Olimpiadi estive: Mosca 1980

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi estive: Mosca 1980

Gian Paolo Ormezzano

Numero Olimpiade: XXII

Data: 19 luglio-3 agosto

Nazioni partecipanti: 80

Numero atleti: 5179 (4064 uomini, 1115 donne)

Numero atleti italiani: 289 (242 uomini, 47 donne)

Discipline: Atletica, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Judo, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallamano, Pallanuoto, Pallavolo, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tiro, Tiro con l'arco, Tuffi, Vela

Numero di gare: 203

Ultimo tedoforo: Sergei Belov

Giuramento olimpico: Nikolai Andrianov

Nel febbraio del 1980, durante i Giochi invernali di Lake Placid, la squadra statunitense di hockey su ghiaccio sconfisse quella sovietica. Per celebrare la vittoria gli atleti vennero ricevuti dall'allora presidente Jimmy Carter e in quell'occasione si sentì parlare di una probabile azione statunitense di boicottaggio nei riguardi dei Giochi estivi programmati a Mosca quasi cinque mesi dopo (per la verità lo stesso Carter ne aveva accennato qualche tempo prima, in una conferenza stampa, ma si era pensato a un monito con risvolti diplomatici più che pratici). Il 27 dicembre 1979 l'URSS aveva invaso l'Afghanistan, dove un colpo di Stato aveva instaurato un governo filosovietico. La reazione di Washington aveva interessato anche il mondo dello sport, con la richiesta statunitense al CIO di togliere l'organizzazione dei Giochi alla capitale dello Stato invasore. Ma il Comitato olimpico era alle prese con una questione che in quel momento gli appariva prioritaria: la riammissione della Cina. I cinesi infatti premevano per tornare a far parte del consesso olimpico, abbandonato in occasione dei Giochi di Melbourne 1956, quando la selezione degli atleti di Pechino, già a Hong Kong per prendere il volo per l'Australia, venendo a sapere che avrebbe fatto parte della manifestazione anche la squadra di Taiwan, rifiutò di avallare con la sua presenza un'entità politica considerata illegale e nemica, esistente solo grazie al sostegno americano. In vista degli appuntamenti olimpici del 1980 il CIO, non riuscendo a ottenere la partecipazione di tutte e due le nazioni cinesi, decise di optare per quella di gran lunga più popolosa. Una rappresentativa simbolica di cinesi fu presente a Lake Placid, una molto più massiccia si preannunciò per Mosca. Ma intanto il Comitato olimpico trascurò di considerare che in quello stesso periodo negli USA si andava sancendo ufficialmente il boicottaggio dei Giochi di Mosca. Era marzo, mancavano pochi mesi all'inizio dell'Olimpiade, c'era pochissimo tempo per cercare una difficile pace. Il presidente del CIO, lord Killanin, invano contattò i due governi. Altrettanto inutilmente furono cercate soluzioni speciali, come per esempio un'edizione dei Giochi completamente 'denazionalizzata', nel senso che tutti i paesi avrebbero sfilato sotto la bandiera olimpica, gli inni e i vessilli nazionali sarebbero stati accantonati e le vittorie sarebbero state celebrate in nome del proprio Comitato olimpico e non del proprio paese. Il blocco USA si sentiva troppo forte per fare concessioni e d'altra parte l'URSS era troppo orgogliosa per accettare una qualsiasi diminuzione dei Giochi, anche soltanto sotto l'aspetto puramente formale.

Il CIO, colto di sorpresa dalla decisione statunitense e poi dall'irrigidimento sovietico, si trovò dunque in una situazione del tutto inedita. Il boicottaggio era stato proclamato, aveva la firma della Casa Bianca e vi avevano immediatamente aderito tanti grandi paesi alleati degli USA. L'Unione Sovietica da parte sua non dava alcun segno di cedimento né sulla questione afghana né in merito all'eventualità di Giochi senza inni e bandiere. Eppure quasi tutti erano certi che alla fine una soluzione si sarebbe comunque trovata. Nessuno paragonò il comportamento degli americani all'abbandono dei Giochi di Montreal da parte degli africani: quattro anni prima in effetti la parola boicottaggio non era quasi stata usata e si era preferito dare a quella rinuncia il senso di una protesta.

La soluzione non si trovò e il mondo dello sport si divise in due, ben più traumaticamente di quanto non fosse accaduto quattro anni prima, anzi si divise in due e non solo, perché all'interno di qualche paese, fra cui l'Italia, si trovarono ulteriori compromessi. Il governo italiano infatti si mostrò solidale con gli USA e dichiarò il suo no ai Giochi di Mosca, ma il CONI, indipendente come da statuto del CIO, fu lasciato libero di partecipare; rimasero esclusi soltanto gli atleti che facevano parte delle Forze Armate. Come l'Italia si comportò la Gran Bretagna, mentre la Francia, il paese di de Coubertin, optò per la partecipazione senza limiti e di contro la Germania Ovest fece rimanere a casa tutti i suoi atleti. Fra gli assenti vi furono i cinesi che, appena rientrati nel CIO, usarono il boicottaggio non tanto per allinearsi agli USA, ma per dare consistenza al loro contrasto ideologico con l'Unione Sovietica. Così a Mosca 1980 le nazioni partecipanti furono 80, contro le 92 di Montreal 1976 e le 122 di Monaco 1972. Gli atleti italiani sfilarono sotto la bandiera a cinque cerchi del CIO e non mancarono le rituali espressioni di solidarietà per quelli costretti a non gareggiare.

Le gare furono precedute da una sfarzosa cerimonia inaugurale che coinvolse quasi tutti i 100.000 spettatori presenti sulle gradinate dello stadio Lenin. Lo spettacolo, frutto di grande impegno e minuzia organizzativa, fu coordinato dalla regia di Yosiph Tumanov, noto coreografo del Teatro Bolscioi, e risultò di grande intensità. Sfilarono più 5000 atleti, come vent'anni prima a Roma, ma lo spettacolo nello spettacolo fu offerto dal pubblico che, accuratamente istruito e diretto, creò suggestive macchie cromatiche e affreschi viventi. La formula di apertura dei Giochi venne recitata da uno stanco Leonid Breznev, mentre tutta la città era mobilitata per dare agli ospiti il senso dell'importanza dell'evento.

Dal punto di vista sportivo fu una manifestazione di alto livello tecnico e agonistico. Una partecipazione popolare molto forte, e nessuno volle anche sapere se vigorosamente comandata, arricchì i Giochi di calore e competenza. L'organizzazione fu perfetta, evidentemente sostenuta da un budget adeguato. L'occasione olimpica servì anche per l'introduzione a Mosca della teleselezione telefonica, grosso vantaggio per la stampa internazionale e le sue necessità di servizio, ma anche importante passo verso una vera e propria apertura all'Occidente.

La riuscita dell'edizione fu dovuta anche a celebri duelli ingaggiati dagli atleti. Il mezzofondo, dopo l'esplosione degli africani a Città del Messico e il ritorno degli scandinavi a Monaco e a Montreal, vide alla ribalta due inglesi, Sebastian Coe e Steve Ovett, capaci di dare lustro alle competizioni degli 800 e dei 1500 m. I due personaggi erano molto diversi tra di loro, Coe aristocratico, curato nello stile di corsa e raffinato nei modi, Ovett di origine proletaria, potente e semplice. La loro rivalità risaliva al 1972, anno in cui si erano trovati uno contro l'altro nei campionati studenteschi britannici, Ovett secondo e Coe decimo. Si erano incontrati di nuovo nel 1978 negli 800 m ai campionati europei di Praga: Ovett argento e Coe bronzo. Erano riusciti comunque a ridurre al minimo i loro confronti diretti finché a Mosca 1980 ebbero la scena tutta per loro, in assenza di campioni americani altrimenti destinati a ruoli altissimi, come Edwin Moses nei 400 m ostacoli o Reinaldo Nehemiah nei 110 m ostacoli. La rivalità di Coe e Ovett a Mosca fu tutta affidata al cronometro e agli ordini d'arrivo, che comunque lasciarono i rispettivi sostenitori provvisti di buoni argomenti per difendere la superiorità dell'uno o dell'altro. Negli 800 m, nonostante il favorito fosse Coe, sulla scorta non tanto dei confronti diretti quanto delle ultime prove personali sulla distanza, la vittoria andò a Ovett, con appena 45 centesimi di secondo di vantaggio. Invece nei 1500 m dove il favorito era Ovett, fisicamente più forte e teoricamente più adatto a una fatica prolungata, vinse Coe, con Ovett soltanto terzo, dietro anche al tedesco orientale Jürgen Straub.

L'atletica leggera maschile, nonostante il blocco USA, vide belle gare, specialmente nei salti e nei lanci. Viktor Saneyev, sovietico, fu argento nel triplo, alle spalle del connazionale Jaak Uudmäe: dopo i tre ori di Città del Messico, Monaco e Montreal, mancò di poco il primato di quattro vittorie olimpiche consecutive del discobolo statunitense Al Oerter. Nel lungo vinse il tedesco orientale Lutz Dombrovski con 8,54 m. Fu una delle tante gare in cui la Germania Est spadroneggiò. Waldemar Cierpinski fu il primo al mondo dopo l'etiope Abebe Bikila capace di vincere la maratona in due edizioni olimpiche di seguito. Sulle distanze lunghe, però, il trionfatore fu l'etiope Miruts Yifter, vittorioso nei 5000 e nei 10.000 m con accelerazioni straordinarie. Si dichiarava di 35 anni ma sembrava più anziano; quattro anni prima era arrivato nono nei 10.000 m e non aveva corso i 5000 perché non si era fatto trovare pronto nel momento in cui lo starter sparava il colpo di pistola del via. Campione del decathlon fu un mulatto britannico di origine nigeriana, Daley Thompson, che a Los Angeles 1984 avrebbe rivinto, lasciandosi alle spalle tutto il resto del mondo. Fra le donne ci fu il consueto predominio delle tedesche dell'Est, con l'avvento nei 400 m di Marita Koch, i cui primati, forse di genesi chimica, hanno resistito anche al cambio di secolo. Grande prestazione della sovietica Tatyana Kazankina sui 1500 m, con una vittoria assoluta che non avrebbe potuto essere messa in discussione neanche se in gara vi fossero state le rivali assenti per il boicottaggio.

L'atletica italiana conquistò tre medaglie d'oro, un successo senza precedenti. Cominciò Maurizio Damilano nella 20 km di marcia. Atteso per il podio dagli esperti, i quali parlavano bene anche del gemello Giorgio in gara con lui (i due, di Scarnafigi, paesino in provincia di Cuneo, erano allenati dal fratello Sandro), Maurizio si impose in una disputa a tre con il sovietico Anatoliy Solmin e il messicano Daniel Bautista. A poca distanza dal traguardo era terzo dietro al sovietico e al messicano, ma i due correvano anziché marciare e i giudici di stile li squalificarono: Damilano entrò così vincitore nello stadio con una camminata impeccabile come nei primi metri, distaccando di molto un altro sovietico e un tedesco orientale. Si ricordarono Dordoni a Helsinki 1952 e Pamich a Tokyo 1964 e si fecero grandi lodi di una nostra tradizione antica che aveva i nomi di Frigerio e di Altimani, di uno sport umile e di grande sacrificio. Damilano fu straordinario nella presentazione del proprio personaggio, una scoperta per quasi tutti gli italiani: aveva dentro tutta l'umiltà del faticatore e tutta la consapevolezza del campione che sa di esserlo, anche perché sa cosa gli è costato diventarlo. Dopo la vittoria si fermò accanto al traguardo, in attesa del gemello Giorgio, che arrivò undicesimo. Giorgio era suo compagno di allenamenti, di gare e anche di musica: suonavano entrambi il clarinetto. Damilano venne premiato da Giulio Onesti che due anni prima aveva lasciato la presidenza del CONI a Franco Carraro, dopo oltre trent'anni spesi nell'opera di ricostruzione dello sport italiano.

Il secondo oro fu quello di Mennea, alla sua terza Olimpiade. L'atleta pugliese aveva mancato abbastanza clamorosamente i 100 m, eliminato in semifinale, dando argomenti a chi criticava la sua insofferenza a regole ormai consolidate di comportamento e il suo eterno senso di rivalsa da 'negro d'Italia' (sua definizione). Si pensava che anche i 200 m per lui fossero compromessi psicologicamente e si dava per favorito Allan Wells, un britannico del Galles, molto possente, che nello sprint breve era stato capace di staccare il cubano Silvio Leonard. Mennea si era presentato a Mosca con il primato mondiale dei 200 m, un sensazionale 19,79″ ottenuto l'anno precedente ai Giochi mondiali universitari di Città del Messico. Il primato, decisamente grande, pareva quasi obbligarlo a vincere quella Olimpiade, anche per dare conferma all'impresa messicana, compiuta in alta quota, con l'aiuto dell'aria rarefatta, oltreché in assenza pressoché totale di altri avversari che non fossero i cronometri. Mennea era allenato e assistito da Carlo Vittori, che da buon velocista era diventato eccezionale studioso dello sprint (e anche dei salti) ed era stato decisivo nella costruzione di un campione difficile, dai rapporti incostanti con il resto della squadra e in perenne polemica con il presidente federale, il piemontese Primo Nebiolo. Mennea aveva ormai 28 anni e aveva già annunciato più volte il ritiro dall'attività. Eppure vinse i 200 m, dopo una rimonta nella seconda parte che molti giudicarono contraria a ogni legge di resistenza, dando l'idea di una accelerazione supplementare quando ormai si doveva procedere quasi sullo slancio, cercando solo di resistere alle tossine della fatica. Wells sembrava prossimo alla doppietta come Borzov nel 1972 (e se si vuole andare ancora più indietro negli anni come Morrow nel 1956), quando si vide sfilare al fianco il 'negro d'Italia', che gli diede due decimi di distacco. Terzo arrivò il giamaicano Donald Quarrie, l'olimpionico di quattro anni prima. Mennea vinse contro Mennea, contro Vittori che lo aveva opposto all'avversario principale, quello che Pietro teneva dentro di sé: il Berruti di Roma 1960, il suo rivale ideale, il personaggio da lui più lontano, tanto liscio quanto lui era ruvido, tanto lineare quanto lui era contorto.

La terza medaglia arrivò invece dal volo sul regolo di Sara Simeoni nel salto in alto. Sara aveva allora 27 anni, il suo palmarès era già ricchissimo, con l'argento di Montreal e il primato mondiale a quota 2,01 m, ottenuto il 4 agosto 1978 a Brescia, exploit confermato dal titolo europeo di Praga, con la stessa misura, 27 giorni dopo. A Mosca Simeoni ebbe contro quasi tutta l'élite mondiale, che era soprattutto sovietica e tedesca orientale. La sua rivale storica, Rosemarie Ackermann della Germania Est, ultima fra le grandi a praticare lo stile ventrale, che l'aveva sconfitta quattro anni prima e che nel 1977 era diventata la prima donna al mondo capace di superare i 2 m, quel giorno si fermò a 1,94 m. Fu una delle gare più tese e più difficili di ogni tempo. All'inizio della finale Sara aveva fallito al primo salto a 1,88 m, rimediando al secondo tentativo. Quella zona dello stadio era molto umida, il clima era assolutamente inadatto alla produzione di sforzi intermittenti e sul prato affollato era quasi impossibile riuscire a mantenere la concentrazione fra un salto e l'altro. Le concorrenti furono eliminate una dopo l'altra. Simeoni, valicato l'1,97 m al secondo tentativo (alla prima prova aveva fallito come anche le due rivali rimaste in gara, la polacca Urszula Kielan e la tedesca orientale Jutta Kirst) attese, nel freddo dello stadio, sperando che le altre due sbagliassero. Così avvenne e Sara celebrò il suo oro con un ultimo salto, per scattare in piedi e poi correre in tondo, pazza di gioia. La vittoria avrebbe avuto quattro anni dopo l'appendice gloriosissima di un argento a Los Angeles, dietro alla tedesca occidentale Ulrike Meyfarth.

Grazie anche al bronzo assolutamente a sorpresa della staffetta 4 x 400 m, l'Italia si trovò a essere la prima potenza occidentale dell'atletica leggera, davanti alla Gran Bretagna e alla Francia. Tutto ciò, onestamente, avvenne grazie al boicottaggio: e proprio per questo ci fu soddisfazione, non ci fu trionfalismo. In altre discipline la mancata partecipazione degli azzurri con impegni militari costò qualche rinuncia, qualche perdita di risultato importante. Tuttavia l'assenza quasi totale di medaglie nella scherma (solo un argento nella sciabola a squadre) e quella completa nel ciclismo furono ascritte a carenze più di preparazione che di partecipazione. Il bilancio finale azzurro, con 8 medaglie d'oro, 3 d'argento e 4 di bronzo, per un quinto posto nella graduatoria per nazioni, dietro a URSS, Germania Est, Bulgaria e Cuba, fu la testimonianza di una forte e tempestiva capacità di eccellere lì dove si aprivano spazi legati anche al boicottaggio e di una onesta difesa altrove. In ogni caso vi fu un grosso progresso rispetto a Montreal 1976. I vincitori delle due medaglie d'oro in quei Giochi non gareggiavano a Mosca, il tuffatore Dibiasi perché diventato commissario tecnico degli azzurri e il fiorettista Dal Zotto perché militare.

I Giochi di Mosca non furono peraltro segnati solo da un aumento numerico delle vittorie azzurre ma da una concreta affermazione degli atleti italiani sulla scena sportiva internazionale. Il secondo posto nel basket, dietro alla Iugoslavia ma davanti all'Unione Sovietica, fu un grosso exploit per Dino Meneghin e compagni, capaci di approfittare al massimo dell'assenza degli statunitensi. Bisogna sottolineare oltretutto che l'Italia approdò alla finale dopo avere eliminato in semifinale, 86 a 77, proprio i padroni di casa dell'Unione Sovietica. Patrizio Oliva, pugile napoletano, oro nella categoria superleggeri, fu premiato anche con la coppa che la Federazione internazionale della boxe assegna al pugile più tecnico dei Giochi. Claudio Pollio, napoletano come Oliva, si affermò fra i minimosca nella lotta greco-romana. Ezio Gamba si impose nel judo, categoria sino a 71 kg, in uno sport dove mai l'Italia aveva vinto. Ci fu un altro nome italiano sul podio del judo, Angelo Parisi, oro nella categoria oltre i 95 kg e argento nella categoria open. Parisi però gareggiava per la Francia, mentre otto anni prima a Monaco aveva conquistato un bronzo per la Gran Bretagna. Nato in Italia, si era trasferito bambino in Inghilterra, prendendo la cittadinanza britannica, poi aveva sposato una francese, della quale aveva assunto la nazionalità: dunque siamo di fronte al caso singolare di un atleta vincitore per due nazioni differenti, tutte e due diverse da quella di nascita.

Altre affermazioni azzurre arrivarono con Luciano Giovannetti nel tiro al piattello, nostra ottima miniera di vittorie, e con Federico Euro Roman che, nel completo di equitazione, prevalse su due sovietici, tenendo alta la scuola europea occidentale. I cavalieri azzurri erano andati a Mosca contro il parere della Federazione che, memore delle tradizioni e dei legami dell'equitazione con il mondo militare, voleva aderire al boicottaggio. Con due amazzoni, Marina Schiocchetti e Anna Casagrande, e con il fratello Mauro (il padre era un istruttore di equitazione), Federico Euro Roman conquistò anche l'argento della prova a squadre, dietro all'URSS che aveva una squadra di soli uomini. Fu una affermazione ottenuta oltreché contro la Federazione anche contro il pronostico, visto che la preparazione venne condotta dai cavalieri privatamente e che i cavalli portati a Mosca non avevano certamente un grande palmarès.

Nei tuffi Cagnotto, terzo dal trampolino, fu ancora capace di gareggiare ad alti livelli mentre aveva già iniziato l'attività di istruttore. L'assenza del blocco americano pesò molto sulle gare di nuoto. Fra gli uomini soltanto il sovietico Vladimir Salnikov riuscì a ergersi a protagonista assoluto, vincendo i 1500 m in 14′58,27″, primo al mondo capace di 'incollare' idealmente una all'altra quindici frazioni di 100 m in meno di un minuto l'una. In campo femminile le tedesche orientali, su tutte Barbara Krause, si imposero con tale facilità da riuscire non solo a vincere, ma anche a occupare il podio senza lasciare gradini alle avversarie: accadde nei 100, 200 e 400 m stile libero, nei 100 e 200 m dorso.

Nella ginnastica maschile la rinuncia dei giapponesi ai Giochi significò via libera per un exploit unico ma in certo senso 'facile' del sovietico Alexsandr Dityatin che conquistò una medaglia in ognuna delle otto graduatorie: oro in quella individuale, in quella a squadre e negli anelli; argento nelle parallele, nella sbarra, nel volteggio con cavallo e nel cavallo con maniglie; bronzo nel corpo libero. Fra le donne fu ancora alla ribalta la rumena Nadia Comaneci che per la medaglia massima, quella della classifica generale individuale, lottò sino all'ultimo con la sovietica Yelena Davydova, perdendo soltanto per una decisione ostile della giuria: le proteste persino del pubblico locale non cambiarono l'argento in oro. Comaneci comunque vinse nella trave e nel corpo libero, ed ebbe una medaglia d'argento nella prova a squadre.

L'assenza degli statunitensi comportò notevoli carenze di personaggi capaci di attrarre l'attenzione del pubblico anche al di là dei puri meriti agonistici. Fra i casi inconsueti acquisirono risalto le due medaglie d'oro nella lotta libera di due fratelli sovietici, Anatoliy e Sergey Beloglazov, il primo nei pesi mosca, il secondo nei pesi gallo. Nel pentathlon moderno invece, che nel 1976 aveva visto il giallo di Boris Onishchenko, vinse un altro sovietico, Anatoliy Starostin. L'URSS conquistò anche l'oro a squadre con l'apporto specialmente di Pavel Lednev, che qualcuno giudica il più grande di ogni tempo nella specialità, anzi nella somma delle cinque specialità (corsa, nuoto, equitazione, tiro e scherma).

Nel pugilato il cubano Teófilo Stevenson, pur essendo in declino, vinse la sua terza medaglia d'oro battendo in finale il sovietico Pyotr Zeyev. A Cuba intanto già si parlava del suo erede, Angel Milan, che però non era stato mandato alle Olimpiadi in quanto Fidel Castro voleva che il suo amico Teófilo trionfasse per la terza volta.

Quella di Mosca, nonostante i boicottaggi, fu dunque una edizione dei Giochi vera, densa di contenuti agonistici, al punto che si avvertiva il pericolo che il mondo olimpico sapesse adeguarsi fin troppo bene ai colpi che gli venivano inferti. L'edizione successiva era programmata negli Stati Uniti, a Los Angeles, e già si temeva un possibile controboicottaggio da parte dell'Unione Sovietica, anche se non se ne parlava apertamente e anzi la parola russa più usata nei discorsi ufficiali era mir, "pace", con un atteggiamento quasi di compassione per chi non aveva potuto prendere parte a una manifestazione comunque storica, di alto valore sportivo. All'indomani del 3 agosto, quando si tenne la cerimonia di chiusura della manifestazione, anche nell'Europa dell'Ovest, che era stata più o meno solidale con la decisione di Carter, la sensazione di molti era che l'Olimpiade di Mosca aveva rappresentato un 'collaudo' importante per rafforzare l'idea e la pratica dei Giochi che, feriti gravemente a Monaco 1972 dall'assalto dei fedayn al villaggio olimpico, umiliati nel 1976 per le incertezze organizzative di Montreal e per l'abbandono in extremis da parte degli africani, erano riusciti a sopravvivere anche alla mutilazione gravissima causata dal boicottaggio o dalla ridotta partecipazione di metà del mondo.

La decisione italiana di partecipare sotto la bandiera a cinque cerchi del CIO, come altri paesi occidentali, e di lasciare a casa gli atleti militari, non diede luogo alle polemiche che pure ci si poteva attendere. Ben altre critiche erano state sollevate quando nel 1976 la nostra nazionale di tennis era andata nel Cile di Pinochet, del colpo di Stato che aveva segnato la fine della democrazia con un bagno di sangue. Tuttavia aveva giocato e vinto, prima e ultima volta nella sua storia, la Coppa Davis contro la squadra locale e allora si era parlato di sport che comunque affratella, superiore a tutto e a tutti. Mosca 1980 in fondo aveva imposto una scelta meno difficile di quella di quattro anni prima, una scelta non radicale in un senso o nell'altro e che inoltre coinvolgeva molte altre nazioni: compromesso all'italiana dunque sino a un certo punto, visto che ci si era trovati in folta compagnia. In sostanza si trattò di una scelta positiva soprattutto per via dei buoni successi conseguiti e anche per la sensazione di avere acquisito meriti presso gli statunitensi senza coprirci di demeriti verso i sovietici. Al rammarico degli azzurri costretti a rimanere a casa non si portò molta attenzione, anche questo bisogna ricordare. D'altronde nessuno degli esclusi poté lamentarsi troppo del sacrificio a cui era costretto, non potendosi opporre a gerarchie e decisioni militari.

Ancora una notazione: Mosca 1980 ebbe grandi problemi di giuria, in sport ovviamente sottomessi al giudizio umano e non a quello del cronometro o del centimetro. Ci furono dei favoritismi smaccati a beneficio dei padroni di casa, anche oltre la soglia 'normale' in queste occasioni. Si vociferò altresì di manovre misteriose, come l'apertura di certi enormi portoni-sfiatatoi dello stadio olimpico quando erano di turno nelle prove di lancio gli atleti sovietici, che di fatto vinsero l'oro in tutte e quattro le specialità. È da notare però che nessuna sovietica si affermò nelle gare corrispondenti. Sempre in tema di Giochi del sospetto e dei sussurri, a Mosca non si parlò di doping strisciante. Naturalmente si elogiò l'opera dei controllori, ritenuti così bravi da avere dissuaso a priori eventuali atleti scorretti, ma soprattutto si cercò di porre implicitamente l'accento sul fatto che lo sport del socialismo reale era grande di suo, senza bisogno di aiuti illeciti.

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