Olimpiadi estive: Melbourne 1956

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi estive: Melbourne 1956

Giorgio Reineri

Numero Olimpiade: XVI

Data: 22 novembre-8 dicembre

Nazioni partecipanti: 72

Numero atleti: 3314 (2938 uomini, 376 donne)

Numero atleti italiani: 134 (119 uomini, 15 donne)

Discipline: Atletica, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallanuoto, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tiro, Tuffi, Vela

Numero di gare: 145

Ultimo tedoforo: Ron Clarke

Giuramento olimpico: John Landy

I XV Giochi Olimpici si tennero a Melbourne, in Australia, in un periodo inconsueto: dal 22 novembre all'8 dicembre 1956. La decisione di celebrare l'Olimpiade nell'emisfero australe era stata presa a Roma, durante la sessione CIO del 1949, e la scelta della città aveva suscitato non pochi dibattiti. Le candidature erano difatti molte ‒ tredici, di cui otto nordamericane ‒ e tra queste anche quella di Buenos Aires, fortemente sostenuta dai membri latini del Comitato internazionale olimpico. Melbourne, al contrario, poteva contare sull'appoggio compatto degli anglosassoni e dei paesi dell'Europa del Nord, ma un singolare problema aveva complicato il successo della candidatura: a causa delle severe leggi del paese in fatto di importazione di cavalli ‒ era previsto un lungo periodo di quarantena ‒ diventava quasi impossibile far svolgere le gare di equitazione a Melbourne. Così, con un'eccezione rimasta unica nella storia delle competizioni olimpiche estive, fu avanzata la proposta che sede delle prove di equitazione fosse Stoccolma. Nella votazione finale, Melbourne batté Buenos Aires per un voto.

Nella stessa sessione romana il CIO decise di assegnare i Giochi invernali a Cortina d'Ampezzo, che superò nella votazione Colorado Springs e Lake Placid. Il successo ottenuto dalla diplomazia sportiva italiana fu molto importante, giacché nel 1949 l'Italia era ancora largamente considerata con sospetto ‒ specie dagli anglosassoni ‒ per via dei suoi trascorsi fascisti e della sua alleanza con i nazisti della Germania. La vittoria di Cortina segnalò, dunque, un recupero di credibilità della nascente Repubblica e del suo governo democratico, guidato da un leader di grande prestigio come Alcide De Gasperi. Inoltre quel voto costituiva un chiaro appoggio del CIO al rinato Comitato olimpico nazionale italiano che, sempre a causa dell'eredità fascista (Giorgio Vaccaro, uno dei membri italiani del CIO, era stato dichiarato decaduto nel 1950 per esser scappato in Argentina al fine d'evitare spiacevoli conseguenze in patria per il suo passato di gerarca), aveva dovuto faticare a riconquistarsi un posto nella vita politico-sociale del paese. Giulio Onesti, che all'indomani della Liberazione era stato designato da Pietro Nenni, in rappresentanza del Partito socialista, quale commissario del CONI, aveva avuto modo di mostrare le sue qualità di politico e di organizzatore, riuscendo a pilotare l'ente sportivo al di fuori dalle polemiche e, appoggiandosi all'allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti, a far votare disposizioni di legge che ne avrebbero garantito per mezzo secolo l'indipendenza economica.

Sempre in quella sessione del CIO, considerata l'inevitabile confusione creata dalla presentazione di differenti candidature di località appartenenti a un medesimo paese, si decise che questo non sarebbe stato più ammesso. In futuro, i Comitati olimpici nazionali avrebbero dovuto scegliere, nel caso di più richieste da diverse città, quale presentare come candidata ufficiale all'organizzazione del Giochi Olimpici.

I Giochi Olimpici di Melbourne furono anche i primi celebrati sotto la presidenza di Avery Brundage, che alla guida del CIO non modificò l'indirizzo che aveva seguito come dirigente sportivo negli Stati Uniti dove era stato per 25 anni presidente del Comitato nazionale olimpico e per sette mandati presidente dell'Amateur athletic union: fedele alle idee di de Coubertin, senza che il mutare delle situazioni politico-economico-sociali lo portassero ad adattare quei principi ai tempi moderni; rigido nel richiedere il rispetto del dilettantismo e determinato nel colpire l'atleta che ricevesse un qualsiasi compenso; sostanzialmente incapace di vedere che le vie del professionismo erano svariate e non potevano essere bloccate per editto; alieno dall'accettare l'idea che l'Olimpiade dovesse venire a patti con il mercato o, meglio, trarre dal mercato i mezzi per organizzare la propria vita e il proprio sviluppo. Lo sport ‒ ripeteva Brundage ‒ è un passatempo, un divertimento, un momento di ricreazione, l'opposto del lavoro. Nonostante le sue affermazioni, per altro, egli dedicava quasi tutto il suo tempo ai problemi dell'olimpismo, spendendo di tasca sua decine e decine di migliaia di dollari l'anno in questa crociata.

Nonostante il suo marcato conservatorismo, Brundage riuscì a mettere assieme le due Germanie, che in campo politico-militare erano divise tra Repubblica Federale e Repubblica Democratica tedesca. La trattativa non fu facile, ma l'accordo arrivò anche per la collaborazione piena offerta da Karl von Halt, membro tedesco del CIO, che a sua volta aveva un amichevole rapporto con il presidente del Comitato olimpico della Germania Est, Heinz Schobel. L'accordo, raggiunto alla fine del 1955, dopo che la Germania orientale era entrata a far parte, come nazione indipendente, del patto di Varsavia, prevedeva la presentazione ai Giochi del 1956 di una squadra unificata, con bandiera, uniforme e emblema nazionale unici; coabitazione nel villaggio olimpico; capo-delegazione espresso dal Comitato olimpico con la rappresentativa più numerosa; in caso di vittoria, inno del paese di cui il vincitore era cittadino; nessun inno in caso di vittoria 'mista'. Il Comitato nazionale olimpico della Germania orientale venne così ufficialmente riconosciuto e presto avrebbe anche avuto un suo rappresentante tra i membri del CIO. Ai Giochi di Cortina e di Melbourne le due Germanie furono, dunque, presenti con una sola squadra, e il fatto si sarebbe ripetuto per altre due Olimpiadi.

Risolto questo caso, il CIO non riuscì invece a trovare una soluzione per quello cinese. Il Comitato olimpico della Repubblica di Cina venne riconosciuto nel 1954, alla sessione di Atene, e invitato ai Giochi di Melbourne. In conseguenza di ciò, Taiwan declinò l'invito, salvo poi decidere di accettarlo. A quel punto toccò alla Cina popolare rifiutare, per protesta contro la presenza di Taiwan. Sulla questione influiva la situazione politica internazionale, con le pressioni in favore della Cina nazionalista degli Stati Uniti da un lato e quelle del blocco sovietico a sostegno della Cina popolare dall'altro. Al termine delle trattative, a causa dell'errore compiuto dagli organizzatori australiani che nel quartiere destinato agli atleti di Taiwan avevano fatto issare la bandiera della Cina popolare, anche la rappresentativa della Cina nazionalista fu richiamata in patria.

Ospitando le Olimpiadi gli australiani e la loro organizzazione sportiva miravano a rompere l'isolamento del loro paese e riaffermare gli stretti legami con la cultura europea. Le candidature ai Giochi si erano succedute prima con Perth poi con Sydney, ma senza successo. Figura eminente per la riuscita della candidatura di Melbourne fu Frank Beaurepaire, che era stato un brillante olimpionico all'inizio del secolo. Divenuto proprietario di una industria di pneumatici, chiamata non a caso Olympic, ed eletto presidente del Comitato nazionale olimpico, con abile e paziente azione di lobby aveva convinto i politici cittadini a proporre Melbourne come sede olimpica: naturalmente una parte importante nel successo dell'iniziativa era connessa allo sviluppo dell'industria del trasporto; gli aerei, ormai, permettevano di raggiungere l'Australia con relativa facilità, anche dai punti più lontani e soprattutto dall'Europa.

Come spesso accade, la preparazione dei Giochi fu difficile perché nessuno voleva sostenerne i costi che finirono per gravare sulle tasche dei cittadini-contribuenti. I dibattiti sulla necessità o meno di costruire nuovi impianti e un villaggio olimpico furono innumerevoli, situazione che si sarebbe riproposta quasi mezzo secolo più tardi per i Giochi di Sydney 2000. Alla fine una soluzione fu trovata grazie all'intesa tra lo Stato di Victoria e la città di Melbourne, che decisero di spartirsi gli oneri dell'impresa. Il Melbourne Cricket Ground fu modificato per creare lo stadio olimpico; vennero costruiti una nuova piscina e un nuovo velodromo; il villaggio olimpico, infine, fu ospitato in un quartiere già destinato alle abitazioni popolari.

Ma i problemi più complessi, per i Giochi, sarebbero arrivati dall'Europa. La situazione internazionale andava facendosi sempre più difficile, una disputa si era aperta per l'utilizzo del Canale di Suez, che il presidente egiziano Nasser aveva nazionalizzato in quella stessa estate. Il problema del confronto tra il governo egiziano e quelli di Francia e Gran Bretagna nasceva dalla controversia sui costi per la costruzione della diga di Assuan, per la quale i paesi occidentali avevano ritirato i finanziamenti. Con una mossa azzardata Israele, Francia e Gran Bretagna attaccarono l'Egitto per obbligarlo a riaprire il Canale, via di transito tra il Mediterraneo e l'Oceano Indiano e, dunque, vitale per gli approvvigionamenti di petrolio. La guerra venne rapidamente fermata dagli Stati Uniti, che si schierarono contro l'azione franco-britannica, anche per evitare d'inasprire la crescente tensione con l'impero sovietico. Dal punto di vista sportivo, il risultato fu che l'Egitto chiese l'esclusione dai Giochi Olimpici dei paesi aggressori, il CIO rifiutò ed Egitto, Libano e Iraq decisero di boicottare la manifestazione.

Negli stessi giorni dell'attacco franco-britannico all'Egitto Budapest insorse contro il regime comunista, domandando il ritiro delle truppe sovietiche. La situazione ungherese era complessa e pose all'Occidente il drammatico problema se intervenire o meno a favore degli insorti, rischiando in un caso di aggravare la Guerra Fredda e nell'altro di accettare l'autoritario ripristino del controllo sovietico del paese. Fu seguita sostanzialmente questa seconda strada e l'Occidente assistette senza intromettersi prima all'uscita delle truppe sovietiche da Budapest e all'apparente cambiamento legato alla presidenza di Imre Nagy, quindi al ritorno dei carri armati nel novembre 1956 e alle sanguinose battaglie nelle strade della città, infine alla caduta di Nagy, all'insediamento di Janos Kadar e alla riaffermazione del principio di sovranità sovietica.

In conseguenza della rivolta ungherese, alcuni paesi decisero di boicottare l'Olimpiade per protesta contro la presenza sovietica. L'Olanda annunciò subito che non sarebbe stata presente, seguita dalla Spagna di Franco, dalla Svizzera e poi da Ghana, Guatemala, Malta, Panama. Che proprio la Svizzera, paese nel quale l'olimpismo aveva stabilito la sua sede anche in base alla sua dichiarata neutralità rispetto agli schieramenti della politica internazionale, fosse tra coloro che avevano deciso il boicottaggio suscitò molta irritazione all'interno del CIO. Un tentativo dell'ultimo istante, da parte della Svizzera, di rivedere la sua posizione non andò a buon fine: impossibile, per i suoi rappresentanti, trovare un volo per l'Australia.

Gli ungheresi, per parte loro, parteciparono ai Giochi, anche perché molti atleti erano ormai in viaggio verso l'Australia quando la situazione era precipitata. Tuttavia la rappresentativa, specie in alcune specialità come l'atletica, patì continue defezioni e fughe di allenatori e campioni: 45 tra atleti e dirigenti rifiutarono di tornare in Ungheria, al termine dei Giochi, chiedendo asilo politico. Una delle glorie del paese, la nazionale di calcio, medaglia d'oro a Helsinki, finì dispersa nelle squadre di club dell'Europa occidentale, segnatamente la Spagna.

Al boicottaggio sopperì, in qualche modo, la presenza di nuovi paesi: Kenya, Etiopia, Isole Figi, Liberia, Uganda, Malesia e Borneo settentrionale (più tardi confluite in una sola rappresentanza). In totale si contarono 3314 atleti (una notevole riduzione rispetto alle edizioni precedenti, spiegabile soprattutto con le difficoltà e il costo del viaggio), tra cui 376 donne, in rappresentanza di 72 nazioni.

Il programma delle gare fu uguale a quello di Helsinki, salvo l'aggiunta in atletica della prova di marcia sui 20 km e, nel nuoto, dei 200 m farfalla, specialità che esordiva ai Giochi Olimpici configurandosi come una sorta di separazione tecnica dai 200 m rana. I 100 m farfalla, invece, non avrebbero fatto la loro comparsa sino all'edizione olimpica del 1968.

Tra i vari primati, non tutti invidiabili, che Melbourne può vantare (prima edizione disputata nell'emisfero meridionale, primo boicottaggio dichiaratamente politico, prima volta delle due Germanie, unite sotto la bandiera dello sport) c'è anche quello televisivo. Nonostante lo scarso entusiasmo dello stesso Brundage, prudente e conservatore anche in questo, il CIO richiese che gli organizzatori predisponessero le strutture per una ripresa televisiva dei Giochi, perché l'avvenimento venisse poi riprodotto in un film. I diritti furono ceduti dal Comitato organizzatore alla nascente televisione australiana per una cifra simbolica e i 5000 possessori di apparecchi televisivi nel paese poterono assistere alle trasmissioni predisposte dallo stadio olimpico e da pochi altri importanti siti di gare, come lo stadio del nuoto.

La fiamma olimpica al Melbourne Cricket Club venne accesa da un giovane tedoforo che, già primatista mondiale junior del miglio, sarebbe diventato in futuro una leggenda delle prove di resistenza: Ron Clarke. Un altro campione dell'atletica, celeberrimo corridore di mezzofondo e primatista del mondo del miglio con 3′58,00″, John Landy (che in seguito sarebbe divenuto governatore dello Stato di Victoria), pronunciò il giuramento olimpico.

Le gare di atletica e quelle di nuoto furono il cuore dell'Olimpiade australiana, come d'altronde voleva la cultura sportiva del paese; ma a fianco dei grandi risultati e delle imprese agonistiche, l'immaginazione popolare fu colpita da un evento completamente diverso: il romanzo d'amore tra un lanciatore di martello americano, Harold Connolly, e una discobola cecoslovacca, Olga Fikotova. Occorre riandare all'atmosfera di quei giorni: la tensione, al limite della guerra, tra mondo occidentale e mondo comunista, la rivoluzione di Budapest stroncata dai carri armati sovietici, le diffidenze reciproche e l'ordine impartito agli atleti dell'Est di non avere contatti con quelli dell'Ovest. Così la storia tra Connolly e Fikotova, fiorita al villaggio olimpico, attrasse l'attenzione dei reporter di tutto il mondo. Connolly era diventato campione olimpico di lancio del martello, battendo due sovietici: un risultato, di per sé, già eccezionale. Olga era diventata campionessa olimpica del disco, battendo ‒ anche lei ‒ due sovietiche. La notizia del loro desiderio di sposarsi non poteva che suscitare clamore, così come quella delle difficoltà che i dirigenti cecoslovacchi frapponevano a che questo avvenisse. Si sfiorò l'incidente diplomatico, ma alla fine il permesso fu accordato: a Praga il giorno del matrimonio, celebrato con due distinte cerimonie, una cattolica e una protestante, migliaia di persone augurarono alla coppia buona fortuna. Olga Connolly Fikotova diventò cittadina statunitense e partecipò ad altre quattro Olimpiadi, Connolly ad altre tre. Nel 1973 la coppia divorziò e Harold sposò un'altra famosa atleta, Pat Daniels. Di Connolly, che fu senz'altro il più illustre specialista del martello negli Stati Uniti e a lungo allenatore a Culver City, sobborgo di Los Angeles, si può anche ricordare che aveva il braccio sinistro più corto del destro e privo di forza.

Altro atleta americano a mettersi in luce, ma in questo caso per soli meriti sportivi, fu Bobby Morrow, l'ultimo grande velocista bianco degli Stati Uniti, campione olimpico dei 100 e nei 200 m. La sua vittoria sulla seconda distanza fu spettacolare, in particolare per il sorpasso, in rettilineo, di Andy Stanfield, il campione di Helsinki. Il tempo dell'atleta texano, 20,6″, eguagliava il primato del mondo e migliorava di un decimo quello olimpico, stabilito vent'anni prima da Jesse Owens.

I 1500 m furono una gara particolarmente interessante. Già nelle batterie si erano verificate diverse sorprese, con l'eliminazione del primatista del mondo ungherese Istvan Rozsavölgyi, del francese Michel Jazy e del campione olimpico in carica Josy Barthel. Fu eliminato anche il giovane etiope Mamo Wolde, destinato a vincere nel 1968, a Città del Messico, la medaglia d'oro della maratona, dopo esser stato secondo nei 10.000 m. I mezzofondisti ungheresi, sotto la guida del tecnico Mihaly Igloi ‒ fuggito durante la rivoluzione negli Stati Uniti ‒ erano diventati protagonisti delle corse di resistenza. Purtroppo, la tragica situazione del paese ne compromise il rendimento: l'eliminazione di Rozsavölgyi ne fu la prova, anche se alla finale prese parte un altro rappresentante del gruppo, Laszlo Tabori. Sandor Iharos, già primatista del mondo, aveva invece disertato i Giochi. Idolo australiano, in corsa per la vittoria, era John Landy, l'uomo che aveva tolto a Roger Bannister il record del mondo del miglio. In gara erano anche altri atleti che, tra il 1954 e il 1956, erano scesi sotto i 4″: il britannico Brian Hewson, l'irlandese Ron Delany, il danese Gunnar Nielsen. L'equilibrio, in verità, era totale: difficile dire chi fosse superiore. All'inizio dell'ultimo giro, i dodici finalisti stavano raccolti in 5-6 metri. Hewson e Merc Lincoln, un altro australiano, erano in testa; Delany era in decima posizione, Landy era confuso nel gruppo. L'attacco di Delany si ebbe all'inizio del penultimo rettilineo. Rimontò il gruppo e si avventò sul traguardo: impiegò 53,8″ negli ultimi 400 m, 25,6″ negli ultimi 200 m e 12,9″ negli ultimi 100 (3′41,2″ il tempo finale). Landy riuscì ad agguantare il bronzo, precedendo Tabori e seguendo il sorprendente tedesco dell'Est Klaus Richtzenhain. Subito dopo il traguardo, vedendo Delany a terra, Landy gli s'accostò per aiutarlo a sollevarsi. Solo allora s'accorse che l'irlandese stava pregando.

L'ucraino Vladimir Kuts, il più forte corridore di mezzofondo dell'Unione Sovietica, una sorta d'infaticabile metronomo che ricordava Zatopek senza possederne però il carisma, a Melbourne dominò i 5000 m e soprattutto i 10.000 m, come molti si attendevano, avendo conquistato soltanto poche settimane prima il primato del mondo della distanza. Tuttavia gli avversari non mancarono: primo fra tutti Gordon Pirie. Per evitare di rischiare allo sprint, Kuts stroncò gli avversari sul ritmo, passando i primi 5000 m in 14′07″, un tempo equivalente a quello ottenuto da Zatopek per vincere nel 1952. Ma alla sue spalle rimaneva Pirie. Da quel punto in poi, Kuts corse 'a elastico', accelerando e frenando, per cercare di distanziare l'inglese. Nulla da fare, sino a cinque giri dal termine quando Kuts quasi si fermò e Pirie fu obbligato a prender la testa. Il giro di relativa calma servì al sovietico per sferrare poi l'attacco: Pirie cercò di reggere per un tratto, poi si arrese. In meno di un chilometro, passò dal secondo posto all'ottavo. Ma la corsa fu ancora bella per la medaglia d'argento e quella di bronzo, che si aggiudicarono rispettivamente l'ungherese Jozsef Kovacs e l'australiano Allan Lawrence. Il duello Pirie-Kuts si ripeté nella finale dei 5000 m, ma anche questa volta l'esito fu a favore del sovietico. Per l'inglese e il suo concittadino Derek Ibbotson ci fu la consolazione degli altri due posti del podio.

Alain Mimoun, che era stato costantemente secondo di Zatopek, fu il trionfatore della maratona di Melbourne (dopo una curiosa partenza falsa). Atleta straordinario, il francese di origine algerina, con una storia di combattente nella Seconda guerra mondiale e di gollista, vinse senza problemi davanti allo iugoslavo Franjo Mihalic. Al traguardo attese l'arrivo di Zatopek, che terminò staccato di quattro minuti ma ancora sesto, per annunciargli la sua vittoria. Zatopek l'abbracciò e, come più volte avrebbe ricordato Mimoun, quell'abbraccio ebbe per lui più valore della stessa medaglia d'oro.

A Melbourne si conclusero, con la seconda medaglia d'oro in due Olimpiadi, le storie gloriose del triplista brasiliano Adhemar Ferreira da Silva e del campione di getto del peso, lo statunitense Parry O'Brien, ma se ne aprirono altre: quelle degli ostacolisti americani Lee Calhoun e Glenn Davis, rispettivamente nei 110 e 400 m ostacoli; e soprattutto quella di Alfred 'Al' Oerter nel lancio del disco. Al ventenne newyorkese bastò un lancio per vincere: temeva l'esperienza e la fama di due idoli della sua fanciullezza ‒ Adolfo Consolini e Fortune Gordien ‒ ma oramai il presente e il futuro erano suoi. Con 56,36 m trionfò, lasciando Gordien al secondo posto e Consolini al sesto, e per altre tre Olimpiadi non avrebbe avuto rivali: un record ‒ quattro vittorie consecutive nello stesso evento ‒ che soltanto Carl Lewis avrebbe eguagliato, nel salto in lungo.

Oerter fa parte della hall of fame dello sport mondiale; la sua forza di carattere e la sua determinazione l'hanno anche aiutato a combattere il disturbo, di origini genetiche, di cui sempre aveva sofferto: una forma non facilmente controllabile di ipertensione, in conseguenza della quale nel 2003 ebbe un attacco cardiaco in Florida. I soccorsi per un disguido tardarono e quando arrivò all'ospedale fu ritenuto morto. I medici, tuttavia, insistettero riuscendo, con sforzo disperato, a rianimarlo. Di quell'episodio, Oerter ‒ che continua a praticare sport e a lanciare il disco ‒ disse di ricordare soltanto un'immensa pace e un senso di completa rilassatezza. In seguito, rifiutò ogni ipotesi di trapianto cardiaco sostenendo che quel cuore gli aveva dato immense soddisfazioni e con quello sarebbe rimasto sino alla morte.

Una curiosità nel salto con l'asta, rivinto dall'americano Bob Richards: il greco Georgios Roubanis, medaglia di bronzo, fu il primo atleta a utilizzare un'asta di fiberglass che, dopo le Olimpiadi di Roma, avrebbe completamente cambiato la storia di questa specialità.

L'Australia presentò una squadra femminile fortissima: Betty Cuthbert, soltanto diciottenne, dominò la finale dei 100 m e quella dei 200 m. Vinse poi una terza medaglia d'oro con la 4x100 m. Shirley Strickland de la Hunty replicò sugli 80 m ostacoli la vittoria di Helsinki e portò, con il successo nella staffetta, il numero delle medaglie vinte nei Giochi a sette: tre d'oro, una d'argento e due di bronzo. Inoltre sarebbe rimasta la sola atleta ad aver vinto due titoli negli ostacoli. Ex insegnante di matematica, personaggio indimenticabile dello sport australiano, morì per un attacco cardiaco, nel gennaio del 2004, all'età di 78 anni.

L'Olimpiade di Melbourne fu, invece, modesta per l'atletica italiana. Nessuna medaglia, neppure nella marcia, dove tuttavia si annunciò, con il quarto posto sui 50 km, il talento di Abdon Pamich. Anche la 4x100 m maschile fu quarta, in 40,3″, con Franco Galbiati, Giovanni Ghiselli, Luigi Gnocchi e Vincenzo Lombardo. Giovanni Lievore terminò sesto nel giavellotto; e, in campo femminile, la torinese Giuseppina Leone si produsse nella miglior prestazione mai ottenuta da un'azzurra in una gara di sprint puro: l'ammissione alla finale e il quinto posto. Il talento di Leone, unito a quello di un'altra torinese, Maria Musso, e delle milanesi Letizia Bertoni e Maria Greppi, consentì alla nostra staffetta veloce di ottenere il quinto posto.

Le competizioni di basket furono ancora una volta dominate dagli Stati Uniti, guidati da due fuoriclasse: Bill Russell e Kenneth Jones. Entrambi diventarono poi stelle della NBA e, segnatamente, di uno dei club più gloriosi, i Boston Celtics. Ai Giochi di Melbourne, la squadra americana non ebbe rivali: vinse tutte le partite con almeno 30 punti di vantaggio, superando i 100 punti in quattro incontri. La media delle loro vittorie fu 99-46.

Il ventenne Wolfgang Behrendt deve la sua fama, più che alla sua carriera di pugile (pesi gallo), al fatto di esser stato il primo atleta a vincere un titolo olimpico per la Germania orientale. Invece il primo sovietico a conquistare l'oro nel pugilato, pesi piuma, fu Vladimir Safronov, un siberiano che di mestiere faceva l'artista ed era stato aggiunto alla squadra all'ultimo momento per un infortunio occorso a un compagno. L'italiano Franco Nenci salì sul podio ‒ argento ‒ nella categoria welter leggeri. Ma ancora una volta il pugile più applaudito e seguito fu l'ungherese Laszlo Papp che, sconfiggendo nei pesi medio-leggeri l'americano José Torres, conquistò la sua terza medaglia. Il valore del successo di Papp divenne poi misurabile su quello dell'avversario: Torres, difatti, diventò campione del mondo dei massimi leggeri nel 1965, mettendo k.o. Willie Pastrano. Nei pesi massimi, dove il titolo andò all'americano Peter Rademacher (che ebbe qualche gloria come professionista quando mandò al tappeto, titolo mondiale dei massimi in palio, Floyd Patterson), Giacomo Bozzano terminò terzo, alla pari con il sudafricano Daniel Bekker.

Leandro Faggin, uno dei grandi nomi del ciclismo su pista azzurro, conquistò a Melbourne il titolo olimpico sui 1000 m cronometro, contribuendo poi, sui 4000 m cronometro a squadre ‒ insieme a Valentino Gasparella, Antonio Domenicali, Franco Gandini e Valentino Pizzali ‒ al trionfo italiano. Nello sprint puro, invece, Guglielmo Pesenti fu sconfitto dal formidabile francese Michel Rousseau. Giuseppe Ogna e Cesare Pinarello terminarono terzi nella prova dei 2000 m in tandem. La vittoria più bella della spedizione italiana arrivò da Ercole Baldini, uno dei grandi del ciclismo mondiale nella prova su strada. Il 1956 fu, in verità, un anno d'oro per il ventitreenne dilettante romagnolo: campione del mondo dell'inseguimento sui 4000 m, record del mondo dell'ora e, infine, trionfo su strada con due minuti di vantaggio sul francese Arnaud Geyre. I francesi e i britannici se l'ebbero a male sostenendo che Baldini era stato aiutato, negli ultimi chilometri, dall'auto delle riprese televisive, che lo proteggeva dal vento. La protesta venne respinta.

Nelle competizioni di scherma continuò il duello Francia-Italia. Se Giancarlo Bergamini e Antonio Spallino furono sconfitti da Christian d'Oriola nel fioretto individuale ‒ e il francese diventò, dai giorni di Nedo Nadi, il solo ad aver vinto due titoli consecutivi in questa specialità ‒ la squadra italiana, completata da Edoardo Mangiarotti, Luigi Carpaneda, Manlio Di Rosa e Vittorio Lucarelli, batté quella francese. Il trionfo azzurro fu addirittura clamoroso nella spada individuale, dove Carlo Pavesi, Giuseppe Delfino ed Edoardo Mangiarotti conquistarono i primi tre posti e la squadra (completata da Alberto Pellegrino, Giorgio Anglesio e Franco Bertinetti) vinse l'oro davanti agli ungheresi. Nella sciabola, invece, si ebbe la conferma della scuola ungherese, con la prima vittoria di Rudolf Karpati che, alla fine della carriera, avrebbe contato sei medaglie d'oro.

La ginnastica maschile fu ancora dominata da Viktor Chukarin, che completava così la serie di vittorie iniziata nel 1952, ma il fatto più rilevante fu il successo del sovietico armeno Albert Azaryan negli anelli.

Nella competizione di canottaggio, il quattro con italiano ‒ Alberto Winkler, Romano Sgheiz, Angelo Vanzin, Franco Trincavelli e Ivo Steganoni ‒ vinse il titolo olimpico davanti alla Svezia.

Il tiro al piattello ebbe a Melbourne un campione italiano, Galliano Rossini, che può esser considerato l'iniziatore di una scuola in quest'arte di sparare rapidamente, come potrebbe fare un cacciatore (un tempo, era anche detto tiro al piccione, perché effettivamente due piccioni erano liberati contemporaneamente dalle gabbie, e prendevano a volare in diverse direzioni). Dopo il 1956 saranno diverse, infatti, le vittorie italiane in questa specialità.

Il nuoto venne seguito dagli australiani con l'attenzione e la passione dovuta a uno sport nazionale. Tre atleti locali salirono sul podio dei 100 m: Jon Henricks conquistò l'oro, in quella che era la sua cinquantaseiesima vittoria su questa distanza in 57 gare, negli ultimi tre anni; dietro di lui si piazzarono John Devitt (che vincerà a Roma, in un contestatissimo arrivo) e Gary Chapman, mentre furono sonoramente battuti gli americani. Murray Rose fu un'altra stella del nuoto australiano: vincitore dei 400 m, battendo il favorito connazionale John Konrads primatista del mondo, e dei 1500 m, migliorando stavolta il proprio record mondiale. Una terza medaglia d'oro venne dalla staffetta 4x200 m. Nelle gare in stile rana, da cui erano stati separati i 200 m farfalla, l'interpretazione dei regolamenti provocò molte squalifiche e contestazioni, relative al calcio che si poteva effettuare o no con le gambe e all'affondamento o no delle spalle sotto la linea di galleggiamento. Il giapponese Masaru Furukawa vinse il titolo e da qualcuno fu definito scherzosamente 'il nuotatore invisibile' per essere rimasto sott'acqua per quasi tre quarti della gara. Vincitore della prima edizione dei 200 m farfalla fu invece l'americano William Yorzyk; divenne poi medico anestesista ma continuò a nuotare e a 57 anni coprì i 200 m in 2′11″, vale a dire 8″ in meno del tempo impiegato per vincere il titolo olimpico.

Nelle prove femminili, l'indiscussa star fu l'australiana Dawn Fraser. Personaggio non amante delle convenzioni, spirito libero, faticatrice in piscina e desiderosa di divertirsi fuori, Fraser batté il record del mondo dei 100 m portandolo a 1′02,00″ e contribuì al successo della staffetta 4 x 200 m. Dopo aver ulteriormente ritoccato il primato mondiale, portandolo a 58,9″, Fraser lo mantenne per quindici anni, vincendo anche per tre volte di seguito il titolo olimpico della velocità acquatica. Sui 400 m, invece, toccò a Lorraine Crapp, altra diciassettenne australiana, superare Fraser: fu la prima donna al mondo a scendere sotto i 5′ su questa distanza. Anche i 100 m farfalla femminili si disputarono per la prima volta a Melbourne: vincitrice fu l'americana Shelly Mann che, da bambina, era stata colpita dalla poliomielite e aveva cominciato a nuotare per recuperare e tonificare la muscolatura nelle gambe e nelle braccia.

Il torneo di pallanuoto fu vinto dall'Ungheria: metà della squadra si rifiutò di ritornare in patria. Durante la semifinale con l'URSS, l'incontro degenerò rapidamente in una rissa: la partita dovette essere sospesa e la vittoria venne assegnata agli ungheresi, che conducevano per 4-0. Anche la polizia dovette intervenire, per evitare che il pubblico si scagliasse contro i giocatori sovietici identificati quali corresponsabili del massacro di Budapest. L'Italia, con Cesare Rubini alla sua terza Olimpiade, e con Federico Dannerlein, Paolo Pucci, Giuseppe D'Altrui, Enzo Cavazzoni, Angelo Marciani, Alfonso Buonocore, Cosimo Antonelli, Luigi Mannelli, Maurizio d'Achille, terminò al quarto posto.

Alberto Pigaiani, che divenne poi allenatore, vinse la medaglia di bronzo nel sollevamento pesi, categoria supermassimi (peso minimo 90 kg). Nella lotta greco-romana, invece, il peso mosca Ignazio Fabra, uno dei migliori nella storia italiana di questa specialità, ottenne la medaglia d'argento. Un'altra medaglia, di bronzo, venne conquistata da Adelmo Bulgarelli nei pesi supermassimi, non senza contestazioni per la sconfitta patita dal sovietico Anatoliy Parfenov.

Le prove di equitazione come si è detto si tennero in Svezia, a Stoccolma, nel mese di giugno del 1956, per via delle severe norme australiane che impedivano l'importazione di cavalli senza un lungo periodo di quarantena. Inutile sottolineare che si trattò di un'Olimpiade un po' speciale, nella quale tuttavia si misero in luce i fratelli Raimondo e Piero D'Inzeo che, nella prova di salto individuale, conquistarono rispettivamente la medaglia d'argento e di bronzo. Nella prova a squadra, ancora i D'Inzeo ‒ in sella a Merano e Uruguay ‒ e Salvatore Oppes, su Pagoro, furono secondi dietro la squadra tedesca. L'inglese Pat Smyte e la belga Brigitte Schockaert furono le prime donne a prendere parte a una gara olimpica di salto, in squadra mista.

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