Olimpiadi estive: Helsinki 1952

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi estive: Helsinki 1952

Giorgio Reineri

Numero Olimpiade: XV

Data: 19 luglio-3 agosto

Nazioni partecipanti: 69

Numero atleti: 4955 (4436 uomini, 519 donne)

Numero atleti italiani: 227 (204 uomini, 23 donne)

Discipline: Atletica, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallanuoto, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tiro, Tuffi, Vela

Numero di gare: 149

Ultimi tedofori: Paavo Nurmi e Hannes Kolehmainen

Giuramento olimpico: Heikki Savolainen

L'assegnazione della XV Olimpiade estiva a Helsinki era stata automatica: la capitale finlandese era stata costretta a cancellare i Giochi che le erano stati assegnati per il 1940 a causa dell'invasione sovietica, e dopo che Londra ‒ a sua volta designata per il 1944 ‒ aveva organizzato la prima edizione del dopoguerra, nessun'altra città aveva contestato quel diritto. Gli anni che precedettero i Giochi Olimpici di Helsinki ‒ e in particolare il periodo che va dal 1948 al 1952 ‒ furono di straordinaria importanza nel delineare il futuro del Movimento olimpico, e in particolare di quello del suo braccio politico-organizzativo, il CIO. La guerra aveva, difatti, radicalmente modificato la geografia politica del mondo: non soltanto l'Europa vedeva sconvolto l'antico ordine, ma anche l'Asia, e in particolare l'Estremo Oriente, ne uscivano profondamente cambiati. Nuove realtà statuali si affacciavano alla ribalta e con queste doveva aprirsi, anche da parte dei dirigenti sportivi, il confronto.

Il problema principale, che si era posto già alla vigilia dei Giochi di Londra, concerneva l'Unione Sovietica; subito dopo emergeva quello della Germania, con la complicazione della divisione del paese in due Stati sovrani; infine si aggiungeva la questione degli Stati cinesi: la Repubblica Popolare di Cina e Taiwan, dove era fuggito nel 1949, a seguito della sconfitta patita contro le forse rivoluzionarie di Mao, il generale Chiang Kai-shek.

L'Unione Sovietica, per volontà di Stalin, aveva fatto la sua scelta: vinta la guerra, doveva vincere anche nello sport. In una situazione di confronto a tutto campo con il mondo occidentale, i paesi comunisti, e per primo quello che tutti li dominava, non potevano tirarsi fuori dalla competizione, per di più in un settore della vita sociale la cui importanza appariva crescente. Stalin aveva chiaramente indicato che la strada da seguire era quella dell'integrazione nel movimento sportivo mondiale, abbandonando l'isolazionismo, sino allora perseguito soprattutto per ragioni ideologiche: per far questo bisognava organizzarsi. Ai migliori atleti venne dunque offerto il sostegno dello Stato: non professionismo, ma sussidi e soprattutto impieghi fittizi. Furono creati gli istituti per lo sport, si prepararono gli allenatori, fu promosso il rafforzamento di strutture, impianti e tecniche: in ogni campo, dall'atletica alla ginnastica, dal pattinaggio al nuoto, dall'hockey al basket, dal sollevamento pesi al pugilato, l'URSS doveva partecipare alle competizioni, e inserire i suoi rappresentanti negli organi dirigenti delle federazioni internazionali. La stessa politica fu seguita nei confronti del CIO. Il presidente, Sigfrid Edström, pur essendo un oppositore del regime sovietico, non esitò a dichiararsi favorevole ad accogliere l'URSS nel Movimento olimpico. Avery Brundage appariva più riluttante, soprattutto all'idea che un rappresentante sovietico entrasse nel board esecutivo. Tuttavia, delegati sovietici erano già stati presenti alle Olimpiadi di Londra, in qualità di osservatori dei sistemi di conduzione dell'organizzazione olimpica. Nel 1950 l'URSS aveva mostrato una rapida crescita dei suoi campioni, partecipando (per la seconda volta) ai Campionati Europei di atletica. In quello stesso anno, con una furba mossa politica, il regime sovietico decideva di liberare il membro tedesco del CIO Karl von Halt, che era stato internato come prigioniero di guerra. Nel 1951, in occasione della sessione di Vienna, l'URSS chiese formalmente l'ammissione al CIO e l'ottenne. Dopo aver effettuato questo passo Stalin ne tentò subito degli altri, come pretendere che il russo diventasse lingua ufficiale del CIO, che un sovietico entrasse nel board esecutivo e che la Spagna di Franco fosse espulsa. Il CIO, ovviamente, rifiutò, ma, in cambio, dovette cedere su un altro punto: la nomina del nuovo membro sovietico non venne concordata con il CIO, ma imposta. Kostantin Andrianov, indicato dal Comitato olimpico sovietico, venne inviato a Vienna perché prendesse possesso della carica, secondo una procedura del tutto contraria al protocollo. Nel giugno del 1952, l'URSS annunciò che avrebbe preso parte, per la prima volta, alle Olimpiadi, chiedendo contestualmente agli organizzatori finlandesi, in pieno stile sovietico, che la squadra dell'URSS, così come quelle dei paesi satelliti, fosse ospitata in una zona separata del villaggio olimpico. La scelta degli atleti da inviare ai Giochi non fu basata soltanto sul valore delle loro prestazioni, ma sulla affidabilità nei comportamenti: il grande decathleta estone, Heino Lipp, campione sovietico, fu lasciato a casa.

La questione tedesca era, ovviamente, molto diversa. La Germania, intanto, poteva contare su un potente avvocato all'interno del CIO, l'americano Brundage, che di certo non era mai stato acerrimo nemico del defunto regime nazista. Nel 1949 era stato nuovamente formato, nella Repubblica Federale, un Comitato Olimpico nazionale, con presidente Adolph Friedrich von Mecklenburg e segretario generale Carl Diem. Entrambi erano stati figure eminenti degli anni hitleriani: von Mecklenburg membro del CIO e Carl Diem uno dei maggiori promotori dello sport tedesco e della sua organizzazione, che aveva contribuito in maniera determinante al successo dei Giochi di Berlino e alla fondazione dell'Istituto internazionale olimpico. Nel 1951 von Mecklenburg aveva ceduto la presidenza del Comitato olimpico tedesco a von Halt, appena liberato dalle prigioni sovietiche: insomma, nello sport, o quanto meno nei suoi vertici rappresentativi, la Germania del dopoguerra e del doponazismo appariva del tutto uguale alla precedente. Questo fatto, gradito a Brundage, non lo era altrettanto ad altri membri del CIO e soprattutto agli organizzatori norvegesi dei Giochi invernali. Ma le complicazioni della vicenda tedesca non si fermavano qui, in quanto, seppure poco considerata, andava sempre più reclamando il suo diritto alla partecipazione olimpica la Repubblica Democratica di Germania. Si poteva ammettere una ed escludere l'altra? E su quali basi? Lord Burghley propose di riconoscere entrambe, a patto che si accordassero per formare una squadra sola. Le discussioni andarono avanti per mesi, con colloqui tra le due parti, ma senza che si raggiungesse un accordo. I tedeschi dell'Est non vollero collaborare alla formazione di una squadra unica e la conclusione fu che nessun atleta della Germania orientale venne incluso nella squadra per Helsinki.

Il caso cinese apparve subito ancora più complicato di quello tedesco, soprattutto perché nessuna delle due parti ‒ la Cina comunista e Taiwan ‒ intendeva rinunciare al proprio diritto di rappresentare il paese. In verità, un Comitato olimpico nazionale cinese era stato fondato e riconosciuto nel 1922, ma senza che se ne fossero visti frutti sul piano della creazione di un movimento sportivo. Un atleta cinese era comparso ai Giochi di Los Angeles del 1932, presenza annotata esclusivamente nella contabilità dei burocrati. Con la fuga di Chiang Kai-shek a Formosa e la presa del potere da parte dei comunisti di Mao, la Cina aveva seguito l'esempio dell'URSS nel cercare l'immediata integrazione nel sistema sportivo internazionale, fondando una propria federazione per tutti gli sport e chiedendo di essere invitata a Helsinki. Ma Burghley, che era anche presidente della IAAF, obiettò che questo non era possibile, non essendo la Cina affiliata alla Federazione internazionale di atletica. La dirigenza del CIO, tanto disponibile all'accoglienza dell'URSS, si mostrò del tutto sfavorevole a quella della Cina popolare, arrivando a sostenere tesi poco verosimili, come per es. che il vero Comitato olimpico che rappresentava il paese fosse quello costituito a Formosa. Naturalmente tale posizione, espressa da Edström e soprattutto da Brundage, era direttamente legata ai desiderata degli Stati Uniti e alla guerra di Corea, che vedeva i cinesi schierati con la Corea del Nord e gli americani con quella del Sud. Nella sessione di Stoccolma fu messa ai voti l'alternativa: o nessuna o due squadre cinesi; la seconda proposta ottenne la maggioranza dei consensi, ma alla fine Taiwan decise di boicottare l'Olimpiade proprio perché era stata invitata anche la Cina popolare. Questa inviò 50 atleti, che però arrivarono in ritardo, cinque giorni prima della chiusura dei Giochi. Uno prese parte alla gara di nuoto, i 100 m stile libero.

Alla vigilia dei Giochi di Helsinki si tenne il tradizionale Congresso del CIO. Edström era ormai ottantaduenne e deciso a lasciare, ma anche determinato a far eleggere il candidato che voleva e che aveva preparato per la sua successione, Brundage. Proveniente da una lunga carriera di dirigente sportivo negli Stati Uniti e da una altrettanto fortunata in campo economico finanziario, Brundage, nativo di Chicago, era un costruttore di successo, che poteva contare su una ricchezza personale di parecchi milioni di dollari. Sotto il profilo politico era un ultraconservatore, più incline alla separazione razziale che all'integrazione. Nessun dubbio che l'occhio particolare con il quale aveva guardato al nazismo avesse qualcosa a che fare con il suo antisemitismo, mai dichiarato apertamente ma sempre perseguito nei fatti. Per queste ragioni, anche all'interno del CIO, aveva avversari: come non ricordare che si era opposto a ogni azione di boicottaggio contro la Germania nazista e che, inviato in Germania prima dei Giochi di Berlino per accertarsi della realtà delle accuse di persecuzioni contro gli ebrei, ne era tornato rassicurando tutti che, almeno nello sport, nessuna discriminazione antisemita aveva luogo in quel paese? Naturalmente Brundage era anche un uomo di passione sportiva e di totale fedeltà ad alcuni principi cari a de Coubertin, soprattutto all'ideale secondo cui gli atleti non avrebbero dovuto ricavare alcun guadagno dalla loro attività sportiva; e infatti era stato proprio lui a far squalificare per professionismo, all'indomani dei trionfi olimpici di Berlino, Jesse Owens. L'opposizione a Brundage aveva puntato sulla candidatura di lord Burghley, presidente della IAAF, ex campione olimpico dei 400 m ostacoli, un aristocratico che, se non altro, non poteva certo esser accusato di antisemitismo o di antiche simpatie naziste. Ma nella votazione prevalse, come sempre era accaduto, il candidato del presidente uscente: Brundage ottenne 30 voti contro 17. Restò in carica per vent'anni, fedele alla sua concezione assolutistica del potere, cercando con ostinazione di frenare ogni sussulto modernizzante del Movimento olimpico.

I Giochi Olimpici di Helsinki furono assai belli, tranquilli, accolti da una folla entusiasta e competente. Il paese, che a seguito della guerra e dell'invasione sovietica, contro la quale aveva combattuto tenacemente, non era schierato con nessuno dei due blocchi, seguiva una politica di amichevole vicinato, anche a seguito degli accordi, con l'impero comunista confinante. La tradizione sportiva della sua gente, poi, era leggendaria e i suoi campioni, specialmente in atletica e nel cross country, costituivano l'orgoglio della nazione. Il governo aveva compiuto un notevole sforzo finanziario per l'Olimpiade, stanziando oltre un milione di dollari: così lo stadio olimpico era stato ristrutturato, portandolo a una capienza di 70.000 spettatori; era stata costruita una torre olimpica, alta 72,71 m, la misura del lancio vittorioso del grande giavellottista Matti Jarvinen alle Olimpiadi di Los Angeles 1932; erano stati allestiti un villaggio per gli atleti e una nuova piscina; inoltre si era proceduto a organizzare l'ospitalità per gli oltre 100.000 turisti, mettendo a disposizione abitazioni private, caserme, scuole, camping.

Già all'epoca uno dei motivi di preoccupazione era la crescita della partecipazione e l'aumento del numero di eventi. Brundage aveva manifestato da tempo il desiderio che si procedesse a uno sfoltimento del programma e, notoriamente misogino, chiese la riduzione delle competizioni nell'atletica femminile. Tuttavia la richiesta non fu accolta e rispetto al programma presentato a Londra venne anzi disputato un maggior numero di gare con l'aggiunta della ginnastica femminile e, nel pugilato, dei pesi welter leggeri (63,5 kg) e medio-leggeri (71 kg). Gareggiarono per la prima volta Bahamas, Antille olandesi, Ghana, Guatemala, Hong Kong, Indonesia, Israele, Nigeria, Saarland (per il Land tedesco fu anche l'ultima), Thailandia, URSS, Vietnam. Sessantanove i paesi rappresentati, 4955 gli atleti, di cui 519 donne, in gara in 21 sport. La copertura radiotelevisiva fu limitatissima, praticamente soltanto in Finlandia e, parzialmente, in Svezia.

La cerimonia d'apertura fu uno dei momenti più emozionanti. Di fronte agli atleti e ai 70.000 spettatori apparve all'improvviso un uomo, che portava la torcia olimpica. La folla scattò in piedi, gli atleti si assieparono a bordo pista: il tedoforo era Paavo Nurmi. Compiuto il giro di pista passò la torcia a un altro staffettista ‒ Hannes Kolehmainen ‒ che salì i gradini fino in cima alla torre olimpica, dove fece ardere il tripode che sarebbe rimasto acceso per tutta la durata dei Giochi. Nurmi e Kolehmainen erano due eroi dello sport finlandese, avendo collezionato insieme ben 17 medaglie olimpiche. Ma Nurmi era qualcosa di più: nel 1932 non aveva potuto partecipare ai Giochi di Los Angeles perché accusato di professionismo proprio da Edström, allora presidente della IAAF, e dai dignitari del CIO, tra cui Brundage.

Gli uomini delle grandi fatiche, i corridori di lunga lena, avevano nutrito lo sport finlandese per quasi mezzo secolo e, dunque, nessuno più del pubblico finlandese poté comprendere e apprezzare il valore delle imprese di Emil Zatopek. Ufficiale dell'esercito cecoslovacco, Zatopek si era già messo in evidenza a Londra, conquistando il titolo olimpico dei 10.000 m e la medaglia d'argento sui 5000 m, ma quanto fece a Helsinki ha ben pochi paragoni nella storia dello sport. Dopo aver respinto il consiglio dei dirigenti della sua squadra di non partecipare alla sfilata degli atleti per risparmiare energie, Zatopek si apprestò al suo primo impegno in quell'Olimpiade, la difesa del titolo dei 10.000 m. Primatista del mondo con 29′02,6″, il cecoslovacco non aveva avversari. Il solo che poteva sperare di limitare il distacco era il francese Alain Mimoun, che già era stato secondo a Londra. La corsa fu senza storia: Zatopek la condusse dal principio alla fine, come una locomotiva ('locomotiva umana' fu il suo soprannome) e a uno a uno gli avversari si staccarono. Mimoun resistette sino a un 1,5 km dall'arrivo, poi dovette lasciare che il cecoslovacco vincesse con quasi 100 m di vantaggio, in 29′17,00″, primato olimpico. Settimo terminò l'inglese Gordon Pirie, uno dei più eleganti corridori di tutti i tempi.

Quattro giorni dopo la finale dei 10.000 m si disputavano le batterie dei 5000 m. A chi gli domandava se davvero avrebbe partecipato anche a quella gara, dato che era iscritto alla maratona, Zatopek rispose: "Sì, perché tra i 10.000 e la maratona ci sono troppi giorni di attesa. È meglio che nel frattempo faccia qualcosa". I primi cinque arrivati di ogni batteria si qualificavano per la finale e per Zatopek più che una corsa fu una sorta di gioco ottenere la qualificazione: per buona parte della gara affiancò il russo Aleksander Anufriyev, conversando con lui e incoraggiandolo; all'ultimo giro lasciò che lo svedese Bertil Albertsson lo raggiungesse e infine si fece da parte per lasciar passare anche l'australiano Les Perry. Naturalmente la finale fu molto più complicata: Zatopek, che era non soltanto un atleta straordinario ma anche un uomo amabile e generoso, volle metter sull'avviso, prima della partenza, il tedesco Herbert Schade, dicendogli: "Rimani tranquillo in coda al gruppo per i primi due chilometri, non buttar energie", ma Schade non ascoltò il suo consiglio. La gara ebbe continui cambi di ritmo. All'ultimo giro, cinque uomini erano in corsa per la vittoria: Zatopek, Mimoun, Schade e gli inglesi Chris Chataway e Pirie. A 300 m dall'arrivo, Chataway ‒ che divenne poi un politico di successo, occupando anche il posto di ministro della Pubblica istruzione ‒ lanciò l'attacco; dietro di lui Mimoun, Schade e Zatopek. All'ingresso dell'ultima curva, Zatopek scattò a sua volta, tutto all'esterno, in terza corsia e all'uscita in rettilineo era primo. Chataway, ormai provatissimo, inciampò nel cordolo finendo a terra, ma fu ancora capace di rialzarsi e terminare quinto, superato da Pirie. Quanto a Zatopek, correva speditamente verso la sua seconda medaglia d'oro, in 14′06,6″, record olimpico, seguito da Mimoun e Schade.

Quello stesso pomeriggio, Dana Ingrova Zatopkova, la moglie di Emil, si apprestava a disputare la finale di lancio del giavellotto. Al marito domandò di mostrarle la medaglia appena vinta e dopo averla esaminata disse: "La tengo con me, sarà un portafortuna e un'ispirazione per la mia gara". Con un lancio a 50,47 m, vinse il titolo olimpico, battendo una feroce concorrenza sovietica. La sera, ai giornalisti che gli chiesero se era sempre deciso a partecipare alla maratona Zatopek disse: "Al momento, la situazione in casa Zatopek è la seguente: 2-1 in mio favore. Ma il risultato mi sembra troppo stretto. Devo fare ancora qualcosa per ristabilire il giusto equilibrio".

La maratona, come tradizione, chiuse le competizioni atletiche. Zatopek, che non aveva esperienza su quella distanza, decise che avrebbe seguito il ritmo del favorito, l'inglese James Peters, che deteneva la miglior prestazione mondiale (2h20′42,2″). Peters partì molto forte, Zatopek rimase sorpreso e indeciso, chiedendosi se non fosse rischioso iniziare la corsa a un simile ritmo. Così si limitò a sorvegliare l'inglese da lontano, affinché il distacco non salisse troppo. Poi, dopo quasi 15 km di corsa, in compagnia dello svedese Gustaf Jansson, raggiunse Peters. Per un po' i tre proseguirono assieme ma, a un certo punto, Zatopek accelerò e passò al comando, sempre seguito da Jansson, mentre Peters perdeva terreno. Poco dopo il 30° km, colpito da crampi, Peters si fermò e Jansson fu costretto a sua volta a lasciare che Zatopek corresse da solo verso la vittoria. La folla dello stadio di Helsinki lo accolse con una grande acclamazione e gli atleti che erano in campo andarono tutti a complimentarsi con lui: in 2h23′03,2″ aveva non soltanto migliorato un altro record olimpico, ma compiuto ciò che tutti ritenevano impossibile.

Nel 1956, seppure reduce da una delicata operazione di ernia, Zatopek fu ancora capace di concludere la maratona olimpica al sesto posto. Nessun dubbio che egli rappresenti, insieme a pochissimi altri atleti, l'ideale campione olimpico. Uomo di forti principi, fu leale dirigente del Partito comunista cecoslovacco ma, anche, patriota senza tentennamenti. Credendo profondamente negli ideali di libertà e giustizia sociale, aderì alla Primavera del 1968, patendo la successiva repressione sovietica. Venne espulso dal Partito e dall'esercito, di cui era colonnello, fu spedito in campi di concentramento e obbligato a lavori pesantissimi e ad ancor più dure umiliazioni morali. La sua salute fu definitivamente compromessa e neppure la riabilitazione, alla caduta del comunismo, poté riparare ciò che era stato distrutto. Alla sua morte, nel 2000, Praga si fermò per onorare uno dei suoi eroi più amati e rispettati.

Herbert McKenley, giamaicano, fu un po' il contraltare di Zatopek: atleta straordinario, ma sfortunatissimo. Già primatista del mondo dei 400 m (45,9″) aveva deciso di partecipare anche ai 100 m allo scopo di migliorare la partenza. Fece progressi tali da arrivare in finale e sfiorare la medaglia d'oro. Sembrò anzi che avesse vinto finché il photofinish non mostrò che Lindy Remigino, atleta degli Stati Uniti non troppo conosciuto, era riuscito a portare la spalla destra di un centimetro avanti a McKenley, che ebbe quindi l'argento (in 10,4″). Tutte le sue speranze puntavano, ormai, sui 400 m. Contro di lui, però, c'era un altro giamaicano, astro nascente della specialità: il venticinquenne George Rhoden, primatista del mondo con 45,8″. Fu una finale bellissima, alla quale presero parte anche Arthur Wint, il campione del 1948, e gli americani Malvin Whitfield (che aveva rivinto gli 800 m) e Ollie Matson (che sarebbe poi diventato un grande giocatore di football); l'unico europeo in gara era il tedesco Karl-Friedrich Haas. La corsa venne lanciata da una partenza velocissima di Wint ‒ 21,7″ ai 200 m ‒ mentre McKenley era stato assai cauto. In rettilineo d'arrivo, Rhoden si presentò primo, ma McKenley andava recuperando rapidamente. Sul traguardo erano appaiati: 45,9″ per entrambi, ma ancora una volta il photofinish relegò al secondo posto McKenley; il quale, per vincere una medaglia d'oro, dovette attendere la 4x400 m e la sfida con gli americani. Anche questa competizione fu di altissimo valore tecnico e spettacolare: Arthur Wint, Leslie Lang, Herb McKenley, George Rhoden contro Ollie Matson, Gerald Cole, Charles Moore, Malvin Whitfield. I quattro giamaicani avevano perso l'oro nel 1948 per un incidente muscolare patito da Wint in finale: ora erano determinati a riprenderselo. Una straordinaria frazione di Cole aveva portato gli Stati Uniti in vantaggio di quasi 12 m, quando il testimone passò a McKenley. E fu un capolavoro, la corsa di un uomo che si giocava ogni residua speranza d'oro, dopo aver perso cinque finali (nel 1948 era stato anche finalista dei 200 m). Recuperò tutto lo svantaggio venendo cronometrato in un fenomenale 44,6″. Poi toccò a Rhoden, che riuscì a contenere Whitfield migliorando il primato mondiale ormai vecchio di vent'anni di 4,3″ e portandolo a 3′03,9″. La Giamaica ottenne così un successo celebrato in patria con la proclamazione d'un giorno di festa nazionale.

C'è sempre qualcosa di inaspettato in un'Olimpiade. A Helsinki accadde che la finale dei 1500 m fosse vinta da un lussemburghese, Josy Barthel. Tra i grandi sconfitti vi fu il britannico Roger Bannister che, due anni più tardi, sarebbe entrato nella storia dello sport come il primo a scendere sotto i 4 minuti nel miglio. Barthel fece un corsa perfetta, e migliorò il suo primato personale di circa 3″ (3′45,1″ il tempo della vittoria). Alle sue spalle, l'americano Bob McMillen, che gli terminò ad appena un decimo di secondo, il tedesco Werner Lueg e poi Bannister. Per la prima (e ultima) volta l'inno del principato del Lussemburgo risuonò in uno stadio olimpico.

Secondo pronostico fu invece la vittoria del grande Harrison Dillard sui 110 m ostacoli. "Le belle cose succedono a chi sa aspettare" fu il commento di Dillard, che quattro anni prima, non essendo riuscito a qualificarsi per la gara di cui era primatista del mondo, aveva dovuto ripiegare sui 100 m. Dillard fu poi ancora protagonista del successo della 4x100 m americana, confermandosi uno dei più versatili atleti della storia di questo sport. La gara dei 3000 m siepi dette, anch'essa, un risultato sorprendente: invece del sovietico Vladimir Kazantsev, primatista del mondo, vinse l'americano Horace Ashenfelter, in 8′45,6″, nuovo primato mondiale. La sorpresa derivava dal fatto che Ashenfelter, che era un agente dell'FBI, aveva un precedente miglior risultato di 9′06,4″.

In campo maschile la supremazia americana fu netta, anche grazie ad atleti quali Parry O'Brien al getto del peso, il reverendo Bob Richards al salto con l'asta, il futuro grande giocatore di basket Walter Davis nel salto in alto, Robert Mathias nel decathlon. Più equilibrata, invece, la lotta in campo femminile. Ci fu l'Australia di Marjorie Jackson, vincitrice di 100 e 200 m, e di Shirley Strickland de la Hunty, capace di battere nella finale olimpica degli 80 m ostacoli, in 10,9″, il record del mondo di Fanny Blankers Koen. Questa, sofferente per un problema alla gamba, si ritirò al secondo ostacolo. Ma, soprattutto, ci furono le atlete sovietiche, specie nelle gare di potenza e forza (peso, disco). Ammirevole, in particolare, il talento di Aleksandra Chudina, terza nel salto in alto, seconda nel salto in lungo e ancora seconda nel lancio del giavellotto.

L'Olimpiade atletica italiana fu salvata da Giuseppe 'Pino' Dordoni. Il suo successo sulla gara più classica ‒ i 50 km di marcia ‒ fu netto, indiscusso e ammirato dalla critica: in 4h28′07,1″ non soltanto conquistò l'oro, ma anche segnò la miglior prestazione olimpica e mondiale. Dordoni era un marciatore di rara eleganza e compostezza: nessuno poteva eccepire sulla correttezza della sua azione. La marcia italiana, che non aveva più trionfato alle Olimpiadi dai tempi di Ugo Frigerio, riprendeva dunque a fare scuola. Adolfo Consolini e Giuseppe Tosi, rispettivamente secondo e ottavo nel disco, e Armando Filiput, sesto nei 400 m ostacoli, furono gli altri soli italiani finalisti. Nessuna finalista, invece, nell'atletica femminile: i tempi erano ormai cambiati, la partecipazione di nuove nazioni stava alzando considerevolmente il livello della concorrenza.

Nel pugilato si mise in luce il diciassettenne americano Floyd Patterson, che vinse il titolo dei pesi medi per k.o. dopo 74″ della prima ripresa contro il romeno Vasile Tita, con un terribile uppercut al mento. Quattro anni più tardi Patterson conquistò il titolo mondiale dei pesi massimi mettendo fuori combattimento Archie Moore: sarebbe rimasto il più giovane campione di questa categoria sino all'avvento di Mike Tyson. L'ungherese Laszlo Papp continuò a dominare, questa volta nella nuova categoria dei medioleggeri, dove si era piazzato tra i finalisti anche l'italiano Guido Mazzinghi. Aureliano Bolognesi, invece, si aggiudicò l'oro dei pesi leggeri, battendo per decisione dei giudici (2-1) il polacco Aleksy Antkiewicz. Nei pesi piuma, Sergio Caprari fu invece sconfitto (per decisione dei giudici 2-1) dal cecoslovacco Jan Zachara.

Il ciclismo su pista fu ricco di soddisfazioni per la squadra italiana. Enzo Sacchi, nella velocità pura (1000 m sprint), ripeté il trionfo di Mario Ghella del 1948, questa volta senza difficoltà contro l'australiano Lione Cox. Nella prova a cronometro sui 1000 m, Marino Morettini fu secondo alle spalle dell'australiano Russell Mockridge che, dopo aver vinto due medaglie d'oro ai Giochi del Commonwealth del 1950 e aver partecipato alla corsa su strada nel 1948, aveva preannunciato il ritiro per dedicarsi alla missione di ministro della Chiesa d'Inghilterra; salvo ritornare sulla sua decisione, per sfortuna di Morettini, in vista dei Giochi di Helsinki. Mockridge vinse anche la prova sui 2000 m in tandem con Lionel Cox (nella stessa gara, Antonio Maspes e Cesare Pinarelli furono terzi). Sei anni più tardi, mentre partecipava a una corsa su strada a Melbourne ed era seguito dalla moglie e dalla figlia di tre anni, fu investito e ucciso sul colpo da un autobus che non si era fermato all'incrocio. Marino Morettini, Guido Messina, Mino De Rossi, Loris Campana conquistarono il titolo olimpico a squadra sui 4 km d'inseguimento, migliorando il piazzamento ottenuto nel 1948 da Arnaldo Benfenati, Guido Bernardi, Anselmo Citterio e Rino Pucci. Nella prova a squadre a cronometro, Dino Bruni, Vincenzo Zucconello, Gianni Ghidini arrivarono secondi dietro il Belgio. Nella corsa su strada, Dino Bruni, Vincenzo Zucconelli e Gianni Ghidini terminarono rispettivamente al 5°, 6° e 7° posto.

Per quanto riguarda l'equitazione ‒ dove l'Italia ottenne un sesto posto con Piero D'Inzeo (in sella a Pagoro) nella gara di tre giorni su tre competizioni: dressage, endurance, jumping ‒ un'importante innovazione fu introdotta dalla federazione internazionale nel regolamento del dressage. Prima del 1948, soltanto cavalieri che fossero ufficiali di carriera potevano partecipare alle competizioni; dal 1952, la competizione fu aperta non solo a sottufficiali e soldati semplici, ma anche anche ai civili, uomini e donne.

Quattro cavallerizze presero parte alla competizione olimpica fra le quali la danese Lis Hartel, la cui storia è un vero romanzo. Nel 1944, ventitreenne, era una speranza di questo sport quando, sposata e incinta, fu colpita dalla poliomielite. Combatté contro gli effetti della malattia, prima rieducando ai movimenti le braccia, quindi provando ad allenare la muscolatura delle cosce. Quando nacque la figlia, in perfetta salute, Hartel ricominciò a educare il suo corpo. Poco alla volta riuscì a stare in piedi e a camminare con l'aiuto di stampelle. Quindi volle ritornare a cavalcare. Nel 1952 si qualificò per i Giochi di Helsinki dove, seppure paralizzata nelle gambe dalle ginocchia in giù, ottenne il secondo posto in sella a Jubilee, dietro lo svedese Henri Saint Cyr e al famoso cavaliere francese André Jousseaume.

La scherma si riconfermò, anche nel 1952, uno dei punti forti dello sport italiano. I fratelli Mangiarotti ‒ Edoardo e Dario ‒ ne furono la spina dorsale. La sfida con i tradizionali rivali, in particolare i francesi, continuò. Battuto dal celebre Christian d'Oriola nel fioretto, Edoardo Mangiarotti dovette limitarsi all'argento davanti a Manlio Di Rosa. Lo stesso accadde nella competizione a squadre: prima Francia, seconda Italia per una sconfitta in più (35 vittorie contro 34). Nella spada, invece, il trionfo dei milanesi Mangiarotti fu completo: oro per Edoardo, argento per Dario. I due erano cresciuti alla scuola del padre Giuseppe, gran maestro di scherma. A 11 anni, Edoardo era già campione italiano di fioretto, ma il padre, che era stato un grande specialista della spada, voleva che il figlio seguisse le sue tracce. A 17 anni, Edoardo faceva parte della squadra italiana che vinse l'oro alle Olimpiadi di Berlino. Alla fine della carriera, nel 1960, avrebbe collezionato 13 medaglie olimpiche: 4 ori (tra cui quello conquistato a Helsinki assieme al fratello Dario, e a Franco Bertinetti, Carlo Pavesi, Giuseppe Delfino, Roberto Battaglia) e un argento nella spada a squadre, un oro e due bronzi nella spada individuale, un oro e tre argenti nel fioretto a squadre e un argento nel fioretto individuale. Dario, poi diventato medico, si limitò a una medaglia d'oro e due d'argento. Sempre nel 1952, Gastone Darè fu quarto nella sciabola individuale, mentre l'Italia ottenne l'argento nella competizione a squadre.

Irene Camber divenne, sempre in quel 1952, la prima donna italiana a conquistare l'oro in una competizione di scherma, il fioretto. Favorita era l'ungherese Ilona Elek, che aveva vinto il suo primo titolo nel 1936 a Berlino e si era ripetuta a Londra 1948. Ma a 45 anni, nulla poté contro la freschezza e la classe dell'italiana.

La dominazione sovietica si manifestò con forza ed eleganza nella ginnastica, sia maschile sia femminile. Nel medagliere questo sport portò all'URSS un vantaggio che soltanto in extremis gli Stati Uniti sarebbero riusciti a colmare. Viktor Chukarin, un ucraino che era stato per sei anni in un campo di concentramento durante la Seconda guerra mondiale, conquistò sei medaglie, quattro d'oro e due d'argento e fu senza alcun dubbio il miglior ginnasta dei Giochi. Mariya Gorokhovskaya ‒ russa di origine ucraina ‒ e la connazionale Nina Bocharova furono le vincitrici delle medaglie d'oro e d'argento nel concorso individuale assoluto della ginnastica femminile, che a Helsinki si disputava per la prima volta. Unica loro avversaria l'ungherese Margit Korondi.

In un'Olimpiade in cui l'Italia aveva ottenuto un'affermazione collettiva importante arrivò anche il contributo della pallanuoto (terzo posto) e soprattutto della vela, con la celebre barca Merope I che Agostino Straulino e Nicolò Rode portarono alla vittoria nella classe Star davanti all'equipaggio americano composto da John Reid e John Price. Straulino e Rode sarebbero diventati, in Italia, il sinonimo dello sport velistico, ottenendo quattro anni più tardi, a Melbourne, la medaglia d'argento nella stessa classe.

Il nuoto fu dominato dagli americani, nelle gare maschili, e dalle ungheresi in quelle femminili (quattro titoli su cinque). Nei tuffi, Pat McCormik, americana, vinse sia dal trampolino sia dalla piattaforma, successo che la californiana, nata a Long Beach, avrebbe ripetuto nel 1956.

Nel tiro con la pistola automatica Karoly Takacs, ungherese, vinse nuovamente il titolo olimpico che aveva già conquistato nel 1948. La cosa singolare è che Takacs sparava con la mano sinistra poiché nel 1938, quando già faceva parte della squadra ungherese, aveva perso la destra durante un'esercitazione militare.

Nel calcio, l'Ungheria presentò la squadra delle meraviglie, con giocatori quali Gyula Grosics, Jozsef Bozsik, Nandor Hidegkuti, Sandor Kocsis, Ferenc Puskas, Zoltan Cziabor, Imre Kovacs, e vinse il titolo per 2-0 contro la Iugoslavia di Vladimir Beara e Vujadin Boskov, che fece poi carriera in Italia sia come calciatore sia come allenatore.

Medagliere

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