Olimpiadi estive: Sydney 2000

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi estive: Sydney 2000

Oscar Eleni

Numero Olimpiade: XXVII

Data: 15 settembre-1° ottobre

Nazioni partecipanti: 200

Numero atleti: 10.651 (6582 uomini, 4069 donne)

Numero atleti italiani: 361 (244 uomini, 117 donne)

Discipline: Atletica, Badminton, Baseball, Beachvolley, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Judo, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallamano, Pallanuoto, Pallavolo, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Softball, Sollevamento pesi, Taekwondo, Tennis, Tennis da tavolo, Tiro, Tiro con l'arco, Triathlon, Tuffi, Vela

Numero di gare: 300

Ultimo tedoforo: Cathy Freeman

Giuramento olimpico: Rechelle Hawkes

I Giochi di Sydney furono inaugurati il 15 settembre 2000 e aperti ufficialmente da sir William Deane, governatore generale di uno Stato che nel novembre del 1999 aveva respinto il referendum per il passaggio alla forma repubblicana (il no prevalse con il 55% dei voti, confermando lealtà alla regina Elisabetta d'Inghilterra) e si chiusero, lasciando molti con le lacrime agli occhi, nella notte del 1° ottobre 2000, giorno della cerimonia finale, con la bandiera olimpica a cinque cerchi affidata al sindaco di Atene, sede della ventottesima Olimpiade nel 2004.

L'ultima Olimpiade del 20° secolo fu di nuovo una festa dello sport e fece dimenticare tutte le amarezze di Atlanta. Tutti sentivano l'esigenza di un'atmosfera diversa rispetto alla Georgia, di ritrovare lo spirito dei Giochi per questa ventisettesima Olimpiade che chiudeva un'epoca di grandi fermenti. Certamente non ci si poteva nascondere che il mondo sportivo procedeva verso l'accettazione del gigantismo e che ormai solo le grandi entrate procurate dalla televisione (a Sydney furono il 51%) e quindi dalla pubblicità erano in grado di garantire arene e sostegni adeguati. Ma l'aria australiana non avrebbe soffocato l'anima dello sport perché sarebbero stati gli atleti e soltanto loro i veri protagonisti dell'avvenimento. C'era la sensazione di potersi lasciare alle spalle scandali, sospetti e circostanze non sempre chiare nell'ambito dello stesso CIO (che avevano gettato ombre per es. sull'assegnazione dei Giochi invernali 2002 a Salt Lake City) e si avvertiva un'atmosfera speciale nella nazione con la più alta percentuale di sportivi praticanti al mondo. E questo lo si capì subito, vedendo la partecipazione di un pubblico competente che regalava un applauso a tutti, in quel vero spirito olimpico che ormai sembrava perduto.

Sydney ha avuto il merito di liberare le Olimpiadi dal condizionamento commerciale (anche se gli sponsor grandi e piccoli non furono certo ai margini dell'avvenimento) e anche dall'incubo del doping, dopo un periodo di accesa battaglia contro un nemico che si aggiorna molto in fretta, anticipa ogni tipo di controllo, rende più sofisticati i tipi di aiuto chimico che permettono a campioni, impegnati in maniera eccessiva da calendari sempre più fitti, di abbreviare la strada nella preparazione e nella costruzione di condizioni fisiche ottimali. A Sydney il fenomeno doping fu circoscritto a soli nove casi, anche perché per la prima volta furono autorizzati i controlli abbinati sangue-urine per smascherare l'uso dell'EPO, la famigerata eritropoietina che fa aumentare la concentrazione di globuli rossi nel sangue e con essa la facilità del trasporto d'ossigeno e l'efficienza muscolare, consentendo a un atleta imprese al di là delle sue naturali capacità.

Furono quelle di Sydney le Olimpiadi dei record, non quelli della pista (in atletica non ci fu un solo primato mondiale), ma della partecipazione, della distribuzione dei trofei, del numero di volontari (46.967) al servizio di visitatori e addetti ai lavori (grande differenza con Atlanta dove persino i membri del Comitato olimpico internazionale furono abbandonati a loro stessi nel giorno della cerimonia inaugurale). Record anche di presenze nelle tribune stampa, perché oltre ai 5928 accrediti per i giornalisti della carta stampata ce ne furono altri 10.735 per radio e televisioni, di telespettatori che nel mondo furono oltre 40 miliardi, considerando che il potenziale giornaliero era di 3 miliardi e 700 milioni, di biglietti venduti, un milione per 300 gare. Il Comitato organizzatore ottenne dai suoi sponsor i 45 milioni di dollari necessari per pagare il viaggio a tutti i partecipanti, atleti e giudici di gara, per ospitare gratuitamente le rappresentative nel villaggio olimpico, collegato alla baia da navi traghetto oltre che da una strada che garantiva la massima sicurezza.

Alla sfilata inaugurale presero parte 200 comitati olimpici dietro la loro bandiera. Solo i delegati dell'isola di Timor Est marciarono seguendo la bandiera olimpica, quella che accomuna tutti coloro che non hanno una patria da rappresentare per motivi politici (nel settembre del 1999 Timor Est aveva votato per la sua indipendenza dall'Indonesia provocando scontri sanguinosi, risolti soltanto in parte dalle forze di pace delle Nazioni Unite). Dentro il grande stadio da 110.000 posti, costruito appositamente per l'Olimpiade nel parco dove erano concentrati i maggiori impianti delle gare olimpiche (una città dello sport splendida, con le vie dedicate ai grandi campioni della storia sportiva australiana), la commozione vera arrivò quando le due squadre della Corea del Nord e del Sud, nazioni separate dall'ideologia politica e sempre sull'orlo del conflitto, sfilarono dietro la stessa bandiera, tenendosi per mano. Si trattò di un successo passeggero, ma il momento fu davvero solenne, perché faceva sperare che proprio attraverso lo sport, come era già accaduto in passato per altre realtà dove non sembrava possibile trovare la pace, potessero essere abbattuti quei muri che la politica non riesce a sgretolare.

Gli atleti in gara a Sydney furono 10.651, con ben 4069 iscritte alle competizioni femminili e furono proprio alcune donne a lasciare un'impronta indelebile su quei Giochi, a partire da Catherine 'Cathy' Freeman, scelta come simbolo dell'abbattimento delle barriere dell'incomprensione, dell'intolleranza, del razzismo che gli stessi australiani avevano alimentato per tanto tempo nei confronti degli aborigeni. Freeman, vestita con un body tutto bianco, nella notte dell'inaugurazione accese il fuoco olimpico, poi sulla pista di atletica mandò in delirio il suo popolo quando vinse i 400 m, arrivando sfinita sul traguardo.

Fra gli sport in programma in Australia furono introdotti il triathlon e il taekwondo, mentre pentathlon moderno e sollevamento pesi, finora territorio esclusivo degli uomini, ammisero per la prima volta le donne. Delle 32 discipline, dunque, 28 erano aperte alle gare femminili.

La cerimonia d'apertura permise di entrare subito nello spirito di quella Olimpiade: semplicità, ma anche arte, spettacolo, niente di banale, atmosfera di grande amicizia. Il presidente del Comitato olimpico internazionale, il catalano Juan Antonio Samaranch, alla fine del suo mandato, dopo aver ricevuto tante critiche per Atlanta, poté congratularsi della decisione presa al congresso di Montecarlo del 23 settembre 1993, quando aveva annunciato che la sede della ventisettesima Olimpiade sarebbe stata Sydney, che aveva prevalso su altre possibili scelte di spessore come quelle di Berlino e di Manchester; nel congresso si era valutata ancora troppo debole la posizione della Turchia e di Istanbul, mentre veniva 'tenuta in caldo' la controversa candidatura di Pechino, poi designata per il 2008. La soddisfazione crebbe con il passare dei giorni e nel giorno di chiusura Samaranch affermò che erano stati "i Giochi Olimpici più belli mai organizzati nell'era moderna". Il CIO era soddisfatto anche per il ritorno economico: 2.600.000 euro entrati nelle casse del movimento olimpico.

L'Olimpiade vide ben 80 paesi tornare a casa con almeno una medaglia, un primato pure questo. Gli Stati Uniti dominarono con 97 successi, 40 medaglie d'oro, davanti a Russia, Cina (un primo messaggio pensando a Pechino 2008), Australia, Germania, Francia e Italia: un'Italia che nell'anno della grande crisi economica del suo Comitato olimpico nazionale (che ha vissuto bene fino a quando è rimasto economicamente autonomo, mostrando la strada anche ad altre organizzazioni sportive del mondo), trovava ancora slancio. Le medaglie italiane furono 34 di cui 13 d'oro, ripetendo più o meno il risultato di Atlanta.

Abbiamo parlato di Giochi caratterizzati da grandi prestazioni fra le donne: oltre a Cathy Freeman, si mise in risalto la straordinaria velocista californiana Marion Jones, così come l'olandese di pelle ambrata Inge de Bruijn, riconosciuta come signora nelle gare di nuoto, mentre la sua connazionale Leontien Zijlaard dominò le gare di ciclismo, su strada e su pista.

Cathy Freeman, aborigena di Mackay, era venuta alla ribalta, ventenne, nei Mondiali di atletica del 1993 a Stoccarda, dove fu eliminata in semifinale: tornando a casa scrisse, sul sacchetto che si trova su ogni aereo per chi soffre il mal d'aria, quella che era una speranza e una promessa: correre i 400 m in 48,60″ alle Olimpiadi di Atlanta. Mantenne quasi la parola, chiuse in 48,63″, un tempo eccellente, ma non sufficiente per l'oro, vinto dalla francese Marie-José Pérec che concluse la gara in 48,25″. Comunque quella fu la prima medaglia olimpica per un'atleta aborigena. Dopo la fatica nell'Olimpiade Freeman migliorò ancora le sue qualità, fu campionessa del mondo ad Atene nel 1997, salì di nuovo sul gradino più alto del podio ai Campionati di Siviglia, ma non poteva bastare. Serviva il successo sulla pista olimpica. A Sydney fu una vigilia di gara tormentata: dopo l'onore ma anche la pressione psicologica di essere stata l'ultima tedofora nella cerimonia d'apertura, c'era il timore di avversarie agguerrite, anche se la Pérec si era dichiarata fuori gioco per infortunio. Negli ultimi 100 m della corsa Freeman vide alzarsi davanti agli occhi un muro per la fatica, mentre la giamaicana Lorraine Graham si avvicinava, ma riuscì a farcela, al limite della sopportazione e della resistenza. La carriera di Cathy Freeman finì con quel trionfo e quel tripudio di folla, anche se gareggiò ancora nella staffetta.

Diversa la storia di Marion Jones, californiana di Los Angeles, classe 1975, studentessa di giornalismo a North Carolina. Il marito, il lanciatore di peso C.J. Cotrell James Hunter, era stato escluso per doping dopo essersi qualificato ai Trials statunitensi. Jones resistette alla grande pressione, si concentrò sulla sua prima Olimpiade, liberando la mente dopo aver annunciato la separazione da quell'uomo forte che la proteggeva con esagerato ardore dall'assalto dei tifosi su ogni pista del mondo. A 16 anni Marion aveva conquistato il diritto di partecipazione ai Giochi nella staffetta americana per le Olimpiadi di Barcellona 1992, ma aveva preferito rinunciare dedicandosi invece al basket, sia perché ci sapeva fare con il pallone, sia perché aveva deciso di prendere i tempi giusti, senza forzare, pensando allo studio, ma non negandosi successi sportivi con l'Università del North Carolina. Quattro anni dopo, ad Atlanta, una frattura da stress al piede la mise nuovamente fuori dal gioco. L'Australia era il posto giusto per il suo trionfo dopo i successi mondiali ad Atene e Siviglia. Jones non voleva però accontentarsi delle cose semplici, voleva il massimo, lasciare un'impronta del suo passaggio, e mirò alla conquista di cinque medaglie. Dominò nei 100 m con un distacco sulla greca Ekaterini Thanou che fu il miglior margine nella storia olimpica: 37 centesimi, facendo meglio di Florence Griffith Joyner che a Seul aveva dato 29 centesimi a Evelyn Ashford. Nei 200 m, cinque giorni dopo, vinse con un margine di circa 5 m su Pauline Davis Thompson e Susanthika Jayasinghe, velocista di Sri Lanka, paese che non aveva mai vinto una medaglia olimpica. Dopo aver affrontato le due prove di cui era specialista, Jones proseguì il progetto dei cinque ori. Nel salto in lungo però si trovò davanti la prussiana Heike Drechsler, che alla soglia dei 36 anni, da compiere nel dicembre di quel 2000, ritrovò la felicità già provata alle Olimpiadi di Barcellona, aggiungendo quell'oro all'argento e ai due bronzi, nei 100 e 200 m, di Seul 1988. Per Jones una delusione in più quando, pur con la stessa misura di 6,92 m, dovette lasciare l'argento a Fiona May per la quale valse il secondo miglior salto, 6,68 m contro 6,62 m. Fu un premio meritato per la saltatrice britannica divenuta italiana dopo il matrimonio, che all'Olimpiade non aveva mai trovato l'ispirazione di altre grandi gare mondiali, come quella che le diede il titolo a Göteborg nel 1995.

L'amarezza non fece cambiare i piani a Jones, che si dichiarò pronta per le staffette nella giornata di chiusura dell'atletica. Doveva essere la trascinatrice della 4 x100 m, ma le cose andarono male perché si infortunò Inge Miller e perché il cambio con Nanceen Perry fu troppo schiacciato e al limite della squalifica: davanti agli USA arrivarono Bahamas e Giamaica. Depressa, ma non vinta, l'atleta statunitense volle correre anche la 4 x 400 m, dopo appena un'ora per ritrovare energie. Nessuno, a parte le compagne che invece le diedero grande forza, sembrava credere in lei, ma il suo allenatore Trevor Graham era sicuro che avrebbe ripetuto a Sydney il risultato di aprile a Walnut, dove aveva corso in 49,54″. Ricevette il testimone da Monique Hennagan e gli USA, dopo la frazione d'apertura di Jearl Miles, erano già al comando. Jones restò in testa e il tempo lanciato, cronometrato in tribuna, fu di 49,4″, un risultato da medaglia nella corsa individuale. Quando Jones passò il testimone a Tasha Colander Richardson, impegnata contro la giamaicana Michelle Burger e la russa Irina Privalova, aveva ormai messo il sigillo sulla vittoria. Non era il risultato sognato, ma di sicuro cinque medaglie nella prima Olimpiade della sua vita erano già abbastanza.

Nell'atletica maschile si segnalò un corridore africano della Rift Valley, l'etiope Haile Gebrselassie che, con i piedi doloranti per una fastidiosa tendinite, vinse negli ultimi millimetri la gara dei 10.000 m che sembrava perduta all'ingresso nel rettilineo, prevalendo per 9 centesimi (27′18,20″) nell'ennesimo confronto con Paul Tergat, avversario al quale avrebbe voluto donare la sua medaglia dopo il durissimo scontro. Il piccolo etiope (alto 163 cm, per 53 kg ) dal grande sorriso sapeva di dovere qualcosa al suo indomabile rivale, il sergente dell'aviazione del Kenya, ex giocatore di basket, vincitore di cinque mondiali di cross consecutivi. Lo stesso ordine d'arrivo fra i due si era già registrato ad Atlanta, sia pure con uno scarto maggiore, ma anche ai Mondiali di Atene e Siviglia Tergat aveva dovuto inchinarsi allo stesso rivale.

Jan Zelezny, giavellottista ceco di Mlada Boleslav, a 34 anni vinse la terza medaglia d'oro consecutiva dopo aver esordito sul podio a Seul, nel 1988, con un argento. Altra stella dell'atletica fu Maurice Greene, velocista di Kansas City, ventiseienne primatista del mondo nei 100 m, che batté, sia pure con un tempo non paragonabile ai grandi risultati cronometrici che aveva ottenuto in carriera, il suo compagno d'allenamento Ato Boldon che correva per Trinidad. Già presente ad Atlanta, Boldon nei 200 m fu terzo, guadagnando la sua quarta medaglia olimpica, con il rammarico di non averne mai presa una d'oro individualmente.

Se l'atletica fu senza record, ma con giganti in pista, il nuoto vide tanti primati e veri fenomeni ai blocchi di partenza. L'uomo dell'Olimpiade nella vasca di Homebush, nell'Aquatic Center situato fra le strade dedicate a Shane Gould e Dawn Fraser, due regine del grande sport mondiale, signore dell'acqua in altre Olimpiadi, fu Ian Thorpe, australiano nato il 13 ottobre 1982 a Paddington. Manifesti con la sua immagine erano un po' in tutta la città, veniva considerato un altro simbolo dello sport australiano e in gara dimostrò di aver meritato tanta considerazione: alle 19.15 del 16 settembre, primo giorno di gare olimpiche, nella finale dei 400 m stile libero fece fermare i cronometri sui 3′40,59″, lasciando al secondo posto il napoletano Massimiliano Rosolino che iniziò quella sera il grande viaggio verso la sua Olimpiade delle meraviglie. Un'ora dopo, passando attraverso la gioia della premiazione, Thorpe tornò in acqua, pronto per la battaglia con gli Stati Uniti nella staffetta 4 x 100 m. Lanciato da Michael Klim, Chris Fydler and Ashley Callus vinse per 19 centesimi. Il terzo oro venne nella 4 x 200 m stile libero, mentre nei 200 m stile libero fu battuto dal ventiduenne olandese Pieter van den Hoogenband, che dopo Mark Spitz (1972) è stato l'unico nuotatore a detenere nello stesso tempo il titolo olimpico dei 100 e 200 m stile libero, oltre ai relativi primati mondiali. Nei 200 m, dietro a lui e Thorpe, si piazzò ancora Rosolino. Nei 100 m la vera impresa dell'olandese era stata quella di tagliare la strada a Popov, impegnato nella ricerca del terzo oro consecutivo nella stessa gara, impresa mai riuscita in cento anni di storia olimpica. La scuola di nuoto olandese si confermò brillantemente con Inge de Bruijn, che conquistò una tripla corona con primato del mondo: prima nei 50 e 100 m stile libero, poi campionessa dei 100 m farfalla.

Ma per l'Olanda, paese delle biciclette, la soddisfazione più di grande fu quella regalata da Leontien Zijlaard, vincitrice dell'oro nelle prove su strada (individuale e a cronometro) sempre su asfalto australiano, dopo essere già arrivata prima sulla pista nella prova d'inseguimento. Zijlaard aggiunse a questi trofei anche l'argento nella corsa a punti su pista vinta da Antonella Bellutti, l'insegnante di Bolzano che a 32 anni, dopo la vittoria nell'inseguimento ad Atlanta, fu capace di imporsi in una gara durissima condotta contro la vera protagonista dell'Olimpiade nel ciclismo femminile.

Sydney aggiunse un nuovo titolo al palmarès di Steven Redgrave che con l'equipaggio inglese del quattro senza vinse, a oltre quarant'anni, tormentato dal diabete, la quinta medaglia d'oro in cinque Olimpiadi consecutive. La tedesca Birgit Fischer Schmidt, con le vittorie in kayak doppio e a quattro, sempre sui 500 m, arrivò alla settima medaglia d'oro, unica a vincere ininterrottamente da vent'anni, dai Giochi di Mosca 1980.

Gran collezionista di medaglie fu anche il ginnasta russo ventiquattrenne Aleksey Nemov, che con i successi nel concorso generale e alla sbarra raggiunse i dodici allori olimpici (altri due ori ad Atlanta nel salto al cavallo e nel concorso a squadre, due argenti, sei bronzi) in due sole edizioni. Nella ginnastica ci fu grande amarezza per uno dei pochi casi di doping: la rumena Andreea Raducan, dopo aver vinto il titolo nel generale fu privata della medaglia per uso di uno stimolante e l'oro fu consegnato alla sua compagna di squadra Simona Amanar, con tutte le polemiche del caso.

Sydney e le sue strade ridiedero il sorriso al ciclista tedesco Jan Ullrich che batté lo statunitense Lance Armstrong, il suo grande rivale al Tour de France. Ullrich precedette Armstrong anche nella cronometro, dove però dovette lasciare l'oro al russo Vyacheslav Ekimov. A proposito di sorrisi niente può essere paragonato alla gioia dei giocatori di pallanuoto ungheresi che non vincevano la medaglia d'oro da vent'anni.

La partecipazione italiana a Sydney avvenne, come abbiamo accennato, in una stagione difficile in cui il Comitato olimpico nazionale aveva arrancato per mancanza di fondi a causa del prosciugamento del grande filone rappresentato dal Totocalcio. La spedizione italiana a Sydney fu molto numerosa, 361 atleti, 117 donne. Alla sfilata d'apertura il CONI irritò molti campioni con medaglie, scegliendo come portabandiera il giocatore di pallacanestro Carlton Myers, della Fortitudo Bologna, un ragazzo di colore nato a Londra, ma cresciuto alla scuola cestistica di Rimini prima di trovare la dimensione internazionale come stella della squadra bolognese e diventare campione d'Europa a Parigi con la nazionale italiana allenata da Boscia Tanjevic. A Sydney l'Italia uscì nei quarti di finale per un canestro, a pochi decimi dalla chiusura, del veterano australiano Andrew Gaze; si aprì così la strada delle semifinali alla Francia, che era stata battuta dall'Italia nella prima fase, nella partita inaugurale del torneo; gli Stati Uniti conquistarono l'oro con un sofferto finale contro i francesi, facendo venire dubbi sul terzo Dream team mandato nell'arena olimpica, anche se Kevin Garnett, detto 'the revolution', fu uno dei grandi personaggi di Sydney.

Fra gli atleti italiani, si mise in evidenza soprattutto la squadra di nuoto costruita dal bresciano Alberto Castagnetti. I due protagonisti principali erano il novarese Domenico Fioravanti e il napoletano Massimiliano Rosolino, che insieme collezionarono cinque medaglie. Fioravanti, ventitreenne arruolato nella squadra delle Fiamme Gialle, alla sua prima Olimpiade vinse l'oro nei 100 e 200 m rana, facendo segnare nella gara più breve il record olimpico in 1′00,46″. Rosolino, napoletano di madre australiana, classe 1978, in attesa della gara su cui puntava, i 200 m misti, aveva conquistato medaglia d'argento e record europeo (3′43,40″) nei 400 m stile libero e bronzo nei 200 m stile libero. Dopo il quarto e quinto posto con le staffette, e i timori per possibili dispendi di energie e cali di tensione, arrivò finalmente il giorno dei 200 misti, che il napoletano si aggiudicò con una splendida rimonta nelle vasche finali, chiudendo con un altro record olimpico (1′58,98″). Della squadra di nuoto facevano parte anche il giovane Alessio Boggiatto, finalmente alla ribalta, ed Emiliano Brembilla che non trovò però la forma giusta. La sorpresa più grande fu la medaglia del napoletano Davide Rummolo, terzo sui 200 m rana nel grande giorno di Fioravanti.

Gli sport acquatici furono prodighi di medaglie. Nel bacino del canottaggio di Penrish Agostino Abbagnale, continuando la tradizione iniziata dai fratelli Carmine e Giuseppe nel famoso due con, guidò all'oro il quattro di coppia, aggiungendo questa medaglia ai suoi successi di Seul e Atlanta; con il trentaquattrenne di Pompei vogavano il padovano Rossano Galtarossa, il finanziere di Mantova Simone Raineri e il ventiquattrenne di Terracina Alessio Sartori. Nella canoa Josefa Idem Guerrini, tedesca di Gesh, diventata italiana per matrimonio, dopo le medaglie di bronzo vinte a Los Angeles e Atlanta, trovò a 36 anni l'oro che cercava: campionessa nel K1 sui 500 m. Nel K2, sui 1000 m, nuovo successo di Antonio Rossi di Lecco, già vincitore di due ori quattro anni prima, e del suo compagno Beniamino Bonomi, trentaduenne vogatore di Verbania, ambedue appartenenti alle Fiamme Gialle, che come altri corpi militari costituiscono la base per tanti campioni dello sport nazionale. Infine nella vela arrivò una medaglia d'oro che mancava da Helsinki 1952: il primo posto nella classe Mistral della bravissima Alessandra Sensini, maremmana di Grosseto, trentaquattro anni.

Replicò il successo di Atlanta Paola Pezzo, la ragazza di Boscochiesanuova che aveva iniziato con la mountain bike grazie al regalo di un amico dopo aver provato con lo sci di fondo. Altre soddisfazioni arrivarono dalla scherma. Il centesimo successo della scuola italiana toccò a Valentina Vezzali, ventiseienne di Jesi, arruolatasi nella polizia con il sogno di diventare investigatrice. Campionessa mondiale di fioretto a Seul l'anno precedente, Vezzali cercava intensamente l'oro olimpico e in modo particolare la rivincita su Laura Badea, la rumena che l'aveva sconfitta quattro anni prima ad Atlanta; e fu proprio contro di lei che Vezzali offrì la scherma migliore, vincendo la semifinale per 15-8. In finale sfogò il suo furore agonistico sulla tedesca Rita König, battuta 15-6. Sul podio salì anche Giovanna Trillini, che conquistò il bronzo battendo proprio Badea, che l'aveva messa in crisi ad Atlanta con una clamorosa rimonta. Vezzali, Trillini e la recuperata milanese Diana Bianchedi portarono all'Italia anche l'oro del fioretto a squadre che si abbinò con il primo posto della squadra di spada composta dal veterano Angelo Mazzoni, classe 1961, dall'estroso Paolo Milanoli, trentunenne di Alessandria, dal giovane milanese Alfredo Rota e da Maurizio Randazzo, trentaseienne di S. Caterina Villarmosa.

Svanita ancora una volta la possibilità dell'oro per la nazionale di pallavolo, finita terza dietro a Iugoslavia e Russia, il medagliere azzurro si completò al palazzo dello judo con il poliziotto napoletano Giuseppe Maddaloni, vincitore nella categoria al limite dei 73 kg nella finale contro il brasiliano Tiago Camilo. Durante la commovente cerimonia di premiazione, il ventiquattrenne atleta cresciuto nella palestra gestita dal padre non riuscì a fermare le lacrime, anche se a sostenerlo c'era la sua compagna Ylenia Scapin, medaglia di bronzo, sempre nel judo, nella categoria al limite dei 70 kg.

Infine alcune notizie in breve. Nel torneo di pugilato la scuola cubana un po' in declino ottenne il risultato storico con il peso massimo Félix Savón che conquistò l'oro per la terza volta consecutiva uguagliando il primato del mitico ungherese Laszlo Papp e del connazionale Stevenson, il fenomeno che avrebbe voluto affrontare Muhmmad Ali se le regole del tempo avessero concesso a un dilettante di battersi con un professionista.

Nel torneo di tennis femminile l'americana Venus Williams, 20 anni, vinse contro la russa Yelena Dementieva la sua prima medaglia d'oro, ripetendo poi la festa della vittoria nel doppio con la sorella Serena in seguito diventata la numero uno del mondo. Fece sensazione il terzo posto di Monica Seles, la campionessa serba che ai Giochi gareggiava per gli Stati Uniti, la sua patria d'adozione. A tenere alto il livello del tennis olimpico nel torneo maschile ci pensò il russo Yevgeniy Kafelnikov.

L'Africa restò padrona del calcio olimpico perché nella finale il Camerun, rimontando due gol di scarto, batté la Spagna ai rigori, riportando nel continente l'oro che quattro anni prima era stato conquistato dalla Nigeria. Africani furono anche i dominatori della maratona, corsa fra due ali di folla sul Sydney Harbour Bridge: l'etiope Gezahegne Abera vinse la medaglia dedicandola a Gebrselassie che nei suoi progetti aveva proprio la maratona come ultimo atto in una carriera straordinaria.

Nel judo, stranamente, il personaggio alla ribalta non fu un giapponese ma il francese David Douillet, che nei pesi massimi arrivò alla seconda medaglia d'oro battendo Shinichi Shinohara in una finale contestatissima. Il campione francese fece il suo capolavoro in un torneo dove non doveva neppure essere presente perché un incidente motociclistico lo aveva mandato in ospedale con problemi seri a una spalla e alla schiena.

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