PALMIRA

Enciclopedia Italiana (1935)

PALMIRA (Παλμύρα, Palmyra; arabo Tadmur)

Giorgio LEVI DELLA VIDA
Renato BARTOCCINI

Oasi situata nel deserto siro-arabo a metà strada circa tra il Mediterraneo e l'Eufrate, a circa 300 km. da questo fiume (oggi 7 ore di automobile da Damasco e 5 da Ḥimṣ). La popolazione sedentaria si aggira sulle 300 persone. L'antica città di Palmira dovette senza dubbio la sua origine alla presenza nell'oasi di sorgenti, la cui acqua permette alle carovane la traversata diretta del deserto per la via più breve dal medio Eufrate a Ḥimṣ e a Damasco.

Storia. - La prima menzione della città si ha nel passo biblico II Cronache, VIII, 4, nella forma Tadmor, che è il nome indigeno attestato dalle iscrizioni e conservatosi in arabo fino a oggi. Ne è ignota sia l'etimologia (forse il nome di una tribù araba che si stabilì intorno alle sorgenti in età remota), sia la relazione con la forma greca, che pure dev'essere in qualche modo connessa con quella semitica. Benché non si abbia alcuna menzione di Palmira in documenti cuneiformi, tale silenzio è probabilmente casuale, essendo verosimile che agli Assiri, insediati nella fortezza di Dura (v. duraeuropo e App., p. 166), sull'Eufrate e che sappiamo essere penetrati anche più profondamente nel deserto siro-arabo (v. arabi: Storia, III, p. 824), non sia rimasta ignota quell'importante stazione di tappa. A ogni modo il citato passo delle Cronache (che in realtà costituisce una tarda correzione del testo di I [III] Re, IX, 18, fonte delle Cronache, in cui si tratta di una località Tamar in Giudea fondata da Salomone) attesta la notorietà di Palmira in un'età che non può essere posteriore alla metà del sec. IV a. C. Durante l'età ellenistica P. deve certamente essere venuta in contatto con lo stato seleucidico, che aveva stabilito una colonia macedonica a Dura; ma finora tali relazioni non sono documentate, e la prima notizia che le fonti classiche forniscono su Palmira si riferisce al saccheggio della città per opera delle legioni di Antonio. (41 a. C.), saccheggio al quale tuttavia gli abitanti sottrassero gran parte delle loro ricchezze, rifugiandosi con esse al di là dell'Eufrate, in territorio partico. Palmira infatti, a quel tempo, si doveva trovare sotto l'influenza politica del regno degli Arsacidi, benché conservasse rispetto a esso una situazione d'indipendenza; tale indipendenza rientrava altresì nel piano della politica orientale di Augusto, rivolta, come è noto, a stabilire relazioni non ostili coi Parti, pur senza stringere con essi un vero trattato di pace: tra Roma e la Persia, Palmira venne così a costituire un territorio neutro, attraverso il quale si svolgeva intenso il traffico commerciale tra l'Oriente e l'Occidente. Le merci orientali, sia per via di terra sia risalendo il corso dell'Eufrate, venivano accentrate a Dura e di là trasportate a Palmira, dove si formavano le carovane che, attraverso il deserto e sotto la scorta di milizie palmirene, si recavano ai grandi mercati di Emesa (Ḥimṣ) e Damasco. La via carovaniera Eufrate-Palmira-Siria venne così a sostituire gradatamente quella che passava per Petra, contribuendo così all'inizio della decadenza dei Nabatei (v.). Al pari di questi, i Palmireni erano Arabi passati alla vita sedentaria e giunti a un grado di civiltà molto superiore a quello dei Beduini, dalle depredazioni dei quali appunto essi proteggevano il commercio.

Il periodo di pace durato tutto il sec. I d. C. fu singolarmente favorevole all'incremento della ricchezza di Palmira, e se la guerra partica di Traiano parve per un momento dover modificare tale stato di cose, la politica di Adriano ridiede sicurezza al commercio della città, la quale, visitata dall'imperatore nel 129, assunse l'epiteto di Hadriana. Nel sec. II non solo la prosperità di Palmira fu in continuo aumento, ma le sue società commerciali e bancarie istituirono filiali in tutto l'Oriente, e anche in Occidente, fino a Roma, in Pannonia, in Gallia, in Spagna. Un'altra forma assunse in quell'epoca l'espansione palmirena: i suoi arcieri, provati alla guerriglia contro i nomadi del deserto, si arruolarono nell'esercito romano, costituendo uno dei più validi elementi della sua cavalleria; gli arcieri palmireni sono attestati da iscrizioni sparse in tutto l'impero romano, e segnatamente in Africa, dove le loro qualità militari li rendevano preziosi nelle lotte contro i Numidi. Il cambiamento della politica orientale romana avvenuto sotto Settimio Severo e continuato dai suoi successori tentò di fare di Palmira (che ricevette il titolo di colonia) il centro dell'azione contro i Parti, il cui impero si avviava allo sfacelo (Dura era già stata loro tolta nel 165). Tale politica, che fu frustrata dall'avvento della dinastia dei Sāsānidi, se da un lato dovette nuocere agl'interessi economici palmireni, dall'altro accrebbe l'importanza politica e favorì l'autonomia della città, dove, verso la metà del sec. II, una famiglia che portava il nome romano di Iulii Aurelii Septimii assurse a particolare potenza, specie in seguito alla rotta di Valeriano per opera del sāsānide Sapore I nel 258. A riparare le conseguenze della disfatta, un membro di quella famiglia, Odenato (forma latinizzata dell'arabo Udhainat: egli portava inoltre il nome romano di Septimius), impegnò con successo le forze militari palmirene, ricevendo da Gallieno, in premio del suo intervento, i titoli d'imperator, di restitutor totius Orientis e di corrector totius Orientis, ai quali egli aggiunse, certo di propria iniziativa, quello di "re dei re", evidente imitazione della titolatura persiana. L'autorità di Odenato andò estendendosi gradatamente alla Siria e a tutto l'Oriente romano; caduto vittima nel 266-67, insieme col figlio primogenito, di una congiura domestica, gli succedette un altro figlio ancora fanciullo, Vaballato (Wahballāt), sotto la tutela della madre Zenobia (tale nome corrisponde all'arabo Zainab, ma le iscrizioni palmirene la chiamano Bath Zabbāy, forma più vicina a quella az-Zabbā', sotto la quale il nome della famosa regina è rimasto vivo, in un racconto leggendario che ne sfigura grottescamente i tratti, nella tradizione araba). Sotto l'energica guida di Zenobia si venne a una rottura tra Palmira e Roma: Claudio, il successore di Gallieno, impegnato nella guerra coi Goti, non riuscì a mantenersi in Oriente, sì che il generale di Zenobia, Zabda, acquistò a Palmira l'Egitto e gran parte dell'Asia Minore, costituendo al giovane Vaballato un impero che avrebbe precorso, se fosse durato, la partizione dell'impero romano verificatasi in tutt'altra forma cinquant'anni più tardi: nel 271 Vaballato assunse il titolo di Augusto, e la sovranità di Roma venne formalmente disconosciuta. Ma già nell'anno seguente il nuovo imperatore Aureliano inflisse ai Palmireni, presso Emesa, una disfatta decisiva, ponendo fine, dopo l'assedio della città e la cattura di Zenobia stessa, all'effimero impero.

D'allora in poi la prosperità di Palmira andò continuamente declinando, anche e soprattutto per lo stato di guerra divenuto perpetuo tra Sāsānidi e Romani e per la conseguente diminuzione, e poi cessazione quasi completa, del commercio carovaniero. Le notizie che si hanno sulla città nei secoli posteriori sono scarsissime: tra i vescovi presenti al concilio di Nicea nel 325 figura un Marino vescovo di Palmira, e nel 528 viene riferita la ricostruzione delle sue mura per opera di Giustiniano. Al principio del sec. VII, per Tadmur passò il generale arabo Khālid ibn al-Walīd durante la sua marcia attraverso il deserto per sorprendere di fianco l'esercito bizantino accampato in Siria: gli abitanti, tra i quali si trovavano molti Ebrei, la presenza dei quali è attestata anche da alcuni passi talmudici e che la recente scoperta di una sinagoga a Dura ha confermata, si arresero a patti, godendo quindi, secondo le norme della conquista araba, di un trattamento benevolo. Sotto l'ultimo califfo omayyade (metà del sec. VIII), Tadmur, per aver parteggiato per gli ‛Abbāsidi, fu saccheggiata e le sue mura rase al suolo

Organizzazione interna e civiltà. - La popolazione di Palmira, come si è visto, era di origine araba, e di tale origine serbano traccia soprattutto i nomi di persona conosciuti attraverso le iscrizioni e gli scrittori classici. Ma fino dalla prima colonizzazione l'elemento arabo dovette mescolarsi a quello arameo, se non forse addirittura furono coloni aramei a fondare il primo nucleo cittadino, attirando a sé e compenetrando la popolazione araba. Comunque sia, tanto la lingua quanto la religione (v. più avanti) appaiono fondamentalmente aramaiche; tuttavia l'organizzazione sociale e politica, mentre da un lato serba tracce di arabismo, dall'altro appare fortemente influenzata da elementi greci, i quali certamente si dovettero fare sentire durante il periodo seleucidico, ancora interamente oscuro. Un avanzo arabo è costituito dal permanere di denominazioni di tribù (forse anche connesse a speciali prerogative politiche); l'ellenizzamento è manifesto nei termini greci che, nelle stesse iscrizioni in lingua palmirena, designano i poteri pubblici: βουλή, δῆμος, προεδρία, ἄρχοντες, ecc. Anche le cariche romane appaiono in forma greca. La costituzione di Palmira era quella di una repubblica aristocratica, nella quale le famiglie preminenti costituivano un senato; quale parte avesse nella reale direzione politica l'assemblea popolare, rimane oscuro. Una grande importanza esercitavano, com'è ovvio in una città commerciale, le associazioni di capitalisti, organizzatrici di carovane. Un documento d'importanza capitale per la conoscenza della vita economica di Palmira è dato dalla cosiddetta "tariffa", lunga iscrizione greco-palmirena datata del 137 d. C., nella quale sono fissati i tributi da esigersi sulle singole merci: è notevole che la legge è emanata dalla βουλή, senza intervento dell'autorità romana, ma che vi sono menzionate leggi romane: ciò dimostra come la sovranità romana, sia pure indirettamente, si esercitava sulla vita interna di Palmira.

Lingua. - Le iscrizioni palmirme, ammontanti a parecchie centinaia e in continuo aumento in seguito agli scavi in cors, sono redatte in un alfabeto derivato da quello aramaico (v. alfabeto, II, p. 377; epigrafia, XIV, p. 69), che presenta notevole somiglianza con la cosiddetta "quadrata" ebraica; accanto alla scrittura lapidaria si hanno anche forme corsive. La lingua, nonostante la presenza di alcuni termini greci (quasi tutti del linguaggio amministrativo), conserva pura la struttura dell'aramaico; essa si avvicina piuttosto al gruppo detto "occidentale" che a quello "orientale", pur possedendo alcune forme proprie di quest'ultimo, o, meglio, conservando alcuni tratti arcaici anteriori alla distinzione dei due gruppi dialettali. Alcuni fenomeni, come p. es. l'estensione dello "stato enfatico" ai sostantivi indeterminati, rappresentano tuttavia una fase più recente dell'aramaico. Molte iscrizioni sono bilingui, il che dimostra che l'elemento ellenico o ellenizzato della popolazione doveva essere alquanto esteso; del resto Palmira, in quanto emporio commerciale, doveva albergare numerosi stranieri di varia provenienza. Abbastanza numerose sono le iscrizioni palmirene rinvenute fuori del territorio della città: in Egitto, in Algeria, in Romania, in Inghilterra; a Roma ne sono state trovate quattro.

Religione. - Caratteristica è in Palmira la presenza d'un dio supremo Bēl o Bāl nel quale si riconosce il Ba‛al (v. baal) semitico nella forma da esso assunta a Babilonia. E certamente influssi babilonesi si riconoscono sicuramente a Palmira (tra l'altro il culto della dea mesopotamica Nanaia): se questi influssi siano stati filtrati attraverso il sincretismo persiano (come vuole il Rostovtzeff) o se siano anteriori a esso e risalgano al primissimo periodo, ancora del tutto oscuro, della storia palmirena, non potrà essere stabilito che in seguito a scavi che raggiungano gli strati archeologici più profondi. Accanto a Bēl figurano, come divinità associate, Aglibol e Yarkhibol, in cui Bēl è rispettivamente rappresentato come divinità lunare e solare (stranamente, poiché yarkh significa piuttosto "luna"), nonché Malakbel "il messaggero di Bēl". Sennonché il carattere composito della civiltà palmirena ha introdotto altre divinità d'origine diversa: così il dio del cielo Baalsamēn, siro-fenicio, la dea madre sira Ataratē (Atargatis), la dea araba Allāt e il dio arabo Arṣū (questo, associato col dio siriaco ‛Azīzu, figura come protettore speciale delle carovane) e altri. Molto diffuso era il culto della Fortuna, con la doppia denominazione, rispondente forse a una differenziazione, della quale ci sfugge la natura precisa, di Semeia e Gad; sembra inoltre che in questo culto sia venuto a fondersi quello della divinità della sorgente di Palmira, alla quale la città doveva la sua origine. I templi palmireni, nonostante la presenza di forme strutturali e decorative greco-romane, conservano il tipo caratteristico del tempio orientale, con grande cortile rettangolare contornato di edifici destinati ad abitazione dei sacerdoti e a deposito di arredi sacri, di derrate e di tesori e con la cella collocata a una delle estremità lunghe. Sono attestati a Palmira, come anche altro e, i collegi religiosi (marzaḥ), e il sacerdozio vi è largamente rappresentato, senza che tuttavia, a quanto sembra, vi fosse una dignità di sommo sacerdote. Sviluppatissimo era il culto dei morti, attestato dalle vaste necropoli con caratteristici sepolcreti plurimi a forma di torre quadrata e dai numerosissimi busti sepolcrali, recanti un'iscrizione col nome del defunto seguito dall'esclamazione funebre ḥabēl "ahimé".

Archeologia. - La prima notizia dell'esistenza delle rovine di Palmira è dovuta a mercanti delle agenzie inglesi di Aleppo (1678 e 1691). Cornelius Loos le disegnò nel 1710 per incarico di Carlo XIII di Svezia. In seguito a una visita fattavi con un ricco viaggiatore, Dawkins, l'artista inglese R. Wood ne diede al mondo la prima illustrazione di carattere scientifico, rimasta unica fino a poco tempo fa.

Palmira è costruita a ridosso del versante orientale d'una linea di colline, che limita la pianura damascena. Vi si penetra da una stretta vallata, tutta sparsa di alte torri sepolcrali, e dominata da una fortezza medievale. Della città si distingue subito la grande via colonnata, con tetrapili e archi eretti nei punti d'incrocio con le vie trasversali: caratteristiche le colonne, dal cui fusto sporgono mensole destinate un tempo a sorreggere le immagini di coloro che le avevano fatte alzare. Si calcola che vi dovessero essere 375 colonne per lato; oggi ne rimangono circa 135. La direzione di quest'arteria è da occidente a oriente, ma in vista del tempio, dissimulando la diversione con un fastoso triplice arco, essa volge verso di questo. Fino al 1930 fra i muri e i colonnati del tempio era annidato, con un effetto molto pittoresco, il villaggio arabo; ora questo per opera delle autorità francesi è stato dislocato verso le sorgenti, e l'area sacra è stata tutta sgomberata ed esplorata, con esito fortunatissimo dal punto di vista scientifico. Solo di iscrizioni ne sono state ricuperate oltre 200, e tra esse testi di prim'ordine per la storia del monumento e di Palmira. Il tempio fu dedicato nel 39 d. C. al dio Bēl. La cella conservò sempre la sua caratteristica forma oblunga e stretta divisa in tre parti diseguali, forse per una triade Bēl-Yarkhibol-Aglibol, mentre la corte col peribolo, anch'esso asimmetrico, fu ricostruita nel sec. II. Si sa che in antico i capitelli erano di bronzo dorato. Tutto induce a credere che l'attuale sistemazione ne abbia sostituita una di tipo babilonese. Il tempio con le sue mura robuste doveva servire anche di rifugio in caso d'incursioni di nomadi.

Nella città propriamente detta, dal perimetro delle mura e dalla pianta si riconosce forse il caravanserraglio: nei pressi si sono ricuperate iscrizioni con elogi a conduttori di carovane. C'è un teatro, ma, senza escludere che potesse funzionare anche per rappresentazioni, è probabile che servisse piuttosto come luogo di adunanza dei capi e dei notabili in occasione di deliberazioni o di feste religiose. Un tempietto verso nord era dedicato a Baal Shamin; esso faceva parte d'un complesso architettonico destinato al culto della stessa divinità. Di altri templi, dedicati agli dei siriani Haddad e Atargatis, alla fenicio-babilonese Astarte-Ishtar, ai protettori delle carovane Arsu e Azizu, si hanno notizie epigrafiche, ma non si conosce l'ubicazione. Alcuni scavi hanno accertato che le case private avevano spesso ampî peristilî; le loro rovine attestano una salda agiatezza. Numerose sculture trovate nella necropoli ci mostrano sempre i Palmireni e le loro donne vestiti di ricche stoffe, con gran profusione di gioielli: il costume è prevalentemente di tipo partico. L'arte palmirena, in cui predomina un intento coloristico, è il prodotto dell'incontro di elementi indigeni siro-anatolici con altri di provenienza ellenistico-romana; meno evidenti quelli iranici.

V. tavv. XLVII e XLVIII.

Bibl.: Per la storia: W. Wright, An account of Palmyre and Zenobia, Londra 1895; Th. Mommsen, Le provincie romane da Cesare a Diocleziano, trad. ital. di E. De Ruggero, Roma 1887-1890. Per le iscrizioni e la lingua: Corpus Inscriptionum Semiticarum, II, fasc. 3; J. B. Chabot, Choix d'inscriptions de Palmyre, Parigi 1922 (importante anche per la storia e l'archeologia); J. Cantineau, Inventaire des inscriptions de Palmyre, Parigi 1930 segg.; G. A. Cooke, A Textbook of North-Semitic Inscriptions, Oxford 1903, pp. 263-340; Th. Nöldeke, in Zeitschr. d. deutschen morgenl. Ges., XXIV (1870), pp. 85-109. Per la civiltà e la religione: J. G. Février, Essai sur l'histoire politique et économique de Palmyre, Parigi 1931; id., La religion des Palmyréniens, Parigi 1931. Altra bibliografia in M. Rostovtzeff, Città carovaniere, Bari 1934, capitoli 4°-5°. Per gli scavi: R. Wood-Borra e Dawkins, Les ruines de Palmyre, autrement dite Tedmor au désert, Londra 1753 (altre ediz., Parigi 1819 e 1829); Palmyra, Ergebnisse der Expeditionen von 1902 und 1927, a cura di Th. Wiegand, Berlino 1932; articoli varî nella rivista Syria dal 1921 in poi.

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