest’anno il principio nullum crimen, nulla poena sine lege e i suoi corollari, nella loro duplice dimensione costituzionale e convenzionale, sono stati oggetto di vari interessanti interventi da parte della giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cassazione, spesso stimolati dalle pronunce delle corti europee.

La novità certamente più significativa – e destinata peraltro a ulteriori sviluppi mentre questo volume sarà in stampa – è rappresentata dalla decisa presa di posizione della Consulta nella vicenda Taricco, innescata da una nota sentenza del settembre 2015 della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di prescrizione e delitti tributari. La Corte costituzionale, sollecitata a intervenire dalla Corte d’appello di Milano e dalla Cassazione, ha infatti ritenuto di formulare un rinvio pregiudiziale con cui chiede alla stessa Corte di giustizia una serie di chiarimenti sulla portata degli obblighi statuiti in quella sentenza, prospettando senza mezzi termini la possibilità di azionare, per la prima volta nella propria storia, i cd. “controlimiti” al primato del diritto dell’UE nel diritto nazionale, in difesa del principio di legalità in materia penale, nella sua dimensione “nazionale” riconosciuta dall’art. 25, co. 2, Cost., e in particolare dei suoi corollari rappresentati dal principio di precisione della legge penale, nonché dal divieto di applicazione retroattiva della legge penale stessa.

Ancora sul versante della precisione della norma incriminatrice – corollario della legalità penale strettamente connesso dalla giurisprudenza convenzionale all’idea della necessaria prevedibilità dell’applicazione della legge penale da parte dei suoi destinatari – merita poi una segnalazione, accanto ad alcune onde di assestamento del nostro ordinamento alla sentenza della C. eur. dir. uomo Contrada c. Italia, già ampiamente analizzata in un contributo pubblicato nello scorso volume1, una importante sentenza delle Sezioni Unite, Paternò, che – a valle di altra importante sentenza della C. eur. dir. uomo in materia di misure di prevenzione, De Tommaso c. Italia – dichiara inapplicabile il delitto di violazione degli obblighi inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno rispetto alle ipotesi della violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”: prescrizioni ritenute dalle Sezioni Unite incompatibili, appunto, con il principio di precisione della norma incriminatrice.

Sul versante del divieto di applicazione retroattiva della legge penale, rimarchevoli appaiono due sentenze della Corte costituzionale, 7.4.2017, n. 68 e 11.5.2017, n. 109, che affrontano il delicato tema dell’estensione di tale garanzia alle sanzioni amministrative aventi “coloratura penale”, al cospetto dei criteri sostanzialistici utilizzati dalla giurisprudenza della C. eur. dir. uomo per individuare l’ambito di applicazione dell’art. 7 CEDU e, in genere, delle disposizioni che la Convenzione riserva, appunto, alla materia penale.

Infine, sul fronte del connesso ma distinto principio della retroattività della legge penale più favorevole – considerato dalla giurisprudenza europea come corollario dello stesso nullum crimen – si segnalano un’ulteriore sentenza della Corte costituzionale, 10.1.2017, n. 43, che concerne la possibile estensione del principio alla materia – ancora – delle sanzioni amministrative aventi natura sostanzialmente penale; nonché una sentenza della prima sezione penale della Cassazione, che chiude la lunghissima vicenda processuale concernente l’associazione asseritamente di carattere militare della cd. “camicie verdi”, risolvendo in senso positivo la questione se l’entrata in vigore di una norma che abbia abrogato una preesistente incriminazione e che sia stata poi dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, comporti l’obbligo per il giudice di assolvere l’imputato accusato di avere commesso il fatto prima dell’entrata in vigore della norma abrogratrice stessa, in applicazione dell’art. 2, co. 2, c.p.

La focalizzazione

Come anticipato, le novità giurisprudenziali di quest’anno concernono un po’ tutti i corollari del principio di legalità in materia penale: precisione della norma incriminatrice (e/o prevedibilità della sua applicazione nel caso concreto), divieto di applicazione retroattiva della norma penale più sfavorevole, nonché obbligo di applicazione retroattiva della norma penale più favorevole.

La risposta della Corte costituzionale a Taricco

La novità di maggiore rilievo in questo ambito è certamente rappresentata dall’ordinanza del 26.1.2017, n. 242, con cui la nostra Corte costituzionale ha formulato un rinvio pregiudiziale alla C. giust. UE in merito all’interpretazione degli obblighi statuiti dalla Corte medesima a carico del giudice italiano nella sentenza Taricco, del settembre 20153.

In estrema sintesi, la Corte di Lussemburgo aveva dichiarato incompatibili con il diritto dell’UE, e segnatamente con gli obblighi di combattere contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione discendenti dall’art. 325 del Trattato sull’Unione (TUE), le disposizioni italiane in materia di termine massimo di prescrizione in presenza di atti interruttivi di cui al combinato disposto degli artt. 160 e 161 c.p., nella misura in cui da tali disposizioni deriva l’impunità degli autori di frodi gravi contro gli interessi finanziari dell’UE in un numero considerevole di casi, nonché nella misura in cui da tale disciplina deriva un trattamento più favorevole di quello riservato agli autori di frodi a danno degli interessi finanziari dello Stato italiano. Da tale affermata incompatibilità la Corte di giustizia aveva fatto discendere l’obbligo, a carico del giudice penale italiano, di disapplicare le due disposizioni controverse, con conseguente punibilità degli autori di fatti di reato che sarebbero stati ritenuti prescritti in applicazione delle disposizioni medesime.

La Corte d’appello di Milano e la Cassazione poi, ritenendo che tale obbligo fosse a sua volta incompatibile con il principio di legalità in materia penale, così come proclamato dall’art. 25, co. 2, Cost., avevano sollevato questione di legittimità costituzionale della legge di esecuzione dei trattati istitutivi dell’UE, nella parte in cui dagli stessi discende l’obbligo per il giudice nazionale di conformarsi alla sentenza della Corte di giustizia. Il nullum crimen veniva così evocato dalle ordinanze di rimessione – unitamente ad altri parametri costituzionali nel provvedimento della Cassazione – quale “controlimite” al principio del primato del diritto dell’Unione nell’ordinamento nazionale.

La Corte costituzionale sceglie, in quest’occasione, una strada almeno in apparenza “dialogica”: pur riconoscendo nella sostanza la fondatezza degli argomenti sviluppati nelle ordinanze di rimessione, decide di fornire alla Corte di giustizia l’opportunità di precisare la propria posizione in esito ad un nuovo rinvio pregiudiziale, riservandosi all’esito dell’interlocuzione di valutare se compiere per la prima volta il passo (traumatico) dell’opposizione dei controlimiti al diritto UE.

La Consulta rammenta, in primo luogo, che secondo la propria consolidata giurisprudenza la materia della prescrizione deve considerarsi parte integrante della “legge penale” (sostanziale), coperta come tale dalle garanzie di legalità e irretroattività di cui all’art. 25, co. 2, Cost. Da tali premesse deriva tra l’altro che, nell’ordinamento nazionale italiano, non sarebbe tollerabile un’applicazione retroattiva di una modifica in peius per l’imputato del regime della prescrizione rispetto a quella in vigore al momento del fatto.

La sentenza Taricco sembra, però, richiedere al giudice italiano di disapplicare una parte della normativa sulla prescrizione in vigore al momento del fatto, con un effetto pratico di allungamento dei termini prescrizionali rispetto a quanto poteva essere previsto in quel medesimo momento. Un tale risultato era stato giudicato non problematico dalla Corte di giustizia, la quale aveva sottolineato come il principio di legalità penale nella sua dimensione “europea” – così come ricostruibile, in particolare, sulla base della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di art. 7 CEDU – non si estenda alla materia della prescrizione del reato, considerata afferente alle condizioni concrete di procedibilità dell’azione penale e, come tale, legittimamente soggetta al principio tempus regit actum che domina l’intera materia processuale. Stante però l’opposto orientamento della Corte costituzionale italiana sulla natura e – conseguentemente – sullo statuto garantistico della prescrizione, un allungamento retroattivo dei termini prescrizionali dovrebbe considerarsi inammissibile nel nostro ordinamento, comportando la frustrazione del legittimo affidamento che l’imputato avrebbe potuto riporre sul regime prescrizionale in vigore al momento del fatto.

D’altra parte, le condizioni cui la Corte di giustizia ha sottoposto l’obbligo di disapplicazione enunciato in Taricco, che comportano tra l’altro una verifica da parte del giudice penale della circostanza che l’attuale disciplina del termine massimo della prescrizione in presenza di atti interruttivi produca l’impunità «in un numero considerevole di casi di frodi gravi contro gli interessi finanziari» dell’Unione, appaiono formulate in maniera vaga e imprecisa, così da spalancare intollerabili margini di discrezionalità per il giudice, al quale sarebbe in tal modo assegnato un obiettivo di scopo incompatibile con la stessa funzione giurisdizionale.

La Corte costituzionale chiede allora ai giudici di Lussemburgo di chiarire se gli obblighi statuiti a carico del giudice italiano nella sentenza Taricco siano da intendere come vincolanti anche nell’ipotesi in cui – come nella specie – a) la disapplicazione della disciplina italiana in materia di limite massimo della prescrizione in presenza di atti interruttivi «sia priva di una base legale sufficientemente determinata», b) la disciplina della prescrizione sia considerata nell’ordinamento dello Stato membro come parte del diritto penale sostanziale e come tale soggetta al principio di legalità, e c) la disapplicazione della disciplina in questione risulti «in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro».

La palla torna, così, alla Corte di giustizia, la quale dovrà ora chiarire – in buona sostanza – se gli obblighi già sanciti in Taricco, funzionali a una tutela effettiva degli interessi finanziari dell’Unione e già giudicati in quell’occasione come compatibili con il principio di legalità penale nella sua dimensione europea, debbano essere ritenuti vincolanti e prevalenti sul diritto interno dello Stato membro, anche nell’ipotesi in cui tali obblighi contrastino con il principio di legalità penale assunto nella sua dimensione domestica, nel caso concreto più estesa di quella garantita a livello europeo.

Ancora in materia di precisione della legge penale

Ancora il principio di precisione è al centro di una rilevante presa di posizione della Cassazione a sezioni unite su una prima, immediata ricaduta penalistica della sentenza della C. eur. dir. uomo De Tommaso c. Italia, pronunciata dalla grande Camera nel febbraio 20174, che ha giudicato incompatibili con il diritto convenzionale le attuali “fattispecie di pericolosità generica” previste dall’art. 1 lett. a) e b) del d.lgs. 6.9.2011, n.159 in materia di misure di prevenzione.

All’analisi della sentenza De Tommaso e dei suoi possibili impatti nella specifica materia delle misure di prevenzione, personali e patrimoniali, è dedicato altro contributo nel presente volume (cfr. in questo volume, Diritto processuale penale, 8.1.1 La riforma del codice antimafia). Basti qui rilevare che la Corte europea, chiamata a valutare la compatibilità dell’applicazione di misure di prevenzione personali con il diritto alla libertà di circolazione, riconosciuto dall’art. 2, prot. 4, CEDU, ha tra l’altro censurato talune prescrizioni che debbono essere necessariamente imposte al soggetto con il provvedimento che dispone la misura della sorveglianza speciale, e in particolare quelle di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.

La vaghezza e imprecisione di tali prescrizioni è stata ritenuta dalla Corte incompatibile con il requisito della base legale di ogni legittima limitazione della libertà di circolazione, requisito che mira a porre l’interessato in condizioni di comprendere in modo chiaro quale sia la restrizione della propria libertà cui egli deve intendersi sottoposto per effetto dell’applicazione della misura. Né – osservano i giudici europei – il contenuto di tali prescrizioni è stato sufficientemente chiarito dalla sentenza 23.7.2010, n. 282 della Corte costituzionale italiana, che aveva ritenuto che il loro contenuto alludesse al «dovere, imposto al prevenuto, di rispettare tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano cioè di tenere o non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale». Una tale lettura, ad avviso della C. eur. dir. uomo, si risolve infatti in un «illimitato richiamo all’intero ordinamento giuridico italiano, e non fornisce alcuna chiarificazione sulle norme specifiche la cui inosservanza dovrebbe essere considerata quale ulteriore indicazione del pericolo per la società rappresentato dall’interessato».

Ora, l’art. 8, co. 4, del vigente codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011) richiede al giudice che disponga la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di imporre in ogni caso all’interessato una serie di prescrizioni, tra le quali – per l’appunto – quelle di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, censurate dalla C. eur. dir. uomo; e l’art. 75 del medesimo codice dispone che chi contravvenga agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale risponda di una contravvenzione o di un delitto (quest’ultimo punito con la reclusione da uno a cinque anni), a seconda che l’inosservanza riguardi gli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale senza (contravvenzione) o con obbligo o divieto di soggiorno (delitto). Dal che la possibilità che il soggetto possa essere chiamato a rispondere penalmente per non avere “vissuto onestamente”, o “rispettato le leggi”.

Una questione di legittimità costituzionale per contrasto con il principio della norma incriminatrice allora vigente, in larga misura corrispondente all’attuale art. 75 d.lgs. n. 159/2011, formulata sotto il profilo del difetto di tassatività/sufficiente precisione della legge penale ex art. 25, co. 2, Cost., era stata a suo tempo respinta dalla Corte costituzionale con la già menzionata sent. n. 282/2010, sulla base peraltro di argomentazioni puntualmente criticate dalla C. eur. dir. uomo. Evidente, peraltro, che nell’ottica della C. eur. dir. uomo esse non possano essere considerate sufficienti – diremmo a fortiori – nemmeno a soddisfare l’esigenza di prevedibilità della possibile futura applicazione della pena in caso di violazione, al metro questa volta dell’art. 7 CEDU.

Investite all’indomani di De Tommaso di un ricorso contro una condanna per il delitto di cui all’art. 75, co. 2, d.lgs. n. 159/2011, motivata proprio dalla violazione degli obblighi in parola, le sezioni unite della Cassazione si sono trovate a prendere posizione sulla compatibilità con il nullum crimen nella sua declinazione europea di una norma incriminatrice, che sanziona – e con pene tutt’altro che trascurabili – la violazione di prescrizioni già bollate quali irrimediabilmente imprecise dalla C. eur. dir. uomo5.

La S.C. rammenta, in proposito, che la giurisprudenza di legittimità – così come quella costituzionale – aveva sempre escluso il contrasto dell’incriminazione delle violazioni dei precetti “generici” in parola, concludendo anzi nel senso del concorso formale tra il delitto di cui all’art. 75, co. 2, e i reati comuni commessi dal sorvegliato speciale, nella logica di inasprimento sanzionatorio che ispira il complessivo impianto normativo; nonché, addirittura, ammettendo che il reato de quo sia integrato dalla consumazione di un illecito amministrativo, come la guida di un motociclo senza casco, la guida di autovettura priva di targa, ecc.

Il rigore di quella giurisprudenza era stato solo parzialmente temperato dalla recente sentenza Sinigaglia delle Sezioni Unite6, che – riprendendo risalenti spunti presenti nella stessa giurisprudenza di legittimità – aveva limitato l’area delle violazioni rilevanti ai fini del delitto in esame a quelle che si risolvono «nella vanificazione sostanziale della misura imposta», risultando espressive di una «effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno»: e ciò in omaggio ai principi di offensività e proporzionalità, che escludono la possibilità di «equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a un soggetto qualitativamente pericoloso» – come nel caso, oggetto della pronuncia, della mancata esibizione della carta precettiva.

Richiamando tale precedente, la Suprema Corte si chiede dunque se la strada di una interpretazione conforme ai principi di offensività e proporzionalità, mirante a circoscrivere in via ermeneutica l’area delle violazioni la cui trasgressione configurerebbe il delitto in parola, sia sufficiente a porre al riparo la norma dalle possibili obiezioni sul diverso fronte della sufficiente determinatezza/precisione, oggetto specifico delle censure della Corte europea.

La risposta è, tuttavia, negativa: una simile strada rende, in effetti, ancora più incerta e imprevedibile la condotta contemplata dalla norma incriminatrice, aprendo spazi di discrezionalità al giudice difficilmente compatibili con il principio di legalità, senza risolvere dunque il deficit di determinatezza di un delitto imperniato sulla violazione della (vaghissima) prescrizione di honeste vivere.

La conclusione delle Sezioni Unite è, a questo punto, assolutamente rimarchevole. Anziché riproporre una questione di legittimità costituzionale della disposizione in parola alla Corte costituzionale, alla luce del fatto nuovo rappresentato da De Tommaso, e dunque sospettandone ora il contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost. (in riferimento all’art. 7 CEDU) oltre che con l’art. 25, co. 2, Cost., il Supremo Collegio dichiara direttamente inapplicabile il delitto in parola nella parte in cui sanziona la violazione delle generiche prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, annullando conseguentemente il capo della sentenza relativo.

La Cassazione sottolinea, in proposito, che compito del giudice comune è quello di fornire una lettura del diritto interno conforme alla CEDU e al tempo stesso (ed anzi in via prioritaria) alla Costituzione; e cioè una «lettura ‘tassativizzante’ e tipizzante della fattispecie», anche a costo di superare orientamenti interpretativi consolidatisi, ma non sufficientemente attenti alla compatibilità del prodotto dell’interpretazione con il principio di legalità penale in tutte le sue dimensioni.

Sulla base allora di questo criterio guida, la S.C. conclude nel senso che la disposizione incriminatrice in parola debba essere restrittivamente intesa come riferita alla violazione dei soli obblighi e prescrizioni aventi contenuto determinato e specifico, con esclusione dunque delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”: prescrizioni che, a ben guardare, non meritano nemmeno tale qualificazione, risolvendosi un «mero ammonimento ‘morale’, la cui genericità e indeterminatezza dimostra l’assoluta inidoneità ad integrare il nucleo di una norma penale incriminatrice».

D’altra parte, prosegue la S.C., l’obbligo di rispettare le leggi è formulato dalla disposizione in parola in termini talmente vaghi e generici da risultare, in effetti, privo di qualsiasi contenuto precettivo, risolvendosi – come osservato dalla Corte di Strasburgo – in un riferimento indistinto a tutte le leggi dello Stato, non consentendo di individuare la condotta o le condotte dal cui accertamento derivi una responsabilità penale, e per converso attribuendo uno spazio di incontrollabile discrezionalità al giudice nel momento in cui dovesse procedere a siffatta determinazione. Il che produce, a sua volta, un inammissibile deficit di conoscibilità del precetto penale da parte del destinatario della norma penale, e – conseguentemente – l’assoluta inidoneità della norma a orientare il suo comportamento, con connesso vulnus allo stesso principio di colpevolezza.

Divieto di applicazione retroattiva della legge penale

Due sentenze della Corte costituzionale si confrontano con il divieto di applicazione retroattiva della legge penale, che già aveva costituito – come abbiamo visto – una delle architravi del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia a valle della sentenza Taricco. Questa volta, però, oggetto dello scrutinio sono sanzioni amministrative comminate per fatti che al momento della loro commissione costituivano illeciti penali, e alle quali la Corte – o comunque le ordinanze di rimessione – attribuiscono purtuttavia natura sostanzialmente penale ai fini dell’applicazione delle garanzie di cui all’art. 25, co. 2, Cost.

a) La prima sentenza, la n. 68/2017, concerne la sanzione amministrativa della confisca per equivalente del prodotto e del profitto dell’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187 bis d.lgs. 24.2.1998, n. 58 (il cd. t.u.f.), nonché dei beni utilizzati per commetterlo7. Tanto l’illecito quanto la sanzione amministrativa in parola erano stati introdotti dal legislatore con la riforma del t.u.f. attuata a mezzo della l. 18.4.2005, n. 62, che scorporò una parte dei fatti aventi in precedenza rilievo penale in forza dell’art. 184 t.u.f. conferendo loro il rilievo di mero illecito amministrativo ai sensi del nuovo art. 187 bis. La confisca per equivalente era stata, d’altra parte, per la prima volta prevista dal legislatore del 2005 tanto per il delitto di cui all’art. 185 (per il quale in precedenza era prevista unicamente la confisca diretta), quanto per il nuovo illecito amministrativo.

Una disposizione transitoria della l. del 2005 aveva, infine, previsto che le nuove disposizioni da esse introdotte (compresa, dunque, la disposizione in materia di confisca per equivalente in caso di illecito amministrativo) si applicassero «anche alle violazioni commesse anteriormente alla data in vigore della presente legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia definito».

Trovandosi a definire altrettanti procedimenti di opposizione avverso sanzioni irrogate dalla CoNSoB – comprensive di confische per equivalente ai sensi dell’art. 187 sexies t.u.f. – per fatti commessi prima del 2005, la Cassazione dubitava dell’illegittimità costituzionale della disciplina transitoria in parola, sotto il profilo del suo possibile contrasto, in particolare, con il principio di irretroattività della legge penale sancito dagli artt. 25, co. 2, Cost. e – per il tramite dell’art. 117, co. 1, Cost. – dall’art. 7 CEDU, quest’ultimo invocato in quanto applicabile anche a sanzioni che, pur qualificate formalmente dall’ordinamento nazionale come “amministrative”, abbiano tuttavia natura sostanzialmente punitiva.

La Corte costituzionale dichiara anzitutto di condividere la premessa interpretativa della Cassazione, secondo cui alla confisca per equivalente prevista per l’illecito amministrativo in parola debba essere assegnata natura penale ai sensi dell’art. 7 CEDU. La Corte rammenta in effetti una serie di propri precedenti con le quali già aveva riconosciuto la natura prevalentemente afflittiva e sanzionatoria di questa peculiare forma di confisca, che non colpisce beni aventi un “rapporto di pertinenzialità” con il reato (come nel caso della confisca diretta), bensì beni e somme di altra natura, ovunque reperibili nel patrimonio del soggetto ritenuto responsabile del reato o, in questo caso, dell’illecito amministrativo che costituisce il presupposto della misura.

Da tale premessa discende, secondo la Corte, l’applicabilità a tale forma di confisca dello stesso art. 25, co. 2, Cost., prima ancora che dell’art. 7 CEDU. Ricorda in effetti la Consulta di avere già affermato che la garanzia costituzionale in parola «concerne non soltanto le pene qualificate come tali dall’ordinamento, ma anche quelle così qualificabili per effetto dell’art. 7 della CEDU (sentenza n. 196 del 2010)».

Ciò premesso, la Corte ritiene tuttavia che le questioni sottopostele dalla Cassazione siano inammissibili, in quanto basate su un erroneo presupposto interpretativo.

È fuor di dubbio, osserva la Corte, che sia vietato al legislatore sanzionare con effetto retroattivo un fatto che non era illecito quando fu commesso, e parimenti introdurre anche per il passato una sanzione che si aggiunge al trattamento sanzionatorio già previsto dalla legge. Nella vicenda normativa in esame, tuttavia, il legislatore ha inteso conservare al fatto – già previsto come delitto prima del 2005 – la propria connotazione in termini di antigiuridicità, «e ha continuato a riprovarlo per mezzo della sanzione amministrativa, considerando quest’ultima in sé più favorevole della precedente pena, benché connotata dalla confisca di valore». E proprio in questa prospettiva ha ritenuto – con la norma transitoria oggetto di censura – di sottoporre anche i fatti pregressi «al nuovo e ritenuto più mite trattamento sanzionatorio».

La norma transitoria impugnata riflette dunque, secondo la Consulta, tale “presunzione legislativa” di maggior favore della nuova disciplina sanzionatoria rispetto a quella precedente. Che tale presunzione sia o meno fondata, è questione diversa, con la quale il giudice a quo avrebbe dovuto analiticamente confrontarsi, onde verificare se la norma transitoria in esame davvero inammissibilmente imponga l’applicazione retroattiva di un regime punitivo che, «assunto nel suo complesso e dunque comprensivo della confisca per equivalente», risulti maggiormente afflittivo per l’autore del fatto, rispetto al regime che era applicabile al momento del fatto. Laddove invece, in esito a una valutazione in concreto, dovesse risultare che tale nuovo regime fosse di maggior favore, allora nessun ostacolo costituzionale o convenzionale si opporrebbe alla sua applicazione retroattiva, secondo quanto stabilito dalla disposizione transitoria impugnata.

b) La seconda sentenza, la n. 109/2017, concerne invece le sanzioni amministrative pecuniarie previste per gli illeciti depenalizzati in forza del d.lgs. 15.1.2016, n. 8, e in particolare quelle ora previste per l’illecito di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, in precedenza previsto quale delitto dall’art. 2, co. 1-bis, del d.l. 12.9.1983, n. 4638.

A essere sospettata di incostituzionalità era qui la disposizione transitoria del decreto legislativo di depenalizzazione, a tenore della quale le sanzioni amministrative previste per i nuovi illeciti depenalizzati si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, purché il relativo procedimento penale non sia già definito con sentenza o decreto irrevocabili; precisandosi, peraltro, che in ogni caso non potrà essere applicata «una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta [rectius, prevista] per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135 del codice penale». Il dubbio di incostituzionalità del giudice a quo concerneva essenzialmente la compatibilità di tale norma transitoria con il divieto di applicazione retroattiva della legge penale, sulla base del presupposto secondo cui anche alle sanzioni amministrative pecuniarie debba essere riconosciuta natura sostanzialmente penale – con conseguente loro attrazione nell’area di tutela di cui all’art. 25, co. 2, Cost.

La Corte evita qui di confrontarsi funditus con il problema della compatibilità con il divieto di irretroattività di simili disposizioni transitorie, dichiarando inammissibile la questione propostale in relazione a un vizio motivazionale dell’ordinanza; ma, ove fosse giunta a scrutinare il merito della questione, una pronuncia di infondatezza sarebbe stata assai verosimile, sulla base dei medesimi principi espressi nella di poco precedente sentenza n. 68 appena analizzata: nella misura in cui il trattamento sanzionatorio risultante dalla depenalizzazione appaia nel suo complesso più favorevole rispetto a quello in precedenza previsto per il reato (risultato, si noti, nel caso in esame garantito dalla clausola che vieta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa di importo superiore al massimo della multa originalmente comminata), nessuna violazione del divieto di applicazione retroattiva di sanzioni formalmente amministrative ma “sostanzialmente” penali sarebbe riscontrabile.

Retroattività della lex mitior

Due ultime sentenze – la prima ancora della Corte costituzionale, la seconda della Cassazione – affrontano infine il corollario della necessaria retroattività della legge penale più favorevole, sempre più al centro dell’attenzione delle supreme magistrature nazionali e internazionali negli ultimi anni9.

a) La sentenza 24.2.2017, n. 43 ha ad oggetto una questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, co. 4, della l. 11.3.1953, n. 87, nella parte in cui non estende il rimedio della cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali delle condanne inflitte sulla base di leggi dichiarate incostituzionali all’ipotesi di sanzioni amministrative pecuniarie divenute ormai definitive, ma irrogate sulla base di leggi nel frattempo dichiarate incostituzionali10.

La questione era, al solito, motivata sulla base della natura “sostanzialmente penale” delle sanzioni amministrative che venivano in considerazione nel caso di specie. Parametri invocati erano l’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU (e in particolare al suo corollario, enucleato in Scoppola c. Italia, della retroattività della lex mitior in materia penale), l’art. 25, co. 2, Cost. e l’art. 3 Cost.

La Corte decide tuttavia nel senso dell’infondatezza della questione. Quanto all’art. 117, co. 1, Cost., la sentenza rileva come la giurisprudenza di Strasburgo abbia sì riconosciuto l’obbligo di applicazione retroattiva della lex mitior come contenuto implicito del principio di legalità in materia penale, ma abbia – quanto meno sino ad ora – circoscritto la portata di tale principio alle ipotesi in cui non sia ancora intervenuta sentenza definitiva, evitando di affermare l’esistenza di un diritto al travolgimento del giudicato sulla base, appunto, di una lex mitior sopravvenuta11. Né tale conclusione può ritenersi imposta dall’art. 25, co. 2, Cost., che nemmeno contempla tra i suoi corollari la garanzia della retroattività della legge penale più favorevole.

Quanto, infine, all’art. 3 Cost., nessun vincolo alla necessaria equiparazione tra il regime della sanzione qualificata anche formalmente come penale e quello della sanzione amministrativa può essere derivato da questa disposizione costituzionale: il legislatore resta libero di disciplinare diversamente le diverse ipotesi, salvo il consueto limite della manifesta irragionevolezza, che non viene in considerazione in questo caso.

b) Un’ultima interessante pronuncia proviene invece dalla Cassazione, e ha ad oggetto la questione – sinora rimasta in larga misura aperta – se il principio della necessaria retroattività della lex mitior, così come declinato a livello di legislazione ordinaria dall’art. 2, co. 2, Cost., si applichi anche all’ipotesi in cui il venir meno del reato dipenda da una legge abrogativa poi dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale12.

Nel caso di specie, il pubblico ministero aveva richiesto il rinvio a giudizio di numerose persone imputate di avere partecipato a un’associazione di carattere militare con scopi politici, denominata “camicie verdi”, condotta punita all’epoca dei fatti dall’art. 1 del d.lgs. 14.2.1948, n. 43. La disposizione penale in questione era stata nel frattempo abrogata dall’art. 1 del d.lgs. n. 213/2010, il quale era però stato dichiarato incostituzionale dalla sent. 23.1.2014, n. 5 della Corte costituzionale13: sentenza il cui effetto era stato, dunque, quello di far rivivere la norma incriminatrice in questione. All’udienza preliminare, celebratasi a valle della sentenza della Consulta, il giudice disponeva comunque il non luogo a procedere, ritenendo che agli imputati dovesse applicarsi il disposto dell’art. 2, co. 2, c.p., a nulla rilevando che la legge posteriore in questione fosse stata nel frattempo dichiarata incostituzionale.

La Cassazione, investita del ricorso della pubblica accusa, passa dettagliatamente in rassegna la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di retroattività della lex mitior, concludendo nel senso che la Consulta ha sì gradatamente riconosciuto il proprio sindacato anche su norme penali di favore, con conseguente possibilità di un ampliamento dell’area della penale rilevanza (o comunque di inasprimento del trattamento sanzionatorio già previsto) per effetto di sentenze di accoglimento; ma non avrebbe mai deciso la questione se la norma di favore espunta dall’ordinamento per effetto di tali sentenze possa o meno produrre effetti nei confronti dell’imputato nel procedimento a quo che abbia commesso il fatto prima dell’entrata in vigore della norma dichiarata illegittima.

Trovandosi dunque – asseritamente – per la prima volta a risolvere in via interpretativa la questione in parola, la Cassazione rileva come sia assolutamente pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che l’eventuale ablazione della norma di favore da parte della Corte costituzionale non possa ripercuotersi negativamente sulla posizione dell’imputato il quale abbia commesso il fatto nel vigore della norma dichiarata incostituzionale, dal momento che l’applicazione nei suoi confronti della norma più sfavorevole “risuscitata” a seguito della sentenza della Corte costituzionale si risolverebbe in sostanza in una applicazione retroattiva, nei suoi confronti, di una legge penale non più in vigore al momento della condotta. Analoghe considerazioni dovrebbero però valere, secondo la Cassazione, anche rispetto ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della norma poi dichiarata inincostituzionale, la quale è pur sempre intervenuta nella realtà giuridica determinando una abolizione del reato precedentemente in vigore, con gli effetti stabiliti in via generale dall’art. 2, co. 2, Cost.; senza che possa in senso contrario argomentarsi sulla base della distinzione tra il fenomeno (fisiologico) dell’abrogazione della norma incriminatrice e quello (patologico) della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma recante l’abolitio criminis.

Di qui il rigetto del ricorso della pubblica accusa, e la conferma della statuizione liberatoria nei confronti degli imputati, in forza dell’art. 2, co. 2, Cost.

I profili problematici

Le pronunce sin qui analizzate sollevano o approfondiscono numerose questioni problematiche in materia di nullum crimen. ovvie ragioni di spazio ci consentono qui di dedicare qualche cursoria (e necessariamente provvisoria) osservazione soltanto ad alcune di esse.

Legalità penale “nazionale” ed “europea”

La vicenda innescata dalla sentenza Taricco della C. giust. UE pone, anzitutto, delicati problemi di rapporto tra il nullum crimen nella sua dimensione di principio radicato nella tradizione costituzionalistica (e penalistica) italiana, e nella sua dimensione di diritto fondamentale riconosciuto nello spazio giuridico europeo dall’art. 49 della Carta e dall’art. 7 CEDU.

Che le due dimensioni non coincidano esattamente è risaputo, e continuamente sottolineato dalla dottrina italiana più recente14: al nullum crimen europeo è estranea la dimensione di tutela della divisione dei poteri in materia penale, sottostante al corollario della riserva di legge; in compenso, la legalità “europea” esprime una forte esigenza di prevedibilità dell’applicazione della legge penale dal punto di vista del consociato, da valutarsi sulla base non solo del dato testuale della disposizione normativa, ma anche della sua interpretazione ad opera della giurisprudenza, che viene ad essere intesa come vera e propria fonte in grado di chiarificare gradualmente la portata della norma penale, come la vicenda Contrada emblematicamente dimostra.

Tra le due dimensioni non vi è, tuttavia, contraddizione, nel senso che – di regola – il loro rapporto è ispirato alla logica del reciproco completamento delle garanzie, alla luce del criterio del massimo standard espresso – tra l’altro – dagli artt. 53 della CEDU e della stessa Carta dei diritti fondamentali UE: nessuna disposizione che prevede un diritto a livello internazionale può comportare di per sé l’abbassamento del livello di garanzie già riconosciuto a livello domestico dalla costituzione nazionale15.

I problemi possono sorgere però – come il caso Taricco ha ben evidenziato – nelle materie interessate da una limitazione della sovranità nazionale ai sensi dell’art. 11 Cost., come per l’appunto nell’ambito di applicazione del diritto UE, caratterizzato da primazia rispetto al diritto nazionale. Qui la pretesa delle istituzioni UE – a cominciare dalla Corte di giustizia – è evidentemente quella di assoggettare sì l’azione dell’UE ai limiti imposti dai diritti fondamentali; con riferimento, però, ai diritti fondamentali così come riconosciuti e tutelati dalla Carta, e dunque – in forza del richiamo di cui all’art. 52(3) della Carta medesima – nell’estensione che essi hanno acquisito in primo luogo ad opera della giurisprudenza di Strasburgo formatasi sulle corrispondenti garanzie convenzionali. Senza che, viceversa,

possano essere tollerati dalle istituzioni eurounitarie limiti ulteriori riconosciuti da questa o quella specifica tradizione costituzionale nazionale, suscettibili come tali di compromettere l’efficacia e l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione.

Questo dilemma si è evidenziato per la prima volta in occasione del caso Melloni, che aveva visto confrontarsi gli standard del diritto al processo equo in materia penale riconosciuti a livello europeo e i più elevati standard previsti – in materia di divieto di processo in absentia – nell’ordinamento costituzionale spagnolo: standard, questi ultimi, che minacciavano di compromettere il funzionamento del mandato di arresto europeo, e che per questo furono considerati recessivi dalla Corte di giustizia rispetto al valore del primato del diritto UE nella materia della cooperazione giudiziaria e del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie16.

In quell’occasione, peraltro, la Corte costituzionale spagnola – dalla quale proveniva il rinvio pregiudiziale deciso dalla Corte di giustizia in Melloni – alla fine cedette, rinunciando a imporre la “propria” visione del processo equo e a bloccare, così, il funzionamento del mandato di arresto europeo in omaggio alla tradizione costituzionalistica nazionale, che non avrebbe consentito la consegna di una persona condannata nell’ambito di un processo celebrato in contumacia17.

Mentre tutt’affatto differente pare, oggi, l’atteggiamento della Corte costituzionale italiana, che ha senza mezzi termini preannunciato l’opposizione dei controlimiti, qualora la Corte di giustizia dovesse persistere nella propria pretesa di far prevalere le esigenze di effettività della lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione rispetto alla tutela del nullum crimen nella sua dimensione nazionale italiana.

I prossimi mesi diranno come questo difficile conflitto sarà affrontato e risolto nella dialettica tra le due corti, preoccupate entrambe di difendere valori e principi essenziali dal punto di vista dell’ordinamento di appartenenza (i diritti e principi fondamentali dell’ordinamento italiano, considerati addiaddirittura espressivi dell’“identità costituzionale” nazionale, da un lato e il principio del primato del diritto UE, dall’altro). Resta, comunque, il rammarico determinato da quella che chi scrive considera l’inutile radicalizzazione del conflitto determinata dall’ordinanza n. 24/2017, che minaccia l’uso di un rimedio nuovo e drammatico come i controlimiti, a difesa di un principio invero sacrosanto – la legalità penale – applicato però a un istituto – la prescrizione del reato – che si situa in una zona di “penombra” rispetto al nullum crimen, e che molte tradizioni costituzionali contemporanee considerano non a caso del tutto estraneo rispetto a quelle garanzie: non avendo granché senso ipotizzare un diritto soggettivo del singolo a sapere non solo se e quanto sarà punito, ma anche per qualche tempo dovrà tenere nascosto il proprio crimine per evitare di essere punito.

Il principio di precisione come canone ermeneutico?

Il principio di precisione della norma incriminatrice – evocato come uno dei contenuti sottesi al principio di legalità in materia penale, assunto quale “controlimite” nel caso Taricco – è venuto peraltro in considerazione, sotto una veste completamente distinta, anche nella sentenza Paternò delle Sezioni Unite, di cui parimenti si è dato conto poc’anzi.

Qui la Cassazione ritiene di poter correggere direttamente l’imprecisione di una disposizione incriminatrice, evidenziata in modo netto dalla C. eur. dir. uomo, attraverso un’ardita interpretazione conforme della disposizione medesima, che in sostanza espunge dal suo ambito applicativo una serie di ipotesi che il suo dato letterale – e l’interpretazione sin qui pacifica fornitane dalla giurisprudenza comune, con l’avallo della stessa Corte costituzionale – parevano invece pacificamente ricomprendere. Il principio di precisione della legge penale viene così utilizzato qui come criterio ermeneutico anziché come parametro di legittimità costituzionale, a supporto di un’operazione di riduzione teleologica della fattispecie penale nel quadro di una interpretazione costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata della fattispecie stessa: il che consente alla Cassazione di evitare il coinvolgimento del giudice delle leggi, che ben avrebbe potuto essere sollecitato a una dichiarazione di (parziale) illegittimità costituzionale della disposizione in questione, nella parte in cui sanziona l’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.

Si tratta di operazione condivisibile, ovvero di un’assunzione arbitraria, da parte della Cassazione, di poteri che – in un ordinamento basato su di un controllo di costituzionalità accentrato delle leggi – spettano unicamente alla Corte costituzionale?

Sul piano dei principi, chi scrive ha più volte sostenuto – sulla scia di assai più autorevole dottrina18 – che il principio di precisione della legge penale ben può operare come criterio ermeneutico a disposizione del giudice comune, il quale – tra più possibili significati di una legge penale, nessuno dei quali incompatibili con il suo tenore letterale – è a mio avviso tenuto a scegliere un’interpretazione in grado di assegnare confini precisi e riconoscibili ex ante alla fattispecie, in modo da segnalare ai consociati il più chiaramente possibile il confine tra il lecito e l’illecito (o i confini tra una fattispecie criminosa e l’altra, specie quando dalla qualificazione dipendano rilevanti differenze sul piano sanzionatorio)19.

L’operazione ora compiuta dalle Sezioni Unite è, per la verità, un pochino più ardita, nella misura in cui si risolve di fatto nella neutralizzazione di una parte di una fattispecie criminosa prevista dal legislatore, che sanziona il contravventore agli obblighi (id est, a tutti gli obblighi) inerenti alla sorveglianza speciale, compresi – parrebbe – quelli di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, che il giudice della prevenzione è tenuto a imporre nel momento in cui applica la sorveglianza speciale. Ma la Cassazione non pare esorbitare dal proprio ruolo interpretativo nel momento in cui seleziona, tra gli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale la cui violazione è penalmente sanzionata, quei soli obblighi il cui contenuto precettivo sia definito e riconoscibile ex ante dall’interessato, scartando invece dal raggio dell’incriminazione l’inosservanza di prescrizioni che le stesse Sezioni Unite definiscono come meramente apparenti (proprio in ragione della loro iperinclusività), come per l’appunto quelle in esame.

Piuttosto, le difficoltà concernono l’efficacia della sentenza delle Sezioni Unite sui procedimenti futuri, nonché sui procedimenti già definiti con sentenza passata in giudicato. L’autorevolezza del collegio da cui la sentenza proviene renderà, certo, verosimile un pronto adeguamento della giurisprudenza al principio di diritto dalla stessa espresso, con conseguente depenalizzazione di fatto, per il futuro, dell’ipotesi di violazione dei generici obblighi di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”. Ma, da un lato, la disposizione di legge resta immodificata, e nessuno può escludere che, in futuro, qualche giudice di merito – formalmente vincolato soltanto alla legge, ex art. 101, co. 2, Cost. – possa ritenere di discostarsi dalla lettura ora fornita dalle Sezioni Unite; ovvero che una sezione semplice della stessa Cassazione possa decidere di investire nuovamente della questione le Sezioni Unite, magari denunciando una supposta usurpazione da parte del massimo consesso di nomofilachia di compiti riservati alla Corte costituzionale.

Dall’altro – e si tratta dell’aspetto forse più inquietante – le sentenze di condanna già pronunciate per una violazione che ora le Sezioni Unite non ritengono (più) costitutiva di reato parrebbero destinate a rimanere ferme, alla luce almeno dell’insegnamento della sentenza 12.10.2012, n. 230 della Corte costituzionale che – come si rammenterà – ha rifiutato di estendere il rimedio della revoca del giudicato per abolitio criminis, di cui all’art. 673 c.p.p., all’ipotesi di mutamento giurisprudenziale in bonam partem ad opera dalle stesse Sezioni Unite.

Facile pronosticare, in queste condizioni, che la questione ora decisa dalle Sezioni Unite in via di interpretazione conforme possa ritornare in un prossimo futuro alla Corte costituzionale, magari su iniziativa di un giudice dell’esecuzione chiamato a valutare un’istanza di revoca di un condannato in via definitiva per il reato in questione. Ciò che in definitiva dimostra come dell’intervento della Corte costituzionale quale custode ultimo del principio di precisione sia difficile fare a meno, nell’ordinamento italiano.

Sanzioni amministrative e principio di legalità

Ben tre sentenze della Corte costituzionale di cui si è dato conto nell’esposizione che precede hanno affrontato il tema della possibile estensione delle garanzie della legalità penale alla materia delle sanzioni amministrative20, e in particolare di quelle con più chiara “coloratura penale” ai sensi dei noti criteri Engel. Tali sentenze vanno peraltro ad arricchire, sotto questo profilo, un percorso già iniziato con la sent. 20.7.2016, n. 193, che abbiamo già avuto modo di discutere nel volume dello scorso anno21.

La Corte costituzionale ha ormai preso atto che, nell’interpretazione consolidata della C. eur. dir. uomo, tali sanzioni attraggono le garanzie stabilite dalla Convenzione per la materia penale, e in particolare quelle dell’art. 7 CEDU; garanzie che confluiscono nell’ordinamento costituzionale nazionale attraverso la valvola di comunicazione rappresentata dall’art. 117, co. 1, Cost., regolarmente invocato dalle ordinanze di rimessione in materia. D’altra parte, la recente giurisprudenza costituzionale ha più volte reiterato il principio secondo cui le garanzie di cui all’art. 25, co. 2, Cost. – e in particolare il divieto di applicazione retroattiva della legge penale – si estendono anche a sanzioni formalmente qualificate come amministrative, o comunque come sanzioni diverse dalle pene in senso stretto. Riallacciandosi a un lontano precedente del 196722, la sent. 4.6.2010, n. 196 ha in effetti espressamente ricondotto sotto l’ombrello protettivo dell’art. 25, co. 2, Cost. la sanzione della confisca dell’autoveicolo per i reati previsti dal codice della strada, nonostante il suo inquadramento formale come misura di sicurezza, sulla base dell’argomento secondo cui «tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina [costituzionale] della sanzione penale in senso stretto»23; la successiva sent. 10.4.2014, n. 104 ha proseguito su questo cammino, considerando la garanzia di irretroattività di cui all’art. 25, co. 2, Cost. applicabile anche a sanzioni amministrative previste da una legge regionale24; la sent. 16.12.2016, n. 276 ha poi ribadito, sia pure questa volta obiter, il principio secondo cui il principio di legalità in materia penale osta ad un’applicazione retroattiva di qualsiasi misura di carattere “punitivo-afflittivo”, comunque qualificata dal punto di vista formale25; e la stessa sent. n. 68/2017, poc’anzi analizzata, ha essa pure riconosciuto in linea di principio l’applicabilità della garanzia di cui all’art. 25, co. 2, Cost. ad una confisca per equivalente qualificata dal legislatore come mera sanzione amministrativa. Un simile processo estensivo delle garanzie “penalistiche” alla materia delle sanzioni amministrative non si è però svolto a trecentosessanta gradi: proprio la sent. n. 109/2017, poc’anzi commentata, rammenta in proposito come la costante giurisprudenza costituzionale abbia sinora escluso di dover estendere le garanzie di cui all’art. 27 Cost. (e in particolare quelle della personalità/colpevolezza di cui al co. 1, e quella della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al co. 3) alle sanzioni amministrative, alle quali resta dunque riservato nell’ordinamento costituzionale uno status autonomo rispetto alle vere e proprie pene.

Pur con questi elementi di incertezza, nessun dubbio dovrebbe sussistere sull’inderogabilità – almeno – del divieto di applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative, anche a fronte di decisioni difformi da parte del legislatore ordinario. Le sentenze n. 68 e 109 del 2017, come si è visto, hanno tuttavia concluso nel senso dell’inammissibilità delle relative questioni, nelle quali veniva per l’appunto in discussione la possibile violazione di tale principio ad opera delle disposizioni transitorie di due norme che avevano depenalizzato precedenti illeciti penali, prevedendo però l’applicazione retroattiva del nuovo regime sanzionatorio di natura (formalmente) amministrativa. Nella sent. n. 68, che più estesamente si confronta con il problema, la Consulta rimprovera in particolare al giudice a quo di avere omesso di valutare in concreto se il nuovo trattamento sanzionatorio – al quale si riconosce, in linea di principio, natura sostanzialmente penale ai fini dell’art. 25, co. 2, Cost. – risulti più o meno favorevole rispetto a quello precedentemente previsto per il reato depenalizzato, dal momento che nel primo caso dovrebbe senz’altro escludersi la violazione della garanzia costituzionale in parola, che avrebbe senso soltanto nel senso di precludere un trattamento sanzionatorio complessivamente deteriore rispetto a quello previsto al momento del fatto.

Che, tuttavia, la questione meriti davvero di essere risolta mediante un simile approccio “compensativo” appare, almeno agli occhi di chi scrive, assai dubbio.

Nel caso di specie, la Corte costituzionale trascura di considerare che la confisca per equivalente è sanzione del tutto eterogenea rispetto sia alla pena pecuniaria, sia alla confisca (diretta) in precedenza prepreviste.

Rispetto alla pena pecuniaria, anzitutto, le differenze sono rimarchevoli: la confisca non soggiace, ad es., alle regole di determinazione di cui agli artt. 133 e seguenti del codice penale; né l’autorità amministrativa è qui vincolata ad alcun importo massimo, l’ammontare della sanzione essendo unicamente determinato dal valore del profitto, del profitto o dei beni utilizzati per commettere il fatto, qualunque cosa ciò significhi nel caso concreto. Rispetto poi alla confisca diretta, la confisca per equivalente è a torto o a ragione ritenuta, secondo la concorde valutazione della giurisprudenza comune e costituzionale, essere misura ablativa da essa totalmente distinta, per natura giuridica e conseguente disciplina: misura di sicurezza la prima, vera e propria pena la seconda, che colpisce del resto beni affatto distinti da quelli assoggettabili alla confisca diretta. E dunque, la confisca per equivalente è, dal punto di vista del diritto costituzionale, una nuova pena, non prevista al momento del fatto, che come tale non dovrebbe essere applicata retroattivamente, anche laddove il legislatore disponga diversamente.

Quanto invece al profilo della necessaria retroattività della lex mitior, le recenti sentenze della Corte costituzionale in materia di sanzioni amministrative confermano anzitutto l’estraneità di tale principio al raggio applicativo dell’art. 25, co. 2, Cost., in consonanza con il costante orientamento della propria giurisprudenza – che, come è noto, riconduce piuttosto questa garanzia sotto il generoso ombrello protettivo dell’art. 3 Cost. Con ciò resta impregiudicata, però, la costituzionalizzazione indiretta del principio attraverso il passe-partout rappresentato dall’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU, che – nell’interpretazione fornitane dalla grande Camera della C. eur. dir. uomo nel caso Scoppola c. Italia – comprende ormai saldamente la retroattività in mitius tra i corollari della legalità penale26. Di talché non riesce facile comprendere come la Corte costituzionale possa sostenere la legittimità di norme di legge ordinaria che escludono l’applicabilità retroattiva di discipline sanzionatorie (formalmente qualificate come amministrative) più favorevoli ai pregressi, tali discipline ponendosi ormai in insanabile contrasto – se non con l’art. 25, co. 2, Cost. – con l’art. 7 CEDU, e dunque con lo stesso art. 117, co. 1, Cost.

Vero è peraltro, come la Corte costituzionale ha sottolineato nella sent. n. 43/2017, che nell’interpretazione della C. eur. dir. uomo il corollario in parola sembra pur sempre trovare un limite nella cosa giudicata, sicché sotto questo profilo il contrasto evidenziato dall’ordinanza di rimessione tra la legge impugnata e l’art. 117, co. 1, Cost. verosimilmente non sussisteva. Tuttavia, la soluzione cui è alla fine pervenuta la Consulta presta il fianco ad altra, e dirimente, obiezione: escludendo la possibilità di revocare provvedimenti sanzionatori emessi sulla base di una legge dichiarata in seguito illegittima dalla stessa Corte costituzionale, la sentenza finisce per consacrare lo stravagante principio secondo cui una sanzione illegittima che incide in senso limitativo sul diritto di proprietà degli interessati deve essere comunque eseguita.

Un principio che, mi pare, collide frontalmente – se non con l’art. 7 CEDU – quanto meno con l’art. 1 prot. add. CEDU, che come è noto esige che ogni limitazione del diritto di proprietà poggi su una base legale, e cioè su di una norma legittima – non già su di una norma eliminata dall’ordinamento proprio in quanto costituzionalmente illegittima.

Anche con il principio della necessaria retroattività della lex mitior nel campo delle sanzioni amministrative bisognerà, insomma, fare un po’ più seriamente i conti nel prossimo futuro, nonostante le strategie di elusione del problema messe in opera sinora dalla Corte costituzionale.

Retroattività della lex mitior incostituzionale?

Un ultimo cenno, infine, alla questione affrontata dalla Cassazione nella sentenza sulle “camicie verdi” padane: quella, cioè, della possibilità di applicare retroattivamente, in favore dell’imputato, una norma abrogratrice di una legge penale preesistente, allorché la norma abrogratrice stessa sia stata nel frattempo dichiarata incostituzionale, con conseguente reviviscenza della legge penale nel cui vigore è stato commesso il fatto27.

Dopo una lunga analisi della giurisprudenza costituzionale rilevante, la Cassazione affronta come abbiamo visto la questione sotto l’esclusivo angolo visuale dell’art. 2, co. 2, c.p. – e dunque sul piano della mera legislazione ordinaria –, ritenendo che la questione non sia risolta sul piano del diritto costituzionale.

La Cassazione omette, tuttavia, di riportare un passo cruciale della sent. 8.11.2006, n. 394, pure estesamente citata, ove testualmente si afferma che «il principio di retroattività della norma penale più favorevole in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto, successivamente operato dal legislatore, può giustificare – in chiave di tutela del principio di eguaglianza – l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione.

La lex mitior deve risultare, in altre parole, validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del procedimento dell’atto legislativo che l’ha introdotta e, in generale, della disciplina delle fonti (v., con riferimento alla mancata conversione di un decreto-legge, sentenza n. 51 del 1985); ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei valori espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, non v’è ragione per derogare alla regola sancita dai citati art. 136, primo comma, Cost. e 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma costituzionalmente illegittima – rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un solo giorno – determini, paradossalmente, l’impunità o l’abbattimento della risposta punitiva, non soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti i fatti pregressi, posti in essere nel vigore dell’incriminazione o dell’incriminazione più severa»28.

I principi enunciati dalla Corte costituzionale in quell’occasione sono stati, del resto, già puntualmente applicati dalla giurisprudenza di merito. All’indomani della sent. n. 28/2010, con cui la Corte costituzionale aveva dichiarata illegittima una norma dalla quale discendeva la non punibilità di fatti previsti come reato al tempo della loro commissione, il giudice di merito che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale ha in effetti dichiarato la prescrizione dei reati addebitati agli imputati, sulla base del presupposto della inoperatività, nei loro confronti, della legge dichiarata incostituzionale, ritenuta inidonea – proprio in quanto espunta dall’ordinamento, con efficacia ex tunc, dalla sentenza della Corte costituzionale – a determinare un fenomeno di abolitio criminis rilevante ai sensi dell’art. 2, co. 2, c.p.29

Non solo. La Corte di cassazione, nella sentenza qui all’esame, dichiara apoditticamente irrilevante, rispetto al quesito che la occupava, la distinzione tra abrogazione della norma incriminatrice ad opera di una scelta legittima del legislatore, che appartiene alla fisiologia dell’ordinamento, e dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma stessa, che appartiene invece alla patologia dell’ordinamento: distinzione che le Sezioni Unite avevano invece limpidamente enunciato nella sentenza Gatto al precipuo scopo di escludere dall’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p. (in quel caso, del suo co. 4) le vicende di successione normativa determinate, appunto, da dichiarazioni di illegittimità costituzionale delle norme succedetesi. Avevano osservato in quell’occasione le Sezioni Unite, in stretta aderenza del resto rispetto ai passaggi essenziali di una lontana ma mai smentita pronuncia della Corte costituzionale: «la declaratoria di illegittimità costituzionale, determinando la cessazione di efficacia delle norme che ne sono oggetto, impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse siano comunque applicabili ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo.

Il mutamento di disciplina stabilito per motivi di opportunità politica, liberamente valutata dal legislatore, costituisce, pertanto, fenomeno diverso dall’accertamento, ad opera dell’organo a ciò competente, dell’illegittimità costituzionale di una certa disciplina legislativa: in questa seconda ipotesi, a differenza che nella prima, è perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pur se venuto ad essere anteriormente alla pronuncia della Corte (Corte cost., sent. n. 49 del 1970)»30.

La sentenza della Cassazione ora analizzata appiattisce invece su di un unico livello valutativo due fenomeni completamente distinti, uno dei quali soltanto determina l’eliminazione radicale, con effetto ex tunc, di una norma dall’ordinamento. Una norma, quella dichiarata incostituzionale, che peraltro non v’è alcuna ragione di continuare ad applicare nei confronti di un imputato che abbia commesso il fatto prima della sua stessa entrata in vigore, quando la norma medesima non era in grado di ingenerare alcun legittimo affidamento da parte sua.

D’altra parte, la soluzione alla fine adottata dalla Cassazione risulta del tutto incoerente con la logica dell’ormai risalente sent. 22.2.1985, n. 51 della Corte costituzionale, che dichiarò illegittimo l’art. 2 c.p. «nella parte in cui rende applicabili le ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nei commi secondo e terzo [ora quarto] dello stesso art. 2», proprio sulla base dell’esigenza di evitare che il potere esecutivo potesse determinare, attraverso un decreto legge, l’impunità di reati in precedenza commessi, anche nell’ipotesi in cui lo stesso decreto legge non fosse poi convertito in legge dal Parlamento. Ciò che non è consentito mediante la decretazione d’urgenza dovrebbe ora – secondo la Cassazione – essere consentito al governo mediante lo strumento del decreto legislativo: anche nell’ipotesi in cui la delega sia esercitata palesemente al di fuori delle condizioni che ne segnano la legittimità.

Né la soluzione del necessario effetto retroattivo della norma di favore dichiarata incostituzionale risulta imposta dalle esigenze di rispetto dell’art. 7 CEDU (e dunque dell’art. 117, co. 1, Cost.): la Corte di Strasburgo, semplicemente, non si è mai confrontata specificamente con il problema, che avrebbe ad avviso di chi scrive meritato dunque una soluzione diametralmente opposta – e in linea con le chiare indicazioni provenienti dalla stessa giurisprudenza della Cassazione e della Corte costituzionale – da parte della nostra S.C.

Note

1 Leo, g., Concorso esterno nei reati associativi, in Libro dell’anno del Diritto 2017, Roma, 2017, 124 ss. La maggiore novità da segnalare in proposito concerne una sentenza della Cassazione che, in accoglimento del ricorso in executivis proposto dallo stesso Contrada, dichiara «ineseguibile e improduttiva di effetti penali» la sentenza a suo tempo pronunciata nei confronti del ricorrente, in tal modo dando esecuzione all’obbligo gravante sullo Stato italiano ai sensi dell’art. 46 CEDU (cfr. Cass. pen., 6.7.2017, n. 43112, dep. 20.9.2017, ric. Contrada, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Viganò, F., Strasburgo ha deciso, la causa è finita: la Cassazione chiude il caso Contrada, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 9).

2 C. cost., ord. 26.1.2017, n. 24, su cui cfr. per tutti i numerosi contributi raccolti in Bernardi, A.-Cupellli, C., a cura di, Il caso Taricco e il dialogo tra le corti, Napoli, 2017 (tra i quali, volendo, Viganò, F. Le parole e i silenzi. Osservazioni sull’ordinanza n. 24/2017 della Corte costituzionale sul caso Taricco, ibidem, 475 ss.).

3 C. giust. UE, grande Sezione, 8.9.2015, Taricco, su cui cfr. per tutti gli altrettanto numerosi contributi raccolti in Bernardi, A., a cura di, I controlimiti, Napoli, 2017 (tra i quali, volendo, Viganò, F., Il caso Taricco davanti alla Corte costituzionale: qualche riflessione sul merito delle questioni, e sulla reale posta in gioco, ibidem, 233 ss.).

4 C. eur. dir. uomo, 23.2.2017, De Tommaso c. Italia.

5 Cass. pen., S.U., 27.4.2017, n. 40076, dep. 5.9.2017, ric. Paternò, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Viganò, F., Le Sezioni Unite ridisegnano i confini del delitto di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione alla luce della sentenza De Tommaso: un rimarchevole esempio di interpretazione conforme alla CEDU di una fattispecie di reato, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 9.

6 Cass. pen., S.U., 29.5.2014, n. 32923, dep. 24.7.2014, ric. Sinigaglia.

7 C. cost., 7.4.2017, n. 68, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Viganò, F., Un’altra deludente pronuncia della Corte costituzionale in materia di legalità e sanzioni amministrative ‘punitive’, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 4.

8 C. cost., 11.5.2017, n. 109, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Viganò, F., Una nuova pronuncia della Consulta sull’irretroattività delle sanzioni amministrative, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 5.

9 Per un quadro recente degli ultimi sviluppi sul punto, cfr. Viganò, F., Nuovi sviluppi in materia di legalità penale, Libro dell’anno del Diritto 2017, Roma, 2017, 83 ss.

10 C. cost., 24.2.2017, n. 43, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Ubiali, M.C., Illegittimità sopravvenuta della sanzione amministrativa «sostanzialmente penale»: per la Corte costituzionale resta fermo il giudicato, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 3. Sulla sentenza, cfr. anche Chibelli, A., L’illegittimità sopravvenuta delle sanzioni «sostanzialmente penali» e la rimozione del giudicato di condanna: la decisione della Corte Costituzionale, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 4, 15 ss.

11 Cfr. in questo senso C. eur. dir. uomo, 12.1.2016, Gouarré Patte c. Andorra (su cui cfr. Viganò, F., Nuovi sviluppi, cit., 84 s.) relativa proprio a un caso in cui il ricorrente si doleva della mancata modifica del giudicato in relazione all’entrata in vigore, nel frattempo, di una norma sanzionatoria più favorevole, e in cui la C. eur. dir. uomo ha evitato di affrontare ex professo la questione.

12 Cass. pen., 22.9.2016, n. 24834, dep. 18.5.2017.

13 C. cost., 23.1.2014, n. 5, con nota di Scoletta, M., La sentenza n. 5/2014 della Corte costituzionale: una nuova importante restrizione delle «zone franche» dal sindacato di legittimità nella materia penale, in Dir. pen. cont. ‒ Riv. trim., 2014, fasc. 2, 242 ss.

14 Cfr. ad es., sul punto, Leo, g., Le trasformazioni della legalità penale nel sistema multilivello delle fonti, in Quest. giust., 2016, fasc. 4.

15 Per una distesa analisi sul punto, si consenta il rinvio a Viganò, F., Il nullum crimen conteso: legalità ‘costituzionale’ vs. legalità ‘convenzionale’?, in www.penalecontemporaneo.it, 5.4.2017, e ivi ult. rif.

16 C. giust. UE, 26.2.2013, Melloni.

17 Per un sintetico commento alla decisione della Corte costituzionale spagnola “a valle” di Melloni, cfr. Viganò, F., Obblighi di adeguamento al diritto UE e ‘controlimiti’: la Corte costituzionale spagnola si adegua, bon gré mal gré, alla sentenza dei giudici di Lussemburgo nel caso Melloni, in www.penalecontemporaneo.it, 9.3.2014.

18 Cfr. in particolare Marinucci, g.-Dolcini, E., Corso di diritto penale, III ed., 2001, 156.

19 Da ultimo in Viganò, F., Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in AAVV., La crisi della legalità. Il “sistema vivente” delle fonti penali, Napoli, 2016, 244 ss.

20 Per un’ampia e perspicua analisi della tematica, cfr. di recente Allena, M., La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e la prevedibilità, in federalismi.it, n. 4/2017, e ivi ult. rif. alla dottrina amministrativistica rilevante.

21 Cfr. Viganò, F., Nuovi sviluppi, cit., 86 s.

22 C. cost., 15.6.1967, n. 78.

23 C. cost., 26.10.2010, n. 196.

24 C. cost., 14.4.2014, n. 104.

25 C. cost., 5.10.2016, n. 276.

26 Per un’ampia analisi sul punto cfr. Viganò, F., Retroattività della legge penale più favorevole, in Libro dell’anno del Diritto 2014, Roma, 2014, 105 ss.

27 Chi scrive aveva già affrontato la questione alcuni anni or sono, pervenendo peraltro a conclusioni opposte a quelle cui perviene ora la Cassazione, in Viganò, F., Retroattività della legge penale più favorevole, in Il Libro dell’anno del Diritto 2012, Roma, 2012, 156 s.

28 C. cost., 8.11.2006, n. 394, considerato in diritto n. 6.4.

29 Trib. Venezia, sez. dist. di Dolo, 13.5.2010, in www.penalecontemporaneo.it.

30 Cass. pen., S.U., 29.5.2014, n. 42858, dep. 14.10.2014.

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