Palestina

Il Libro dell'Anno 2005

Palestina

Biladi ("il mio paese")

Uno Stato che non esiste

di Lucio Caracciolo

9 gennaio

Mahmud Abbas, comunemente noto come Abu Mazen, divenuto leader dell'OLP alla morte di Yasser Arafat e candidato designato da al Fatah alla presidenza dell'Autorità nazionale palestinese, ottiene il 62,3% dei voti nelle elezioni presidenziali. Le operazioni di voto, a cui partecipano i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza e di Gerusalemme Est, si svolgono senza incidenti, con un'affluenza alle urne di quasi il 70% dell'1,8 milioni di aventi diritto.

Una nascita impossibile

Sul planisfero politico la Palestina non esiste. Dopo la morte di Yasser Arafat, avvenuta l'11 novembre 2004, la sostanza dei problemi che hanno finora impedito la nascita di uno Stato palestinese indipendente e sovrano - a prescindere dai suoi confini e dalle sue dimensioni - restano tutti sul tappeto. Si tratta di questioni strutturali, non relative a questo o a quel leader palestinese, israeliano o statunitense, senza affrontare le quali qualsiasi esercizio diplomatico appare futile. Proviamo a elencarle, in estrema sintesi, salvo poi approfondirne alcuni aspetti più avanti.

a) Israeliani e palestinesi non si fidano gli uni degli altri. La seconda intifada palestinese, scatenata nell'autunno 2000 dopo la passeggiata di Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, ha accentuato l'inimicizia fra i due popoli, esasperata dalla spirale terrorismo palestinese/repressione israeliana. In assenza di una base di fiducia reciproca, qualsiasi negoziato sullo status finale dei Territori occupati è impossibile. Al massimo, ci si incontra per dirimere questioni di sicurezza, parziali (Gaza) o relative alla vita quotidiana. Nulla di strategico, come si tentò ancora nel luglio 2000 a Camp David e nel gennaio 2001 a Taba. La cosiddetta Road map escogitata da Bush e dalle diplomazie internazionali coinvolte nel Quartetto (USA, Russia, Unione Europea e ONU) è un documento propedeutico al vero negoziato e comunque non cogente.

b) La sfiducia non ha solo radici politico-culturali, ma anche spaziali, demografiche ed economiche. Cominciamo dalle prime: le rappresentazioni spaziali di Israele e Palestina, nel senso comune degli israeliani (ebrei) e dei palestinesi, tendono a coincidere. Le carte mentali dei rispettivi territori sono identiche, solo che i primi chiamano quello spazio Israele, gli altri Palestina. Per quante mediazioni politiche e culturali possano intervenire - e in questa fase ne intervengono poche - questo sentire territoriale di fondo delle due comunità in conflitto è un ostacolo decisivo alla spartizione. Quale che sia l'eventuale accordo che potrà essere stipulato fra i leader israeliani e palestinesi, in diversi esponenti dei due campi resterà l'idea di un'intesa provvisoria, di un compromesso in vista del recupero dell'integrità nazionale che di fatto nega l'esistenza di un territorio altrui, o ne limita fortemente la superficie. Ancora di recente, per esempio, nei libri di testo palestinesi si rifiuta di riconoscere l'esistenza di Israele.

E fra gli ultrà religiosi ebraici Giudea e Samaria - ossia la Cisgiordania - sono terre non negoziabili perché intrinsecamente proprie. Il culmine di questa sovrapposizione riguarda la città di Gerusalemme, dove non a caso alcune fra le più raffinate proposte di mediazione - a suo tempo saggiate dallo stesso presidente americano Clinton - vertono sulla partizione della sovranità anche in base a diversi livelli di territorio, sovrapposti/sottoposti

gli uni agli altri.

c) C'è un decisivo aspetto demografico che pesa sul futuro dei due popoli. I palestinesi contano sul fatto che la loro crescita numerica sia tale da rendere prima o poi impraticabile l'esistenza di uno Stato ebraico in quella che considerano la loro terra. Secondo autorevoli demografi israeliani, entro il 2020 gli ebrei in Israele saranno 6,5 milioni, contro i 10-12 milioni di palestinesi circostanti, fra Gaza, Libano, Cisgiordania e Regno di Giordania (Transgiordania). Anche all'interno dei confini di Israele aumenterà la componente arabo-palestinese, il cui tasso di crescita tocca il 3% contro il 2% degli ebrei (ondate immigratorie comprese). L'argomento demografico è, come vedremo anche più avanti, alla radice dell'idea israeliana di separare i due popoli: una proposta di origine laburista, recentemente cavalcata da Sharon, che per impedire la diluizione dell'identità ebraica di Israele - e salvare dunque la base del progetto sionista - postula e pratica la necessità e l'urgenza di tagliare in due la terra fra Mediterraneo e Giordano. È la cosiddetta 'barriera di separazione' in avanzato stato di costruzione fra Israele e una parte dei Territori occupati. L'obiettivo immediato - in buona parte raggiunto - era di frenare la penetrazione dei terroristi kamikaze che negli ultimi anni hanno insanguinato Israele, mietendo vittime soprattutto fra la popolazione civile. Il fine geostrategico, non dichiarato ma evidente, era e resta quello di prefigurare un futuro confine orientale di Israele con i territori palestinesi o anche con un eventuale Stato palestinese, di proporzioni peraltro molto ridotte e diviso in almeno tre sacche cisgiordane più Gaza, fra loro connesse attraverso acrobatici percorsi stradali controllati dai militari israeliani. Infatti, il muro è già penetrato abbondantemente in Cisgiordania, prefigurando una geopolitica dei fatti compiuti che offre agli israeliani un grande vantaggio di partenza a qualsiasi futuro tavolo negoziale.

d) Quanto all'economia, il divario attuale fra il PIL israeliano e quello palestinese è di circa 18 a 1. Non esiste al mondo un clivage economico così forte fra due paesi limitrofi. Malgrado i duri colpi subiti durante la seconda intifada, l'economia israeliana resta incommensurabilmente più sviluppata e soprattutto aperta al mondo di quanto non sia l'economia di sussistenza palestinese, largamente dipendente dagli aiuti esterni, peraltro insufficienti e mal gestiti. A questa barriera economica corrisponde naturalmente un'altrettanto profonda diversità socioculturale, che sommandosi ai fattori storici, psicologici, demografici e geopolitici citati rende estremamente improbabile che una futura Palestina possa, almeno per i prossimi decenni, avvicinare i livelli e gli stili di vita dominanti in Israele, di sapore occidentale. In ogni caso, l'economia palestinese è e sarà strettamente dipendente da quella del vicino israeliano. Ne dipende infatti largamente sia per l'energia elettrica e per l'acqua, sia per il movimento dei pendolari, peraltro ostacolato dall'erezione del muro, sia per gli scambi commerciali, i quali nel 2004 hanno superato i due miliardi di dollari, con un incremento del 25% sull'anno precedente. Un test fondamentale di questa integrazione/dipendenza sarà la gestione della striscia di Gaza dopo il ritiro israeliano, per quanto riguarda sia l'agricoltura sia il turismo e il commercio. e) Infine, il più forte divario riguarda il settore militare. Il soldato israeliano non sarà più quello ipermotivato di un tempo, ma la superiorità delle forze armate di Gerusalemme (Tsahal) sulle forze di polizia dell'ANP e sui miliziani armati dei vari gruppi palestinesi è schiacciante. Sullo sfondo, la protezione strategica americana. Una guerra convenzionale fra le due parti è quindi improponibile, anche se ai palestinesi dovessero sommarsi le forze dei paesi arabi vicini. Inoltre, Israele è una potenza nucleare, sia pure non dichiarata, e non ha nessuna intenzione di mettere in discussione il suo buon diritto all'arsenale atomico, mentre pare disposto a tutto per impedire che altri Stati della regione si dotino di analogo deterrente (vedi il caso dell'Iran e del suo programma di arricchimento dell'uranio, che Israele - e non solo - considera un mascheramento del tentativo di dotarsi di armi nucleari e quindi una minaccia esistenziale alla propria sicurezza).

L'eredità di Arafat

La figura di Yasser Arafat resta per molti versi avvolta nel mistero, a cominciare dalla disputa sul suo luogo di nascita per finire con le incerte cause della sua morte, forse non del tutto naturale. Su un punto non può esservi dubbio: Arafat è stato il promotore e la bandiera della causa nazionale palestinese. Il suo obiettivo geopolitico è stato in questa fase l'affermazione di una Palestina indipendente a fianco - e nella lunga prospettiva, per le ragioni demografiche citate, probabilmente anche al posto - dello Stato ebraico. Per questo ha combattuto con tutti i mezzi a disposizione, incluso il terrorismo ma non esclusa l'arte della diplomazia. Anzi, nel corso degli anni Novanta Arafat era riuscito a presentare al grande pubblico internazionale (molto meno a quello israeliano) sé stesso e il suo movimento come fondamentalmente votati alla soluzione pacifica della disputa con Israele.

In Arafat convergevano in effetti impulsi contraddittori. Formatosi politicamente nel clima postcoloniale nasseriano, segnato dalla vocazione panaraba - tanto fallimentare quanto tuttora serpeggiante nelle élites e nelle popolazioni arabe, dal Maghreb al Golfo -, il leader palestinese ne condivideva quindi il nemico: le monarchie arabe, più o meno colluse con l'Occidente e con gli Stati Uniti d'America in particolare, in ossequio allo scambio energia-sicurezza rappresentato al massimo grado dal rapporto USA-Arabia Saudita. Poteri tradizionali e subordinati alle (ex?) potenze coloniali, che impedivano l'unificazione della nazione araba.

In questo contesto Israele costituiva un lascito dell'imperialismo britannico sul suolo arabo. Anzi, palestinese, perché il capolavoro storico di Arafat fu la capacità di incentivare e rendere visibile al mondo intero un comune senso di appartenenza degli arabi di Palestina alla patria appunto palestinese, parte specifica e distinta della ben più vasta nazione araba: un popolo da sottrarre a un destino di esilio permanente.

La definizione e la promozione della causa palestinese furono portate a compimento in modo specifico dopo la guerra del 1967. Operazione davvero rivoluzionaria, non solo nei confronti dei leader israeliani, per i quali inizialmente i palestinesi semplicemente non esistevano in quanto tali, ma anche riguardo agli altri paesi arabi, a cominciare da Giordania e Siria, che tendevano a considerare gli arabi di Palestina come più o meno afferenti a territori di loro pertinenza.

Per raggiungere l'obiettivo dell'indipendenza nazionale Arafat ha sempre giocato su un doppio registro.

È stato un leader politico di statura internazionale, capace di dialogare con i suoi omologhi di tutto il mondo, fino a calcare il prato della Casa Bianca, ed è stato un capo militare, capace di usare anche il terrorismo, talvolta anche nei confronti di personalità o gruppi arabo-palestinesi che ostacolavano il suo cammino. Lo iato fra i 'due Arafat' meriterebbe un'approfondita indagine di taglio linguistico-filologico, dato che spesso corrispondeva all'idioma alternativamente usato dal leader palestinese: inglese quando si trattava di parlare al mondo e quindi di marcare l'aspetto politico, dialogico, di apertura; arabo quando l'audience era quella domestica o comunque arabo-islamica, verso la quale l'eloquio abbondava in stereotipi di sapore antisemita prima ancora che antisionista. Negli ultimi anni di vita, poi, l'Arafat 'arabo' ha fatto ricorso sempre più frequentemente ed esplicitamente a un registro religioso contrastante con il relativo 'laicismo' panarabista delle origini, e comunque tale da suscitare soprattutto negli Stati Uniti e in Israele la certezza del suo coinvolgimento nella rete globale del jihadismo. Arafat non è mai riuscito a conciliare le due facce del suo potere e del suo agire. Saranno gli storici a spiegare, in futuro, quale sia il bilancio di questa ambiguità. A oggi, il corso della sua parabola, specie nella fase finale della traiettoria, appare negativo, almeno dal punto di vista dello scopo ultimo: la nascita della Palestina. Probabilmente gli storici stabiliranno che almeno negli ultimi anni Arafat ha preferito la conservazione del suo potere personale - sempre più pallido - alla effettiva promozione dell'entità politica palestinese.

La seconda intifada, che avrebbe dovuto segnare la reazione popolare al fallimento della stagione dei negoziati, del 'processo di pace' e delle utopie sul 'nuovo Medio Oriente' pacifico e integrato, tipiche degli anni Novanta, si è risolta nella netta sconfitta palestinese. All'interno del campo palestinese regnano incertezza, caos e dispute personalistiche fra aspiranti raìs, a tutto vantaggio di Israele, che può a buon titolo sostenere di non avere un interlocutore con cui eventualmente riannodare i fili della pace. La leggendaria corruzione dell'amministrazione arafatiana - che avrebbe coinvolto il capo stesso e comunque il suo entourage - ha di riflesso accresciuto il prestigio di Hamas e delle altre organizzazioni di matrice islamica jihadista, mettendo a rischio lo storico primato di al Fatah nel quadro politico palestinese.

In sostanza, Arafat ha lasciato il suo popolo e la sua causa senza immediate prospettive, anzi in una condizione di eccezionale debolezza. Vediamo come e perché.

La causa palestinese nel quadro internazionale

Conviene considerare anzitutto il contesto globale. L'unico attore internazionale in grado di mediare fra israeliani e palestinesi e di essere per questo accettato da entrambi sono gli Stati Uniti. Senza il coinvolgimento di Washington non c'è pace possibile fra i disputanti. La crisi della causa palestinese oggi deriva anche dalla crisi dei rapporti fra Arafat e Bush, cui il successore del defunto raìs, Abu Mazen (Mahmud Abbas), ha potuto porre un riparo insufficiente. Non si tratta infatti di una questione solo personale, ma di profonde divergenze di fondo su primarie questioni strategiche e geopolitiche.

Già l'atteggiamento di Arafat a Camp David spingeva nel 2001 la nuova amministrazione repubblicana, guidata da George W. Bush, a rifuggire dall'approccio interventista di Clinton. Per Bush, il suo predecessore si era fatto anche personalmente troppo coinvolgere da una disputa irresolubile, almeno nel breve periodo.

Il fallimento del ciclo negoziale degli anni Novanta, attribuito dagli americani soprattutto all'irrigidimento di Arafat di fronte alle proposte molto avanzate (probabilmente troppo, per buona parte del suo stesso popolo) del premier israeliano Barak, significava per la nuova leadership statunitense la necessità di una fase di decantazione. Bush non intendeva subire uno schiaffo come quello di Camp David e preferiva restare alla finestra. Atteggiamento questo che non dispiaceva affatto al governo di Gerusalemme.

La svolta avvenne l'11 settembre 2001. L'attacco jihadista all'America provocò l'immediato allineamento di Washington e Gerusalemme. Al fondo, il sentimento e la consapevolezza di fronteggiare un comune nemico: il terrorismo jihadista incarnato da Osama bin Laden ma diramato in tutto il mondo musulmano, non escluso quello palestinese. Anche se non vennero formalmente associati da Bush all''asse del Male' Iraq-Iran-Corea del Nord, Arafat e la sua Autorità nazionale palestinese entrarono nel cono d'ombra.

Si moltiplicarono le accuse di collusione dell'ANP con i gruppi terroristici che mietevano centinaia di vittime civili fra la popolazione israeliana. Nell'opinione pubblica americana, non solo quella di origine ebraica o più marcatamente filoisraeliana, si è cementato il senso di un fronte comune con il popolo israeliano, e viceversa.

Con l'attacco angloamericano all'Iraq, nel 2003, il cerchio si è chiuso attorno ad Arafat. Negli ultimi anni del suo mandato presidenziale, egli è stato più un simbolo che un leader effettivo. Rinchiuso nel suo ufficio, isolato dal resto del mondo, accusato di terrorismo dagli israeliani ed esposto alle loro rappresaglie, considerato inaffidabile dagli americani, malgrado il tenue soccorso di alcuni paesi europei (spagnoli in testa), Arafat, con la sua 'banda di Tunisi' - ossia gli anziani leader rientrati dall'esilio nei Territori occupati - era di fatto fuori gioco.

In assenza di una leadership alternativa, la sua emarginazione corrispondeva all'emarginazione dei palestinesi tout court.

Nel mondo arabo e islamico, i palestinesi hanno perso alcuni decisivi punti di riferimento. Saddam è stato liquidato, la Siria del giovane Bashar al-Asad isolata, l'Iran degli ayatollah accerchiato dallo schieramento militare americano esteso dall'Afghanistan al Golfo Persico. Quanto agli europei, sono al solito divisi e sostanzialmente ininfluenti, mentre i russi non hanno certo il peso sufficiente per essere considerati dagli americani un interlocutore paritario.

Eppure la vittoria contro Saddam - cui non ha ancora fatto seguito la stabilizzazione dell'Iraq, nel quale restano impegnati i quattro quinti della forza combattente terrestre degli Stati Uniti - ha aperto in America, in particolare con la seconda amministrazione Bush, la stagione della 'democratizzazione del Grande Medio Oriente'. Al di là della retorica e della vaghezza progettuale, questa fase implica inevitabilmente una soluzione pacifica della questione palestinese. Bush è stato infatti il primo presidente degli Stati Uniti a parlare esplicitamente e ufficialmente di uno Stato palestinese indipendente, libero e democratico, che dovrà vivere pacificamente al fianco di Israele. Dalle parole ai fatti, il cammino appare enorme. Continua, anche dopo la morte di Arafat, il sostanziale allineamento di Washington e Gerusalemme, anche se non mancano motivi di frizione, in particolare sui nuovi insediamenti illegali costruiti dagli israeliani nei Territori occupati e riguardo alla politica da attuare nei confronti dell'Iran. Sharon, come vedremo, non crede affatto nel negoziato con i palestinesi, nemmeno con la leadership di Abu Mazen, il quale quindi è costretto ad affrontare l'emergenza del suo popolo - sconfitto nella seconda intifada e privo di un leader carismatico - in un quadro internazionale tutt'altro che promettente.

E adesso, Abu Mazen?

Oggi la nazione palestinese, sia nei Territori occupati sia nella diaspora, appare disperatamente lontana dall'obiettivo di dotarsi di un proprio Stato. Soprattutto, non dispone di una guida unitaria, autorevole e propulsiva. I tentativi dell'anziano e malfermo presidente Abu Mazen di coinvolgere Hamas nella gestione degli affari pubblici sembrano inutili. Si accentua anzi il distacco della popolazione dall'Autorità nazionale palestinese e dalla sua spina dorsale politica, al Fatah, a tutto vantaggio di quelli che Abu Mazen chiama 'i fratelli' di Hamas. È quest'ultimo il soggetto politico in ascesa oggi nel contesto palestinese, soprattutto a Gaza.

Hamas ha almeno tre volti: uno politico, uno sociale, l'altro militare. L'obiettivo dichiarato è la distruzione dello Stato di Israele e la rivendicazione della Palestina indipendente 'dal mare al fiume', cioè dal Mediterraneo al Giordano. Nella geopolitica religiosa di questo movimento, infatti, la Palestina è un bene islamico inalienabile (waqf). La causa palestinese è parte della causa islamica. Questo approccio è tipico dei Fratelli musulmani, l'organizzazione dell'islamismo egiziano che ha avuto e mantiene grande influenza su Hamas. All'ideologia nazionalista dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina Hamas somma dunque una visione musulmana della posta in gioco, che la distingue dalle tradizionali componenti laiche del movimento palestinese, alcune di impronta marxisteggiante (come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina), e la mette in sintonia con la crescente devozione religiosa del popolo palestinese. La Palestina indipendente di Hamas sarà integrata nella vasta nazione islamica e sarà uno Stato islamico, regolato dalla legge coranica (sharia), ciò che inquieta le componenti laiche attive nel contesto palestinese, alcune delle quali preferirebbero l'occupazione israeliana alla teocrazia di Hamas.

Hamas è dotato di proprie milizie, che Abu Mazen si guarda bene dal disarmare. Ammesso che possa provarci, scatenerebbe la guerra civile. Hamas, insieme alla Jihad islamica palestinese e, sul fronte libanese, ai miliziani di Hezbollah, si è reso responsabile dei più efferati attacchi terroristici contro civili israeliani. Ma negli ultimi tempi ha accentuato il suo aspetto politico e sociale. Grazie a un'efficiente e relativamente trasparente rete di welfare - scuole e ospedali ben funzionanti - Hamas si è distinto dall'opaca e fatiscente rete di servizi offerti dall'ANP, guadagnandone enormemente in popolarità. I risultati delle elezioni locali nel 2005 testimoniano della crescente presa di Hamas e del declino di al Fatah. Non a caso in giugno il presidente Abu Mazen ha preferito rinviare le elezioni politiche, sperando in un accordo in extremis con Hamas per la formazione di un governo di unità nazionale.

Questo spostamento di accenti da parte di Hamas ha provocato qualche ripensamento in campo occidentale. Per ora si tratta di segnali più o meno sotterranei, di contatti informali e di basso livello fra agenti europei e americani e loro omologhi di Hamas.

Sullo sfondo, soprattutto in campo europeo, è la questione di che fare con quella che viene tuttora considerata un'organizzazione terroristica nel caso diventasse il protagonista della vita politica palestinese. Gli stessi israeliani potrebbero prendere in considerazione un approccio meno rigido, se l'evoluzione politica di Hamas mettesse radici più profonde e verificabili.

Molto dipenderà comunque dalle conseguenze del ritiro israeliano da Gaza.

Un caso parallelo riguarda i miliziani del Partito di Dio - Hezbollah - che dominano il Libano meridionale, discretamente appoggiati da Iran e Siria. Essi restano una minaccia strategica per 'l'entità sionista', alla cui distruzione sono votati. Ma anche Hezbollah ha accentuato la sua dimensione politico-sociale, fino a diventare uno dei maggiori protagonisti della scena libanese e a indurre in alcune cancellerie occidentali - britannica in testa - il dubbio sull'opportunità di escluderlo dal novero degli interlocutori da coinvolgere, prima o poi, in qualsiasi negoziato sull'assetto della regione.

Il caso Gaza

A Gaza si gioca una partita decisiva. Dal disimpegno israeliano da quelle colonie - oltre 8000 israeliani annegati in un mare di arabi ostili - e dai suoi esiti di breve periodo dipenderà la possibilità di riprendere i fili di un negoziato sullo status finale dei Territori occupati.

La striscia di Gaza è una delle aree a maggiore densità abitativa del mondo e una delle più disastrate. Una buona parte dell'élite israeliana, a cominciare da quella laburista, pensa da tempo che la cessione di Gaza sia più una liberazione che una perdita per Israele. Non dello stesso parere sono alcuni dei coloni israeliani, che fino all'ultimo hanno messo in atto proteste e forme di resistenza più o meno passiva.

Ma l'interesse nazionale israeliano ha prevalso su quello particolare di un pugno di coloni convinti di derivare da Dio il diritto ai loro insediamenti. Per i palestinesi, comunque, gestire quell'inferno sarà una prova del fuoco. Una prova che alcuni leader israeliani in cuor loro sperano fallisca, onde dimostrare a tutti che i palestinesi non sono in grado di amministrare alcunché, figuriamoci di gestire uno Stato.

L'Autorità nazionale palestinese cerca di interpretare il ritiro dello Stato ebraico da Gaza in positivo, come il primo passo della ripresa di possesso di terre spettanti ai palestinesi, cui dovranno seguire la cessione israeliana della quasi totalità della Cisgiordania e una qualche sorta di condominio su Gerusalemme, capitale di due Stati. Si tratta di un'interpretazione molto ottimistica, una specie di estrapolazione lineare dei falliti progetti di Camp David e Taba, oltre che del più recente piano di Ginevra, messo a punto dalle componenti più aperte e pacifiste nei due campi. Ma i tempi sono cambiati. Tornare indietro a quell'approccio non è facile. La logica 'terra per la pace' sembra appartenere a un passato remoto.

Quanto ad Hamas, la forza dominante fra i palestinesi di Gaza, l'accento è sul ritiro israeliano come conseguenza della seconda intifada. Mentre Abu Mazen già da tempo aveva condannato l'uso delle armi durante questa rivolta, ritenendolo controproducente, i miliziani di Hamas insistono sulla tesi che solo grazie alle armi è stato possibile spingere gli israeliani a prendere in considerazione l'idea di abbandonare le loro colonie nella striscia. Dopo la 'riconquista' di Gaza, bisognerà usare lo stesso metodo per recuperare la Cisgiordania e, secondo la retorica propagandistica del movimento, di qui muovere alla ricostituzione dell'unitarietà territoriale della Palestina, equivalente alla distruzione dello Stato ebraico.

Sul senso del ritiro da Gaza il governo israeliano, almeno nella sua componente di destra, ha per parte sua idee molto chiare. Al di là di qualche concessione retorica agli americani, infatti, Sharon considera il ritiro da Gaza come la liquidazione di fatto della prospettiva dello Stato palestinese. O meglio, il premier israeliano gioca la carta della Palestina 'bantustan', Stato formalmente indipendente ma territorialmente spezzettato e totalmente dipendente, in termini di economia e sicurezza, dalla potenza israeliana. Non quindi 'due Stati', come recitano le litanie della diplomazia internazionale, ma uno Stato e mezzo.

Sharon rifiuta il sogno del Grande Israele e opta per la Grande Gerusalemme. Il Grande Israele è impossibile per ragioni demografiche. Se infatti Israele dovesse annettersi la Cisgiordania, nel giro di pochi anni gli ebrei sarebbero ridotti a secca minoranza in uno Stato non più ebraico ma binazionale. Questa strategia mette Sharon nel mirino degli ultrà religiosi e nazionalisti, alcuni dei quali non nascondono l'idea di costringere i palestinesi dei Territori a varcare il Giordano e farsi eventualmente la loro Palestina in Giordania.

In compenso, Sharon si premura di consolidare la presa sugli insediamenti cardine della Giudea e della Samaria, come Ariel, Gush Etzion, Talmon e Maale Adumim. Attraverso il controllo di queste colonie e grazie al muro, il governo di Gerusalemme limita a poche decine di migliaia (su 240.000) il numero dei coloni da riportare in Israele, spezza la continuità territoriale dell'eventuale futura Palestina e ne fa, al massimo, uno staterello satellite. In particolare, la 'lama di rasoio' di Maale Adumim è in espansione lungo il corridoio E1, producendo l'estensione urbana della Grande Gerusalemme verso Est e serrandone le zone arabe in una sorta di 'sandwich' ebraico.

Nell'ottobre 2004 il braccio destro di Sharon per i rapporti con gli americani, Dov Weisglass, ha candidamente esplicitato la strategia dello Stato ebraico affermando che il disimpegno da Gaza "è formaldeide, necessaria a impedire un negoziato politico con i palestinesi". E ha aggiunto: "Ho concordato con gli americani che di una parte degli insediamenti non si discuterà affatto, quanto agli altri se ne tratterà quando i palestinesi si trasformeranno in finlandesi. (…) Il senso di ciò che abbiamo fatto è il congelamento del processo politico". Più tardi Sharon ha aggiunto autorevolmente, a sottolineare lo spirito del disimpegno da Gaza, che comunque Israele non si considera in questa fase vincolata dalla Road map, almeno finché Abu Mazen non metterà sotto controllo le milizie armate e i terroristi che continuano a minacciare Israele.

Se alla fine prevarrà l'interpretazione palestinese o quella israeliana, è presto per stabilire. Certo è che una parola decisiva potrebbero dirla gli americani, se decidessero di accentuare la pressione su Israele e riportare Gerusalemme sui binari di un negoziato complessivo invece che sull'affermazione di fatti compiuti sul terreno, in modo da rendere sempre più ardua la creazione di una futura Palestina. Per quanto riguarda il campo palestinese, resta da vedere quale sarà l'interpretazione che Hamas da una parte e Abu Mazen dall'altra vorranno dare della 'riconquista' di Gaza. Se prevalesse un'interpretazione offensiva - grande celebrazione del ritiro israeliano e promessa di nuove 'riconquiste', uso della striscia come di una piattaforma militare per minacciare Israele - è inevitabile una violenta, drammatica reazione di Tsahal.

Conclusioni

L'impasse israelo-palestinese non sarà risolta spontaneamente dai due protagonisti, almeno nel tempo prevedibile. Lasciati a sé stessi, palestinesi e israeliani non riescono a trovare le ragioni della pace, al massimo possono concordare tregue armate, intese provvisorie e territorialmente limitate. Servirebbe una forte, continua pressione esterna per riportare i contendenti al tavolo negoziale. Proprio ciò che manca.

L'unico attore credibile e abilitato a svolgere questo compito è, in teoria, Bush. Ma mai come oggi gli americani sono allineati con gli israeliani e lontani dalle posizioni palestinesi. Gli sforzi diplomatici di Bush all'inizio del secondo mandato, il tentativo di ritagliarsi un'immagine da 'onesto sensale', non paiono per ora efficaci. Almeno finché durerà la guerra al terrorismo (islamico), sarà difficile che gli Stati Uniti possano davvero estorcere sostanziali concessioni da Israele. Nel frattempo, Gerusalemme usa questa peculiarissima costellazione geopolitica globale per affermare la sua strategia di sicurezza e rinviare l'apertura del dialogo con i palestinesi sul futuro comune dei due popoli. Il governo israeliano si è d'altronde sempre risolutamente opposto a ogni eccessiva 'internazionalizzazione' della contesa. L'unico intervento esterno davvero gradito era e resta quello americano. Degli europei, in particolare di francesi e spagnoli, si fida pochissimo. Quanto all'ONU, la sua funzione nel Quartetto è piuttosto pallida. In caso di accordo di pace, peraltro, non sarebbe da escludere la presenza provvisoria di forze di pacificazione internazionali, sostanzialmente NATO. Anche perché consapevoli di questo rischio i leader israeliani non hanno alcuna fretta di accelerare i tempi del negoziato sullo status 'finale' dei Territori occupati (che Gerusalemme preferisce intendere come 'contesi').

D'altronde, con chi potrebbero oggi ragionevolmente negoziare gli israeliani un accordo sullo status 'finale'? È possibile stringere patti con una leadership così debole e provvisoria come quella di Abu Mazen? La via della pace, se mai sarà riaperta, passa per la composizione delle fratture interne al campo palestinese. Sarà forse un governo di unità nazionale, nel quale probabilmente Hamas avrà un ruolo importante, a trattare i termini di un'intesa stabile con Israele, basata sulla nascita della Palestina indipendente. Nell'attesa, i molti nemici della pace lavoreranno per allontanare questa prospettiva oltre ogni visibile orizzonte.

repertorio

La questione palestinese

Il mandato sulla Palestina

Alla fine del Primo conflitto mondiale i territori arabi già appartenenti all'Impero Ottomano furono suddivisi tra Francia e Gran Bretagna mediante il sistema dei mandati, istituito dalla Società delle Nazioni. La Palestina, occupata dalle forze inglesi nel 1917-18, fu affidata alla Gran Bretagna. Relativamente arretrata rispetto alle zone più sviluppate della Siria e del Libano, la Palestina presentava una struttura sociale ancora semifeudale e piuttosto fragile; dalla fine dell'Ottocento, inoltre, anche in seguito all'inasprirsi dell'antisemitismo in Europa orientale, aveva cominciato ad accogliere colonie di immigrati ebrei che, a differenza della comunità giudaica locale, erano influenzati dalle dottrine sioniste e animati da finalità politiche di riscatto nazionale. Tali problemi si erano aggravati durante la guerra, anche a causa degli impegni contraddittori assunti dalle grandi potenze e in particolare dalla Gran Bretagna. Fin dal 1915 Londra aveva promesso il proprio sostegno all'indipendenza degli Stati arabi in cambio della loro partecipazione alle operazioni belliche contro i turchi; nello stesso tempo, per ottenere l'appoggio degli ambienti sionisti alle potenze dell'Intesa, si era impegnata con la dichiarazione Balfour (novembre 1917) a facilitare "la creazione in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico", senza "pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche" ivi residenti. Nel contesto creato dal conflitto mondiale, sia gli arabi sia gli ebrei vedevano così nella fine dell'Impero Ottomano l'occasione per realizzare le proprie aspirazioni nazionali.

Lo statuto del mandato sulla Palestina, ratificato dalla Società delle Nazioni il 24 luglio 1922, recepì gli impegni assunti dalla Gran Bretagna con la dichiarazione Balfour, che ottenevano così un importante riconoscimento internazionale. Le istanze del nazionalismo arabo ne risultarono invece frustrate in misura assai maggiore che nel caso degli altri mandati della regione, per i quali le prospettive di indipendenza erano state sì differite, ma non poste in discussione. Fin dall'inizio degli anni Venti, pertanto, le proteste della popolazione araba contro l'assetto per la Palestina deciso dalle grandi potenze diedero luogo a manifestazioni e incidenti. I contrasti con gli immigrati ebrei e l'amministrazione britannica si fecero via via più violenti.

Nelle nuove condizioni stabilite dal mandato, l'immigrazione, l'acquisizione e la colonizzazione di terre promosse dalle organizzazioni sioniste poterono svilupparsi assai più facilmente che negli anni precedenti la guerra, modificando progressivamente le strutture demografiche del paese. La popolazione ebraica, che alla fine del conflitto era circa il 10% del totale, nel 1931 era salita al 17%; dopo l'avvento del nazismo in Germania l'afflusso di immigrati subì una forte accelerazione e alla fine degli anni Trenta gli ebrei erano divenuti circa il 30% della popolazione. Tali sviluppi accentuarono le preoccupazioni degli arabi, le cui richieste di porre termine all'immigrazione e agli acquisti di terre da parte ebraica e di istituire anche in Palestina, come negli altri mandati, un sistema di autogoverno che avviasse il paese all'indipendenza divennero sempre più pressanti. Le proteste, gli incidenti e gli attacchi agli insediamenti ebraici si intensificarono fino a sfociare nel 1936 in una vera e propria rivolta della popolazione araba, che si protrasse fino al 1939. Nel tentativo di sbloccare la situazione, Londra formulò, per la prima volta nel 1937, un progetto di spartizione della Palestina tra uno Stato arabo e uno ebraico. La proposta suscitò la violenta opposizione degli arabi e fu seguita da un inasprimento della rivolta. Alla fine la Gran Bretagna ritirò il piano di spartizione e, con il Libro bianco del 1939, formulò un nuovo progetto che prevedeva la nascita entro dieci anni di un unico Stato palestinese indipendente che garantisse gli interessi di entrambe le comunità, limitava l'immigrazione ebraica e stabiliva restrizioni agli ulteriori acquisti di terre da parte ebraica.

La nascita di Israele

A partire dagli ultimi anni del Secondo conflitto mondiale, anche in seguito alla situazione drammatica creata in Europa dallo sterminio nazista, si fece sempre più forte la pressione nei confronti della Gran Bretagna per la piena riapertura delle frontiere palestinesi all'immigrazione ebraica e per la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Dopo il 1945 la crisi riesplose con violenza, mentre la crescita dell'immigrazione clandestina provocava un nuovo rapido aumento della popolazione ebraica. Nel 1947 la Gran Bretagna decise di rimettere la questione palestinese alle Nazioni Unite. Nell'autunno di quell'anno, sulla base delle indicazioni di una commissione speciale, l'Assemblea generale dell'ONU approvava un piano di spartizione della Palestina (risoluzione nr. 181 del 29 novembre 1947) tra uno Stato ebraico (56% del territorio), uno Stato arabo (43% del territorio) e una zona, comprendente Gerusalemme, da sottoporre ad amministrazione fiduciaria dell'ONU. Malgrado la complessa ripartizione prevista dal piano, si ripresentarono problemi già messi in luce dal progetto del 1937: mentre nel territorio assegnato allo Stato arabo gli ebrei erano quasi del tutto assenti, in quello attribuito allo Stato ebraico gli arabi costituivano la metà della popolazione totale e possedevano ancora la maggior parte della terra. Immediatamente respinta dagli arabi come una violazione del principio di autodeterminazione dei popoli sancito dalla carta dell'ONU, la risoluzione nr. 181 stabiliva la cessazione del mandato britannico entro il 1° agosto 1948. Mentre già infuriavano i combattimenti tra le due comunità, Londra fissò la data del proprio ritiro per il 15 maggio 1948. Nei mesi successivi, le forze militari ebraiche, assai meglio armate e organizzate, prevalsero rapidamente su quelle arabo-palestinesi e occuparono ampie zone del previsto Stato arabo. Neanche l'intervento dei paesi arabi vicini, dopo la fine del mandato britannico e la proclamazione dello Stato di Israele (14 maggio 1948), poté rovesciare le sorti del conflitto.

Con gli armistizi del 1949 Israele conquistò oltre i tre quarti della Palestina; il resto del territorio era stato occupato dall'Egitto (striscia di Gaza) e soprattutto dalla Giordania (la Cisgiordania, compreso il settore orientale di Gerusalemme), mentre lo Stato arabo-palestinese previsto dal piano dell'ONU non aveva potuto costituirsi. La maggior parte della popolazione araba della Palestina fu trasformata dal conflitto in una massa di profughi: su quasi 900.000 arabi che nel 1947 risiedevano nell'area poi acquisita da Israele, circa 750.000 furono costretti alla fuga dalle operazioni belliche, trovando poi rifugio in Cisgiordania, a Gaza e nei paesi vicini. Impossibilitati a rientrare nei luoghi di origine, posti dal 1950 sotto l'assistenza di un'apposita agenzia dell'ONU, l'UNRWA (United Nations relief and works agency for Palestine refugees in the Near East), in precarie condizioni di vita e in rapido incremento demografico, i profughi avrebbero rappresentato negli anni successivi la testimonianza più vistosa della mancata risoluzione della questione palestinese.

L'Organizzazione per la liberazione della Palestina

All'indomani del 1948 la storia della Palestina venne a identificarsi, in larga misura, con quella dello Stato d'Israele. Malgrado questa situazione di fatto e le condizioni di dipendenza, politica ed economica, di sradicamento e di dispersione seguite al conflitto del 1948-49, la popolazione arabo-palestinese riuscì a mantenere un sentimento di identità nazionale, accentuando anzi con il tempo anche il senso della propria distinzione rispetto al circostante mondo arabo. Il problema della Palestina rimase pertanto aperto e fin dagli anni Cinquanta i palestinesi diedero vita a una resistenza culturale, politica e militare che si sarebbe successivamente rafforzata. Nella popolazione della Cisgiordania e di Gaza, e ancor più fra i profughi originari del territorio acquisito da Israele, le istanze di riscossa nazionale si accompagnavano a una continua pressione lungo le frontiere israeliane. Gli attacchi condotti dalle zone di raccolta dei profughi e le rappresaglie israeliane che li seguivano contribuirono a innescare sia la guerra del 1956 sia quella del 1967. L'esito di quest'ultima, nota come la Guerra dei sei giorni, ebbe profonde ripercussioni sulla resistenza palestinese. L'ampiezza della sconfitta subita dagli eserciti arabi e l'estensione del controllo di Tel Aviv all'intero territorio dell'ex mandato posero le premesse per la crescita e la trasformazione del movimento palestinese, sia per il crollo delle speranze in un riscatto patrocinato dagli Stati arabi, sia per le nuove condizioni determinate dall'occupazione della Cisgiordania e di Gaza e dal passaggio di un'ampia popolazione palestinese sotto l'amministrazione israeliana. Dopo il 1967 la resistenza palestinese registrò una rapida crescita e affermò la sua autonomia dagli Stati arabi.

L'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) era nata nel 1964 per iniziativa della Lega araba, ma a partire dal 1968 lo sviluppo di organizzazioni palestinesi indipendenti e il loro ingresso nell'OLP portarono a una sua trasformazione. Divenne un organismo unitario, nell'ambito del quale erano rappresentati tutti i gruppi politico-militari. Il maggiore e il più antico di questi, al Fatah (Movimento di liberazione nazionale palestinese), era stato costituito nel 1957, soprattutto a opera di Yasser Arafat, e dal 1965 aveva avviato la lotta armata contro Israele. Oltre ad al Fatah, che attorno alla comune matrice nazionalista includeva orientamenti ideologici diversi, vi erano formazioni di ispirazione marxista (come l'FPLP, Fronte popolare per la liberazione della Palestina, e l'FDLP, Fronte democratico per la liberazione della Palestina ), nazionalista radicale, filosiriana e filoirachena, tutte dotate di proprie forze militari.

Come una sorta di Stato in embrione, l'OLP si diede una costituzione (la Carta nazionale palestinese, la cui prima versione del 1964 fu modificata nel 1968), un parlamento (il Consiglio nazionale palestinese), un governo (il Comitato esecutivo, eletto dal Consiglio nazionale), strutture amministrative, sanitarie, scolastiche, culturali ecc. Oltre ai rappresentanti dei diversi gruppi politico-militari, nel Consiglio nazionale furono inclusi esponenti delle organizzazioni sindacali, professionali, studentesche e femminili, nonché numerose personalità indipendenti. Sul piano politico, l'egemonia di al Fatah tra i gruppi della resistenza si tradusse, a partire dal febbraio 1969, nella regolare rielezione del suo leader, Arafat, alla presidenza del Comitato esecutivo dell'OLP. A tale egemonia si accompagnò una graduale evoluzione della linea politica dell'organizzazione, il cui programma, modificato nel 1968, prevedeva la costituzione di uno Stato palestinese indipendente sull'intero territorio dell'ex mandato e la lotta armata contro Israele come mezzo principale per raggiungerlo. A partire dal 1974, tuttavia, per iniziativa di al Fatah e dell'FDLP, l'OLP assunse come obiettivo intermedio la costituzione di uno Stato indipendente nei territori palestinesi occupati da Israele nel 1967 (Cisgiordania e striscia di Gaza) e, pur non rinunciando alla lotta armata, si mostrò sempre più disponibile a perseguire una soluzione politica e diplomatica della questione palestinese. Tale evoluzione sfociò nella ratifica (febbraio 1983), da parte del Consiglio nazionale palestinese, del piano di pace approvato dalla Lega araba a Fez nel settembre 1982: esso prevedeva il ritiro di Israele dai territori occupati, la nascita di uno Stato palestinese indipendente e garanzie di pace e sicurezza per tutti gli Stati della regione. A partire dal 1974 l'OLP raccolse notevoli successi diplomatici: riconosciuta in ottobre dalla Lega araba come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese, nel novembre ottenne tale riconoscimento anche da parte dell'ONU, che le attribuì lo status di osservatore permanente, e negli anni successivi dalla maggior parte degli Stati e da numerose organizzazioni internazionali.

Sul piano dello scontro armato, la situazione si fece più grave dalla fine degli anni Settanta, quando la decisione del governo egiziano di pervenire a una pace separata con Israele consentì la dislocazione delle forze di Tel Aviv sul fronte settentrionale, accentuando la pressione sul Libano, dove soprattutto si era sviluppata la rete organizzativa e militare della resistenza palestinese. L'obiettivo della liquidazione delle basi dell'OLP fu raggiunto nel 1982 con l'invasione del territorio libanese da parte delle forze israeliane. Le strutture militari dell'Organizzazione furono in gran parte disperse, il quartier generale fu spostato a Tunisi e la direzione politica della resistenza si dovette allontanare sia dalle frontiere israeliane, sia dalle aree di maggior concentrazione della popolazione palestinese. Negli anni successivi le difficoltà dell'OLP si manifestarono anche in gravi contrasti interni.

La prima intifada e la formazione dell'ANP

A una rinnovata unità della resistenza diede un potente contributo la rivolta della popolazione palestinese (intifada) esplosa a Gaza e in Cisgiordania nel dicembre 1987 e destinata a protrarsi fino al 1993, con un bilancio di oltre 1500 morti, per lo più civili, e decine di migliaia di feriti e arrestati. L'intifada richiamò l'attenzione internazionale sulla grave situazione esistente nei Territori occupati, mise in luce il carattere di soggetto autonomo della popolazione palestinese e rilanciò il ruolo dell'OLP sullo scenario mediorientale. In segno di adesione alla prospettiva dell'indipendenza palestinese, la Giordania abolì nel luglio 1988 i legami giuridici e amministrativi che aveva mantenuto con la Cisgiordania. Ancor più rilevanti furono le ripercussioni dell'intifada sull'iniziativa diplomatica dell'OLP. Il 15 novembre 1988 il Consiglio nazionale palestinese proclamò lo Stato di Palestina, facendo riferimento, come base legale della proclamazione, alla risoluzione nr. 181 dell'ONU, e dunque alla spartizione della Palestina fra uno Stato ebraico e uno arabo. In una contemporanea Dichiarazione politica, il Consiglio nazionale palestinese accettò la risoluzione nr. 242, approvata nel novembre 1967 dal Consiglio di sicurezza, che stabiliva garanzie di pace e di sicurezza per Israele in cambio del suo ritiro dai Territori occupati nel 1967. Nel dicembre 1988 Arafat riconobbe esplicitamente Israele di fronte all'Assemblea generale dell'ONU. Nel settembre 1993 Israele e OLP, dopo vari incontri segreti in Norvegia, giunsero infine a un riconoscimento reciproco e firmarono a Washington una Dichiarazione di principi (accordi di Oslo) in cui erano delineati il quadro generale, le modalità e le tappe di una fase transitoria di autonomia per la popolazione palestinese dei Territori occupati.

Il protocollo d'intesa stabiliva che attraverso numerose tappe, tutte ancora da stabilire e concordare, in un arco di tempo non superiore ai cinque anni si sarebbe dovuto giungere alla convivenza tra i due popoli in due diversi Stati, in base al principio della restituzione dei Territori occupati alla rappresentanza palestinese in cambio della pace. Secondo le linee di un nuovo accordo siglato, sempre a Washington, il 28 settembre 1995 da Yasser Arafat e dal primo ministro israeliano Itzhak Rabin, la Cisgiordania veniva divisa a macchia di leopardo in tre zone: zona A, sotto il controllo palestinese; zona B, sotto il controllo congiunto israelo-palestinese; zona C, sotto il controllo israeliano. In questa prospettiva nei mesi seguenti le principali città arabe della Cisgiordania (Nablus, Ramallah, Jenin, Tulkarem, Qalqilya e Betlemme) passarono sotto il controllo dell'Autorità nazionale palestinese (ANP). Nel gennaio 1996 si svolsero le elezioni per il Consiglio palestinese, l'organo di autogoverno previsto dagli accordi del 1993 e costituito da 88 membri eletti a suffragio universale dalla popolazione palestinese dei territori autonomi e occupati. La maggioranza dei seggi andò ad al Fatah, mentre le contemporanee elezioni per la presidenza dell'Autorità esecutiva furono vinte da Arafat. Nell'aprile 1996 il Consiglio nazionale palestinese approvò l'eliminazione di tutti i passaggi presenti nella Carta nazionale palestinese relativi alla distruzione di Israele, in ottemperanza a una delle condizioni poste dall'accordo del 1995.

La situazione per i palestinesi restava comunque complessa per la frammentazione del territorio su cui esercitare il potere, per le difficoltà di spostamento dovute alla presenza dei militari israeliani e soprattutto per le pesanti condizioni economiche in cui versava la popolazione. L'arco dei contestatori del programma portato avanti da Arafat e delle posizioni 'governative' del movimento di al Fatah, espressione sia di larghe fasce popolari sia del mondo dei notabili tradizionali, andava dai gruppuscoli terroristi all'estremismo islamico, dalle correnti islamiche integraliste, quali Hamas, ai resti dei movimenti di estrema sinistra. Gli oppositori del negoziato, che subito ne denunciarono i limiti rispetto alle aspirazioni originarie, non riuscirono però a esprimere alternative credibili. Molti dei problemi che si stavano affrontando vennero comunque accantonati quando nel 1996, con la vittoria alle elezioni israeliane della coalizione di estrema destra di Benjamin Netanyahu, si verificò una generale inversione di tendenza. A farne le spese furono i progetti di sviluppo locale, lo studio di una cooperazione scientifica, economica e culturale tra palestinesi e israeliani, i progetti per la cooperazione regionale arabo-israeliana, le questioni del rimpatrio dei profughi e dello status di Gerusalemme. Il movimento palestinese si trovò a fronteggiare un periodo di involuzione contraddistinto da un ritorno a un clima di violenza che portò a espropri e confische di terre, distruzione di case, allargamento degli insediamenti ebraici, costruzione di strade e autostrade delimitanti i territori tenuti dagli israeliani.

Il complessivo deterioramento delle relazioni israelo-palestinesi, provocato in particolare dalla decisione del governo israeliano di rilanciare la costruzione di insediamenti in Cisgiordania e nella parte araba di Gerusalemme Est, oltre che dalla ripresa degli attentati terroristici antiisraeliani, portò di fatto a una sospensione del processo di pace. L'allontanarsi della prospettiva di uno Stato indipendente suscitò il malcontento della popolazione palestinese nei confronti dell'ANP, malcontento alimentato anche dal diffondersi di accuse di corruzione contro esponenti degli organismi palestinesi. Nel corso del 1997, e anche successivamente, il perdurante blocco del processo negoziale rese sempre più problematica la posizione dell'ANP e favorì un'ulteriore crescita dell'opposizione islamica, espressa in particolare da Hamas.

I tentativi di riallacciare il dialogo si dimostrarono vani fino a quando sul finire del 1998 il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton riprese l'iniziativa negoziale. Avviata a Wye Plantation (Maryland) nell'ottobre 1998, la trattativa tra Arafat, Netanyahu e lo stesso Clinton, con la partecipazione di re Hussein di Giordania, si concluse a Washington con la firma ufficiale, il 23 ottobre, di un Memorandum, che prevedeva, tra l'altro, il ritiro israeliano dal 13,1% dei territori della Cisgiordania, il passaggio del 14% dei territori già assegnati ai palestinesi alla categoria A (cioè sotto il completo controllo palestinese), il consenso alla costruzione dell'aeroporto di Gaza, il rilascio dei detenuti presenti nelle carceri israeliane, l'impegno palestinese nella lotta al terrorismo. Dopo una nuova fase di stallo, le trattative sembrarono subire una svolta decisiva con la vittoria elettorale in Israele del candidato laburista Ehud Barak. Nel settembre 1999 Arafat e il nuovo primo ministro israeliano siglarono un accordo in Egitto, a Sharm el Sheik, per rilanciare il processo di pace, impegnandosi a porre fine al lunghissimo e travagliato negoziato entro il settembre del 2000, data in cui era previsto il passaggio di circa il 40% dei territori della Cisgiordania sotto il controllo totale o parziale dell'Autorità nazionale palestinese.

Le difficoltà incontrate durante i negoziati evidenziarono la crescente sfiducia dei palestinesi nella politica israeliana, tesa a rimandare nel tempo l'attuazione del processo cominciato a Oslo e a evitare di aprire una trattativa circostanziata sul futuro Stato palestinese e sulle controverse questioni di Gerusalemme e del rientro dei profughi. Il 2000 segnò in qualche modo la fine del processo di pace iniziato a Oslo. Il fallimento dei negoziati di Camp David tra Israele e la delegazione dell'ANP in luglio portò alla luce la distanza sempre maggiore tra le parti e le ambiguità mai chiarite di tutta la trattativa. La rigidità mostrata in quell'occasione da Arafat, fortemente intenzionato a non scendere a patti sul diritto del suo popolo alla restituzione dei territori oggetto di occupazione militare, può trovare una spiegazione nella crescente frustrazione della popolazione palestinese che mai come negli anni 1993-2000 aveva visto drammaticamente peggiorare le proprie condizioni di vita: raddoppio del numero dei coloni ebrei a Gaza e in Cisgiordania; costruzione di nuovi insediamenti e relative confische di terre; strangolamento della nascente economia palestinese con l'espropriazione di fattorie e pascoli e lo sradicamento di decine di migliaia di ulivi e alberi da frutto.

Dalla seconda intifada alla Road map

A due mesi dal fallimento di Camp David, scoppiava a Gerusalemme la seconda intifada, che si trasformò rapidamente in una rivolta generalizzata per l'indipendenza e fu duramente repressa dal governo israeliano. A differenza della prima, caratterizzata da scontri di piazza, manifestazioni popolari e azioni non violente di disobbedienza civile, la seconda intifada vide subito un largo impiego delle armi da fuoco da parte dei palestinesi e il ricorso ad azioni terroristiche contro obiettivi civili e militari. La protesta non risparmiò l'operato dello stesso Arafat, accusato di scarsa democrazia interna e di arrendevolezza nei confronti degli israeliani.

Le attività dei gruppi terroristici si moltiplicarono dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 a New York e Washington e un altissimo numero di civili israeliani fu vittima di ripetuti attacchi suicidi contro alberghi, autobus, bar, centri commerciali. Nell'aprile 2002 i Territori palestinesi, ripetutamente chiusi e occupati dall'esercito israeliano nel corso dell'anno precedente, furono invasi dai carri armati. Le città di Tulkarem, Jenin, Betlemme, Qalqilya furono oggetto di lunghi e devastanti assedi; sorte analoga toccò a Ramallah, dove dal dicembre 2001 era confinato sotto stretta sorveglianza il presidente Arafat. Nel giugno un intervento del presidente degli Stati Uniti George W. Bush condizionava la nascita dello Stato palestinese al rinnovamento della sua leadership.

Di fronte all'aggravarsi della crisi, nel corso del 2002 la diplomazia internazionale elaborò un nuovo piano, definito Road map for peace, scandito in tre fasi successive e destinato a produrre entro il 2005 "una soluzione permanente del conflitto israelo-palestinese basata su due Stati". Nella prima fase il piano prevedeva, da parte palestinese, la fine del terrorismo e la cessazione di ogni ostilità verso gli israeliani, nonché l'impegno a una riforma politica generale basata su una nuova Costituzione e sull'organizzazione di libere elezioni; da parte israeliana, il ritiro dai territori occupati dall'inizio della seconda intifada, il congelamento di ogni futuro insediamento e lo smantellamento di quelli più recenti. La creazione di uno Stato indipendente con confini provvisori era prevista in una fase successiva quale stadio transitorio in vista della stabilizzazione definitiva delle istituzioni palestinesi e dell'accordo conclusivo sulla fine dell'occupazione dei Territori e sulla soluzione del problema del rientro dei profughi e dello status della città di Gerusalemme. Il monitoraggio dei risultati via via raggiunti nella realizzazione del piano era affidato al cosiddetto Quartetto, cioè i quattro proponenti e garanti della Road map: Stati Uniti, Unione Europea, Nazioni Unite e Russia. Il percorso di pace fu rilanciato il 19 marzo 2003 nel summit delle Azzorre fra Bush, Tony Blair e José María Aznar nell'immediata vigilia dell'intervento militare in Iraq.

L'ennesimo tentativo della diplomazia internazionale non valse comunque a fermare la spirale di violenza, scandita dalle 'esecuzioni mirate' di leader palestinesi, culminate nel marzo 2004 nell'uccisione del leader di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, dagli attentati terroristici nelle città israeliane e dalle rappresaglie nei Territori occupati. Nel luglio 2004 il Tribunale internazionale dell'Aia definiva contrario al diritto internazionale il lunghissimo muro di separazione edificato dagli israeliani allo scopo di impedire l'accesso di terroristi nei loro territori. Pochi mesi dopo, l'11 novembre, con la morte di Arafat usciva di scena colui che per anni era stato il simbolo della resistenza palestinese.

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