PALIZZI

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 80 (2014)

PALIZZI

Francesco Paolo Tocco

– Lignaggio della Sicilia aragonese che, a partire dal Vespro e fino a poco dopo la metà del Trecento, esercitò a più riprese una criptosignoria su Messina e inserì più o meno stabilmente alcuni suoi membri nei principali posti di responsabilità politica e amministrativa del Regno insulare di Sicilia.

Probabilmente i Palizzi provenivano dal Mezzogiorno, come attesterebbero il cognomen, che rimanda a un piccolo centro situato nell’estremo sud della Calabria, e l’onomastica familiare, in cui si ripete il nome Damiano, frequente in Italia meridionale. Un Bencivenni Palizzi nel 1253 sottoscrisse a Messina una dichiarazione di debito, e pochi anni dopo fu giustiziere di Terra d’Otranto. L’ambiente (Sciascia, 1993, p. 213) è regnicolo e grecofono, anche se il nome Bencivenni fa pensare a legami con ambiti toscani. La tradizione agiografica, infine, vuole che la madre di s. Alberto degli Abbati, il carmelitano la cui santità è legata alla resistenza messinese antiangioina nel ventennio seguito al Vespro, fosse una Giovanna Palizzi, forse coetanea di Bencivenni.

Il primo membro ampiamente documentato è Nicolò: nel settembre 1282 Pietro III d’Aragona lo inviò assieme a Giovanni da Procida a Messina assediata dagli angioini a capo di 500 balestrieri scelti. Nicolò mancava dalla città dalla sconfitta di Manfredi a opera di Carlo I d’Angiò, quando l’élite filosveva, cui verosimilmente apparteneva, dovette rifugiarsi presso la corte aragonese. Con l’arrivo di Pietro III a Messina, il 2 ottobre 1282, iniziò l’ascesa dei Palizzi, consolidatasi con l’acquisizione di molteplici cariche e feudi da parte dei tre figli maschi di Nicolò: Vinciguerra, Nicolò II e Damiano.

Vinciguerra, che il 5 aprile 1283 prestò 50 onze per bisogni imminenti alla Curia regia, attestando un impegnativo ma vantaggioso ruolo di finanziatore della corona, fu notaio della curia stratigoziale dal 1282, poi protonotaro del Regno dall’agosto 1286 al luglio 1295, anno in cui divenne maestro razionale, carica che ricoprì fino al 1299, quando subentrò al defunto Corrado Lancia nel prestigioso ufficio di cancelliere del Regno, mantenuto fino alla morte, avvenuta nel 1305. Sino al conseguimento della Cancelleria regia, Vinciguerra è sempre definito nei documenti magister, mentre da quel momento ha sempre la qualifica di miles, con evidente accrescimento di status. Il 10 febbraio 1298, il vescovo di Cefalù, Giunta, trasferì a Vinciguerra il possesso del casale di Harsa, posto nei pressi di Cammarata, centro abitato che fu concesso in signoria a Palizzi nell’ottobre 1302. Nello stesso anno della morte di Vinciguerra venne meno anche il suo unico figlio maschio, Cristoforo: ereditò i beni paterni la figlia Macalda, moglie in prime nozze di Federico d’Antiochia, che in seconde nozze sposò Sancio d’Aragona, figlio naturale di re Pietro III, ai cui eredi passò la contea di Cammarata.

Il miles Damiano, minore dei tre figli di Nicolò, nel 1299 fu nominato custode del castello di Messina, dal 1305 fu insignorito della terra di San Filadello (oggi San Fratello), mentre dall’ottobre 1308 al luglio 1317 ricoprì l’ufficio di protonotaro del Regno. Nicolò II, infine, già capitano e castellano di San Fratello nell’aprile 1283, ricoprì più volte l’ufficio di stratigoto a Messina, mentre a partire dal 1293 reclamò la terra di Nucaria (oggi Novara di Sicilia), definitivamente assegnatagli nel 1296. Anch‘egli miles, fu forse il più importante dei tre fratelli, sia per il ruolo svolto nella difesa di Messina assediata e poi sottoposta a blocco navale dagli angioini nel 1301, che gli meritò lodi convinte da parte del cronista Nicolò Speciale (Historia Sicula, 1791-92, p. 444), sia perché, a differenza dei fratelli, ebbe dalla moglie Venezia (della quale non si conosce il cognome, ma che era imparentata per parte materna con la prestigiosa famiglia degli Abbate) una numerosa prole, destinata a consolidarne il prestigio familiare dopo la morte, avvenuta nel 1308. I figli attestati, infatti, sono almeno sei: i maschi Marco, Matteo, Damiano II e Nicolò III, e le femmine Giacoma, che sposò in prime nozze Giovenco degli Uberti, portandogli una cospicua dote di 400 onze, e in seconde nozze Leonardo Incisa, maggiorente di Sciacca, che sarebbe divenuto tesoriere del Regno, e Lucca, che sposò Giovanni I Chiaromonte.

La strategia matrimoniale dei Palizzi produsse un forte legame, sebbene non esclusivo, con le famiglie dell’aristocrazia isolana di origine italiana, contribuendo al processo di dicotomizzazione della nobiltà siciliana tra latini e catalani. Il fattore propulsivo dell’ascesa dei Palizzi si fondò però in primo luogo sullo sfruttamento delle competenze in ambito giuridico e il conseguente svolgimento di funzioni amministrative, più che sulla valorizzazione di un consolidato retaggio signorile. Accanto al conseguimento degli uffici centrali del Regno, in ambito peloritano il loro potere si strutturò attorno a una rete clientelare che consentì loro di sovrintendere alla distribuzione e alla gestione degli uffici dell’amministrazione urbana.

Nel corso del primo ventennio del Trecento i figli di Nicolò II intrapresero una scalata ai vertici del potere regnicolo segnata da una sola battuta d’arresto nel 1325, quando, per l’opposizione papale, Damiano II, iuris civilis professor et in canonico iure peritus, avviato alla carriera ecclesiastica, non ottenne il prestigioso arcivescovado di Monreale, nonostante il sostegno di re Federico III (già dal 1296 re del Regno insulare di Sicilia o, secondo le disattese disposizioni di Bonifacio VIII, di Trinacria). Negli stessi anni, però, Matteo conseguì prestigio militare accompagnando Pietro II (associato al trono dal padre Federico III nel 1324) nella spedizione organizzata in Italia nel 1328 per incontrare l’imperatore Ludovico il Bavaro e tentare vanamente di consolidare il fronte ghibellino antiangioino.

Il 1337 fu, nel bene e nel male, il momento di svolta delle sorti dei Palizzi: il 28 giugno, tre giorni dopo la morte del padre, Pietro II elevò al rango comitale quattro nobili isolani, il messinese Rosso Rosso, Guglielmo Raimondo Moncada, Scalore degli Uberti (figlio di Giacoma Palizzi) e Matteo Palizzi, nominato conte di Nucaria. Da allora e fino al 1340 Matteo e Damiano II furono i principali consiglieri di Pietro II, condizionandone le scelte, sostenuti dalla regina, Elisabetta di Carinzia, dalla vedova di Federico III, Eleonora d’Angiò, e dalla famiglia Chiaromonte, dotata di ampi feudi in tutta l’isola, nonché avviata a esercitare una signoria su Palermo e forte elemento della fazione latina di cui i Palizzi erano i capi.

Al momento dell’investitura comitale, Matteo era maestro razionale, signore di Tripi, del castello del Castellluccio di Noto con i suoi feudi e pertinenze, del feudo Churca, del castello di Santa Lucia del Mela, del castello di Saponara e della foresta chiamata Porta di Randazzo, mentre Damiano II era decano della chiesa agrigentina, maestro cappellano della regia cappella, protonotaro e logoteta. Nel 1338 fu nominato cancelliere del Regno e gli fu confermata la carica di logoteta, mentre quella di protonotaro passò al nipote Scalore degli Uberti.

Primo bersaglio del loro espansionismo fu Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, gran camerario del Regno e tra gli esecutori testamentari di Federico III, dal quale era molto stimato. Per evitare di partecipare a un parlamento, indetto per la fine del 1337 a Catania, dove avrebbe dovuto scontrarsi con i fratelli Palizzi che non perdevano occasione per screditarlo presso Pietro II, Ventimiglia decise di ritirarsi nei propri domini, inviando a giustificare la propria assenza il figlio Francischello, conte di Collesano. Questi fu imprigionato con tutto il seguito su istigazione di Matteo e Damiano II. Sotto tortura uno dei prigionieri dichiarò che Francesco Ventimiglia e Federico d’Antiochia tramavano con gli angioini contro il sovrano. Avendo allora il conte di Geraci fatto insorgere i propri domini delle Madonie, seguito da Federico d’Antiochia, la Curia regia, ormai in mano ai Palizzi, lo condannò a morte e dichiarò traditori i suoi figli. Verso la fine di gennaio 1338 un esercito guidato da Pietro II, al cui fianco era Matteo Palizzi, assediò nel suo castello Ventimiglia, il quale prima si dichiarò disposto a ricevere il sovrano a patto che Matteo restasse fuori, poi, sobillato dal messinese Roberto Campolo, vescovo di Cefalù e ostile ai Palizzi, decise di resistere a oltranza. Osteggiato per tale scelta dai suoi vassalli, tentò di placarli uscendo dal castello e venne inseguito dalle truppe regie: morì cadendo in un burrone e il suo corpo fu orrendamente straziato dalla folla. I Palizzi ottennero alcuni beni del conte: a Damiano II andò Golisano (oggi Collesano), a Matteo parte della contea di Geraci e a loro cugino Francesco la contea di Capizzi.

Il vero successo non consisté tanto nell’acquisizione di nuovi feudi, che infatti non furono numerosi, quanto nell’accresciuto ascendente su Pietro II. Nel frattempo, sebbene spesso assenti da Messina, i Palizzi seppero farsi interpreti delle esigenze del ceto dirigente peloritano, tutelandolo dall’espansione commerciale nell’isola dei mercanti catalani.

Nello stesso 1338 i Palizzi tentarono di eliminare anche Blasco Alagona – rappresentante del fronte catalano e seconda autorità dell’isola dopo il sovrano, in quanto gran giustiziere – accusando suo genero Ruggero Passaneto, conte di Garsiliato, di essersi impadronito delle ricchezze di Francischello Ventimiglia senza devolverle alla Camera regia. Pietro II inviò contro Passaneto, ribellatosi dopo tale accusa, lo stesso Alagona, che però convinse il genero a tornare alla fedeltà regia. Sebbene i Palizzi sostenessero che si trattava di una messinscena ordita da Alagona per indebolire Pietro II, il re, memore della lealtà del gran giustiziere nei confronti del padre, preferì soprassedere.

Poco dopo, Roberto d’Angiò, dopo anni di sistematiche spedizioni militari per recuperare la Sicilia, propose un armistizio, presto accettato dalla corte siciliana, anche dietro pressione dei Palizzi, che suggerirono di inviare un’ambasciata ad Avignone da papa Benedetto XII per sostenere la causa di Pietro II.

Isidoro La Lumia (ed. 1969) ha voluto vedere in questo atteggiamento conciliante dei Palizzi la prova di un loro doppio gioco in favore degli angioini, totalmente smentito, però, dall’atteggiamento bellicoso assunto da Messina quando le trattative fallirono.

Riprese le ostilità, nel novembre 1339 la flotta armata, su proposta dei Palizzi, per rompere il blocco navale posto dagli angioini su Lipari fu pesantemente sconfitta. Molti nobili siciliani furono catturati e dovettero essere riscattati: tra questi vari seguaci messinesi dei Palizzi, mentre i due fratelli riuscirono a ritardare il riscatto di Orlando d’Aragona, figlio naturale di Federico III ed esponente di spicco della fazione catalana. Con il suo forzato esilio sembrava ormai inarrestabile l’ascesa dei Palizzi che, intanto, procuravano di eliminare tutti i baroni che li ostacolavano, in particolare quelli legati in qualche modo a Francesco Ventimiglia.

Il re, inoltre, si era trasferito da Catania, centro del potere catalano, a Palermo, la città dei Chiaromonte, dove Matteo e Damiano II si sentivano così al sicuro da tentare la mossa decisiva per sconfiggere la fazione catalana. Su loro consiglio, al fratello del re, Giovanni d’Aragona, duca d’Atene e Neopatria, accusato di cospirare per cingere la corona isolana, fu intimato per lettera di non presentarsi a corte e quando egli decise invece di raggiungere Palermo, a capo di un esercito formato in massima parte da catanesi, gli furono inviati, mentre sostava a Piazza, Teobaldo, arcivescovo di Palermo e il conte Raimondo Peralta, chiedendo il suo ritiro. Tuttavia, informato segretamente da Raimondo Peralta che Pietro intendeva accoglierlo con tutti gli onori e che i Palizzi non erano più del tutto nelle grazie del re, Giovanni si affrettò verso Palermo. A tale notizia il popolo palermitano insorse contro i Palizzi, che si asserragliarono in un palazzo dal quale uscirono vivi solo per intercessione della regina Elisabetta, alla quale il re e suo fratello aderirono, a patto che Matteo e Damiano II andassero in esilio. I due fratelli si imbarcarono su una nave genovese che li portò a Pisa, mentre a Messina i loro avversari distrussero il palazzo di famiglia.

Le cariche e i beni dei Palizzi passarono ai nobili della fazione catalana. Il cugino Francesco, dopo aver tentato di organizzare la resistenza, preferì salpare anch’egli alla volta di Pisa, venendo privato della contee di Capizzi e di Cerami, dei casali di Rapano e di Sant’Andrea, nonché del feudo Pardo e di quelli di Rocca Maurojanni, Rasinachi, Cattaino, Santa Lucia e San Piero Patti e Bavuso. Sembrava che ormai i Palizzi fossero destinati al definitivo esilio toscano, soprattutto dopo il fallimento di una rivolta anticatalana ordita a Messina dai loro seguaci nel 1342. L’allontanamento invece durò solo otto anni.

Nel 1348, il duca Giovanni, che dalla morte del fratello nel 1342 poteva dirsi il vero signore dell’isola in quanto vicario di Ludovico, il minorenne nipote erede al trono, colpito dalla peste, in punto di morte perdonò i Palizzi, ai quali la regina madre Elisabetta comunicò che c’erano le condizioni per il loro ritorno, seppur avversato da Blasco Alagona, nuovo capo della fazione catalana. Damiano II, fino a quel momento capo indiscusso della casata, morì prima della partenza da Pisa, mentre Matteo, ereditato il ruolo del fratello, si avviò verso l’isola con i suoi fedeli su due galee pisane. Il suo rientro a Messina non fu immediato, perché la città era presidiata da Orlando d’Aragona, al comando di un piccolo nucleo di cavalieri. Nel frattempo, però, Matteo incontrò segretamente a Montalbano, sui Nebrodi, la regina madre, sfuggita assieme al figlioletto Ludovico all’interessata tutela di Alagona, e concordò un piano di riscossa per il fronte latino. Pochi giorni dopo sbarcò a Palermo – che insorse contro i catalani dando inizio al cosiddetto Vespro anticatalano e all’aperta dominazione dei Chiaromonte sulla città – poi, insieme ai nipoti Enrico e Federico Chiaromonte, si diresse verso Messina, dove fu accolto da una folla festante. Subito dopo la regina madre suggellò il suo sostegno, facendogli sposare in seconde nozze una sua protetta e parente, la tedesca Margherita, vedova del miles Martino di Santo Stefano, già maggiordomo di Pietro II.

Dalla prima moglie Eleonora, Matteo aveva avuto nove figli: i maschi Pietro, Antonello, Damiano III, Niccoloso e Cola, e le femmine Maria, Venezia, Isabella e Lucca.

Celebrate le nozze tra Matteo e Margherita, l’erede al trono Ludovico fu affidato alla loro custodia. Messina diveniva così di fatto la capitale del Regno. Gli ultimi oppositori dei Palizzi furono incarcerati e Matteo richiese, in nome di Ludovico, una contribuzione straordinaria che, stando ai suoi avversari, fu vessatoria e finì soprattutto nelle mani sue e dei suoi seguaci.

Nel contempo vennero ristabiliti vecchi rapporti di alleanza con i genovesi, ai quali Matteo avrebbe anche promesso la cessione di alcuni centri costieri dell’isola per facilitarne l’esportazione di grano. A conferma dell’alleanza, Matteo chiamò presso di sé Corrado II Doria, subentrato al fratello Ottobuono nella carica di ammiraglio del Regno.

Il periodo che va dal 1349 al 1353 vide, però, il lento deteriorarsi delle posizioni di forza di Matteo. In breve i Chiaromonte mostrarono di non accettarne la leadership del fronte latino, mentre il nobile messinese Enrico Rosso si allontanava da lui per diventargli rapidamente ostile. Nel giugno 1349, poi, la morte della regina madre Elisabetta lo privò di un importante sostegno.

Matteo cercò di sopire le tensioni tra le fazioni e all’interno delle stesse con una accorta politica matrimoniale: diede in moglie sua figlia Venezia a Simone Chiaromonte, figlio ed erede di Manfredi II (ma le nozze non furono mai consumate e Venezia fu ripudiata), mentre Enrico Rosso sposò una figlia di Federico Chiaromonte, fratello di Manfredi II. I Chiaromonte ed Enrico Rosso preferirono però allearsi per esautorare Matteo Palizzi e subito dopo a Messina scoppiò una rivolta antipalizziana fomentata dai seguaci di Simone Chiaromonte che lo avevano accompagnato nella città.

Durante la prima parte del 1353 i Chiaromonte fecero di tutto per allontanare Ludovico dalla tutela di Matteo. Non vi riuscirono, ma ormai Messina era stretta d’assedio dai messinesi Enrico Rosso e Corrado Spatafora, ai quali alla metà di luglio si aggiunsero Simone Chiaromonte e Francesco Palizzi il quale, accusando il congiunto di aver tentato di ucciderlo, aveva addirittura rinunciato temporaneamente al cognomen Palizzi, per assumere quello di Monteliano (presumibilmente materno). Matteo tentò di attirare i suoi principali nemici in città, con l’obiettivo ufficiale di trovare un’intesa e quello occulto di ucciderli: l’unico che aderì all’invito fu Corrado Spatafora che, il 17 luglio, dopo aver incontrato il re Ludovico, sorvegliato da Matteo Palizzi, fu assalito per strada mentre si accingeva a tornare all’accampamento. Molti messinesi, seguaci dei Rosso e dei Chiaromonte, accorsero in suo aiuto e insorsero, costringendo Matteo, la moglie e i figli maschi a rifugiarsi nel palazzo reale assieme a Ludovico, unica garanzia della loro incolumità. Due giorni dopo il principe fuggì dal palazzo assalito da un folla inferocita, lasciando privi di protezione i Palizzi, che cercarono di nascondersi in una stanza segreta sotterranea; ma dopo la confessione sotto tortura di un loro servo vennero scovati e trucidati.

I loro corpi smembrati furono trascinati per le strade. La testa e un braccio di Matteo furono inviati a Catania a Blasco Alagona che provvide a tumularli nella chiesa di S. Domenico.

La signoria dei Palizzi su Messina non venne però del tutto meno: Francesco Palizzi, dopo aver tentato di entrare con l’inganno in città, aderì all’alleanza che i Chiaromonte strinsero con la monarchia napoletana – alla cui fedeltà Messina tornò tra il 1356 ed il 1364 – e nel 1356 fu nominato dalla regina Giovanna I d’Angiò e dal consorte Luigi di Taranto conte Palatino e di Capizzi, nonché cancelliere del Regno di Sicilia, per perdere poi tutti i titoli con la fine della dominazione angioina. In Sicilia dei Palizzi restarono solo le figlie di Matteo, Isabella, sposa di Manfredi Alagona, Lucca, moglie di Sancio d’Aragona, e Venezia, ripudiata, come si è visto, da Simone Chiaromonte.

Fonti e Bibl.: Nicolò Speciale, Historia Sicula, in R. Gregorio, Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum Imperio retulere, I, Palermo 1791-92, pp. 350 s., 395-406, 439-444, 453-456, 463-467, 472-476, 491 s.; Michele da Piazza, Cronaca (1336-1361), a cura di A. Giuffrida, Palermo 1980, ad ind.; I. La Lumia, Matteo Palizzi ovvero i Latini e i Catalani, in Storie siciliane, a c. di F. Giunta, Palermo 1969, pp. 9-134; E. Pispisa, Messina nel Trecento. Politica, economia, società, Messina 1980, ad ind.; L. Sciascia, Le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi. Famiglia e potere in Sicilia tra XII e XIV secolo, Messina 1993, ad ind.; F.P. Tocco, Niccolò Acciaiuoli. Vita e politica in Italia alla metà del XIV secolo, Roma 2001, p. 267; A. Marrone, Repertorio della feudalità siciliana (1282-1390), Palermo 2006, pp. 32-315.

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