OREFICERIA

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1997)

OREFICERIA

G. Di Flumeri Vatielli

L'o., l'arte di lavorare i metalli nobili e le pietre preziose, costituisce un importante settore del c.d. artigianato artistico e viene spesso considerata tra le 'arti minori', a causa del prevalente piccolo formato dei suoi manufatti, così come, per la sua funzione principalmente ornamentale, tra le 'arti decorative'.Nell'uso linguistico generale il termine si riferisce non esclusivamente a materiali in oro, bensì anche in argento (dorato) o in rame, tuttavia il particolare pregio dell'o. è legato proprio alle caratteristiche dell'oro: rarità e corrispondente valore materiale, incorruttibilità, alto livello estetico del colore e della luminosità e inoltre facilità di lavorazione con numerose tecniche come fusione (relativamente rara), martellamento o sbalzo, forgiatura, conio o stampo, traforo, saldatura. Per quanto riguarda la configurazione della superficie vanno ancora menzionati: l'incisione, la cesellatura, l'incisione chimica, l'agemina, il niello, la filigrana e la granulazione. Sono inoltre di grande rilevanza le possibilità di associazione con altri materiali preziosi, quali pietre preziose incastonate, vetri alveolati (verroterie cloisonnée), smalti di diverse tecniche e infine avorio, osso e materiali affini. Ne deriva per l'o. la grande importanza della tradizione artigianale e della continua trasmissione delle conoscenze tra gli artisti.Mentre non molto è noto circa i procedimenti di bottega dell'o. altomedievale (Vita Eligii), grazie ai ritrovamenti tombali si conoscono abbastanza bene gli strumenti a disposizione degli orafi. Dal calcolo del guidrigildo (l'indennità per lesioni corporali o per omicidio) risulta l'alta valutazione di coloro che lavoravano l'oro o l'argento, citati inoltre relativamente spesso nelle fonti altomedievali rispetto agli artisti attivi in altri settori. Le conoscenze sull'o. del Medioevo si attingono in primo luogo dalle opere conservate, il cui numero è tuttavia relativamente ridotto. Perciò è di grande interesse la testimonianza, oltre che di antiche raffigurazioni, di fonti scritte, come inventari di tesori, testamenti, descrizioni in cronache monastiche o testi agiografici, nonché - anche per quanto riguarda questioni tecniche - il testo carolingio De probatione auri et argenti, il trattato di Eraclio De coloribus et artibus Romanorum, del sec. 10°, e il De diversis artibus di Teofilo, che offre un quadro assai concreto della prassi orafa intorno al 1100.Il tentativo di dare un sintetico panorama delle opere e delle testimonianze dell'o. medievale può essere agevolato circoscrivendo i diversi ambiti in cui essa trovò impiego ed ebbe significato. In primo luogo va citato l'ornamento della persona, compresa la decorazione delle armi, a cui spesso era attribuita una valenza magica. Il carattere lussuoso a esse connaturale rendeva le opere di o. espressione di ricchezza, dignità e potere, particolarmente nelle insegne dei sovrani. Il vastissimo impiego di metalli nobili nell'ambito liturgico-ecclesiastico si basava su un senso magico religioso dell'o. derivante non da ultimo dai testi sacri del cristianesimo, grazie al quale quest'arte poté apparire come specchio del divino in senso anagogico.La molteplicità dei fattori indicati nonché la tradizione frammentaria rendono difficile la comprensione del ruolo dell'o. nel Medioevo, specialmente dal punto di vista di una storia del suo sviluppo, che come visione d'insieme finora non è stata ancora elaborata. La ricerca consta piuttosto di innumerevoli singoli studi difficilmente riconducibili a una visione generale.

Alto Medioevo

Nell'epoca che seguì la disgregazione dell'Impero romano, l'eredità dell'arte antica restò importante sotto vari aspetti anche per l'arte dei metalli nobili, ambito nel quale tipologie di oggetti, tecniche e forme decorative conservarono sempre una notevole continuità. Prodotti romani d'importazione avevano presto raggiunto i territori germanici, fino alla Scandinavia, e avevano stimolato le imitazioni. Fibbie e altri oggetti d'ornamento eseguiti nella tecnica tardoromana del Kerbschnitt (intaglio a cuneo), per es., godevano ancora di notevole favore nel sec. 5°, mentre la decorazione zoomorfa naturalistica presente nello stesso ambiente si sviluppò nel periodo successivo nello stile animalistico germanico - bene apprezzabile dagli esemplari dei dischi di Thorsberg e del ritrovamento di Nydam (Schleswig, Schleswig-Holsteinisches Landesmus. für Vor- und Frühgeschichte) - sebbene una linea ininterrotta di sviluppo non si possa effettivamente tracciare. Nei diversi stili animalistici si manifesta comunque chiaramente la dipendenza dal mondo animale di questa cultura, in cui le raffigurazioni esercitano una prevalente funzione apotropaica. Un ruolo importante avevano anche i bratteati aurei, che attestano il perdurare degli influssi della monetazione romana, nei quali presto si diffusero le rappresentazioni di divinità germaniche.Con l'inizio delle migrazioni e l'irruzione degli Unni nell'Europa centrale si affermò l'o. policroma germanica diffusa nell'area del mar Nero. Esempi al riguardo, già quantitativamente di incredibile ricchezza, sono i ritrovamenti del sec. 4° di Pietroasa (Bucarest, Muz. de Istorie) e di Glodosy (Kiev, Gosudarstvennyi Istoritscheskij Muz. Ukrainy). Particolarmente indicativo dei movimenti di popolazioni dell'epoca risulta un pendente aureo con inserti colorati da Wolfsheim (Wiesbaden, Mus. Wiesbaden, Sammlung Nassauischer Altertümer), che reca sul retro un'iscrizione sasanide con il nome del re persiano Ardashīr I (224-241). Una spada decorata da lamine auree, con sull'elsa almandini cuoriformi probabilmente di origine indiana, ritrovata ad Altlussheim (Karlsruhe, Badisches Landesmus.), è stata anch'essa riferita a una bottega della Russia meridionale. Questa tecnica policroma con i suoi nuovi effetti estetici ebbe un rapido seguito, come dimostrano gli oggetti ritrovati nella tomba del re dei Franchi Childerico I (m. nel 482), purtroppo in parte trafugati, nell'adozione di alveoli con gemme rosse su armi germaniche (Parigi, BN, Cab. Méd.). La maturità raggiunta da quest'arte nelle aree di egemonia dei Franchi già agli inizi del sec. 6° risulta dal ritrovamento a Gourdon di un calice, attendibilmente datato da altri elementi del corredo, con relativa patena (Parigi, BN, Cab. Méd.), che combina una forma di recipiente antica con anse serpentiformi.La situazione dell'o. in questo periodo e lo sviluppo dello stile policromo si possono concretamente cogliere nella personalità artistica di s. Eligio (590 ca.-660), che assurse alla dignità di vescovo di Noyon e del quale venne redatta una dettagliata vita. Eligio fu dapprima maestro della zecca dei re Clotario II (584-629) e Dagoberto I (629-639) e realizzò anche "utensilia quam plurima ex auro et gemmis" (Vita Eligii, I, 10). Il calice detto di Chelles, noto da un'incisione di A. du Saussay del 1653, e il frammento di una croce con inserti vitrei a vari colori per Saint-Denis (Parigi, BN, Cab. Méd.) sono sue opere attestate, mentre altre gli sono state attribuite; la descrizione della sua bottega e dei suoi collaboratori, nella Vita Eligii, fornisce uno sguardo unico sull'officina di un orafo di quell'epoca.Parallelamente a tale produzione franca, lo stile policromo è ben documentato anche in Italia tra il 500 e il 600. I cimeli più significativi sono una perduta guarnizione da sella per il re degli Ostrogoti Teodorico (493-526) e i due piatti di una cassetta da libro (Monza, Mus. del Duomo) fatta realizzare dalla regina dei Longobardi, Teodolinda (m. nel 625), nei quali le superfici in oro recano ognuna una crux gemmata contornata da vetri alveolati, con il motivo mediterraneo degli archi di cerchio sui bordi. In passato attribuita a una bottega romana, in realtà deve essere ritenuta un lavoro longobardo, il cui carattere regale emerge dall'inserzione di antiche gemme con coppie idealizzate di sovrani. Questa stessa tecnica alveolata veniva impiegata anche nella vicina regione alpina burgunda e alamanna, come mostra l'esempio più significativo, il reliquiario di Teuderico (Saint-Maurice d'Agaune, Trésor de l'Abbaye de Saint-Maurice), che reca iscritto non solo il nome del donatore, ma anche quelli degli artisti, Undiho ed Ello. Su un baculus pastoralis (Delémont, Mus. jurassien d'art et d'histoire, deposito), assegnato a s. Germano abate (m. nel 675), si trovano inserti di questo tipo anche con il motivo apotropaico in stile animalistico germanico dei serpenti a doppia testa; vanno ricordati altri due piccoli reliquiari ancora in questo contesto a Utrecht (Rijksmus. Het Catharijneconvent) e a Beromünster (Kirchenschatz des Chorherrenstiftes), anche quest'ultimo con motivi animalistici, mentre cronologicamente prossima è la fibula di Wittislingen (Monaco, Prähistorische Staatssammlung), sulla quale i serpenti a doppia testa formano una rosetta a croce.Anche nel regno visigoto di Spagna vennero prodotte opere di o. in stile policromo, per es. i manufatti riccamente decorati con granati alveolati e pietre preziose ritrovati a Torredonjimenos e a Fuente de Guarrazar, in particolare come la corona votiva (Madrid, Mus. Arqueológico Nac.) del re visigoto Recesvindo (649-672), in cui compaiono perfettamente armonizzati il traforo, inserti alveolati e pietre preziose. Relativamente a quest'ambito vanno citate anche le prestigiose fibule ad aquila, provenienti sia dalla Spagna (per es. quelle da Tierra de Barros; Baltimora, Walters Art Gall.) sia dall'Italia (per es. le fibule da Domagnano; Norimberga, Germanisches Nationalmus.). Le fibule, con forme e motivi decorativi assai vari, costituiscono in generale il manufatto ornamentale più diffuso dell'Alto Medioevo, con reperti che provengono prevalentemente da sepolture dei secc. 6°-7°, poiché nel corso del sec. 8° l'uso del corredo funerario venne a cessare a causa dell'opposizione della Chiesa. Le fibule presentano spesso forma circolare, o comunque sviluppata dal cerchio, e, nei pezzi particolarmente rappresentativi, non di rado è possibile rintracciare anche un messaggio simbolico; ciò in particolare per le fibule a disco auree, tanto per quelle provenienti da Castel Trosino (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo), quanto per quelle franche della Renania (Bonn, Rheinisches Landesmus.), ma anche per i ritrovamenti gallici di area franca o insulari; dall'area burgundo-alamanna provengono fibule e fibbie da cintura ageminate in argento, in cui si uniscono motivi cristiani e zoofitomorfi (Friburgo, Mus. d'art et d'histoire).Accanto a manufatti con decorazione astratta e animalistica se ne incontrano altri con rappresentazioni di figure per lo più tratte dal repertorio iconografico cristiano - fibbie con l'immagine di Daniele o con il motivo dell'orante, con un santo cavaliere o con l'Adorazione dei Magi - non estranee tuttavia all'arte profana, come attesta l'esempio forse più importante, ovvero la lamella d'elmo in rame dorato con la rappresentazione del re longobardo Agilulfo (591-616) in trono fra Vittorie e trabanti (Firenze, Mus. Naz. del Bargello), singolare richiamo all'iconografia imperiale tardoantica. Tra gli oggetti liturgico-ecclesiastici si segnalano alcuni piccoli reliquiari con figure a Trento (Castello del Buonconsiglio) e dalla zona di Como (Garlate, Arch. parrocchiale). Caratteristiche per l'arte decorativa longobarda sono infine le numerose crocette auree, ornate per lo più da motivi astratti, alcune riferibili anche all'ambiente di corte, come la c.d. croce di Gisulfo (Cividale, Mus. Archeologico Naz.). Così come le fibule e le fibbie di cintura dell'epoca potevano a volte avere la funzione di reliquiari (per es. Augusta, St. Ulrich und St. Afra), contenitori per reliquie grandi e piccoli sono i più rilevanti oggetti ecclesiastici del 7°-8° secolo. Alcuni piccoli reliquiari sono decorati esclusivamente con motivi a intreccio (Namur, Mus. Diocésain et Trésor de la Cathédrale Saint-Aubain), altri con rozze figure (Saint-Benoît-sur-Loire, abbazia; Saint-Bonnet d'Avalouze, parrocchiale), ma con iconografia riconoscibile. Su un reliquiario a borsa a Ennabeuren (Katholische Pfarrgemeinde) compaiono impressi persino motivi propri alle fibule, mentre sul reliquiario a borsa di Coira (Domschatz), databile agli inizi del sec. 8°, si ritrovano intrecci longobardi, motivi vegetali e volatili di stampo mediterraneo nonché, sulla faccia posteriore, il motivo germanico-alamanno del serpente a doppia testa.Per quanto concerne l'o. insulare altomedievale, con il ritrovamento nella nave-tomba di Sutton Hoo (650-660; Londra, British Mus.) appaiono già documentate le amplissime relazioni delle Isole Britanniche attraverso monete merovinge, argenti bizantini e oggetti scandinavi. Nelle borchie con smalti policromi in alveoli si riscontra un'importante creazione originale dell'arte decorativa anglosassone del 7° secolo. Nelle fibule e nei fermagli, l'Inghilterra, soprattutto nel centro di Faversham (da faber òrafo' o 'artefice'), si riallacciava a modelli franchi e realizzava opere ingegnose e di alto livello qualitativo, come la fibula rotonda di Kingston (Liverpool, Merseyside County Mus.). Ornati fitomorfi e zoomorfi di tipo mediterraneo a sbalzo, oltre a paste vitree con motivi irlandesi a spirale, si incontrano all'inizio del sec. 8° nella possente croce d'altare di Bischofshofen (Salisburgo, Dommus.), secondo la tradizione giunta a Salisburgo con il vescovo Rupert (m. nel 720 ca.); in questo importante centro religioso e politico l'influsso insulare si esercitò sulla produzione artistica sino alla fine dell'8° secolo. Nel continente europeo l'arte del metallo specificamente irlandese esercitò scarso influsso; in essa elementi celtici astratti si uniscono all'ornato animalistico germanico in un'originale simbiosi. Accanto a manufatti di sottile finezza - per es. la fibula di Tara (Dublino, Nat. Mus. of Ireland) - si conservano notevoli suppellettili liturgiche, come il grande calice di Ardagh, degli inizi del sec. 8°, e il suo pendant, di poco più tardo, da Derrynaflan (entrambi a Dublino, Nat. Mus. of Ireland). Appare rilevante anche l'influsso, sovente messo in rilievo, dell'arte del metallo sulla miniatura irlandese.

Epoca carolingia

Elementi mediterraneo-longobardi, insulari e germanico-continentali si incontrano dunque gli uni accanto agli altri nelle opere caratteristiche della provincia artistica insulare nell'area di Salisburgo che, nella sua breve fioritura, produsse opere significative anche nell'ambito della miniatura. Un calice di rappresentanza offerto all'abbazia di Kremsmünster (Schatzkammer), che reca il nome del donatore, il duca di Baviera, Tassilone III (749-788) - un cugino dell'imperatore Carlo Magno - e della sua consorte Liutbirga, figlia del re dei Longobardi Desiderio (756-post 774), è databile a poco dopo la fondazione del monastero nel 777. La decorazione figurata del calice mostra i caratteri dell'Italia settentrionale, mentre negli ornati astratti, vegetali e animalistici si affermano motivi mediterranei e insulari, in corrispondenza dell'influsso testimoniato dall'irlandese s. Virgilio, vescovo di Salisburgo (m. nel 784). Altra opera significativa è la c.d. prima rilegatura dell'Evangeliario di Lindau (New York, Pierp. Morgan Lib., M.1), che si distingue in particolare per l'uso di smalti ad alveolo e a incavo, e in cui la forma a croce che domina il piatto e le figure a essa legate appaiono come 'longobarde'. Per quanto riguarda la tecnica a smalto, risulta una connessione con il reliquiario a borsa proveniente dalla collegiata di Enger (Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.), che in prevalenza viene attribuito ad ambito alamanno. I due lavori sono accomunati anche iconograficamente, poiché le figure di animali degli smalti ad alveoli riproducono gli esseri dei tria genera animantium (Gn. 1), una raffigurazione della nuova creazione sotto la croce, diffusa anche in ambito insulare. La tecnica a smalto del reliquiario di Enger sembra aver avuto un'ampia diffusione, come dimostrano la fibula di Wechloy (Oldenburg, Landesmus.) e la grande fibula dall'antico centro mercantile frisone di Dorestad (Leida, Rijksmus. van Oudheden); è possibile indicare altri confronti con l'altare portatile di Adelhausen (Friburgo in Brisgovia, Augustinermus.) e con la 'corona ferrea' di Monza (Mus. del Duomo), opere la cui origine viene per lo più assegnata all'area alpina dell'Italia settentrionale, dove si incontrano per la prima volta placchette a smalto con figure nel reliquiario del vescovo Alteo di Sion, realizzato tra il 780 e il 799 (Sion, tesoro della cattedrale). È difficile cogliere appieno l'ampiezza dell'irradiamento degli influssi in quest'epoca, come mostra per es. il rapporto tra la croce gemmata del re dei Longobardi Desiderio a Brescia (Civ. Mus. Cristiano), eseguita prima del 774, con la Cruz de los Àngeles dell'808 a Oviedo (Mus. de la Cámara Santa), nelle lontane Asturie, che probabilmente venne eseguita da un artista itinerante di origine italiana.Uno dei principali ostacoli alla valutazione dell'o. carolingia consiste nel fatto che poco o niente si è conservato dell'epoca dell'imperatore Carlo Magno e della renovatio da lui promossa. Dalle fonti scritte si rileva inequivocabilmente che si ebbe una vasta produzione, basti pensare ai ricchissimi donativi destinati dal sovrano al papa e alle chiese romane dopo la propria incoronazione nell'800. La grande disponibilità d'oro che ne risulta era senza dubbio dovuta ai tesori depredati agli Avari. Sulla natura degli oggetti in questione tuttavia non si sa niente di preciso e anche i lavori in metallo prezioso citati nella Vita Karoli di Eginardo (770 ca.-840) sono descritti molto sommariamente; fanno eccezione alcune preziose tavole - raffiguranti una la pianta di Costantinopoli, un'altra l'immagine di Roma e una terza la carta del mondo - da considerare probabilmente doni provenienti da Bisanzio. Benché dunque non si abbia un quadro della produzione delle botteghe alla corte imperiale, si conserva tuttavia il c.d. talismano (Reims, Palais du Tau Trésor de la Cathédrale), risalente all'epoca di Carlo Magno: si tratta di un piccolo oggetto che ricalca la tipologia delle ampolle palestinesi per i pellegrini e che racchiudeva in origine reliquie gerosolimitane in una montatura aurea decorata con filigrana e palmette e arricchita da grandi pietre preziose.Importanti sono anche i riflessi dei lavori d'o. in non poche miniature della scuola di corte di Carlo Magno, a volte con la riproduzione di gemme intagliate, come nel caso dell'Evangeliario di Saint-Médard a Soissons (Parigi, BN, lat. 8850, c. 81v). Una brocca d'oro nell'abbazia svizzera di Saint-Maurice d'Agaune (Trésor de l'Abbaye de Saint-Maurice), presumibilmente un recipiente liturgico, con smalti ad alveoli bizantini di alta qualità, viene attribuita alla prima fase dell'o. carolingia, ma una datazione più tarda è anch'essa possibile. Una terza opera da considerare prossima cronologicamente è la Stephansburse, il reliquiario a borsa di s. Stefano, del tesoro imperiale (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer), riccamente incrostato con pietre preziose e rivestito sulle facce minori con lamine sbalzate nello stile di Reims degli anni intorno all'830, elemento che lo fa datare all'epoca del figlio di Carlo, Ludovico il Pio (814-840). Circa alla stessa epoca doveva risalire il c.d. Arcus Einhardi, oggi noto solo attraverso riproduzioni del sec. 17° (Parigi, BN, fr. 10440, c. 45), dovuto, secondo l'iscrizione, al consulente artistico dell'imperatore Carlo e di suo figlio. Si trattava della base, in forma di arco di trionfo romano, per una preziosa croce gemmata, di cui non sembra rimasta alcuna traccia; per la tipologia sarebbe possibile rifarsi per es. alla c.d. croce delle Ardenne (Norimberga, Germanisches Nationalmus.). Le superfici dell'arco, presumibilmente adibito anche a reliquiario, recavano un ponderato programma iconografico realizzato a sbalzo, suddiviso in tre zone dedicate rispettivamente alla tematica imperiale, salvifica, escatologica; vi si riconosce non tanto un programma di carattere politico quanto piuttosto una raffigurazione sia della exaltatio crucis, inserita nell'aura dell'Impero romano rinnovato dai Carolingi, sia del compito salvifico della loro politica. Poiché al tempo dell'abate di Fulda Rabano Mauro (784-856), contemporaneo di Eginardo, è testimoniato tra l'altro un reliquiario sul modello della mosaica arca dell'alleanza (Fulda, Hessische Landesbibl., Bonifatianus 1, c. 4r), deve essere riconosciuto quanto fortemente il pensiero degli uomini di quell'epoca fosse impregnato di categorie storico-teologiche a cui si dava forma con tecniche e materiali preziosi e complesse composizioni iconografiche.Vicino all'Arcus Einhardi nelle coordinate spirituali, ma di maggiore complessità, è l'altare d'oro di S. Ambrogio a Milano, l'opera più grande, più sfarzosa - per materiali, tecniche, abilità artistica, ricchezza iconografica - e più ambiziosa dell'o. carolingia. Dal Lib. Pont. (I, 1886, p. 499ss.), così come da fonti carolinge, è noto che nel sec. 9° tutti i più importanti centri vescovili e monastici erano dotati di antependia in metallo prezioso. L'altare di Milano - spesso erroneamente chiamato paliotto - è in realtà un rivestimento dell'altare su tutti i lati in forma di arca, ovvero di sarcofago con reliquie. Nella struttura e nell'articolazione decorativa di questo altare, gli artisti si servirono di tutte le possibilità dell'o. carolingia, con una particolare insistenza sulle immagini a sbalzo e sugli smalti ad alveoli ornamentali. La faccia anteriore, aurea, offre in dodici scene uno dei più dettagliati cicli iconografici neotestamentari dell'epoca, che si dispone ai lati della croce con i simboli degli evangelisti, al centro della quale appare Cristo in trono, e che è circondata dagli apostoli. Sulla faccia posteriore, in argento dorato, si dispiega il più antico ciclo agiografico ambrosiano, con dodici scene della vita del santo titolare della chiesa. Sui lati brevi le immagini relative all'adorazione della Croce sono disposte secondo una composizione geometricamente strutturata, arricchita dalla presenza di santi milanesi. L'iconografia meditata, la maestria nel padroneggiare la rappresentazione delle figure, con linguaggi stilistici distinti nelle diverse zone dell'altare, e, non da ultimo, la ricca incrostazione di pietre preziose e di smalti ad alveoli ornamentali fanno dell'altare d'oro uno dei monumenti più importanti dell'o. dell'intero Medioevo, la cui realizzazione sicuramente non si deve al solo maestro principale Vuolvinio, ritratto sul tergo, bensì a una bottega presumibilmente vasta. La figura del donatore, l'arcivescovo Angilberto II (824-859), fa porre la datazione dell'opera intorno alla metà del 9° secolo.Considerando la sua funzione di altare reliquiario, l'altare milanese non può essere inteso senza tener conto di una componente essenzialmente romana. Nell'attività artistica che si svolgeva a Roma, in particolare all'epoca di papa Pasquale I (817-824), nel campo dell'architettura, del mosaico e dell'o. si esprimeva infatti la variante romana della renovatio carolingia, sebbene commista a precedenti tradizioni. In particolare vanno valutate in proposito le croci e i loro contenitori della cappella del Sancta Sanctorum dell'antico palazzo papale del Laterano; la c.d. croce smaltata (Roma, BAV, Mus. Sacro) risalta per la presenza di smalti figurati, mentre nelle sue due thecae conservate si sviluppano ampi cicli dell'Infanzia di Cristo; si tratta di una produzione che consente di spiegare la ricchezza iconografica dell'altare d'oro di Milano, precorritrice di quella di alcuni cicli ottoniani.Come l'Arcus Einhardi costituisce un nesso tra l'o. protocarolingia e l'imponente altare milanese, così i caratteri stilistici che si manifestano sulla faccia anteriore di quest'ultimo consentono il passaggio allo stile di Carlo il Calvo, che si sviluppò in uno o più centri della Francia nordorientale e che produsse capolavori nel campo dell'o. quali la coperta del Codex Aureus (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 14000) e un ciborio portatile (Monaco, Schatzkammer der Residenz), entrambi donati dall'imperatore Arnolfo di Carinzia (896-899) alla chiesa di St. Emmeram a Ratisbona; a essi si aggiunge la c.d. seconda coperta di Lindau (New York, Pierp. Morgan Lib., M.1), databile come gli altri due cimeli tra l'870 e l'880; lo stile esasperato delle figure sbalzate in oro ha le sue radici ultime nella tradizione reimsiana degli inizi del 9° secolo. Anche l'altare di Milano probabilmente servì da modello a un antependium aureo per Saint-Denis, noto solo attraverso una raffigurazione. La severa struttura architettonica di quest'opera si rifaceva all'impianto di un reliquiario aniconico, unicamente incrostato di pietre preziose, l'Escrain Kalle di Saint-Denis, persuasivamente attribuito a Carlo il Calvo (843-877): la fronte formata da arcate era stata forse concepita come un rimando all'immagine architettonica della cappella delle reliquie nella Cappella Palatina ad Aquisgrana (Hubert, 1949), ma comunque si poneva nel solco di una lunga tradizione. Significativo appare anche il ricorso, consapevolmente antiquario, a preziose spoglie, frequente per l'epoca di Carlo il Calvo e testimoniato tra l'altro dal calice costituito dalla preziosa coppa dei Tolomei (Parigi, BN, Cab. Méd.), dotata di una montatura in oro dal sovrano. Un esempio di trasposizione dell'o. di piccolo formato nella plastica monumentale è la grande croce rivestita in argento - una delle prime croci monumentali dell'arte occidentale - donata secondo la tradizione da Carlo il Calvo alla basilica vaticana: fusa dopo il sacco di Roma del 1527, se ne conserva una copia in cuoio (Roma, BAV, Mus. Sacro).Risale alla tarda epoca caroligia l'attività in campo artistico del monaco Tuotilo di San Gallo (m. nel 913), lodato nelle fonti, la cui produzione di orafo e di intagliatore d'avorio appare radicata nelle tradizioni del 9° secolo. I Casus S. Galli (MGH. SS, II, 1829, pp. 77-147) fanno cenno anche a opere di grande formato di sua mano; si conserva la coperta dell'Evangelium longum (San Gallo, Stiftsbibl., 53), in cui si ritrovano smalti ad alveoli su oro del genere di quelli dell'altare d'oro di Milano. Gli smalti non ricoprirono d'altro canto alcun ruolo nell'ultimo capitolo dell'o. carolingia, che si svolse a Milano o a Monza. Il re Berengario I (888-924), dal 915 imperatore, nipote di Ludovico il Pio, fece eseguire, come insegne della sua sovranità, un considerevole complesso formato da una croce reliquiario, un reliquiario, una legatura, un flabello e un pettine liturgico; capolavori dell'o. tardocarolingia appaiono in particolare la Crux Regni, con dovizia di pietre preziose, e il reliquiario a borsa c.d. del dente (Monza, Mus. del Duomo): a partire da quest'ultimo, caratterizzato da uno schema articolato in base al simbolismo numerico, si può tracciare a ritroso una persuasiva sequenza interna all'o. carolingia, che risale fino alla borsa di Enger (Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.) e alla borsa di s. Stefano (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer).

Età ottoniana

La grande quantità di opere dell'o. dell'epoca ottoniana e la ricchezza e varietà del loro aspetto segnano senza dubbio uno dei vertici, tecnico così come spirituale, nelle artes minores del Medioevo. L'o. ottoniana si riallaccia per quanto riguarda le tecniche e le tipologie alle arti decorative carolinge, utilizzando tuttavia i propri mezzi formali ed estetici con più chiare finalità e maggiore consapevolezza. L'oro, per gli uomini del Medioevo concretizzazione della luce e quindi specchio del divino, è, secondo il pensiero analogico dell'epoca, prerogativa dell'ambito del sacro e altrettanto della persona del sovrano, analoga a quella di Cristo, poiché le due sfere si compenetrano. In primo luogo tuttavia l'oro è offerta alla divinità, sotto forma di liturgia. Questo processo non si esaurisce nel simbolico, poiché la motivazione personale del donatore concorre in modo determinante. Un esempio particolarmente appropriato si ricava dal testamento spirituale del vescovo di Hildesheim Bernoardo (v.; 993-1022), che si adoperò per piacere a Dio attraverso una architectura meritorum e per ottenere per sé il premio del cielo; come precettore dell'imperatore Ottone III (983-1002) egli aveva trascorso alcuni anni alla corte imperiale e anche in seguito restò legato al suo alunno e alla madre di questi, l'imperatrice Teofano (983-991). In epoca ottoniana, sedi vescovili come Hildesheim e importanti abbazie si distinsero come centri artistici più decisamente che in passato. Partendo da tali centri si sviluppò un'ampia varietà di suppellettili, necessarie o auspicabili, per la liturgia cristiana. Nell'ambito temporale invece ebbe grande importanza la realizzazione dei regalia - corona, spada, scettro e altro -, alcuni esemplari dei quali, tuttora conservati, possono testimoniare dello splendido apparire dell'imperatore ottoniano.Bisogna tenere presente che la trattazione isolata dell'o. può illustrare solo un aspetto, sebbene importante, dei generi artistici delle artes minores. Altre limitazioni si aggiungono, come quella derivante dalla mancanza di dati precisi. Così, per es., anche per l'età ottoniana non solo gli artisti restano per lo più anonimi, ma anche riguardo alle botteghe si conosce troppo poco. Per alcuni principi della Chiesa - tra cui spiccano Bernoardo di Hildesheim, Egberto di Treviri (977-993), Villigiso di Magonza (975-1011) - è comunque testimoniato un personale interesse artistico anche nel campo dell'o., i cui risultati sono ancora in parte conservati. Tuttavia sulla esecuzione delle più importanti insegne regali le fonti tacciono. Nel caso di Bernoardo di Hildesheim si può ancora indicare come, attraverso le sue personali relazioni e i lunghi viaggi, si sia formato uno stretto intreccio di rapporti, alla luce dei quali meglio si configura l'interna coerenza nelle creazioni artistiche dell'epoca intorno al Mille.Al fine di tratteggiare un quadro d'insieme vanno dapprima presentati i più importanti centri dell'o. al tempo dell'impero ottoniano e le loro maggiori realizzazioni. Da Treviri, una delle più importanti sedi vescovili dell'impero, si sono fortunatamente conservate diverse opere legate al nome dell'arcivescovo Egberto, che le fece realizzare per alcune reliquie, al fine di esaltarne il sacro valore che dava lustro alla sua chiesa. Nell'Andreasschrein (Treviri, Domschatz), una cassa abbastanza grande decorata con pietre preziose e smalti, la reliquia più importante è rappresentata da un piede realizzato plasticamente a cui il sandalium dell'apostolo appartiene come realtà religiosa. Motivi a traforo rendono idealmente accessibile l'interno, fatto che rivela come la cassetta sia stata concepita nel contempo come altare portatile. Il tipo di messaggio di questo 'reliquiario parlante' si ritrova in un secondo cimelio, la riproduzione di un chiodo della croce di Cristo con una montatura 'diafana' in smalti traslucidi (Treviri, Domschatz). Un terzo reliquiario, che racchiude il leggendario bastone da pastore di s. Pietro, ha la tipologia di uno scettro a testa sferica lungo cm 175 (Limburg an der Lahn, Staurothek Domschatz und Diözesanmus.); il fusto con rivestimento aureo porta ritratti a sbalzo di papi e di vescovi di Treviri, che fanno del reliquiario un documento storicogiuridico. Una quarta opera uscita dalle botteghe di Egberto è la coperta aurea del Codex Aureus di Echternach (Norimberga, Germanisches Nationalmus., K.G 1138), sulla quale sono raffigurati a rilievo piatto i ritratti degli apostoli della Germania, oltre all'imperatrice Teofano e a suo figlio, l'imperatore Ottone III: nell'impiego dello smalto appare giunta a un alto livello qualitativo una tradizione carolingia che ebbe seguito in Lotaringia. Tra le opere precedenti vanno ricordati il calice e la patena di s. Gozzelino, vescovo di Toul (922-962; Nancy, Trésor de la Cathédrale).Uno stretto legame con il casato imperiale, quale qui è documentato, risulta anche per il monastero femminile della collegiata di St. Kosmas und Damian a Essen (od. duomo), dove fu badessa una nipote di Ottone I, Matilde (973-1011), la quale, con suo fratello Ottone duca di Svevia e di Baviera (973-982), donò una preziosa croce gemmata con il corpo del crocifisso reso plasticamente (Essen, Münsterschatzmus.). Per quanto riguarda il periodo successivo si conservano fra l'altro altre tre croci astili (Essen, Münsterschatzmus.), delle quali l'ultima dovuta alla badessa Teofano (1039-1056), una pronipote dell'omonima imperatrice. Alla croce di Matilde e Ottone, con la caratteristica terminazione a capitello delle traverse, è strettamente affine la c.d. croce di Lotario (Aquisgrana, Domschatzkammer), la più perfetta delle cruces gemmatae ottoniane; il crocifisso inciso sul verso, come il crocifisso di Essen, corrisponde tanto precisamente a un tipo databile al tardo sec. 10° - ben conosciuto attraverso la miniatura coloniense e il monumentale crocifisso di Gerone (Colonia, duomo, cappella della Croce) - che anche le croci di Essen e di Aquisgrana sono state attribuite a una bottega orafa di Colonia. L'opera di o. più importante a Essen è la Goldene Madonna (Essen, Münsterschatzmus.), una figura a tutto tondo della Sedes sapientiae, di considerevoli dimensioni (cm 74), realizzata con un nucleo ligneo rivestito di lamina d'oro. Per grandi opere auree di questo genere doveva esistere nella Germania occidentale, intorno al Mille, una tradizione, poiché una realizzazione simile si suppone esistesse a Werden, nei pressi di Essen, e due se ne conservano, una databile all'epoca del vescovo Bernoardo (Hildesheim, Diözesanmus. mit Domschatzkammer) e un'altra del vescovo Imad (1051-1076), risalente alla fine del sec. 11° (Paderborn, Erzbischöfliches Diözesanmus. und Domschatzkammer), purtroppo priva del rivestimento in oro. In statue auree di questo tipo continua anche una tradizione di immagini di culto ampiamente diffusa in Francia, come attesta una notizia del vescovo Bernardo di Angers (m. nel 1025; Liber miraculorum sanctae Fidis, I, 28), e testimoniata dalla Maestà di s. Fede a Conques (Trésor de l'Abbaye).Fra i centri artistici della Bassa Sassonia - oltre a Quedlinburg, con il tesoro della collegiata di St. Servatius (Domschatz der St. Servatius-Stiftskirche), strettamente legata al re di Germania Enrico I, detto l'Uccellatore (919-936), e alla consorte Matilde (m. nel 968), e Brunswick (croce di Gertrude, Cleveland, Mus. of Art) - è di primaria importanza Hildesheim. Il vescovo Bernoardo incrementò in particolare l'arte della fusione del metallo, in argento (crocifisso di Bernoardo, pastorale di Erkanbald; Hildesheim, Diözesanmus. mit Domschatzkammer) così come in bronzo; con le possenti porte bronzee e la colonna con rilievi nel duomo si possono in realtà considerare superati i confini verso l'arte monumentale. Più a S, a Magonza, l'arcivescovo Villigiso, arcicancelliere dell'impero, promosse anch'egli le arti, ma poco si sa di certo: tramandato storicamente è un crocifisso monumentale rivestito con seicento libbre di metallo prezioso, eseguito da Benna Trevirensis, personaggio al quale si è voluta attribuire anche la paternità delle opere realizzate nella cerchia dell'arcivescovo di Treviri Egberto (Kempf, 1966). Nella Germania meridionale importante fu il ruolo di Ratisbona, dove si praticò l'arte dello smalto ad alveoli e dove si produssero opere come la croce di Gisella di Baviera (v.; 985-1060), con il corpo del crocifisso fuso in oro (Monaco, Schatzkammer der Residenz), nonché la coperta di libro dell'Evangelistario della badessa Uta di Niedermünster (1002-1025; Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 13601), con la raffigurazione potentemente plastica di Cristo in trono. Nella celebre abbazia della Reichenau, nota per il suo scriptorium, è stata ipotizzata l'esistenza di botteghe di orafi, anche se numerose attribuzioni rimangono incerte.Finora non si è potuto accertare se ad Aquisgrana, dove venivano incoronati i re tedeschi, esistessero nel sec. 10°-11° botteghe specializzate nell'o., ma l'antica cappella di corte di Carlo Magno conserva ancora molti manufatti preziosi, frutto della munificenza dei sovrani. Gran parte delle opere si deve all'imperatore Enrico II, detto il Santo (1014-1024), re di Germania dal 1002. Dell'antependium aureo, con un ciclo cristologico a sbalzo diviso in dieci scene, non si conserva purtroppo la montatura originaria; l'ambone del Rex pius Heinricus, in cui sono inseriti pezzi di reimpiego antichi e bizantini, è stato snaturato dalla sua successiva utilizzazione come pulpito. Pertinente all'altare e certamente realizzata nello stesso atelier è anche una preziosa legatura (Aquisgrana, Domschatzkammer) con rilievi sbalzati in oro intorno a una placca eburnea bizantina. Si può supporre, principalmente per motivi iconografici, che l'altare e la coperta siano stati eseguiti entrambi a Fulda. Le legature preziose costituiscono peraltro una componente essenziale dell'o. ottoniana: il libro sacro è ritenuto persino degno di recare gli elementi di uno stemma bizantino, di una corona, come mostra la legatura del Libro delle Pericopi dell'imperatore Enrico II da Bamberga (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Cim 57). Tra le opere più nobili dell'o. ottoniana spicca un'altra coperta (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Cim 59), proveniente anch'essa da Bamberga e decorata da motivi zoomorfi a sbalzo in una struttura geometrica. Oltre che ad Aquisgrana, infatti, l'imperatore Enrico elargì ricche donazioni al vescovado di Bamberga, la sua fondazione prediletta. Il pezzo più importante dovette essere l'antependium (Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny), con la rappresentazione di Cristo tra angeli e santi, con figure di grandi dimensioni, destinato in origine al locale monastero di St. Michael, poi però giunto al duomo di Basilea. Merita una particolare attenzione il grande reliquiario della croce (Monaco, Schatzkammer der Residenz), di tipologia analoga a quella di una stauroteca bizantina, adibito anche ad altare portatile e noto pertanto come altare portatile di Enrico II. L'influsso bizantino, già rivelato nell'antependium di Basilea, nella dedica ellenizzante e nella proskýnesis della coppia imperiale dei donatori, si dovette fra l'altro all'effetto provocato dalle opere d'arte bizantine giunte a corte con il tesoro nuziale dell'imperatrice Teofano. Sugli oggetti d'arte facenti parte della dote della principessa si è molto discusso, tuttavia è fuor di dubbio che il protocollo bizantino influì, attraverso le prescrizioni sull'abbigliamento e sui relativi ornamenti, anche sulla composizione di quel 'tesoro delle imperatrici' che venne scoperto nel 1880 a Magonza e in cui si trovano manufatti in oro di diversa epoca e provenienza: da una fibula ad aquila proto-ottoniana (Magonza, Mittelrheinisches Landesmus.), a preziosi fermagli e fibule, sino ai più importanti ornamenti di tipo bizantino, costituiti dal lóros o dal maniákion (Berlino, Staatl. Mus., Kustgewerbemus.); poiché molti di questi oggetti risalgono alla metà del sec. 11°, il tesoro offre un panorama diversificato degli accessori dell'abbigliamento regale dell'epoca.A questi seguirono i veri e propri regalia o insegne, che svolsero un ruolo rilevante nella rappresentazione della dignità imperiale ottoniana. Le miniature mostrano il sovrano avvolto nel mantello imperiale con corona, scettro e globo; anche la spada tenuta da un armigero è di grande significato: essa infatti fino all'epoca carolingia aveva avuto nell'investitura regale un ruolo più importante di quello della corona stessa. Tuttavia, la c.d. spada dell'impero (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer), con le raffigurazioni a rilievo di re sul fodero aureo, appartiene già alla metà del sec. 11° e venne rielaborata nel 12°, anche se la sua concezione come reliquia della spada di s. Maurizio è originaria. Analogo è il caso della spada da parata (Essen, Münsterschatzmus.), detta dei ss. Cosma e Damiano, il cui fodero, decorato da girali animati, sbalzati in oro, presenta una lavorazione che sembra rimandare all'ambito inglese; la spada funse per lungo tempo da scettro feudale dell'abbazia di Essen, legata alla casa imperiale. Si conserva un solo scettro regale originale dell'epoca ottoniana, del tipo a testa sferica (Budapest, Magyar Nemzeti Múz.); armillae ottoniane, guarnizioni delle maniche della veste imperiale preziosamente lavorate, si trovano reimpiegate nella testa reliquiario di s. Osvaldo (Hildesheim, Diözesanmus. mit Domschatzkammer).Sul piano storico, a partire dall'età carolingio-ottoniana il segno più significativo della sovranità fu la corona. Tanto come oggetto regale e primum ornamentum, quanto come corona votiva, ovvero donazione liturgica, le corone sono menzionate talmente spesso da far supporre che ne esistessero numerosi esemplari, benché se ne siano conservate in numero ridotto. Nello Halleschen Heiltum (Aschaffenburg, Schlossbibl., Man. 14, c. 173v) è riprodotta una corona, dovuta all'imperatore Ottone II, del tipo gigliato; anche la corona della Goldene Madonna di Essen (Münsterschatzmus.), ben conservata, è gigliata e si è ipotizzato che potesse essere servita per l'incoronazione di Ottone III, all'età di tre anni. Una corona a cerchio (Monaco, Schatzkammer der Residenz), i cui elementi salienti sono probabilmente andati perduti, è stata attribuita a s. Cunegonda, moglie di Enrico II, e si è conservata come reliquia; valore di reliquia ha anche un altro esemplare, con archi incrociati, che corona la statua di S. Fede a Conques (Trésor de l'Abbaye): il trono sul quale essa siede, lavorato a traforo e riccamente tempestato di pietre preziose, può valere anche come esempio di trono regale dell'Alto Medioevo. La più importante tra le corone del Medioevo è la corona dell'impero, risalente all'epoca ottoniana (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer), una corona ad arco secondo il modello bizantino. Il messaggio regale fa riferimento, attraverso le immagini, all'Antico Testamento, al Nuovo Testamento e all'Apocalisse, integrato dal simbolismo delle pietre preziose e dei numeri. Sotto l'aspetto storico-artistico la corona dell'impero è stata come sempre molto discussa: l'arco reca in realtà il nome dell'imperatore Corrado II il Salico (1024-1039) e anche la crocetta soprastante appartiene alla stessa epoca; il corpo della corona però, con quattro placchette a smalto e altrettante con pietre preziose, è considerato precedente. In particolare gli smalti cloisonnés enfoncés, con le figure di Cristo e dei profeti, sembrano indicare una propria provenienza finora non chiarita. C'è da chiedersi se anche in essi vada visto il reimpiego di un oggetto più antico sempre d'ambito regale, come già visto per la legatura di Enrico II.Quando trattando dell'o. dei secc. 10°-11° si passa dall'impero alle altre regioni europee si deve constatare che in nessun altro luogo si incontrano situazioni paragonabili per quantità o qualità delle opere. In ogni caso, particolare rilievo va dato all'Italia settentrionale, dove la coperta di evangeliario dell'arcivescovo Ariberto da Intimiano (1018-1045; Milano, Tesoro del Duomo) testimonia una progredita tradizione degli smalti ad alveoli; anche sulla c.d. pace di Chiavenna (Mus. Tesoro della Collegiata di S. Lorenzo) sono riutilizzati notevoli émaux de plique. Un crocifisso rivestito d'argento del sec. 11°, che porta una corona filigranata riferita a Ottone III, è conservato nel duomo di Vercelli, mentre nel Tesoro del duomo si trova una legatura con decorazioni di figure a sbalzo, di gran lunga inferiore per qualità ai lavori ottoniani prodotti al di là delle Alpi.In Inghilterra per quest'epoca si conoscono solo opere isolate, come una croce eburnea ornata di filigrana aurea e medaglioni a smalto (Londra, Vict. and Alb. Mus.) e inoltre la coperta di libro di Giuditta di Fiandra (New York, Pierp. Morgan Lib.), già della seconda metà del sec. 11° e di tipo protoromanico.A causa delle perdite dovute agli accadimenti storici, anche in Francia si sono conservati pochi oggetti di rilievo, in particolare il tesoro della chiesa di pellegrinaggio di Conques (Trésor de l'Abbaye), con la figura in trono di S. Fede, il reliquiario a borsa di Pipino di Aquitania, probabilmente risalente agli inizi del sec. 11°, ma con un nucleo più antico, e la c.d. lanterna dell'abate Bégon, forse post 1087.Per la Spagna si deve ricordare la Cruz de la Victoria, datata 908, con ricchissima decorazione di pietre preziose e smalti, nonché l'Arca Santa, donata nel 1075, che già presenta la tipologia caratteristica dell'antependium d'altare protoromanico (entrambe a Oviedo, Mus. de la Cámara Santa).

Secolo 12°

L'o. ottoniana si presenta come un'arte decisamente preziosa, destinata a grandi committenze della sfera temporale nonché liturgico-sacrale, non priva di rapporto con le altre arti, per es. quella dell'intaglio in avorio, soprattutto al servizio della Chiesa. L'o. sacra romanica del sec. 12° acquisì ben presto nuovi accenti: mentre i manufatti preziosi di ambito regale diminuirono, l'apice della produzione dell'epoca venne raggiunto nelle grandi opere dell'o. sacra, come l'esordiente tipologia della pala d'altare e le monumentali casse-reliquiario, oggetti destinati anche a nuove funzioni. Dai cambiamenti dovuti anche alla liturgia risulta un diverso rapporto con le arti plastiche, espressione essenziale dell'arte del sec. 12° analogamente all'architettura delle cattedrali. Nell'o. le mutate funzioni e le nuove finalità si legano all'adozione di materiali e tecniche nuovi. Al posto dell'oro e dell'argento compare di preferenza il rame dorato e alle sottigliezze tecniche della decorazione nell'o. carolingioottoniana subentrarono in misura crescente il basso e l'altorilievo. L'uso del rame determinò, inoltre, nell'ornato della superficie, il passaggio dallo smalto ad alveoli a quello a incavo; in quest'ultima tecnica, come anche in quella della vernice bruna (émail brun), si giunse nel corso del secolo a un alto livello di qualità sul piano esecutivo.Appare significativo che agli inizi del sec. 12° risalga anche il più importante manuale di tecniche artistiche del Medioevo, il De diversis artibus di Teofilo. Il testo venne verosimilmente scritto a Colonia e l'autore è stato identificato con validi motivi in Roger di Helmarshausen (m. post 1125), attivo tra l'altro in St. Pantaleon a Colonia. Allo stesso Roger, che presumibilmente si formò nell'abbazia mosana di Stavelot, si deve uno scrinium databile intorno al 1100 (Paderborn, Erzbischöfliches Diözesanmus. und Domschatzkammer). Si tratta di un altare portatile a cassa, dedicato ai ss. Chiliano e Liborio, rivestito di lamine in argento sbalzato con figure e decorato con incisioni, punzonature, filigrane e trafori, nonché con inserti di pietre: una molteplicità di tecniche che fa pensare alle descrizioni del De diversis artibus. Lo stile delle figure mostra caratteri mosani ma anche influssi bizantini. Altre opere sono attribuite a Roger di Helmarshausen, come un altare portatile (Paderborn, Franziskanerkirche St. Joseph) dal monastero di Abdinghof, con raffigurazioni a giorno incise e animate da un drammatico dinamismo, nonché una coperta di libro (Treviri, Domschatz, 139). Nella croce-reliquiario (Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.) proveniente da Enger, vicina all'ambito di Roger di Helmarshausen, trova inoltre prosecuzione anche la tradizione della più nobile arte decorativa ottoniana. I rapporti tra Helmarshausen, in Bassa Sassonia, dove Roger fu attivo in seguito, e la regione della Mosa sono fra l'altro testimoniati da traslazioni di reliquie. Proprio nell'o. della Bassa Sassonia, tuttavia, si riscontra il perdurare della tradizione carolingio-ottoniana, soprattutto per quel che riguarda Hildesheim, dove si conservano (Diözesanmus. mit Domschatzkammer), non solo tre notevoli croci a disco in rame fuso e dorato, degli inizi del sec. 12°, bensì anche, fin dal 1130 ca., due casse-reliquiario con copertura a spioventi e con decorazione figurata. Da associare alla cassa di s. Godeardo (1132 ca.) è il pendant della cassa di s. Epifanio: entrambi esempi precoci dell'arte renano-mosana dei reliquiari della metà e della fine del secolo, di cui anticipano i temi iconografici e il modellato plastico. Dell'eco successiva dell'arte di Roger di Helmarshausen si hanno testimonianze molteplici, tra cui si possono ricordare un reliquiario a disco e un calice riccamente adorno di figure, entrambi conservati a Fritzlar (Domschatz und Mus. des St. Petri-Domes).Il ruolo cruciale della regione mosana nell'o. del sec. 12° si concretizza per la prima volta con la menzione di Renerus aurifaber Hoyensis (Renier de Huy), riportata dalla Chronique liégeoise del 1402. L'orafo, secondo la cronaca, aveva ricevuto nel 1118 l'incarico per un grande fonte battesimale in metallo fuso (Liegi, Saint-Barthélemy), destinata in origine a Notre-Dame di Huy, un bacino sorretto da dodici buoi in cui si richiama il mare di bronzo del Tempio di Gerusalemme (1 Re, 7, 23-26). Nel carattere anticheggiante delle figure di quest'opera si riconosce l'eredità carolingia della Lotaringia, ma un riferimento andrebbe fatto anche all'arte dell'avorio dell'epoca del vescovo Notgero di Liegi (972-1008). A quest'unica opera nota di Renier de Huy si potrebbe collegare il ruolo, altamente significativo dal punto di vista dello sviluppo storico, svolto dalla regione mosana con la diocesi di Liegi - appartenente alla provincia ecclesiastica di Colonia - e con l'abbazia di Stavelot, guidata dal 1130 dall'abate Vibaldo (1098-1158), sensibile ai fatti artistici. Nel reliquiario di s. Adelino di Celles (Visé, Saint-Martin), del 1130 ca., forse la più antica cassa-reliquiario con copertura a spioventi della regione, si è voluto riconoscere l'effetto dell'arte di Renier de Huy, al quale inoltre sono attribuiti un crocifisso (Colonia, Schnütgen-Mus.) e un turibolo (Lille, Mus. des Beaux-Arts).Intorno alla metà del sec. 12°, sotto l'abate Vibaldo, l'o. della regione mosana ebbe un momento di particolare sviluppo. Nella testa-reliquiario di s. Alessandro papa (Bruxelles, Mus. Royaux d'Art et d'Histoire), proveniente da Stavelot e realizzata intorno al 1145, si incontra per la prima volta l'impiego dello smalto a incavo in misura significativa. Questi smalti si rifanno ancora piuttosto alla tecnica bizantina dello smalto ad alveoli, mentre la testa a tutto tondo può essere riportata a una precedente tradizione delle teste-reliquiario. L'opera più imponente dell'epoca dell'abate Vibaldo fu la grande pala di S. Remaclo (m 33) per la chiesa abbaziale di Stavelot, degli anni 1145-1158, conosciuta purtroppo solo attraverso un disegno (Bruxelles, Arch. Générales du Royaume) e due piccoli frammenti di alta qualità (Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.; Francoforte sul Meno, Mus. für Kunsthandwerk). Nella parte superiore della pala si trovava la raffigurazione di Cristo fra angeli, mentre nella parte inferiore era racchiusa l'urna-reliquiario fiancheggiata da scene della vita del santo titolare. Da una lettera dell'abate Vibaldo al suo dilecto filio, un aurifex G. (Liegi, Arch. de l'Etat, 341), si è dedotto che il capomaestro dell'impresa sia stato Godefroid de Huy (v.), al quale le cronache assegnano altri lavori. A Vibaldo si deve ancora un trittico-reliquiario (New York, Pierp. Morgan Lib.) che contiene una stauroteca bizantina che egli aveva portato da Costantinopoli nel 1154.Alcune placchette a smalto conservate a New York (Metropolitan Mus. of Art), a Parigi (Louvre) e a Londra (Vict. and Alb. Mus.) sembrano appartenere al grande piede di croce che l'abate Suger (De administratione, XXXII) aveva fatto eseguire nel 1145-1147 ad aurifabri Lotharingii fatti venire dalla regione della Mosa. Il ruolo di capomaestro si è voluto attribuire (Kötzsche, 1973), anche in questo caso, a Godefroid de Huy. La descrizione di Suger permette ancora oggi di raffigurarsi quest'opera, della quale è un riflesso semplificato il piede di croce di Saint-Bertin (Saint-Omer, Mus. Sandelin), databile agli anni intorno al 1160; vicino è anche un altare portatile di Stavelot (Bruxelles, Mus. Royaux d'Art et d'Histoire) che, come il piede di croce di Saint-Bertin, poggia su figure di evangelisti a tutto tondo. Si è voluta infine vedere una connessione con le figure di apostoli della c.d. pala della Pentecoste (Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny), destinata al St. Kastor di Coblenza o, secondo altri (Kötzsche, 1973), a Stavelot; la pala, in forma di stretto rettangolo con la zona centrale rialzata e arcuata, è stata anch'essa attribuita all'abate Vibaldo. Per il periodo successivo, tra il 1160 e il 1170, viene ancora attribuita a Godefroid de Huy, o alla sua cerchia più ristretta, l'urna di s. Servazio (Maastricht, Schatkamer van de Sint-Servaasbasiliek).Molteplici sono le intersezioni cronologiche e artistiche che indicano in Colonia, sede metropolitana e principale città d'arte della Renania, un centro primario nel campo dell'oreficeria. Per il duomo di questa città, già nell'epoca carolingia si ha notizia di opere d'arte preziose, e nei secc. 10°-11° arcivescovi come Brunone (953-965), Gerone (m. nel 976) e Annone II (1056-1075) contribuirono allo splendore della chiesa. Di particolare rilevanza è la lunga serie di casse-reliquiario coloniensi, al cui inizio si pone l'urna di s. Vittore per il duomo di Xanten, forse realizzata già nel 1130 ca. secondo il modello mosano; sull'altare portatile del tesoro dei Guelfi (Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.) si incontra per la prima volta la firma di un artista: Eilbertus Coloniensis. A quest'opera, decorata da splendidi smalti a incavo e databile intorno al 1150, sono accostabili altri due altari portatili, il reliquiario detto di s. Maurizio (Siegburg, St. Servatius, Schatzkammer) e un altro esemplare a Mönchengladbach (Propstei- und Münsterkirche St. Vitus, Münsterschatzkammer). Nella successiva produzione coloniense, di straordinaria ampiezza, si distingue - collegandosi a un personaggio di cui si cita il nome nello zoccolo dell'urna di s. Maurino (Colonia, St. Pantaleon, Schatz) - un primo gruppo, detto di Fridericus, a cui per es. viene assegnato il reliquiario a cupola di Hochelten (Londra, Vict. and Alb. Mus.), da un secondo gruppo che prende il nome dall'altare portatile di s. Gregorio (Siegburg, St. Servatius, Schatzkammer); a quest'ultimo vengono riferiti il reliquiario a torre rivestito di smalti a incavo (Darmstadt, Hessisches Landesmus.) e un secondo reliquiario a cupola del sec. 12° (Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.). Le datazioni delle numerose opere appartenenti a questi due gruppi, abbastanza vicine l'una all'altra, variano tra il 1160 e il 1180, ma i reciproci rapporti sono stati valutati dagli studi in modo assolutamente non unanime.Tra le grandi casse-reliquiario con copertura a spioventi, che diedero fama all'o. coloniense di epoca romanica, spicca la cassa di s. Eriberto (Deutz, St. Heribert, Schatz): nella struttura l'opera si riallaccia alla cassa di s. Vittore, ma nella decorazione plastica dei lati brevi, con le figure in trono della Vergine e del santo (le cui spoglie erano state traslate nel 1147), nonché nelle figure di apostoli seduti, sui lati lunghi, si preannunciano i motivi base del futuro sviluppo; particolare attenzione meritano i medaglioni in smalto, con scene ricche di figure, posti sugli spioventi della copertura, nei quali l'arte dello smalto a incavo renano-mosana raggiunse uno dei suoi apici.È verosimile che anche la città imperiale di Aquisgrana, sita tra Colonia e Liegi, abbia prodotto nel sec. 12° opere di oreficeria. Le più importanti sono legate alla figura di Carlo Magno, che nel 1165 venne canonizzato per iniziativa di Federico I Barbarossa (1152-1190). Un reliquiario del braccio dell'imperatore (Parigi, Louvre), donato dal Barbarossa e dalla consorte al duomo di Aquisgrana, è anch'esso attribuito a Godefroid de Huy; lo stesso Barbarossa in seguito fece ornare la Cappella Palatina di Aquisgrana con una corona di luci in bronzo dorato, raffigurante la Celica Iherusalem, secondo la tipologia del lampadario del vescovo Hezilo (1054-1079) nel duomo di Hildesheim, di epoca ottoniana, e confrontabile con un'altra corona di luci romanica in St. Nikolaus a Grosscomburg (presso Schwäbisch-Hall), proveniente dall'abbaziale e donata dall'abate Hartwig (m. nel 1139) insieme a un grande antependium d'altare. La decorazione a vernice bruna del lampadario della Cappella Palatina e soprattutto le incisioni delle lastre pavimentali delle sue torri si sono volute attribuire a orafi mosani attivi ad Aquisgrana (Rhein und Maas, 1972-1973); alla loro cerchia appartiene una coppa battesimale del Barbarossa (Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.), data in dono al suo padrino Ottone di Cappenberg; dei possessi di quest'ultimo si conserva inoltre una testa-ritratto dell'imperatore che venne trasformata, probabilmente in Bassa Sassonia, in testa-reliquiario (Bork, St. Johannes Evangelist, Kirchenschatz). Due grandi reliquiari in forma di chiesa a croce greca con cupola (Londra, Vict. and Alb. Mus.; Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.), decorati con smalti, recano entrambi figure di profeti, apostoli e rilievi cristologici intagliati in avorio di tricheco; l'esemplare che faceva parte del tesoro dei Guelfi (Berlino, Staatl. Mus., Kunstgewerbemus.) racchiudeva una reliquia di s. Gregorio Nazianzeno, che Enrico XII detto il Leone (1129/1135-1195), duca di Baviera e di Sassonia, aveva portato dal suo viaggio in Terra Santa nel 1172-1173, cosicché è da dedurre per ambedue un'esecuzione di poco posteriore, da presupporsi avvenuta a Colonia, soprattutto tenendo conto della lavorazione dell'avorio. La tipologia dell'edificio a pianta centrale, al di là dell'affinità con le chiese bizantine a croce greca con cupola, intende riferirsi probabilmente in primo luogo al Templum Domini di Gerusalemme.Un altro settore particolare all'interno dell'o. romanica è costituito dal grande complesso dei recipienti liturgici con ricca ornamentazione figurata, soprattutto calici e relative patene. Quello che può essere considerato l'esempio più significativo, il c.d. calice di Wilten (Vienna, Kunsthistorisches Mus.), sembra essere una donazione di Bertoldo IV conte di Andechs (1188) al monastero di Wilten presso Innsbruck; poiché Bertoldo era in rapporto con Enrico il Leone, si ipotizza che il calice con immagini incise sia stato eseguito in Bassa Sassonia. Altri due calici (Gniezno, tesoro della cattedrale), provenienti da Trzemesno, potrebbero risalire alla stessa bottega: Enrico il Leone era in stretto rapporto anche con il re Boleslao di Polonia (m. nel 1173). Il ciclo decorativo di questi calici rispecchia il rapporto tipologico del recipiente eucaristico con il novum Christi sepulcrum, secondo quanto veniva espresso nella formula di consacrazione. A questi due manufatti possono ricollegarsi le incisioni con i santi re sul reliquiario di s. Osvaldo a Hildesheim (Diözesanmus. mit Domschatzkammer), i cui nessi con l'Inghilterra si spiegano considerando che Enrico il Leone aveva sposato Matilde, figlia del re inglese. Con datazione al 1160-1170 si giunge infine all'arredo del duomo di St. Blasius und Johannes der Täufer a Brunswick e al nucleo iniziale del più tardo tesoro dei Guelfi, di cui fanno parte due bracci-reliquiario con iscrizioni, in cui viene ricordato Enrico il Leone, per es. quello di s. Biagio (Brunswick, Herzog Anton Ulrich-Mus.); una grande croce-reliquiario è perduta, il candelabro a sette bracci nel duomo e il leone bronzeo realizzato per il castello di Dankwarderode appartengono piuttosto all'arte della fusione monumentale.Dalla visione d'insieme dell'o. del sec. 12° risulta un fitto intreccio di reciproci influssi, per quanto riguarda stile, tecniche, motivi, fonti figurative e moventi storici, che percorre tutto l'impero medievale e all'interno del quale la committenza di grandi personaggi, religiosi e laici, costituisce di certo un elemento essenziale di collegamento. Ciò vale anche per l'opera di Nicola di Verdun (v.), nella quale il secolo raggiunse una delle sue maggiori vette artistiche. Della persona di questo maestro non si conosce nulla, il suo nome nondimeno si incontra su due imponenti realizzazioni: sulla pala del monastero di Klosterneuburg (oggi nella collegiata) presso Vienna, dove Nicolaus...Virdunensis è menzionato come colui che opus...fabricavit nel 1181, e sul reliquiario della Vergine nella cattedrale di Notre-Dame a Tournai, dove è ricordato come magister Nicolaus de Verdun nel 1205. La pala di Klosterneuburg, in origine rivestimento di un ambone, venne trasformata in pala d'altare a sportelli dopo un incendio avvenuto nel 1330 ca. (od. misure: larghezza cm 263, altezza cm 108). L'opera rappresenta la più grande creazione dell'epoca in smalti a incavo su rame dorato e, nello stesso tempo, costituisce un compendio dell'iconografia tipologica, la cui molteplicità figurativa è ordinata secondo le categorie teologiche ante legem, sub lege e sub gratia; del programma dovette essere autore il preposito Werner, menzionato in un'iscrizione. Resta da precisare se Nicola di Verdun abbia realizzato l'opera a Klosterneuburg o nella bottega che presumibilmente egli aveva nella regione mosana. Dallo sviluppo riconoscibile nella vasta impresa è stato letto un progredire del linguaggio artistico, soprattutto nella padronanza del trattamento della figura umana; lo stimolo dei modelli antichi mediati dall'arte bizantina deve aver avuto un ruolo al riguardo, altrettanto quanto le tradizioni mosane a partire da Renier de Huy.Tra l'ambone di Klosterneuburg e il reliquiario della Vergine a Tournai, per motivi stilistici, iconografici ed estetico-qualitativi va posta la terza grande opera di Nicola di Verdun, il reliquiario dei re Magi nel duomo di Colonia. Le reliquie conservate nella cassa erano giunte in possesso dell'imperatore Federico I Barbarossa con la conquista di Milano del 1164 ed erano state affidate al suo cancelliere, l'arcivescovo di Colonia Rainald von Dassel. Il gigantesco reliquiario (cm 220110; altezza cm 153) poté essere realizzato solo da una grande bottega che si presuppone diretta da Nicola. Nel 1794 parti del reliquiario andarono perdute e solo negli anni successivi al 1960 esso recuperò, grazie a un lungo e complesso restauro, la struttura originaria; parti importanti della decorazione e gemme preziose sono disperse. Il reliquiario dei Magi ha l'aspetto di chiesa basilicale a tre navate ma, visto dal retro, appare formato da tre reliquiari, di cui uno è posto sopra agli altri due, in ciò corrispondendo alla tipologia base della cassa-reliquiario con copertura a spioventi renana, alla quale è accostabile anche la decorazione con figure di profeti e apostoli; sulla faccia frontale sono raffigurati Cristo Giudice e, al di sotto, l'Adorazione dei Magi, con a fianco re Ottone IV (1182-1218), mentre sulla faccia posteriore sono rappresentati i Ss. Naborio e Felice, anch'essi sepolti nel reliquiario. La struttura plastica delle figure attribuite alla mano di Nicola sui lati lunghi del reliquiario ha determinato da sempre la grande notorietà di quest'opera; non poco tuttavia si deve alle più deboli mani dei collaboratori, poiché i lavori si protrassero fino al 1225. D'altro canto l'attività di Nicola sembra ritrovarsi anche in un secondo reliquiario coloniense, la cassa di s. Annone in St. Michael a Siegburg, già terminata nel 1183, data che rende possibile presumere una collaborazione del maestro, al quale si dovrebbero le figurette realizzate per fusione dei pennacchi dei lati lunghi, mentre gli sbalzi con figure sedute sotto agli archi trilobati e anche i rilievi degli spioventi sono andati perduti. Il reliquiario della Vergine di Tournai (1205), rimaneggiato nel sec. 19°, si può considerare come conclusione dell'o. del sec. 12°, anche se molti reliquiari del genere vennero ancora realizzati agli inizi del sec. 13°: il reliquiario di Carlo Magno, completato nel 1215, e il reliquiario della Vergine del 1220-1230, entrambi nel duomo di Aquisgrana (Domschatzkammer), e infine il reliquiario di s. Elisabetta nella sagrestia dell'Elisabethkirche di Marburgo, terminato forse nel 1249.L'o. renano-mosana esercitò un influsso anche in regioni distanti, come in alcune opere nell'abbazia di Saint-Maurice d'Agaune (Trésor de l'Abbaye de Saint-Maurice). In questo importante sito, posto su un valico alpino, doveva operare una bottega locale in cui vennero realizzati il reliquiario di s. Maurizio e quello dei figli di s. Sigismondo (516-523), re dei Burgundi, e, inoltre, il busto-reliquiario di s. Candido, tutte opere del 1160 ca.; l'orientamento della bottega verso l'arte renano-mosana può non da ultimo spiegarsi alla luce di relazioni dinastiche, poiché il monastero alpino era legato ai casati dominanti dell'epoca (Thurre, 1993).Riguardo agli altri centri dell'o. d'Europa si può dire che in nessun altro luogo si raggiunsero la ricchezza e il livello artistico delle opere prodotte nell'area di Colonia e di Liegi; per quanto concerne la Francia, il quadro delle opere conservate appare peraltro completamente distorto dalle immense perdite dovute alle guerre di religione e alla Rivoluzione. Lo attestano per es. le iniziative dell'abate Suger (1122-1151) per Saint-Denis: nel suo De administratione, alle opere di o. è dedicato ampio spazio, ma se ne conservano pochissime, alcune solo grazie al loro legame con manufatti antichi reimpiegati, come nel caso del calice di Suger (Washington, Nat. Gall. of Art) o del vaso a forma d'aquila (Parigi, Louvre). Tuttavia va anche tenuto presente che l'abbazia di Saint-Denis non doveva avere una propria importante bottega, visto che Suger chiamò artefici dalla Lotaringia per realizzare un piede di croce con smalti. Un altare portatile con smalti dell'epoca si trova ancora a Conques (Trésor de l'Abbaye); la preziosa croce reliquiario di Valasse (Rouen, Mus. des Antiquités), decorata a filigrana, ritenuta un dono dell'imperatrice Matilde I (1102-1167), proviene probabilmente dalla Germania occidentale. Le botteghe fiorenti già dal 1200 ca. a Limoges per la fabbricazione di oggetti sacri decorati con smalti a incavo - strettamente collegati con la contemporanea produzione in Spagna - vennero ben presto impiegate per una produzione di massa destinata all'esportazione, con un'inevitabile perdita di qualità. Opera di alto livello e perfetta esecuzione artigianale è la lastra funeraria di Goffredo d'Angiò, detto il Bello (1113-1151; Le Mans, Mus. de Tessé). Per quanto riguarda la Spagna, il reliquiario di s. Domenico (Burgos, Mus. Arqueológico Prov.), abate di Silos, della metà del sec. 12° e proveniente da Santo Domingo de Silos, già presenta smalti a incavo con teste realizzate plasticamente, un uso che poi sarà abituale a Limoges.Anche l'Inghilterra ha subìto perdite gravissime per ciò che riguarda le opere di o. del Medioevo. Solo da Canterbury sembra che nel sec. 16° siano stati trasferiti nella zecca reale ventiquattro carichi di pezzi di arredo liturgico. Una particolare tipologia, interessante e ben conservata, nonché collegata con i lavori inglesi, è costituita invece dai Gyldne Altre in Danimarca: si tratta di antependia o pale d'altare il cui prospetto può essere coronato da un arco, come nell'esemplare di Lisbjerg (Copenaghen, Nationalmus.); nella decorazione figurata gli elementi inglesi si combinano con quelli tedeschi dando luogo, insieme alla locale tradizione ornamentale, a esiti interessanti. Appare evidente tuttavia che anche in Scandinavia operarono artisti mosani, come attesta un antependium (Stoccolma, Statens historiska mus.) della parrocchiale di Lyngsjö, nella Svezia meridionale, che dimostra la vastità dell'area di influenza dell'o. renano-mosana e ne conferma l'eccezionale importanza nel 12° secolo.

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Secoli 13°-14°

La produzione di o. risalente agli inizi del Duecento si riallaccia a quella dei decenni precedenti senza soluzione di continuità e vede in piena attività maestri e botteghe operosi ormai da una ventina d'anni secondo i dettami dello 'stile 1200' (The Year 1200, 1970). Di questo vasto movimento culturale la critica ha convenzionalmente riportato l'inizio al 1181, data dell'ambone poi trasformato in pala - eseguito da Nicola di Verdun (v.) per la collegiata di Klosterneuburg vicino a Vienna, e la sua fine al 1220-1230, quando vennero realizzati, prima del 1225, il gruppo della Visitazione di Reims e, intorno al 1230, il Livre de portraiture di Villard de Honnecourt (Parigi, BN, fr. 19093); con queste ultime opere il linguaggio 'gotico' si sviluppò con esiti diversi, risultati poi vincenti nella storia del suo percorso. Lo 'stile 1200', detto anche, con riferimenti storico-dinastici, 'stile plantageneto', 'stile Filippo Augusto', 'stile degli Staufer', si diffuse nelle province del Nord della Francia, specialmente nell'Ile-de-France e nella Champagne, nell'adiacente valle della Mosa, in Inghilterra e in Germania, qui soprattutto nelle zone della Renania, della Vestfalia, della Sassonia (The Year 1200, 1970).Dall'ambito mediterraneo la produzione più qualificata si spostò verso l'Europa settentrionale e fece tesoro da una parte della tradizione classica esistente in loco, in una sorta di continuità con l'epoca carolingia attraverso la miniatura reimsiana di Ebbone (m. nell'851) e la produzione mosana dei secc. 11° e 12°, dall'altra dei vasti movimenti sociali ed economici, nonché di impronta intellettuale, ivi presenti. I legami fra politica, vita sociale, storia della cultura e produzione artistica si fecero più stretti.Le botteghe limosine, che si imposero in tutta Europa a partire dagli ultimi decenni del sec. 12°, trovarono agli inizi del Duecento il loro maggiore successo, realizzando alcuni capolavori fra cui la pisside (Parigi, Louvre) firmata da Alpais (v.), che costituisce, sia sul piano documentario sia su quello stilistico, un punto di riferimento essenziale.In ambito renano, protagonista è ancora Nicola di Verdun, che firmò nel 1205 la cassa-reliquiario della Vergine per la cattedrale di Tournai, dove il suo linguaggio si placa in una visione più misurata e composta. Insieme con quella dei re Magi (Colonia, duomo), iniziata ca. vent'anni prima, essa costituì il modello diretto per esemplari analoghi, quali le casse di Carlo Magno (ca. 1200-1215) e della Vergine (1220-1235) ad Aquisgrana (Domschatzkammer), di s. Elisabetta nella sagrestia del duomo di Marburgo (1236-1249) e di s. Eleuterio (1247) a Tournai (Trésor de la Cathédrale Notre-Dame).Accanto a questi cofani monumentali compare una serie di opere assai diverse per dimensioni e per struttura, per destinazione e per funzione, come per es. il flabello (v.) in argento, filigrana, pietre e smalti, renano o mosano del 1200 ca. (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters), di probabile uso liturgico. A questo stesso periodo appartengono le fibbie di cintura mosane, del 1210 ca., conservate a New York (Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters), e quelle mosane o inglesi, del 1210-1220, a Stoccolma (Statens historiska mus.), parti nobili - e meno degradabili delle stoffe che le completavano - di oggetti di grande successo e diffusione. Di destinazione laica, ma trasferite frequentemente dalle persone alle immagini di culto, come testimoniano gli antichi inventari ecclesiastici, le cinture rivestono spesso anche il ruolo di doni nuziali (Fingerlin, 1971). Usati per la chiusura e l'adornamento delle vesti, che potevano essere liturgiche ed erano comunque preziose, restano alcuni fermagli, arricchiti di pietre e perle, sul tipo della fibula dell'inizio del Duecento conservata a Magonza (Mittelrheinisches Landesmus.) o delle altre un po' più tarde di ambito parigino (Firenze, Mus. Naz. del Bargello, Coll. Carrand); questi oggetti si collegano nella conformazione a opere del secolo precedente, come per es. l'esemplare di epoca normanna rinvenuto in un ripostiglio dell'abbazia di Montecassino (Roma, Mus. Naz. Romano, Medagliere; Pace, 1986).Intorno al 1200 è da ricondurre anche la coppa del calice della chiesa parrocchiale di Iber, in Bassa Sassonia, che, con altre opere coeve, testimonia un uso raffinatissimo del niello, tecnica con la quale sono raffigurate scene cristologiche entro medaglioni, sovrastate da figure di profeti che dispiegano ampi cartigli iscritti; la relativa patena contiene l'immagine del Cristo benedicente attorniato dai simboli degli evangelisti, come pure quella datata 1230 e conservata nei St. Aposteln a Colonia.In Spagna, dove si aprì il periodo della Reconquista, si diffusero le nuove tendenze mosano-renane, che evidenziano legami soprattutto con la scuola di Hugo di Oignies (v.), come nella croce-reliquiario della cattedrale di Astorga, risalente al secondo quarto del 13° secolo. Si conservarono inoltre i legami con Limoges, che avevano dato luogo ad ateliers locali, e si realizzarono capolavori sul tipo della Virgen de la Vega nella cattedrale di Salamanca.La coeva produzione della Germania settentrionale si caratterizza invece per una serie di opere bronzee, fra cui il candeliere con Sansone che smascella il leone (Amburgo, Mus. für Kunst und Gewerbe).A oggetti tradizionali si affiancano opere di maggiore originalità, quali per es.: il reliquiario-ostensorio in forma di carrozza coperta, databile agli inizi del sec. 13° - intelligente allusione al trasporto delle reliquie -, ricondotto all'Ile-de-France e conservato nella chiesa di Saint-Aignan a Orléans; l'acquamanile in forma di busto virile, con la testa circondata da un tralcio fiorito, in bronzo dorato con gli occhi d'argento, attribuito ad Aquisgrana tra il 1210 e il 1220 (Aquisgrana, Domschatzkammer); infine, il recipiente in forma di gobbo eseguito nella Bassa Sassonia, forse a Hildesheim, dopo il 1225 (Norimberga, Germanisches Nationalmus.). Un fascino particolare riveste infine il pomo scaldamani inciso e dorato (Cluny, Mus. Ochier), eseguito nel territorio mosano o in Inghilterra intorno al 1200, con le personificazioni delle Arti del trivio (Grammatica, Retorica e Dialettica) e uno scriba: la calotta sottostante, perduta, doveva probabilmente contenere le raffigurazioni del quadrivio. Il pezzo trova attestazione documentaria nel "pomum argenteum deauratum ad calefaciendum manus", citato nell'inventario delle cose preziose lasciate dal patriarca di Aquileia Nicolò di Lussemburgo il 20 dicembre 1359 (Ori e tesori d'Europa, 1992, p. 21).In quello stesso periodo si produssero corone-reliquiario, quali quella delle Sacre Spine conservata a Namur (Mus. Diocésaine et Trésor de la Cathédrale Saint-Aubain), decorata da otto fiori trilobati, pietre e perle, ed eseguita forse da un artista mosano a Costantinopoli nel 1206 o nello Hainaut tra il 1207 e il 1218.La conquista di Costantinopoli nel 1204 aveva con ogni verosimiglianza prodotto un'invasione sul mercato occidentale di pezzi bizantini. Intorno a quegli anni si osserva l'elaborazione in veste sontuosa di croci a doppia traversa orientali. Significativo risulta il trittico-reliquiario di s. Ludwino, nella chiesa di St. Liutwin a Mettlach, eseguito intorno al 1220 a Treviri, le cui ali contengono all'esterno immagini a niello e all'interno figure a sbalzo e cesello; nel verso compare Cristo in maestà, sotto il quale il custode Benedetto e il chierico Guglielmo presentano la croce a doppia traversa, la stessa che si trova nel pannello centrale, raddoppiandone la figurazione in una sorta di rispecchiamento. Una croce analoga compare nel coevo reliquiario conservato nel tesoro della chiesa di St. Matthias a Treviri, opera preziosissima e monumentale, sui bordi della quale un'iscrizione - in parte rinnovata su testimonianze precedenti - attesta l'acquisizione del Sacro Legno a Costantinopoli da parte di Enrico di Ulma nel 1207 e il conseguente dono alla chiesa che oggi lo conserva. A esso affine è quello preziosamente filigranato eseguito in Bassa Sassonia dopo il 1208, anno di acquisizione a Costantinopoli delle reliquie da parte del vescovo Konrad von Krosigk, ancora oggi a Halberstadt (Domschatz; Henze, 1985).Pezzi di questo genere ebbero diffusione anche nell'Italia meridionale, come sembra attestare l'aniconico reliquiario della Croce (Cleveland, Mus. of Art, J. H. Wade Fund), in argento, argento dorato, niello e pietre colorate, originale nella decorazione della lamina, che un'iscrizione attesta provenire da Brindisi e terminato nel febbraio 1214; invece la croce della cattedrale di Notre-Dame a Tournai, eseguita verosimilmente nella stessa città intorno al 1220-1230, contiene un'ampolla con il balsamo della tomba di s. Nicola di Bari.Probabilmente sul loro esempio si realizzarono croci a doppia traversa, come quella conservata nella chiesa di Notre-Dame a Saint-Omer, eseguita forse nelle Fiandre meridionali o in Piccardia intorno al 1230, o come l'altra oggi nel St. Johann Baptist a Burtscheid, presso Aquisgrana, compiuta probabilmente in quegli stessi anni ad Aquisgrana. Dai bracci trifogliati, quest'opera si riallaccia nell'uso della filigrana e nel fitto disporsi di pietre e perle sulla superficie del recto, nonché nel raffinato uso del niello nel verso, a esemplari precedenti e coevi; ma la complessità tematica della figurazione, dove, contro uno sfondo nel quale si snoda l'albero della vita, la Chiesa raccoglie in un calice il sangue del Crocifisso e due angeli ai lati del Cristo benedicente presentano la corona di spine e tre chiodi, denuncia la nuova attenzione per il mistero eucaristico, sulla base del concetto di 'transustanziazione' esplicitamente accolto dal concilio lateranense del 1215, presieduto da papa Innocenzo III. Opera di un maestro che la critica ha identificato con l'autore della cassareliquiario della Vergine nel duomo di Aquisgrana intorno al 1230, testimonia legami con la scultura monumentale dell'Ile-de-France, proponendo la conoscenza di prototipi bizantini da parte di orafi renani attraverso ateliers francesi (Schnitzler, 1959). Il calice raffigurato in questa croce ha la forma di molti pezzi ancora esistenti, tra cui il calice c.d. di s. Francesco (Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco; Hueck, 1982a), e rispecchia nella struttura quello sostenuto dalla Chiesa nel Livre de portraiture di Villard de Honnecourt (Parigi, BN, fr. 19093, c. 4v); coevo è l'esemplare conservato a Lucerna (Stiftsschatz von St. Leodegar).Eseguito o più probabilmente commissionato da frate Bertino e datato 1222 è il calice di New York (Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters), dalla severa struttura architettonica interrotta soltanto da dragoni intrecciati a racemi che impreziosiscono il nodo. Di incerta localizzazione - forse Francia settentrionale o Belgio -, il pezzo denuncia la conoscenza della produzione mosana agli inizi del sec. 13° (The Year 1200, 1970). L'elevazione del calice, attestata come abitudinaria nel Rationale divinorum officiorum (IV, 42) di Guglielmo Durando, del 1286 ca., ha portato a una modifica del tipo, testimoniata dal calice c.d. di s. Atto (Pistoia, Mus. Capitolare); la fortunata tipologia si conservò per almeno altri due secoli.Al tempo di papa Innocenzo III (1198-1216), come rivela l'iscrizione a sbalzo sul margine inferiore, risale anche la vestis argentea posta a proteggere e nascondere quasi totalmente la veneratissima icona del Salvatore, ancora oggi conservata nel Sancta Sanctorum della basilica lateranense a Roma. Collegata recentemente ai rivestimenti di immagini sacre di ambito bizantino e più generalmente ai parati liturgici, essa trova riferimenti puntuali in opere tuttora esistenti e in figurazioni a fresco o in tessuto (Di Berardo, 1994).Ampia diffusione ebbero in quel momento anche braccireliquiario che, attraverso l'uso di filigrane, smalti, pietre e perle, raggiunsero preziosità inconsuete, come per es. nei due esempi conservati nel St. Gereon a Colonia, eseguiti probabilmente nella stessa città fra il 1220 e il 1230, che figurazioni e scritte riconducono alla committenza del prepositus Arnoldus de Burne, ossia ad Arnold von Born, a capo della collegiata di St. Gereon dal 1220 al 1250 ca., nonché nell'altra coppia, opera di un'officina della stessa città, che la eseguì dopo il 1222. Bracci-reliquiario sono frequenti anche altrove, per es. nella Germania occidentale intorno al 1240, alla quale è riferibile quello di s. Elisabetta (Bendorf-Sayn, coll. privata; Baumgarten, 1985), oppure in Dalmazia, dove è stato ricondotto l'esemplare conservato a Venezia (Mus. della Basilica di S. Marco), databile alla fine del 13° secolo.A partire dal 1220 comparvero statuette monumentali (alte più di cm 40), sorreggenti un libro con le reliquie relative, come la nobilissima figura di S. Stefano che si erge contro uno sfondo trilobato (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters); riconducibile ad ambito mosano, presenta nel verso un niello su due registri, mentre il libro è andato perduto. Questa tipologia, priva della lastra retrostante, si ripropone nel santo diacono (San Pietroburgo, Ermitage) di dimensioni analoghe, opera composita eseguita nella zona della Francia settentrionale fra il 1200 e il 1250 (Gauthier, 1983a, p. 134, nr. 76), che trova seguito ca. un secolo dopo nella statuetta di un donatore in veste di pellegrino che mostra, entro l'ampolla di cristallo di un reliquiario a torre, un dente di s. Giacomo il Maggiore, offerto nel 1321 da Geoffroy Coquatrix, cittadino di Parigi, alla basilica di Santiago de Compostela; la tabella iscritta appoggiata al bastone che la figura sostiene con la sinistra ne fornisce testimonianza. Smalti opachi e traslucidi - fra i primi ad apparire al di là delle Alpi (Gaborit-Chopin, 1981, pp. 225-226, nr. 179) - decorano lo zoccolo dell'opera, ripetendo ossessivamente le armi del donatore. Una struttura analoga possiede la statuetta di S. Nicola, ricondotta ad artefice tedesco della seconda metà del sec. 13° (Cividale, Tesoro del Duomo), dove però la reliquia è posta all'interno della figura; essa si ripropone ancora nel reliquiario del dito di s. Antonio (Padova, Tesoro del Duomo), eseguito in loco prima del 1396, nel quale l'immagine sorregge un contenitore a forma di ostensorio (Basilica del Santo, 1995, pp. 105-106, nr. 20).Nel 1239 Luigi IX di Francia aveva riscattato la corona di spine di Cristo dalla comunità veneziana di Costantinopoli e aveva eretto per essa la Sainte-Chapelle a Parigi. Al settimo decennio del Duecento appartengono alcuni reliquiari di Sacre Spine realizzati a Parigi, che derivano il loro aspetto dalla forma del contenuto; essi furono destinati probabilmente al luogo dove si conservano: Saint-Maurice d'Agaune (Trésor de l'Abbaye de Saint-Maurice) e Assisi (Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco). Qui, dove le reliquie di s. Francesco avevano trovato, immediatamente dopo la sua morte, prestigiosi contenitori smaltati, giunsero altre opere di ambito parigino, quali il reliquiario della Veste inconsutile, con figure scolpite nel recto, la Natività e Cristo benedicente cesellati a bassissimo rilievo nel verso (Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco); esso fu donato probabilmente fra il 1284 e il 1305, unitamente a un secondo contenitore oggi perduto, da Giovanna moglie di Filippo IV di Francia. Nel Tesoro della stessa basilica è conservato anche il reliquiario del dito di s. Andrea, cesellato e graffito, opera romana risalente al 1288 ca., regalata alla basilica da papa Niccolò IV (Liscia Bemporad, 1980).Lo stile parigino trovò ampia diffusione non solo in loco, ma anche nella Francia settentrionale, zona cui è stato ricondotto il trittico di Floreffe (Parigi, Louvre), eseguito dopo un miracolo avvenuto nel 1254 e contenente una reliquia della Vera Croce. Benché appaia fortemente caratterizzata da questa produzione, l'opera presenta una cultura composita, che in alcuni particolari decorativi si riallaccia a soluzioni presenti nell'o. mosana e della Francia settentrionale nella prima metà del secolo.Intorno al 1240 è databile il calice di Borgaa (od. Porvoo, in Finlandia), opera di maestro Sifridus, caratterizzata da immagini grandiose e appassionate, anticipatrici, insieme con altre di Nicola di Verdun e della sua scuola, della produzione di Nicola Pisano (Gnudi, 1980). Alla scuola di quest'ultimo sono state ricondotte dalla critica le placchette della Cintola del duomo di Pisa (Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana), che non potevano essere destinate a una cintura di dimensioni monumentali e collocata a notevole altezza sulle pareti dell'edificio, perché pretendono una visione ravvicinata, nonostante la diversità materica e tecnica rispetto alle opere rimaste dell'artista; non sembra però impossibile, sulla base della loro qualità altissima, un'attribuzione a Nicola in prima persona. Recentemente si sono volute attribuire queste placchette, unitamente al citato calice c.d. di s. Atto, a una tabula argentea con la Vergine in trono e gli apostoli documentata nel 1287, ambedue per il duomo di Pistoia, e a tre croci astili conservate nella diocesi di Lucca, una delle quali scoperta recentemente, all'autore del paliotto dell'altare di S. Jacopo nel duomo di Pistoia, l'orefice Andrea di Jacopo d'Ognabene (v.), che lo firma e lo data nel 1316 (Gai, 1984). Le soluzioni stilistiche appaiono però così divergenti da preferire l'ipotesi di un isolamento dei pezzi pisani e di un ricambio generazionale nell'ambito di una stessa bottega, attiva almeno dal nono decennio del sec. 13° agli anni venti del successivo, per quelli pistoiesi e lucchesi (Calderoni Masetti, 1996). Il paliotto dell'altare di S. Jacopo venne poi integrato sui lati a opera degli orafi fiorentini Francesco Niccolai e Leonardo di Ser Giovanni, fra il 1361 e il 1371, mentre la zona superiore, organizzata in un primo momento intorno alla figura dell'apostolo eseguita negli anni 1349-1353 da Gilio Pisano, venne completata nel coronamento da Pietro d'Arrigo Tedesco nel nono decennio del secolo e quindi da Nofri di Buto e Atto di Piero Braccini tra il 1394 e il 1398, sulla base di un progetto del pittore pistoiese Giovanni di Bartolomeo Cristiani.L'iconografia degli apostoli pisani, a figura intera, seduti di sghembo al leggio e accompagnati dall'animale simbolico, compare nella citata croce di Saint-Omer e in quella c.d. di Ottocaro (1261-1278; Ratisbona, Domschatzmus.); niellate con tratti sottili e fluenti sulla lamina d'argento dei polilobi terminali, figure di questo genere, insieme con le vetrate che ne costituiscono la componente cromatica, si pongono quali precedenti di quella "pittura mescolata con la scultura" che, secondo la felice definizione di Vasari (Le Vite, I, 1966, p. 166), costituì lo smalto traslucido.Nel corso del Duecento si ripropose frequentemente anche la produzione filigranata, che nella prima metà del sec. 13° fu presente sia nelle regioni della Mosa, del Reno, della Germania settentrionale, sia nel Nord che nel Sud della Francia (Taburet-Delahaye, 1990); essa trovò ampio spazio in Italia, non solo in ambito normanno-svevo, dove presenta caratteristiche specifiche, ma anche a Venezia e in Toscana. Nella prima, le opere ad filum del Tesoro di S. Marco, per es. l'icona della Crocifissione, sono posteriori all'incendio del 1231, mentre nella seconda, il già ricordato calice c.d. di s. Atto, è stato attribuito a Pace di Valentino, l'ancora poco conosciuto orafo senese, fra il 1269 e il 1272; anche la Croce Santa di Castiglion Fiorentino (Pinacoteca Com.), in base a caratteristiche proprie della filigrana, è stata assegnata a Siena intorno al 1270 (Hueck, 1982b). Analogo è il caso del reliquiario della testa di s. Galgano (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), proveniente dall'abbazia cistercense a lui dedicata, eseguito nell'ultimo decennio del sec. 13° (Cinelli, 1982). Esso ha la forma di un torrione ottagono a tre piani, sormontato da un tetto piramidale e concluso in alto da un'edicoletta. L'opera testimonia in Siena la persistenza di un gusto tradizionale, legato alla precedente pittura, locale e bizantina, e a motivi decorativi di primo Duecento, forse attraverso pezzi dell'Italia meridionale (Hueck, 1982b).Al secondo trentennio del Duecento sono state ricondotte le formelle terminali della Pala d'oro appartenente al duomo di Caorle (Mus. della cattedrale), eseguite da artisti bizantini attivi a Venezia, che per le ornamentazioni delle cornici usarono un punzone simile ad altri impiegati in ambito renano e mosano, presenti però anche in opere appartenenti al Tesoro di S. Marco a Venezia; le immagini denunciano parallelismi con le formelle più antiche della coeva pala di Torcello (Venezia, Mus. di Torcello), purtroppo ampiamente mutilata. I restanti quattro riquadri della pala di Caorle risalgono invece alla fine del secolo (Omaggio a San Marco, 1994).Presso la corte angioina di Napoli, orefici francesi vennero impiegati nell'esecuzione di pezzi di grande prestigio e nobiltà, quali il famoso busto-reliquiario di s. Gennaro, risalente al 1304 e conservato nella cappella del Tesoro nel duomo, opera di Etienne Godefroy, Milet d'Auxerre e Guillaume de Verdelay, oppure la croce coeva di Bari (S. Nicola, Tesoro). A essi, nel secondo decennio del secolo, con un cambiamento di gusto che privilegiò la nuova tecnica dello smalto traslucido, testimoniato dai numerosi e densi inventari rimasti, vennero preferiti gli orafi senesi, autori di pezzi significativi quali la croce di Santa Vittoria in Matenano (prov. Ascoli Piceno; Leone de Castris, 1980). Al 1337-1338 risalgono i bracci-reliquiario di s. Luca e di s. Luigi di Tolosa (Parigi, Louvre), fatti eseguire da Sancia, moglie del re Roberto I d'Angiò, nei quali le sensibilissime mani sono sorrette da cilindri di cristallo di rocca e lamine smaltate secondo tecniche disomogenee.Il tesoro duecentesco dell'abbazia laziale di Casamari (Veroli, Tesoro della Cattedrale), omogeneo nelle soluzioni stilistiche, si segnala soprattutto per la grande croce astile contenente una reliquia del Sacro Legno, che un'iscrizione già esistente sul nodo oggi perduto riconduceva al 1291 e alla committenza dell'abate Giovanni Bove. Opera di un maestro aggiornato sulla coeva produzione romana e in particolare sulla plastica di Arnolfo di Cambio, testimonia nella disposizione e nell'iconografia delle figure un programma di affermazione temporale del papato, riferibile forse allo stesso cardinale Caetani, futuro Bonifacio VIII, che proprio a Giovanni Bove confermò in un diploma i privilegi e le immunità già godute dall'abbazia (Tesori d'arte sacra, 1975, p. 55).La cospicua dispersione degli oggetti di culto, dovuta a vendite, furti, trascuratezza, il loro rinnovamento, soprattutto nel caso degli insediamenti più ricchi, la loro distruzione in vista del recupero dei metalli, trova eccezione in alcune zone italiane, fra le quali occorre citare l'Abruzzo, la cui suppellettile liturgica è stata oggetto di studi fin dai primi del Novecento (Di Berardo, 1991), la Lucchesia, per la quale studi recenti hanno permesso di ricostruirne l'ampio patrimonio (Calderoni Masetti, 1986; Oreficeria sacra, 1993), il Friuli-Venezia Giulia (Bergamini, 1992).Se rimangono alcuni pezzi con il punzone di Avignone, fra cui un calice (Londra, Vict. and Alb. Mus.), ricondotto alla prima metà del sec. 14° (Lightbown, 1978), purtroppo il tesoro della corte papale ivi trasferita si conosce soltanto attraverso gli antichi inventari (Hoberg, 1944), che peraltro offrono uno spaccato di grande ricchezza e varietà. Da questi documenti si ricavano inoltre numerosi nomi di orafi (Schäfer, 1911; 1914), fra cui quelli di Thaurus, Iacobus, Minucius con il figlio Iohannes, Marcus Landi de Senis con i nipoti, Pelegrinus Seguini, Richardus Armandi, Angelicus Bartholomei, Petrus Medici de Caturco, Galiciarus, Gauterius e molti altri. Spesso questi aurifabri furono impegnati nell'esecuzione di suppellettile da tavola, nonché di oggetti di uso più privato, come per es. dieci bacini d'argento pro lavando o uno analogo barbitonsoris. Riflessi di questa produzione sono probabilmente individuabili in alcuni pezzi rimasti di ambito germanico, fra cui i cinque bicchieri esagonali risalenti al 1320-1330 (Norimberga, Germanisches Nationalmus.). Coevi o più tardi, ma sempre trecenteschi, sono gli splendidi corni potori montati in argento, fra cui si ricordano quelli conservati a Firenze (Palazzo Pitti, Mus. degli Argenti; Fritz, 1982).I rapporti con la pittura sembrano farsi più frequenti, come denuncia la notizia che l'artista di fiducia di Clemente VI (1342-1352), Matteo Giovannetti (v.), aveva inviato agli orafi parigini disegni per la cassa-reliquiario di s. Roberto destinata all'abbazia della Chaise-Dieu (Castelnuovo, 1962, p. 121); analogamente, ca. cinquant'anni più tardi, nel 1393, a Mantova, Bartolomeo Rossetti veniva incaricato di eseguire una croce d'argento secondo un disegno lasciato da Altichiero (v.), ormai defunto.I caratteri architettonici di alcuni cibori, ostensori, reliquiari a tempietto - si citi per tutti quello proveniente da Prato e databile fra il secondo e il terzo decennio del Trecento (Londra, Vict. and Alb. Mus.) - devono invitare alla cautela nel ricondurre a opere monumentali progetti grafici che potrebbero, almeno in alcuni casi, riferirsi a opere di o. (Cadei, 1991; Calderoni Masetti, 1992).Ai primi del sec. 14° è stata ricondotta la complessa croce stazionale della basilica lateranense a Roma, collegabile nella struttura e nel profilo, oltre che a un esemplare del Caucaso (Cecchelli, 1951-1952, p. 715), ad alcuni pezzi bizantini, per es. quello del sec. 12° facente parte del tesoro di Oignies a Namur (Maison des Soeurs de Notre-Dame, tesoro), dove però i bolli e i semibolli delle barre sono occupati da smalti; nella croce romana essi contengono invece un ciclo di storie dell'Antico Testamento - che nelle figure di Abele, Isacco, Giacobbe e Giuseppe identificano prefigurazioni del Cristo - rapportabile ad analoghi complessi umbro-romani, come per es. quello di S. Giovanni a Porta Latina (Andaloro, 1975).Agli inizi del Trecento e a Parigi risale il reliquiario del dito di s. Luigi (Bologna, basilica di S. Domenico), nel quale due angeli stanti mostrano la reliquia contenuta entro una cassa dalla struttura architettonica. Agli anni 1320-1340 è stato invece ricondotto dalla critica il reliquiario della Vera Croce (Parigi, Louvre), detto di Jaucourt per l'iscrizione che segnala la sua committenza da parte di Madame Marguerite Darc, dama di Jaucourt (m. nel 1380). Si tratta di un pezzo composito, ricondotto dubitativamente alla Champagne tra gli anni venti e quaranta del secolo, dove una larga base rettangolare sorretta da leoncelli ospita due angeli inginocchiati dai volti delicatamente dipinti, che presentano un reliquiario bizantino della Vera Croce risalente al 12°-13° secolo.La formula delle figure stanti ebbe largo successo, come testimoniano l'esemplare del duomo di Gaeta con la Fuga in Egitto, ritenuto opera francese tra il 1320 e il 1330, e il reliquiario di s. Simeone, dello stesso periodo, assegnato a un orafo di Colonia (Aquisgrana, Domschatzkammer).Uno dei raggiungimenti più alti della produzione parigina di metà secolo è senza dubbio la celebre statuetta della Vergine con il Bambino che Giovanna d'Evreux, moglie di Carlo IV e regina di Francia dal 1325, donò all'abbazia di Saint-Denis nel 1339 (Parigi, Louvre). Collocata sopra uno zoccolo intorno al quale si susseguono scene cristologiche in smalto traslucido, si segnala per l'eleganza dell'atteggiamento e la fluenza ritmica delle morbide pieghe (Gaborit-Chopin, 1981, pp. 232-233, nr. 186). A essa è stata avvicinata dalla critica un'altra Madonna con il Bambino (Mantova, duomo), analogamente in argento dorato, alta più di cm 60 e poggiante sopra un piedistallo esagonale sorretto da sei piccoli leoni; capolavoro di o. riconducibile alla fine del Trecento, l'opera è stata attribuita a un artista francese o attivo a Parigi. A differenza della Madonna di Giovanna d'Evreux, precedente di ca. cinquant'anni, presenta gli incarnati delicatamente dipinti e le scarpe in rosso carminio. Insieme con gli angeli del reliquiario Jaucourt e con il busto-reliquiario di s. Agata nel duomo di Catania, eseguito dall'orafo senese Giovanni di Bartolo nel 1376, testimonia il momento precedente l'uso dello smalto a colori su rilievo d'oro (émail sur ronde bosse), che ebbe ampia diffusione nel secolo successivo (Gaborit-Chopin, 1981, pp. 227-228, nr. 181).Intanto, fra il 1346 e il 1378 la corte boema di Carlo IV di Lussemburgo (v.) si circondò di artisti qualificati e si arricchì di oggetti che, pur privilegiando una componente senese, presentano radici differenziate, creando un contesto che si rivelò determinante per la formazione del linguaggio del Gotico internazionale: gli splendidi nielli che decorano i due reliquiari della tunica di s. Giovanni Evangelista e delle catene della prigionia di s. Pietro, s. Paolo e ancora s. Giovanni Evangelista (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer), nonché la croce-reliquiario del sudario di Cristo, ancora conservata a Praga nel tesoro della cattedrale, ne offrono precisa testimonianza (Romano, 1991).In ambito laico, oltre a piatti e a stoviglie, fra cui si ricorda la brocca conservata a Versailles (Mus. Lambinet) proveniente dall'abbazia di Maubuisson, singolare è una fontana da tavola databile alla metà del sec. 14° (Cleveland, Mus. of Art); il fatto che sia stata trovata in un giardino di Istanbul - a qualsiasi periodo risalga la sua migrazione - attesta il successo e la circolazione amplissima di oggetti di questo genere.Nella seconda metà del sec. 14° la scena parigina fu dominata dalla committenza di Carlo V (1364-1380). Lo scettro fatto eseguire per la consacrazione del figlio Carlo VI citato nell'inventario del 1379-1380 (Parigi, BN, fr. 2705), presenta alla sommità la figura di Carlo Magno in trono con i regalia, in una chiara affermazione politica di continuità fra l'impero carolingio e il regno dei Valois (Parigi, Louvre). Questa scultura a tutto tondo è stata attribuita, insieme con il bastone cantorale della Sainte-Chapelle (Parigi, BN, Cab. Méd.), a Hennequin du Vivier (Gaborit-Chopin, 1981, pp. 249-251, nrr. 202-204), uno degli orafi più prestigiosi della corte. Il bastone cantorale utilizza un cammeo dei primi decenni del sec. 4° con il busto di un imperatore e fu eseguito prima del 1368. Uno dei capolavori di questo periodo è inoltre la coperta dell'evangeliario detto dell'Apocalisse, tuttora collegata al manoscritto originale (Parigi, BN, lat. 8851; Gaborit-Chopin, 1981, pp. 252-255, nr. 205).Prima del 1380 venne eseguito a Parigi anche il reliquiario detto Libretto, oggi conservato a Firenze (Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore), dono di Carlo V a Luigi d'Angiò e in questa città almeno dal 1465, quando comparve nel tesoro di Piero de' Medici, detto il Gottoso; nel 1500-1501 l'opera venne 'monumentalizzata' da Paolo di Giovanni Sogliani. A Bologna Jacopo Roseto eseguiva i grandiosi reliquiari del capo di s. Petronio nel 1380 e di s. Domenico nel 1383, vere e proprie macchine processionali, dove le storie delle vite dei protagonisti sono riservate a formelle di smalto traslucido (Iacopo Roseto, 1992).A Venezia, fra il 1342 e il 1345, due orafi, Bonesegna e il Maestro Principale, costruirono su commissione di Andrea Dandolo la grandiosa incorniciatura, in argento dorato lavorato a sbalzo, con fondo a punzone e foglie a traforo, destinata alla Pala d'oro della basilica di S. Marco. L'intelaiatura architettonica su tre piani, costituita da cornici, contrafforti con mensole, colonne a fascio, ghimberghe, pinnacoli, cuspidi e archi inflessi, si dimostra aggiornata sulle ultime novità del Gotico cortese e trasforma la pala in una sorta di trittico. In questa occasione le gemme - più di duemilatrecento -, che già esistevano nell'opera del 1105, vennero non solo aumentate di numero, ma tutte legate ex novo secondo una tecnica 'moderna' di probabile derivazione parigina (La Pala d'oro, 1994, pp. 149-159). Se la struttura dell'insieme ricorda alcuni altari tedeschi, come quello di Marienstatt (Renania-Palatinato) del 1324, certi motivi decorativi si riscontrano nel reliquiario del braccio di s. Giorgio, del 1325, e in quello dei ss. Giuliano e Floriano (entrambi a Venezia, Tesoro di S. Marco), testimoniando una diffusa operosità orafa in laguna (Mariani Canova, 1984). Nel 1372 si realizzò per il duomo di Grado una pala d'argento, già pieghevole su probabile modello di quella veneziana, con rilievi in argento dorato.Intorno al 1300 era stato rinnovato l'antependium della mensa nella chiesa del Santo a Padova, dove la Maiestas Domini era diventata, con l'aggiunta di Maria e Giovanni Evangelista, una Déesis bizantina, e nel corso del secolo le coperture di altare assunsero un ruolo significativo nell'economia dell'arredo ecclesiastico. Nel 1316 si rifece in argento il citato paliotto nel duomo di Pistoia a opera di Andrea di Jacopo d'Ognabene; fra il 1350 e il 1357 si eseguì l'altro per il duomo di Monza con Storie di s. Giovanni Battista, commissionato da Graziano di Arona ed eseguito dall'orafo milanese Borgino del Pozzo, come testimonia una lunga iscrizione a smalto che, come a Pistoia, conclude la parte inferiore dell'opera (Zastrow, 1978, pp. 139-140); al 1366 risale la fronte del 'dossale' del duomo di Firenze, affidata a Betto di Geri e Leonardo di Ser Giovanni, ma qui l'iscrizione alla base ignora i nomi degli orafi e ricorda soltanto gli ufficiali deputati alla sua esecuzione da parte dell'Arte di Calimala (Brunetti, 1970).Fra i numerosissimi busti-reliquiario di questo periodo meritano di essere ricordati quello di s. Felicita nella cattedrale di Montefiascone - in lamina d'argento, pietre, smalti, firmato dal senese Giacomo di Guerrino, noto per documenti dal 1349 al 1376, severo e monumentale, impreziosito da un bordo intorno al collo ornato di sei draghi smaltati (Tesori d'arte sacra, 1975, pp. 22-23, nr. 45) - e quello di s. Valerio nel tesoro della cattedrale di Saragozza, opera dei c.d. orafi di papa Luna (Leone de Castris, 1994). Costante nel corso del secolo e diffusa in tutta Europa è la tipologia dei reliquiari a busto, attraverso i quali, come è stato da più parti rilevato, passa la rinascita quattrocentesca del ritratto scultoreo in forma di mezza figura (Collareta, 1992, p. 236). Ne sono testimonianza per es. quello citato di s. Gennaro a Napoli, quello di s. Zanobi di Andrea di Ardito (v.) nel duomo di Firenze (Strocchi, 1988) e quello del 1374 di s. Donato a Cividale (Tesoro del Duomo), opera di Donadino da Brugnone.Intorno al 1325 la produzione spagnola appariva particolarmente ricettiva delle nuove risorse tecniche italiane (Martin Anson, 1984), come dimostrano il retablo e il baldacchino dell'altare maggiore della cattedrale di Gerona (v. Dossale), iniziato verso questa data da maestro Bartolomeu e proseguito nel 1357-1360 da Pere Bernès di Valenza, nonché, verso il 1370-1380, da questo stesso artista e da maestro Andrea.Al sec. 14° appartengono diverse croci, come quella eseguita nel 1357-1360 forse a Gerona e per questa stessa città dai maestri Bernès e Andrea (Gerona, Mus. de la Catedral), dove un ruolo cospicuo rivestono gli smalti. Nel tesoro della cattedrale di Toledo è invece conservato un esemplare dal profilo a fiordalisi, contenente smalti traslucidi e à la plique, commissionato dall'arcivescovo Giovanni d'Aragona e d'Angiò all'orafo barcellonese Barchinone nel 1326, come attesta l'iscrizione smaltata sopra un lobo del piede; esso contiene una reliquia della Santa Croce che Luigi di Francia aveva donato alla chiesa toledana (De Dalmases, 1992, I, pp. 173-174, nr. 2) e trova seguito in numerose opere della metà del secolo, tra cui anche le coperte d'evangeliario (Gerona, Mus. de la Catedral), portanti il punzone di Barcellona. A esse si affiancano il monumentale ostensorio turriforme del tesoro della cattedrale di Barcellona, databile fra il 1370 e il 1390, e il reliquiario dei Corporali di Daroca (Mus. del Santissimo Sacramento; De Dalmases, 1992, I, pp. 298-305, nrr. 54-55; v. Barcellona), simile, nella piatta struttura motivata dalla reliquia contenuta, a quello del Corporale nel duomo di Orvieto (v.).In Sicilia, la croce a scaglie conservata nella chiesa di S. Martino a Randazzo (prov. Catania) è forse attribuibile a Giovanni di Salliceto, orafo siciliano attivo nella seconda metà del Trecento; essa sintetizza motivi catalani, soprattutto nel profilo articolato, e toscani, prevalentemente nelle immagini.In Lombardia si realizzarono in questo momento: la croce monumentale di Andreolo de' Bianchi già nella basilica di S. Maria Maggiore a Bergamo, oggi trafugata, che era stata eseguita fra il 1389 e il 1392; il calice di Gian Galeazzo per il duomo di Monza (Mus. del Duomo), databile fra il 1397 e il 1402, dove il nodo richiama i capitelli 'a tabernacoli' che coronano i piloni delle navate nel duomo di Milano; la spada di Estorre Visconti, le cui iniziali compaiono sull'impugnatura, rinvenuta nella sua tomba e riconducibile agli anni fra la fine del Trecento e l'inizio del Quattrocento (Monza, Mus. del Duomo; Zastrow, 1978).Una produzione singolare è quella degli scettri universitari; il più antico è quello della Ruprecht-Karls-Universität di Heidelberg, risalente al 1387 (Fritz, 1986). Costituito da un baculo sormontato da un tempietto gotico, all'interno del quale il Cristo docente è raffigurato da Gesù bambino che presenta il libro aperto a tre scolari seduti intorno a lui, si accompagna a due grandi sigilli databili 1386-1387, il primo dell'università, il secondo del rettore.

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Pomarici, L'oreficeria, in I Normanni popolo d'Europa 1000-1200, a cura di M. D'Onofrio, cat. (Roma 1994), Venezia 1994, pp. 273-277; E. Taburet-Delahaye, ivi, pp. 149-159; Paris Vivus, a cura di C. Alessi, L. Martini, cat., Siena 1994; Arte sacra nella Versilia medicea. Il culto e gli arredi, a cura di C. Baracchini, S. Russo, cat., Firenze 1995; Basilica del Santo. Le oreficerie, a cura di M. Collareta, G. Mariani Canova, A.M. Spiazzi, Roma 1995; M. Collareta, ivi, pp. 89-92, nr. 7; C. Di Fabio, Due ''Pommes de Musc'' quattrocentesche a Genova. Appunti per una storia dell'oreficeria profana medievale in Liguria, in Napoli, l'Europa. Ricerche di storia dell'arte in onore di Ferdinando Bologna, a cura di F. Abbate, F. Sricchia Santoro, Catanzaro 1995, pp. 65-69; Federico e la Sicilia dalla terra alla corona. Arti figurative e suntuarie, a cura di M. Andaloro, cat. (Palermo 1994-1995), Palermo 1995; C. Guastella, ivi, pp. 117-121 nr 19; F. Rossi, Oreficeria italiana. Dall'XI al XVIII secolo, Milano [1996]; A.R. Calderoni Masetti, Ancora su Andrea di Jacopo d'Ognabene orafo pistoiese, BArte. Suppl. 1996.A.R. Calderoni Masetti

Area bizantina

Soprattutto nel corso dei secc. 10°-12° le botteghe costantinopolitane crearono una serie di raffinatissimi pezzi di o., realizzati con straordinaria perizia tecnica e il cui splendore appare decantato nelle fonti contemporanee. Così, se ne trova frequente menzione nel trattato De caerimoniis aulae Byzantinae, attribuito a Costantino VII Porfirogenito (913-959), del sec. 10°, che in più luoghi fornisce una descrizione sufficientemente dettagliata dei gioielli che arricchivano i costumi imperiali e degli altri numerosi oggetti preziosi - diademi, corone, armi, servizi da tavola e arredi liturgici - che accompagnavano la vita pubblica e privata del sovrano. Nelle contemporanee fonti bizantine e nei diari di pellegrini e di viaggiatori abbondano parallelamente le descrizioni dei ricchi reliquiari e degli sfavillanti arredi liturgici, ricoperti d'oro e d'argento e tempestati di perle e gemme, custoditi dalle chiese di Costantinopoli e in larga parte razziati nel corso del sacco della città operato dalle truppe latine nel 1204.Anche se molte opere di o. sono andate disperse, la documentazione superstite è cospicua, come testimoniano, tra gli altri, gli oggetti esposti nelle mostre di New York (The Age of Spirituality, 1979), particolarmente importante per il panorama sull'o. protobizantina, di Colonia (Ornamenta Ecclesiae, 1985), di Baltimora (Silver from Byzantium, 1986), dedicata alle argenterie liturgiche dei secc. 5° e 6°, di Parigi (Byzance, 1992), di Londra (Byzantium, 1994), ancora di New York (The Glory of Byzantium, 1997) e di Siena (L'oro di Siena, 1997), nonché la pubblicazione del corredo liturgico del sec. 6° pertinente al tesoro di Sion, in Asia Minore (Ecclesiastical Silver Plate, 1992).Rispetto al numero piuttosto esiguo di gioielli profani conservati nella loro interezza - collane, orecchini, bracciali, anelli e altri elementi di guarnizione del vestiario, soggetti a essere più frequentemente smontati e diversamente utilizzati -, quello degli oggetti di o. a carattere sacro e liturgico, che sono stati sempre custoditi gelosamente nei tesori ecclesiastici dell'Occidente latino, è senz'altro preponderante.Immagini sacre e simboli cristiani, emblematici riflessi della profonda religiosità della società bizantina, decoravano comunque assai spesso anche i gioielli d'apparato del ricco abbigliamento bizantino, che nei costumi di corte recavano anche, quali segni distintivi di un alto rango sociale, i simboli imperiali. Per es., in una coppia di orecchini di forma semilunata, con granuli d'oro, pietre e smalti cloisonnés, vennero abbinate le immagini della Theotókos e dell'imperatore Giovanni I Zimisce (969-976), desunte, assieme alle relative scritte, dalle monete di quell'imperatore (Berlino, Mus. für spätantike und byzantinische Kunst), che molto probabilmente ne fece dono, come era consuetudine, a un esponente della corte. Questa associazione tra o. e monete è del resto una moda che risale all'epoca protobizantina, in particolare per quel che riguarda le montature di orecchini e di altri gioielli, bracciali, collane e cinture.Immagini sacre siglano anche la splendida collana di Preslav, il pezzo più importante del tesoro scoperto nella città bulgara nel 1978, datato alla metà del sec. 10° e attribuito a manifattura costantinopolitana (Preslav, Arheologitcheski reservat muz.). Si tratta di un gioiello disegnato con straordinaria eleganza e realizzato con tecnica davvero superba. Delle sette placchette con smalti cloisonnés che nel girocollo si alternano, mediante un sistema di cerniere, a segmenti di filigrana, quella centrale reca infatti la raffigurazione della Vergine orante, immagine reiterata anche nel pendente ovale centrale, ugualmente di smalto, mentre tutti gli altri smalti sono decorati con raffinati motivi vegetali e animali.È stata invece attribuita a orafi russi la principesca collana trovata a Kiev nel 1822, datata al tardo sec. 12° e caratterizzata da un disegno ridondante di gusto lontano da quello costantinopolitano (Mosca, Cremlino, Oružejnaja palata). Al girocollo, formato da sei elaborati fusi di filigrana alternati a cinque sfere cernierate, si collegano grandi medaglioni con gemme incastonate, filigrane e placchette smaltate raffiguranti la Vergine e le Ss. Irene e Barbara. Anche i raffinati pendenti semilunati di lamina d'oro, destinati talora a contenere un lembo di stoffa impregnato di olio profumato, che scendevano dai diademi o da altri tipi di acconciature, appesi a catene o a file di perle ai lati delle tempie, erano decorati con figure sacre realizzate a smalto cloisonné. Ed è assai probabile che questi esotici gioielli, che arricchivano indifferentemente il costume maschile e quello femminile, facessero parte del corredo delle principesse bizantine andate in spose a regnanti stranieri, i quali, come testimonierebbero alcuni esemplari germanici di epoca ottoniana (Berlino, Staatl. Mus.) e la serie di Kiev (New York, Metropolitan Mus. of Art), li fecero copiare da botteghe locali.Altra categoria di oggetti che in epoca mediobizantina si trasformarono in veri e propri gioielli sono gli encolpi, piccole custodie per reliquie, generalmente appesi a collane e per lo più portati a contatto del corpo, a guisa di amuleti, documentati da un gran numero di esemplari, tra cui quello con le reliquie di s. Demetrio, datato al sec. 10° (Londra, British Mus.), e quello, decorato con smalti e pietre incastonate, che conteneva le reliquie del Santo Sangue, conservato a Siena (Spedale di S. Maria della Scala) e datato al sec. 12° (L'oro di Siena, 1997).Sono comunque gli oggetti di culto e gli arredi liturgici che possono ancor meglio testimoniare la superba perizia tecnica delle o. bizantine e le scelte dei ricchi committenti. I rivestimenti d'icona, le coperture di libri sacri, le stauroteche e altri reliquiari, le croci, nonché i calici e le patene costituiscono dei veri e propri capolavori, spesso imitati, raramente eguagliati, in cui gli orafi costantinopolitani seppero coniugare con eleganza, gusto della policromia ed equilibrio formale, le ornamentazioni, spesso ridondanti, con lamine auree lavorate a sbalzo, con applicazioni di filigrane a granuli, con perle e pietre incastonate e, soprattutto, con smalti cloisonnés o champlevés. Di estrema raffinatezza è peraltro il lessico decorativo sia delle fragili trame a traforo delle filigrane sia degli smalti, in cui predominano, come nell'o. profana, forme vegetali stilizzate e rabescanti, oppure delicate figure di volatili. Oltre ai celebri pezzi conservati a Venezia (Tesoro di S. Marco e Bibl. Naz. Marciana; v. Costantinopoli), si impongono tra gli altri, per importanza storica e artistica, la stauroteca del sec. 10° a Limburg an der Lahn (Staurothek Domschatz und Diözesanmus.), il reliquiario della pietra del sepolcro di Cristo, prodotto intorno al 1000 (Parigi, Louvre), la stauroteca Fieschi Morgan, di incerta datazione (New York, Metropolitan Mus. of Art), e quella sec. 11° nel tesoro della cattedrale di Esztergom (Bazilika Kincstára), nonché la notevole serie di oggetti conservati nei musei della Russia, tra i quali il trittico con la Déesis e l'icona con la Kóimesis di San Pietroburgo (Ermitage).Relativamente alle imitazioni operate in altri ambiti culturali degli stilemi propri delle o. bizantine, appaiono emblematici l'esempio offerto dalle produzioni georgiane - un encolpio con l'Anastasi e il vaso liturgico di Bedia, della fine del sec. 10° o degli inizi dell'11° entrambi conservati a Tbilisi (Gosudarstvennyj mus. Gruzii) - e, soprattutto, quello dall'aulica Pala d'oro (Venezia, S. Marco), che impagina nell'esuberante trama decorativa veneziana smalti bizantini e lagunari.

Bibl.:

Fonti. - Costantino VII Porfirogenito, De caerimoniis aulae Byzantinae, a cura di J.J. Reiske, in CSHB, XII-XIII, 1829-1830.

Letteratura critica. - The Age of Spirituality. Late Antique and Early Christian Art. Third to Seventh Century, a cura di K. Weitzmann, cat. (New York 1977-1978), Princeton 1979; Ornamenta Ecclesiae. Kunst und Künstler der Romanik, a cura di A. Legner, cat., 3 voll., Köln 1985; Silver from Byzantium. The Kaper Koraon and Related Treasures, cat., Baltimore 1986; Il Tesoro di San Marco, cat., Milano 1986; Byzance. L'art byzantin dans les collections publiques françaises, cat., Paris 1992; Ecclesiastical Silver Plate in Sixth-Century Byzantium, a cura di S.A. Boyd, M.M. Mango, Washington 1992; Byzantium. Treasures of Byzantine Art and Culture from British Collections, cat., London 1994; The Glory of Byzantium. Art and Culture of the Middle Byzantine Era A.D. 843-1261, cat., New York 1997; L'oro di Siena. Il Tesoro di Santa Maria della Scala, a cura di L. Bellosi, cat., Siena 1997.C. Barsanti

Islam

La mancanza quasi totale di gioielli appartenenti ai primissimi secoli dell'Islam (secc. 7°-8°) rende difficile la ricostruzione della prima fase della storia dell'oreficeria. Diversamente da altre civiltà, l'Islam vietava la sepoltura con corredo, inclusi i gioielli; l'uso di ornamenti in oro, ma anche quello di sete e broccati, fu proibito dallo stesso profeta Maometto, anche se non tutti i musulmani si attennero a questo divieto.La mancanza di oggetti in oro si può spiegare con il fatto che spesso i tesori dei califfi, dei sultani, delle loro mogli e delle schiave venivano interrati in caso di pericolo e quindi sono stati solo accidentalmente riscoperti. Oppure gli oggetti in oro venivano fusi per acquistare forme diverse e anche le pietre preziose, sicuramente usate nei primi secoli dell'Islam e completamente scomparse, furono reimpiegate nella gioielleria delle epoche successive. Che i primi califfi arabi fossero grandi estimatori di pietre preziose si ricava da al-Bīrūnī, il quale scriveva che il sovrano Hārūn al Rashīd (786-809), lui stesso intenditore, inviò un esperto di pietre preziose a Ceylon per acquistarle e che le più pregiate erano considerate il rubino (yāqūt), lo smeraldo (zumurrud) e le perle (Jenkins, Keene, 1981-1982, p. 252), proprio quelle scomparse dai gioielli islamici più antichi. Le pietre venivano scelte non solo per la loro bellezza e per il loro valore, ma anche per le loro virtù magiche (Islamic Rings, 1987, pp. 376-377).Le fonti letterarie informano anche sulle miniere d'oro a cui attingevano i califfi islamici: secondo al-Hamadānī (sec. 10°), oltre che in Arabia, nella Nubia e in Egitto, vi erano miniere anche nel Khorasan e in Asia centrale, a Bukhara e a Samarcanda; mentre al-Bakrī (sec. 11°) e al-Idrīsī (sec. 12°) concordano sull'importanza delle miniere aurifere del Sudan (Dunlop, 1957). Al contrario, dalle fonti si ricava poco riguardo agli artigiani, rimasti completamente anonimi; le piccole dimensioni dei gioielli, facilmente trasportabili e utilizzati come merce di scambio, nonché la mobilità degli artigiani, rendono difficile stabilire la provenienza degli oggetti.Per quanto riguarda le forme dei gioielli più antichi, sono di aiuto la pittura e la scultura omayyade prima (661-750) e abbaside poi (750-1258), che testimoniano come gli orafi musulmani si fossero ispirati a modelli tardoromani o bizantini e a quelli sasanidi con cui erano venuti in contatto occupando le terre di Siria e Persia. Nei mosaici della Cupola della Roccia a Gerusalemme (fine sec. 7°-inizi 8°) sono visibili raffigurazioni di corone, sormontate da ali e crescenti lunari, orecchini con pendenti globulari, pettorali, collane - tutti incrostati con pietre preziose -, tipici degli ornamenti imperiali di sovrani bizantini e sasanidi (Grabar, 1959, pp. 46-52). A Quṣayr ῾Amrā (Giordania) compaiono pitture con figure adorne di collane con ciondoli a cuore simili a quelli romani o corone con crescenti lunari di tradizione sasanide (712-715), mentre a Khirbat al-Mafjar (Israele) le figure in stucco sono adornate di collane con ciondoli a crescente lunare e bracciali tubolari con terminazioni a punta che attestano antiche reminiscenze achemenidi (724-743; Hamilton, 1959, tav. LV, 2). Una pittura di Samarra (Iraq) raffigura due ballerine con orecchini con pendenti a goccia, modello che si trova già nei rilievi sasanidi di Ṭāq i-Būstān (Fukay, Horiuchi, 1969-1972, II, tav. IX).I pochi esempi conservatisi di o. protoislamica risalgono al sec. 10° o a un'epoca immediatamente precedente e sono emersi dagli scavi di Nīshāpūr, in Iran nordorientale (Allan, 1982); si tratta per es. di un filatterio in argento a sezione cilindrica che presenta una decorazione epigrafica in caratteri cufici, sbalzata e niellata, su fondo inciso (Teheran, Iran Bāstān Mus.; Allan, 1982, p. 60, nr. 1). Un porta-amuleto, sempre iranico del sec. 10°, ma con forma diversa, una sorta di busta, è decorato anch'esso con iscrizioni cufiche (Kuwait, Nat. Mus.). Ancora da Nīshāpūr provengono placche per cintura in bronzo dorato (New York, Metropolitan Mus. of Art; Allan, 1982, p. 61, nrr. 8-9) incise con motivi epigrafici che si rifanno a modelli sasanidi attestati nei rilievi di Ṭāq i-Būstān (Fukay, Horiuchi, 1969-1972, I, tavv. LXIV-LXVI), ma anche in una pittura abbaside di Samarra (Herzfeld, 1927). Queste placche, rettangolari con un lato ad arco acuto, concave, venivano fissate su un sostegno di pelle ed erano fornite anche di pendenti con anello cui era connessa la spada o il pugnale. Tale tipologia dovette mantenersi, come attestano due esemplari di cintura (Londra, British Mus.): una iranica del sec. 11° o 12° (Atil, Chase, Jett, 1985, fig. 27); l'altra di origine turco-iranica del sec. 12°-13° (Jenkins, Keene, 1981-1982, tav. XXXI, nr. 12).Più numerosi sono gli esemplari di o. islamica dei secc. 11°-12°: essi riguardano essenzialmente due importanti aree geografiche, l'Iran e l'Egitto, pur ritrovandosi anche in Siria, Mesopotamia, Turchia e Spagna.Un sicuro punto di riferimento per l'o. dell'Iran selgiuqide (1040-1157) è costituito da un bracciale in oro che presenta una chiusura fiancheggiata da quattro emisferi, lavorati a giorno, con decorazione a filigrana, a granulazione e a filo ritorto applicato (New York, Metropolitan Mus. of Art). Ciascuno degli emisferi ha come base un disco su cui è stata impressa una moneta con il nome del califfo abbaside alQādir Bi᾽l-lāh (991-1030). Poiché monete di questo genere provenivano dalla zecca di Nīshāpūr ed erano usate durante il regno di Maḥmūd di Ghazna (998-1030), il periodo a cui si può far risalire la realizzazione dell'opera è la prima metà del sec. 11°, mentre il luogo di fabbricazione va individuato in Iran (Jenkins, Keene, 1982, nr. 16). Questo esemplare attesta inoltre caratteri stilistici che confermano datazione e area di provenienza: la chiusura è infatti decorata, oltre che dai quattro emisferi, anche da globetti coperti da granulazione e da castoni di pietre, purtroppo perdute; la verga di sezione circolare si assottiglia verso la chiusura ed è decorata da un filo ritorto a spirale. Fu certamente eseguito insieme a questo bracciale anche un altro esemplare, che nei castoni della chiusura conserva quattro turchesi (Washington, Freer Gall. of Art; Atil, Chase, Jett, 1985, pp. 68-70, nr. 5). La tradizione di fabbricare coppie di bracciali identici è dovuta all'usanza di indossarli contemporaneamente su entrambi i polsi (Wellesz, 1959, tavv. XIX-XXII). Oltre ai bracciali in argento con verga a sezione circolare, liscia, scanalata o decorata (New York, Metropolitan Mus. of Art; Jenkins, Keene, 1982, figg. 17-19), si hanno bracciali a maglia rigida, ma flessibile, come la coppia caratterizzata da una chiusura a scatola rotonda con sopra incisa un'anatra (New York, Metropolitan Mus. of Art), oppure esemplari con chiusura a triangoli (Damasco, Mus. Nat.). Sempre appartenente all'area iranica è il bracciale formato da otto maglie (Washington, Freer Gall. of Art; Atil, Chase, Jett, 1985, pp. 77-80, nr. 89). Questo è decorato sia dalla granulazione, che costituisce la profilatura delle singole maglie, sia dalla niellatura, con cui si evidenziano i motivi epigrafici, quelli animali e quelli floreali. Quattro degli otto elementi, dalla forma tronco-piramidale, trattenevano, con quattro grosse graffe, pietre oggi perdute.Castoni con grosse graffe caratterizzano anche gli anelli iranici dei secc. 11°-12°, arricchiti a volte da motivi epigrafici su fondo niellato, come due esempi entrambi con turchesi (Washington, Freer Gall. of Art; Atil, Chase, Jett, 1985, pp. 81-82, nr. 9; coll. privata; Islamic Rings, 1987, nr. 18). I castoni possono essere circolari o rettangolari, piatti o molto alti, come risulta da uno strumento in bronzo del sec. 11° per la fabbricazione di castoni (Parigi, BN, Cab. Méd.; Kalus, 1981, figg. 1-2). A volte, invece di contenere pietre, i castoni sono rifiniti da una trama d'oro, come un raffinatissimo esemplare di moda in Iran a partire dalla seconda metà del sec. 12° (New York, Metropolitan Mus. of Art). Questo è caratterizzato da un castone esagonale campito da un intreccio di esagoni a giorno, in filigrana e granulazione. Il castone è decorato alla base da teste umane e sulla verga dell'anello da arpie, tutte a rilievo.La lavorazione a giorno compare anche in una serie di orecchini a cerchio, sempre di area iranica (secc. 11°-12°), con elementi sferici o poliedrici, a volte affiancati anche da castoni con pietre, disposti singolarmente o a gruppi di tre (New York, Metropolitan Mus. of Art; Jenkins, Keene, 1982, nrr. 20 b-c, 21 a-d), questi ultimi spesso completati da un piccolo crescente lunare (New York, Metropolitan Mus of Art; Ackerman, 19773, p. 2665, fig. 891a). Esistono anche orecchini a figura di leone - raffigurato con collare di tradizione sasanide, coda arrotolata, zampe a emisfero e corpo decorato con cerchietti di filo ritorto e applicato, secondo un'iconografia molto diffusa nell'Iran selgiuqide (Washington, Freer Gall. of Art; Atil, Chase, Jett, 1985, p. 74, nr. 7) - oppure incisi e incrostati con gemme. Altra tipologia è quella degli orecchini a grappolo, terminanti con sfere (Ackerman, 19773, p. 2665, fig. 891c), su modello partico, ma di forme anche più complesse, come in un esemplare caratterizzato da un elemento a forma di vaso lavorato a giorno e con applicazioni di filo ritorto, dal quale scendono catenelle di diversa lunghezza, terminanti con ciondoli e sfere d'oro (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Islamische Kunst; Jenkins, Keene, 1981-1982, tav. XXX, nr. 9); un esempio simile può essere datato tra il sec. 12° e il 13° (Korzukhina, 1954, tav. XL), mentre un altro esemplare della stessa tipologia è attribuibile all'area siriaca (Damasco, Mus. Nat.; The Arts of Islam, 1976, nr. 240). La perfezione tecnica raggiunta in Iran nella lavorazione a giorno, unita alla granulazione e alla filigrana, è testimoniata in una rondella d'oro, probabilmente ornamento di un abito (New York, Metropolitan Mus. of Art), la cui decorazione è costituita da una sorta di merletto in oro, dove si distinguono motivi a S, losanghe disposte come petali, globetti lisci, affiancati ad altri più grandi e granulati. La decorazione è applicata su fasce d'oro disposte radialmente nella parte posteriore, secondo una tecnica diffusa non solo in Iran, ma anche nelle aree egiziana e siriaca.L'o. siro-egiziana durante il periodo fatimide (969-1171) ha lasciato esemplari di estrema raffinatezza, anche se purtroppo esigui nel numero. Le opere rimaste sono caratterizzate ancora dalla tecnica della granulazione e della filigrana, ma accanto a queste compare anche lo smalto. Secondo la teoria di Rosenberg (1918), alla granulazione si affiancò la filigrana, tecnica divenuta in seguito prevalente. Dell'o. fatimide fa parte un gruppo di anelli della fine del sec. 10°-inizi 11°, conservati in collezioni pubbliche e private (Islamic Rings, 1987, nrr. 12-14; Jenkins, Keene, 1982, nr. 49) che presentano caratteristiche molto omogenee. Privi di pietre, hanno il castone piatto di diverse forme, riempito con complessi decori a granulazione e a filigrana realizzati a giorno che campiscono anche la verga dell'anello. Sempre lavorati a giorno sono i vaghi per collane biconici e sferici decorati a volute vegetali (New York, Metropolitan Mus. of Art; Gerusalemme, Israel Mus.; Jenkins, Keene, 1981-1982, tav. XXXV, nr. 21).Una delle forme più diffuse in questo periodo è quella del crescente lunare, che compare in diversi esemplari di orecchini (New York, Metropolitan Mus. of Art; Jenkins, Keene, 1982, nrr. 48, 50a-b, 51a). Questi, oltre alla forma, hanno caratteri stilistici che li accomunano, in quanto sono costituiti da una struttura scatolare realizzata con lamine d'oro, sulla quale è applicata una decorazione piuttosto 'intricata' a foglie trilobate, a motivi a S, a emisferi, mentre il profilo dell'oggetto è contornato da doppi anelli in cui probabilmente doveva scorrere un filo di perle o di pietre. La forma del crescente compare anche in pendenti in oro, realizzati strutturalmente come gli orecchini - anche se qui manca completamente la tecnica della granulazione, come negli esemplari tunisini - e con al centro una lunetta a smalto cloisonné, in cui compare una coppia di volatili affrontati (New York, Metropolitan Mus. of Art; Cairo, Mus. of Islamic Art; Parigi, Louvre). Tracce di smalto si trovano anche in altri esemplari simili a quelli fatimidi, anche se meno raffinati, attribuiti ad artisti spagnoli della fine del sec. 10° o dell'11° (Baltimora, Walters Art Gall.; Al-Andalus, 1992, nr. 19). Si tratta di elementi in oro a stella con due pendenti a crescente lunare. E ancora alla Spagna è da attribuire un paio di orecchini, i cui pendenti sono triangoli polilobati decorati con versetti del Corano a smalto cloisonné (Kuwait, Nat. Mus.; Islamic Art, 1990, nr. 44).L'eredità artistica dei Fatimidi venne raccolta, oltre che in Spagna, nella Sicilia normanna, dove non si sono conservati oggetti d'oro veri e propri, ma opere in cui il filo d'oro, insieme a perle, pietre preziose e smalti, crea delle trame che costituiscono autentici lavori di oreficeria. Gli esempi più preziosi sono rappresentati da alcuni capi di abbigliamento di Ruggero II (1130-1154), come i guanti, i calzari, il c.d. manto, la spada, in cui, oltre ad attingere al repertorio islamico per i motivi decorativi, vengono impiegate tecniche proprie dell'o. fatimide (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer).In Siria e in Egitto, con l'instaurarsi della dinastia ayyubide prima (1175-1250) e mamelucca dopo (1250-1517), l'o. proseguì nelle tecniche e nello stile fatimide. Un esempio di particolare raffinatezza è rappresentato da una collana attribuita alla fine del sec. 12° (Cairo, Mus. of Islamic Art; The Arts of Islam, 1976, nr. 243). È composta da ventiquattro elementi a goccia, decorati da delicata filigrana e pietre semipreziose, da cui pendono tre grandi rosoni, di cui quello centrale è arricchito da un crescente lunare con smalti cloisonnés. Anche la coeva collana, caratterizzata da nove pendenti a giglio, e gli orecchini a cilindro in filigrana sono attribuibili ad artigianato egiziano o forse spagnolo (Firenze, Mus. Naz. del Bargello; Curatola, Scarcia, 1990, nr. 71). Elementi di collane come pendenti e rosette (Damasco, Mus. Nat.; Jenkins, 1988, pp. 30-32; Kuwait, Nat. Mus.; Islamic Art, 1990, nr. 69) si possono attribuire con una certa sicurezza all'Egitto del sec. 14°, in quanto presentano strette analogie con esemplari del tesoro di Simferopol᾽, in Crimea, nel quale sono state trovate monete indiane dei secc. 13°-14° (Jenkins, 1988). Sia i pendenti sia le rosette hanno la stessa struttura scatolare dei gioielli fatimidi e della rondella iranica. Un'idea di come erano combinati questi pendenti con le rosette si ricava dalla miniatura raffigurante Bahrām Gūr nel palazzo Giallo, tratta - sebbene essa sia più tarda - dalla Khamsa di Niẓāmī (Iran, 1524-1525) e conservata a New York (Metropolitan Mus. of Art, 13.228.7, c. 213a; Jenkins, 1988, p. 33, fig. 10).Le miniature contribuiscono anche a ricostruire lo stile che dominava nell'o. iranica del sec. 14° sotto gli Ilkhanidi, in quanto sono rarissimi gli esemplari superstiti. Unica si direbbe, infatti, la collana formata da due grossi medaglioni, l'uno che costituisce la chiusura e l'altro che fa da pendente sul petto, uniti da placchette, realizzati in lamina d'oro e decorati con pietre semipreziose, vetri e filo d'oro applicato (New York, coll. privata; Jenkins, Keene, 1981-1982, tav. XXXVI, fig. 24a-b). Questo esemplare preannuncia ciò che divenne in seguito l'o. islamica, in cui sull'oro prevalse l'effetto cromatico, realizzato, oltre che con le pietre e i vetri, anche con l'uso sempre più diffuso di smalti policromi. Esempi di questo genere si possono riscontrare in una serie di schizzi e pitture su carta e su seta contenuti in tre album (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz.), alcuni attribuiti a Muḥammad Siyāh Qālem (Ipşiroğlu, 1976) e appartenenti a una scuola pittorica dell'Asia centrale dei secc. 14°-15°, che si potrebbe definire turco-mongola con forte influenza estremo-orientale. In tali pitture sono rappresentati orecchini con pendenti globiformi, ornamenti da testa, porta-amuleti, cinture, indossati da cavalieri e dame di rango (Islamic Art, 1981, figg. 49, 51, 53, 55-56), mentre bracciali e cavigliere con ciondoli di forme varie, ma di chiara influenza estremo-orientale, sono indossati da figure semiumane e mostruose (Islamic Art, 1981, figg. 209-212, 258).

Bibl.:

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