OCCUPAZIONE PIENA

Enciclopedia Italiana - II Appendice (1949)

OCCUPAZIONE PIENA (ingl. full employment)

Gaetano STAMMATI

La definizione di disoccupazione, da cui è necessario partire per arrivare al concetto di "piena occupazione", non è pacifica. Pure la necessità di definire con esattezza il fenomeno in questione si pone con evidenza non solo agli effetti statistici della misurazione della massa dei disoccupati e del calcolo esatto del costo (sia della disoccupazione in se stessa, come dei rimedî relativi e del conseguente onere finanziario), ma anche ai fini di una precisa impostazione e discussione del problema. Come non è agevole e univoco misurare la quantità della occupazione dal numero delle ore di lavoro prestate complessivamente dalla massa dei lavoratori, ancora più ambigua si presenta la misurazione e la nozione stessa della disoccupazione. Se deve considerarsi disoccupato solo chi, pur avendo desiderio di lavorare, non riesce effettivamente a lavorare (A. C. Pigou), non può essere considerato disoccupato chi - desiderando e essendo in grado di lavorare per nove ore al giorno - possa effettivamente lavorare per otto ore giornaliere, o chi rifiuta di lavorare al salario corrente (in certo tempo, luogo e occupazione), perché desidera riscuotere un salario superiore, e nemmeno, infine, colui che per motivi di salute non è in grado di attendere ad attività lavorativa. Insomma, in un certo periodo di tempo, il numero dei disoccupati è dato dal numero delle persone che desiderano lavorare a un certo livello corrente dei salarî, diminuito del numero delle persone che effettivamente riescono a trovare impiego.

Accanto a questo, che costituisce il fenomeno della disoccupazione di massa legata al fenomeno delle crisi, esiste poi il fenomeno della disoccupazione stagionale e della disoccupazione "frizionale", la quale ultima dipende dall'efficienza dell'organizzazione del mercato del lavoro, dall'adattamento di questo al mutare delle circostanze, dalle variazioni della domanda, ecc. Vale a dire che in pratica si riscontrerà sempre un certo numero di persone senza lavoro e in attesa di trovarlo.

Il pensiero degli economisti "classici" sulla disoccupazione, risulta implicito muovendo dalle premesse generali del sistema economico da essi ipotizzato: a) libera concorrenza perfetta; b) completa coincidenza del risparmio complessivo con gl'investimenti complessivi di una collettività; c) posizione "neutrale" della moneta. In tali condizioni l'equilibrio si consegue sempre ad occupazione completa e la eventuale disoccupazione esistente deve attribuirsi o a imperfetti adattamenti dell'offerta di lavoro alla domanda, ovvero a una rigidità dei salarî derivante da intese operaie o da disposizioni legislative, che - vietando o comunque ostacolando o impedendo la riduzione dei salari - rendono impossibile il conseguimento della posizione di equilibrio (l'occupazione totale). In altri termini, una riduzione dei salarî reali, diminuendo il costo marginale del lavoro, aumenta sempre l'occupazione. Quindi i rimedî contro la disoccupazione consistono essenzialmente nell'eliminare ogni fattore di rigidità dei salarî, lasciando che la disoccupazione si riassorba da sé, automaticamente, con la riduzione dei salarî nominali (e reali). E sempre l'offerta di ogni bene è in grado di creare la propria domanda: non vi è posto per le concezioni sviluppate da teorie successive che, pur nella diversa formulazione, arrivano a stabilire un concetto di "sovraproduzione" o di "sottoconsumo", ponendolo a base del fenomeno della disoccupazione.

Anche la teoria di A. C. Pigou non fa che rendere esplicito e perfezionare il pensiero dei classici, con i quali concorda nell'accettare le premesse del ragionamento e nell'indicare i rimedî, riducibili sempre alla eliminazione delle forze di attrito e alla riduzione dei salarî. Secondo il Pigou, la massa dei lavoratori occupati (nei due grandi gruppi degli addetti alla produzione di beni di consumo, che possono essere dati in salario - o wages-goods - e degli addetti alla produzione dei beni strumentali) dipende dal saggio reale dei salarî e dalla funzione della domanda del lavoro. Attraverso una serie di ipotesi semplificatrici, peraltro non sempre persuasive, si perviene a dimostrare la stretta correlazione esistente fra domanda e offerta di lavoro, deducendone rigorosamente le condizioni di equilibrio. Data una perfetta concorrenza fra lavoratori e una completa mobilità del lavoro, esiste quindi sempre una tendenza all'equilibrio, sulla base della occupazione totale. A proposito degl'interventi governativi, il Pigou ammette che essi possano svolgere una benefica azione sul riassorbimento dei disoccupati - mediante i tradizionali rimedî dei lavori pubblici, della concessione di premî, della espansione creditizia - ma rileva che essi, una volta adottati e conseguito lo scopo di adattare i salarî reali alle condizioni del mercato, non riescono più a modificare la entità della disoccupazione. E non dimentica di additare il pericolo di sfavorevoli ripercussioni sul ritmo di accumulazione dei capitali.

Forte dell'ammaestramento derivante dai fenomeni paurosi della grande crisi iniziatasi nel 1929 (e con ogni probabilità non riconducibili nel normale quadro dei fatti congiunturali, per la vastità e la complessità delle forze inusitatamente operanti: riconversione delle economie dal piede di guerra a quello di pace, esasperati nazionalismi economici, anormali trasferimenti di capitali, dovuti anche alle "riparazioni"), e abbandonando la piattaforma su cui si ergeva più o meno esplicitamente il pensiero dei classici, J. M. Keynes formulò nel 1936 una teoria che si presenta in completa antitesi con quelle fino allora enunciate e che ha prospettato una nuova luce sul problema della disoccupazione. Legate o meno (sostanzialmente, oltre che formalmente) al decorso del tempo, al centro del pensiero keynesiano si profilano le tre note variabili (più o meno) indipendenti, che sono: a) la propensione al consumo - rapporto tra il reddito percepito e la sua spendita in consumi - che non varia in ragione proporzionale al variare del reddito, giacché a mano a mano che il reddito aumenta i percettori sono portati a spenderne in consumi una quota relativamente decrescente, in quanto diminuisce l'urgenza dei bisogni da soddisfare; b) l'efficienza marginale del capitale, concepita come il saggio di sconto che renderebbe eguale al prezzo di offerta il valore attuale di una serie di redditi attesi da un investimento di capitale; c) il saggio corrente dell'interesse, concepito non più come per i classici, quale prezzo determinato dalla domanda-offerta di risparmio, adducente l'equilibrio tra risparmio e investimenti, sibbene come fatto puramente monetario, di remunerazione corrisposta al risparmiatore perché si induca a rinunciare alla liquidità del risparmio, quale risulta, appunto, dalla propensione alla liquidità. E poiché a queste tre variabili si legano le due variabili dipendenti: numero degli operai occupati e dividendo nazionale misurato in unità salariali, il Keynes giunge a prospettarsi la possibilità e anzi la probabilità di un equilibrio economico a occupazione parziale. Egli, infatti, in contrasto con la tesi classica (ma il contrasto pare scaturire piuttosto dal fatto che sono mutate le premesse del ragionamento di quegli autori e non inficia la correttezza delle loro deduzioni) può affermare che, per effetto del tesoreggiare, dovuto alla preferenza per la liquidità, il risparmio complessivo non uguaglia più l'investimento complessivo. Si palesa cioè un divario, un vuoto, tra l'altezza dei redditi che scaturiscono da un dato livello di attività produttiva e la domanda di beni da parte del mercato (siamo cioè di fronte a un "sottoconsumo"). E poiché con l'aumento del reddito, per la legge psicologica che regola la propensione alla liquidità, cresce il risparmio e con questo la propensione alla liquidità (che ostacola il maggiore investimento e la maggiore occupazione) deriva che il distacco accennato diventa tanto più sensibile quanto più elevato è il reddito individuale. In breve, per il Keynes, la politica della piena occupazione, in presenza di una insufficienza della domanda effettiva, cronica o ricorrente, dovrebbe articolarsi come segue: 1) operare, mediante lo strumento fiscale o con altri mezzi una redistribuzione del reddito dalle classi più abbienti a quelle meno abbienti, allo scopo di favorire la propensione al consumo; 2) stimolare gl'investimenti privati con varî mezzi, tra i quali, in primo luogo, quello della manovra del saggio d'interesse (la cosiddetta politica del denaro a buon mercato); 3) integrare le spese private con spese pubbliche finanziate allo scoperto, cioè in eccesso alle entrate fiscali (deficit spending), allo scopo di colmare la lacuna tra spese private e pubbliche (coperte dalle entrate fiscali) e reddito di piena occupazione.

Tale ragionamento apre la via alle successive deduzioni di W. Beveridge. Il Keynes aveva notato, insomma, che mentre ciascun consumatore decide circa la distribuzione del proprio reddito tra consumi e risparmî, spetta all'imprenditore, che effettua gl'investimenti, determinare poi in qual misura il risparmio debba essere speso, in modo che risparmio complessivo e investimento complessivo non vengano necessariamente a coincidere e che l'astinenza dei più ricchi, lungi dal favorire il progresso della ricchezza (come si era sempre sostenuto), lo ostacola invece, per la minore propensione al consumo e la maggiore preferenza per la liquidità. Da ciò uno sfasamento, che però, osserva il Beveridge, può essere colmato dall'intervento governativo, intervento tanto più facile in quanto lo stato non è legato, come il privato, all'obbligo della restituzione con pagamento di interessi e quindi necessitato all'impiego produttivo del risparmio mutuatogli, ma possiede un comando senza limiti sul credito della nazione e può usare il risparmio dei suoi cittadini a proprio piacimento. Se quindi i privati non investono a sufficienza, lo stato può intervenire in loro vece a colmare il vuoto che si è aperto tra risparmio e investimento. E così mentre il Keynes apre la via alla sue note proposte di imposte sui trasferimenti di ricchezza e sul capitale, di manovre inflazionistiche, di riduzione del saggio dell'interesse, di una adeguata socializzazione della produzione, il Beveridge preferisce, per ora, lasciare in piedi la produzione privata e pensa piuttosto a una socializzazione della domanda.

Secondo il Beveridge lo stato deve assumersi il compito di mantenere un elevato livello di occupazione e pertanto oltre ai controlli sugl'investimenti privati e sulla politica bancaria deve garantire l'equilibrio tra spesa pubblica e privata in modo che nel complesso esse risultino sufficienti a mantenere quel dato livello di occupazione. Per conseguire lo scopo si deve adottare una politica finanziaria ben lontana dai canoni ortodossi. Deriva da ciò il particolare significato del bilancio statale, inteso non solamente come strumento per determinare la spesa pubblica ma anche per influenzare la spesa privata. Il Beveridge sostiene inoltre la necessità di provvedere ad una razionalizzazione del mercato del lavoro: 1) con un opportuno controllo sulla dislocazione delle industrie che gioverebbe ad aumentare le possibilità di occupazione in quanto non lascerebbe liberi gl'industriali di esigere che i lavoratori spostino le loro case in cerca di lavoro; 2) con provvedimenti atti - per altro verso - a promuovere la mobilità del lavoro verso certe industrie e, se necessario, verso certe zone. Questo secondo punto deve essere inteso nel senso che, quando i mutamenti si rendono necessarî, uomini e donne possono essere disposti a mutare volentieri le loro occupazioni e il posto del loro lavoro, piuttosto che adagiarsi nell'ozio. In altri termini ci troviamo di fronte ad una economia pianificata che mira non solo a stabilizzare la domanda di lavoro a un sufficiente livello, ma altresì a dirigere la domanda di lavoro in determinate direzioni, e infine al controllo della produzione ai fini della domanda di lavoro.

La teoria keynesiana ha dato poi origine a due ulteriori teorie: quella della maturità economica o del ristagno secolare e quella di A. F. Hayek del cosiddetto "effetto di Ricardo". La prima, dovuta ad A. H. Hansen, si è affermata negli Stati Uniti ed è sorta come interpretazione delle cause della lunga depressione seguita alla crisi del 1929. Tale teoria sostiene che nelle economie capitalistiche il sistema economico è destinato, per un complesso di fattori dinamici negativi, a permanere in uno stato di sottooccupazione, dato che quei fattori vi hanno determinato il declino delle opportunità d'investimento. Nella impossibilità di trovare sufficienti impieghi per i risparmî relativamente abbondanti di cui è capace una collettività ricca, il sistema economico ristagna e non può uscire da questa situazione se lo stato non interviene nella vita economica nazionale con gli strumenti proprî della politica della piena occupazione e in particolare con la tassazione redistributiva e con il deficit spending. La teoria dello Hayek, che sviluppa la tesi ciclica, afferma che la crisi è dovuta a una insufficienza della domanda effettiva che si manifesta dapprima con una caduta della domanda di beni d'investimento. Egli però, a differenza dei keynesiani, sostiene che detta insufficienza è provocata da una eccedenza della domanda dei beni di consumo. Tale eccedenza di domanda, attraverso l'azione combinata dell'effetto di Ricardo (e cioè delle conseguenze di un rialzo dei salarî sulla meccanizzazione dei processi produttivi e viceversa) e del principio di accelerazione della domanda derivata, dà luogo aduna deficienza della domanda effettiva globale provocando la crisi.

Le diverse teorie sulla piena occupazione, in grado diverso, postulano tutte l'intervento dello stato. Senza addentrarci nell'esame dettagliato dei problemi che tale intervento statale propone - economia pianificata totalitariamente o parzialmente, limiti del piano statale, libertà economica e piano dello stato, ecc. - ci si limiterà a fissare solo alcuni punti che pongono in evidenza la effettività e la illusorietà dei rimedî proposti contro la disoccupazione e precisamente: a) il fenomeno della disoccupazione, rilevante una posizione di squilibrio del mercato, quanto meno rispetto al fattore lavoro, di cui l'offerta supera la domanda, riceve la sua più completa spiegazione se inquadrato in quello insieme di fenomeni dinamici in cui si manifestano i cicli economici; b) la più attendibile spiegazione del ciclo economico ne ricollega l'origine alla diversa dinamica di costi, di prezzi e di redditi; alla stregua di tale interpretazione il rimedio effettivo, la via di uscita non ingannevole, consiste in qualsiasi evento che agisca favorevolmente sui costi di produzione, dischiudendo prospettive di maggiori proficui investimenti e quindi dando impulso a un effettivo e duraturo movimento di ripresa; c) la realizzazione di questo evento favorevole e la possibilità di utilizzarne tutti gli effetti, ampliandone fino al massimo la portata, è in gran parte affidata alla stessa sagacia dell'imprenditore ma anche a una serie d'interventi statali volti a stabilire le premesse per una più vasta e proficua attività produttiva; d) altri interventi statali si rendono necessarî nel tentativo di opportunamente redistribuire i costi della disoccupazione o - per usare un termine di moda - per socializzare le perdite derivanti da attività antieconomiche; ma tali interventi, se pur necessarî, non si presentano risolutivi e portano in sé stessi i limiti della loro efficacia, in quanto si tratta, appunto, di attuare una ripartizione tale dell'onere della congiuntura avversa da renderla sopportabile anche ai più direttamente colpiti e ai meno abbienti.

Pertanto in definitiva - almeno in termini di puro ragionamento economico - non si profila antitesi fra una soluzione socialista e una soluzione liberista del problema della disoccupazione: l'iniziativa privata, la gara concorrenziale, hanno una loro specifica e non sostituibile funzione nel processo di erosione dei costi che rende vieppiù proficue le attività di produzione e estende il campo degl'investimenti e della occupazione; gl'interventi statali, o mirano a facilitare la ripresa di attività economiche indipendenti, e in tal caso concorrono a risolvere il problema di una più vasta occupazione, o mirano semplicemente a ripartire l'onere della disoccupazione e hanno allora il carattere di misure temporanee, la cui efficacia è sempre limitata, in definitiva, dalla capacità che presenta il reddito reale della collettività a sopportare l'onere anzidetto, aggravato di tutto il costo del processo redistributivo.

Bibl.: A. C. Pigou, The Theory of full employment, Londra 1933; J. M. Keynes, The General Theory of employment, interest and money, ivi 1936; P. Samuelson, Interaction between the multiplier analysis and the principle of acceleration, in Review of Economic Statistics, maggio 1939; A. C. Pigou, Employment and equilibrium, Londra 1941; id., Lapses from full employment, ivi 1945; A. H. Hansen, Economic policy and full employment, New York 1946.

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