Orogenesi

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In geologia, insieme dei processi e dei fenomeni che danno luogo alla formazione di una catena montuosa. È un fenomeno che si è ripetuto più volte nel corso della storia geologica della Terra, interessando vaste porzioni della crosta terrestre che sono state piegate, fagliate per compressione, metamorfosate e compenetrate da rocce ignee, costituendo estesi corrugamenti con una notevole complessità interna.

Anche se alcuni ricercatori restringono il significato del termine o. alla fase finale del processo che porta al sollevamento di una intera regione e utilizzano quello di tettogenesi per indicare l’insieme delle deformazioni che la stessa area ha subito, nella pratica comune il termine o. è comprensivo di entrambi. Diverse sono state le teorie proposte per spiegare il fenomeno orogenico sin dal 18° secolo.

Geosinclinali, orogeni, cratoni

Nel 1859 J. Hall, dopo anni di studio dei Monti Appalachi, mise in evidenza che le spesse successioni sedimentarie di ambiente marino poco profondo, riscontrate nelle catene montuose, avrebbero raggiunto gli elevati spessori da lui stesso osservati (fino a 12.000 m) in seguito a un fenomeno di abbassamento della zona di deposizione (subsidenza), connesso al peso stesso dei sedimenti; lateralmente si sarebbero verificate delle compressioni con formazioni di ripiegamenti legati a sforzi tangenziali, e il tutto si sarebbe sollevato in una fase successiva. Queste aree a forte subsidenza vennero chiamate da J.D. Dana (1873) geosinclinali. A differenza dei geologi statunitensi che consideravano la geosinclinale un affossamento presente ai margini dei continenti, quelli europei vi vedevano una zona mobile della crosta terrestre; G.-E. Haug la considerava una zona di debolezza compresa tra masse continentali stabili. Questa ipotesi, unitamente a quella delle correnti di convezione all’interno del mantello, portò L. Kober (1921) a introdurre i concetti di cratogeni, o cratoni, per indicare le zone stabili della crosta terrestre, in contrapposizione agli orogeni che invece costituivano quelle di debolezza crostale e rappresentavano il luogo da cui si sarebbero originate le future catene montuose. H. Stille (1936) arrivò a una prima classificazione delle geosinclinali.

La teoria della deriva dei continenti

Parallelamente a questi concetti se ne svilupparono altri riguardanti la deriva dei continenti, teoria formalizzata nel 1912 da A. Wegener: questi ipotizzava che il movimento laterale dei blocchi continentali sialici (Sial), galleggianti sul substrato costituito dal mantello simatico (Sima), avvenisse grazie a delle forze tangenziali che avrebbero principalmente tratto origine dal ritardo inerziale del Sial rispetto al Sima (legato alla rotazione terrestre) e dalla forza centrifuga (polifuga, per l’allontanamento dai poli). Le catene montuose si sarebbero originate, per compressione, al fronte delle masse continentali che scorrevano sul mantello.

fig. 1
fig. 2

Con tale teoria iniziò il nuovo modo di vedere le catene montuose in chiave mobilista; tra il 1920 e il 1930 É. Argand e R. Straub applicarono le nuove teorie alla catena alpina (fig. 1), essi ipotizzarono che l’interazione di due estese masse continentali (Laurasia e Gondwana) avrebbe dato luogo alla formazione delle grandi catene a pieghe e a falde di ricoprimento. La sovrapposizione delle falde e la costruzione dell’edificio montuoso avrebbero comunque innescato un altro tipo di movimento lungo le superfici inclinate, dando luogo a una serie di scivolamenti e accavallamenti (tettonica gravitativa), già riscontrata da L. Bombicci verso la fine del 19° sec. nell’Appennino settentrionale. Con questo meccanismo si evidenziava come nel processo orogenico i movimenti tangenziali da tergo (vis a tergo) non sarebbero stati in grado da soli di far continuare il movimento alle falde, ma fosse necessario invocare l’azione della forza di gravità. Quest’ultima ricopriva un ruolo molto importante nella teoria delle oscillazioni di E. Haarmann (1930), in cui l’autore sosteneva la formazione di strutture a pieghe, con l’accavallamento di estese coltri di terreni, a seguito dello scivolamento gravitativo degli stessi, indotto da un sollevamento verticale di pochi gradi di un geotumore presente all’interno della crosta terrestre (fig. 2).

L’o. nella tettonica a zolle

fig. 3

Agli inizi degli anni 1960 il francese J. Aubouin sviluppò la teoria sulle geosinclinali (fig. 3) riconoscendo nello sviluppo delle stesse tre distinti stadi: stadio preorogenico, con formazione di un bacino subsidente e sedimentazione scarsa; durante questa fase si manifesta un magmatismo iniziale basico con l’effusione sottomarina di rocce ofiolitiche; stadio sinorogenico, durante il quale si individua l’orogene, si hanno le prime emersioni sotto forma di isole e le fosse vengono riempite principalmente con sedimenti torbiditici che provengono dallo smantellamento delle aree che stanno emergendo; il tutto è accompagnato da un magmatismo sialico e intrusivo, cui segue la messa in posto di grandi batoliti granitici; stadio postorogenico, che costituisce la fase tardiva, con la catena montuosa completamente emersa, in fase di assestamento isostatico, soggetta a progressiva erosione e rapido smantellamento. Questa sequenza di stadi costituiva un ciclo geotettonico o geosinclinalico.

4
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Con lo sviluppo della teoria della tettonica a placche il concetto di o. si è andato modificando e le sequenze geosinclinaliche hanno trovato collocazione nelle diverse ambientazioni connesse ai margini delle zolle litosferiche, così come la loro evoluzione riflette i movimenti tra le stesse zolle. Con quest’ultima teoria si è così evidenziato come l’o. non si sviluppi necessariamente attraverso un ciclo di eventi ben definito (ciclo geotettonico), ma possa variare in relazione alla diversa interazione tra le zolle litosferiche. L’o., nella tettonica a zolle, si sviluppa nelle zone di convergenza delle placche, corrispondenti ai siste;mi arco-fossa. Se si analizzano le successioni sedimentarie delle catene montuose, si può riscontrare come siano presenti tipi di rocce che invece si formarono lungo margini continentali passivi, i quali sono stati coinvolti nel processo orogenico secondo due differenti meccanismi: per attivazione e per collisione. Nel primo caso un margine continentale passivo viene trasformato in un sistema arco-fossa: si costituisce così una zona di subduzione e gli originari depositi vengono deformati, subendo intrusioni magmatiche e metamorfismo nell’area di retroarco. Un procedimento di questo genere sembra sia stato quello delle cordigliere americane, come le Ande, che sarebbero quindi da considerare come orogeni attivati. Nel secondo caso i margini continentali passivi, con i loro depositi, vanno a scontrarsi con un sistema arco-fossa o con un altro continente, qualora l’interposto bacino oceanico che li separa si chiuda a causa della subduzione della crosta oceanica (fig. 4 e 5). In questi casi, dopo la collisione, il settore costituito da crosta continentale non può essere subdotto a causa della minore densità rispetto alla crosta oceanica, e così si formano le grandi falde di ricoprimento che contengono al loro interno rocce di natura ofiolitica. Quest’ultime costituiscono i resti del bacino oceanico che separava i due continenti, e rappresentano quindi la zona di sutura dove si è attuata la saldatura tra le due zolle che sono andate in collisione.

Catene come le Alpi e l’Himalaya sono considerate orogeni da collisione e devono la loro formazione allo scontro della zolla euroasiatica, con l’Africa nel primo caso, e nel secondo caso con l’India, la quale, staccatasi dal continente di Gondwana nel tardo Mesozoico, migrò verso nord ed entrò in collisione con l’Asia verso la fine del Cenozoico. L’oceano che separava queste masse continentali era la Tetide. Un altro esempio di orogeno di collisione è rappresentato dagli Urali, la cui formazione si deve alla collisione tra l’Europa e la Siberia alla fine del Paleozoico.

Ipotesi alternative

fig. 6

Accanto alla largamente accettata teoria dell’o. nel quadro della tettonica a zolle, esistono tuttavia altre ipotesi alternati;ve che vedono l’o. in modo differente. Tra queste la teoria dell’espansione terrestre (➔ espansione), ripresa da S.W. Carey, P. Dirac e P. Jordan, rappresenta una valida alternativa alla tettonica a placche; di quest’ultima essa accetta l’espansione dei fondi oceanici, ma rifiuta l’idea che nelle fosse si attui il processo di subduzione e che vi siano in atto fenomeni compressivi, sostenendo invece che le fosse siano in realtà delle strutture distensive. In sostanza, per i fautori di questa teoria la Terra si starebbe espandendo dall’inizio della sua formazione, con un tasso di espansione via via in aumento: i continenti rappresenterebbero così le parti smembrate dell’originaria crosta sialica i quali, muovendosi e scontrandosi tra di loro, avrebbero dato luogo alla formazione delle diverse catene montuose a intervalli dell’ordine di 200 milioni di anni (fig. 6).

Altrettando valida è la teoria dell’undazione di R.W. van Bemmelen: quest’autore, accettando l’espansione dei fondi oceanici e la deriva delle zolle continentali e partendo dall’ipotesi delle correnti convettive nel mantello, sostiene che esse sarebbero responsabili in superficie di movimenti verticali di differente scala (undazioni), i quali innescherebbero movimenti laterali di massa e quindi una tettonica gravitativa. Le correnti convettive, partendo dal mantello inferiore, risalirebbero verso l’alto in corrispondenza degli oceani e dei blocchi continentali, dando luogo a rigonfiamenti; muovendosi orizzontalmente nella parte alta del mantello queste correnti favorirebbero il movimento dei continenti. Van Bemmelen ipotizza diversi tipi di undazioni: mega-undazioni, geo-undazioni, meso-undazioni, undazioni minori e undazioni locali, e attribuisce a ognuna di esse la formazione delle strutture più importanti che costituiscono la crosta terrestre, come i bacini oceanici, le dorsali oceaniche, gli archi magmatici e le catene montuose.

fig. 7

Simile per alcuni versi alla teoria di van Bemmelen, il diapirismo di V.V. Belousov si colloca nell’ambito delle teorie orogeniche dove i movimenti verticali costituiscono il punto cardine. Questi movimenti sarebbero innescati da diapiri profondi che, salendo verso la litosfera, a causa della fusione parziale delle rocce (che diverrebbero così meno dense e quindi più leggere) deformerebbero sé stessi ma anche le rocce circostanti, producendo tutta una serie di pieghe e falde di ricoprimento (fig. 7). A queste deformazioni si dovrebbero inoltre accompagnare tutti i processi gravitativi dovuti appunto ai movimenti verticali differenziali della crosta.

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