FASANELLA, Pandolfo di

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

FASANELLA (Fascianella, Faxianella, Fagianella, Phasanella, Phasenella), Pandolfo di

Norbert Kamp

Nacque nel Cilento, probabilmente nel primo decennio del XIII secolo, dal nobile Guglielmo di Fasanella, morto prima del 1231, ricordato varie volte nei documenti intorno al 1210, ma non come titolare dell'onionima baronia. Attraverso il matrimonio con Alessandra, una delle figlie di Tancredi di Palude, il F. ricevette in feudo la baronia di Fasanella (località oggi abbandonata presso Sant'Angelo a Fasanella nel Cilento), subentrando alla famiglia di Palude. Al tempo di re Ruggero II questa baronia era stata il centro della signoria feudale del nobile Lampo di Fasanella, importante figura del sistema feudale e nell'amministrazione provinciale. Il casato dei Fasanella cui apparteneva Pandolfa, tuttavia, non è riconducibile a lui direttamente.

Il F. fu educato come cavaliere alla corte del re. Nel maggio 1231, quando era già feudatario di Fasanella, trasferì al monastero di Cava un vassallo che si era spostato con la sua famiglia da Pantuliano in un casale del monastero sul Tusciano ed è da allora che la famiglia del F. avviò contatti più stretti con Cava, mentre di suo padre Guglielmo è nota una sola donazione in favore del monastero di Montevergine.

Quando l'imperatore Federico II, dopo la vittoria sui Lombardi nel 1237, iniziò ad impiegare in misura più massiccia nobili provenienti dal Regno di Sicilia per l'amministrazione dei territori italiani dell'Impero, la sua scelta cadde presto sul Fasanella. Nel 1238 il F. fu nominato dall'imperatore podestà a Novara, nel quale è documentato dal marzo all'agosto di quell'anno, anche se non si hanno notizie precise sul suo operato.

Dopo il ritorno dalla Lombardia nell'inverno 1239-40, nel gennaio Federico II nominò a Poggibonsi il F. capitano generale della Toscana. Si trattava di un ufficio nuovo per compiti ed autorità: pur rimanendo sottoposto al legato imperiale re Enzo, esso mirava nel contempo ad assicurare una maggiore autonomia all'amministrazione imperiale in Toscana con metodi diversi rispetto a quelli seguiti dal predecessore del F., il tedesco Gebhard von Arnstein. Scopo principale era quello di consentire all'Impero di sfruttare le risorse finanziarie e militari della provincia toscana in maniera più completa. Il F., benché non conoscesse le equilibrate istituzioni e i complessi rapporti giuridici della Toscana, molto più evoluta sul piano economico e culturale rispetto al Regno, intraprese il suo compito con un'energia ed un dinamismo instancabili che sorpresero i suoi interlocutori nei Comuni, nei castelli, nelle chiese e nei monasteri. Percorse in lungo e in largo la provincia, ricordando ai Comuni ad ai nobili, ma anche alle chiese, i servizi e i tributi da loro dovuti all'Impero. Nello stesso tempo tentò di ottenere il loro appoggio, compito non facile, perché Federico era scomunicato e la cooperazione comportava di regola una diminuzione di libertà ed un aggravamento dei tributi. Attraverso pressioni politico-militari, iniziative diplomatiche, il ricorso a vecchi diritti imperiali, ma mostrando anche nelle trattative una pazienza e una duttilità che sconfinavano nell'arrendevolezza, ricorrendo talvolta anche alla corruzione, il F. riuscì ad integrare molti dei piccoli Comuni compresi tra la Val d'Elsa e San Gimignano in un'organica amministrazione imperiale, nonostante resistenze spinte fino all'ostruzionismo. I diritti comitali di una serie di città e i diritti giurisdizionali dei vescovati rivendicati dall'Impero furono trasformati in vicariati affidati a funzionari imperiali. La Toscana divenne così in tempo relativamente breve una vera e propria provincia iniperiale dotata di proprie strutture politiche.

Il F. occupò in questo territorio una fitta rete di funzionari subalterni, per lo più col titolo di vicari che garantivano luogo per luogo la presenza dell'autorità imperiale. Contemporaneamente creò un tribunale permanente, messo subito in condizione di funzionare, i cui giudici e notai provenivano dalla Toscana e dal Regno. Per l'amministrazione finanziaria autonoma della provincia si servì invece di esperti funzionari provenienti dal Regno. Tutte queste misure e iniziative ottennero il risultato di stabilizzare le nuove forme amministrative create in nome dell'Impero, che col passare del tempo si estesero pure ai grossi Comuni come Siena, Firenze, Pisa, Lucca, anche se questi conservarono la propria libertà interna e non furono ostacolati nella loro espansione economica. Il F. fu in grado in questo modo di sfruttare il crescente potere contributivo per le necessità dell'Impero e di provvedere al reclutamento militare in una misura fino allora sconosciuta.

Già nei primi mesi del 1240 il F. compì una spedizione nel Sud della sua provincia contro gli Aldobrandeschi, conti palatini della Toscana, ma in aprile dovette interrompere la campagna per occuparsi del conflitto scoppiato a Siena tra popolani e magnati e sfociato in aperti scontri di piazza. In questa occasione appoggiò il partito dei popolani, guidato da Ildibrandino di Guido Cacciaconti, e mediò una pace tra le due fazioni. Il risultato fu un'attiva e durevole partecipazione dei ceti economicamente più attivi al reggimento della città, garantita dagli statuti; ciò fece sì naturalmente che questi vedessero i propri interessi politici tutelati al meglio da un'alleanza con l'Impero.

Nel giugno 1240 con un nuovo contingente militare, reclutato non senza forti resistenze, il F. tornò ad assalire la contea degli Aldobrandeschi; gli assedi non ebbero successo e un anno dopo, nel 1241, la situazione non era, cambiata. Nell'intervallo tra le due spedizioni, nell'autunno e inverno 1241, il F. aveva dato man forte con le sue truppe all'esercito imperiale iinpegnato nell'assedio di Faenza. Nella seconda metà del 1241 riuscì ad ottenere l'impegno di fedeltà di San Gimignano e di Volterra, a lungo rimandato, nonché a condurre dalla parte imperiale Arezzo, dopo che già nel 1240 i Comuni di Città di Castello e di Borgo San Sepolcro avevano prestato il giuramento di fedeltà all'Impero e avevano pagato la tassa imperiale. Sulla base di questi successi fu naturale compiere un passo ulteriore sulla via dell'integraziont dei Comuni nel sistema amministrativo della provincia imperiale retta dal capitano generale: dal 1241 l'elezione del podestà fu subordinata al consenso del vicario imperiale e la scelta fu ristretta a personalità politicamente gradite. In varie occasioni il F. propose per questi uffici parenti e persone di fiducia provenienti dal Regno, e talvolta ricoprì egli stesso questi incarichi. Così avvenne, ad esempio, nel 1243, a Prato, uno dei due principali centri dell'amministrazione imperiale in Toscana, e nel 1244, allorché a Siena egli succedette ad Ildibrandino Cacciaconti, dopo aver costretto alla rinuncia il nobile pisano precedentemente eletto dal Comune.

Nell'inverno 1242 il F. marciò con un contingente reclutato nelle città toscane contro Perugia per rispondere militarmente all'alleanza antimperiale stretta dalla città umbra con Roma. Con l'esercito toscano prese parte al saccheggio della Campagna romana che, secondo le intenzioni di Federico II, avrebbe dovuto demoralizzare gli abitanti di Roma. Quando il Comune di Viterbo nel settembre 1243 defezionò dall'imperatore, il F. accorse subito in aiuto di quest'ultimo alla guida di un contingente toscano. Dopo il fallimento dei primo assalto contro la città in ottobre, l'imperatore lo rimandò nella sua provincia per formare un nuovo esercito con oltre 6.000 fanti e macchine da guerra. Anche il secondo assalto tuttavia, nel novembre 1243, si risolse in un insuccesso. In compenso nell'inverno 1243 l'imperatore, sfruttando la superiorità militare raggiunta grazie agli sforzi del F., riuscì ad occupare la contea degli Aldobrandeschi e ad imporvi vicari imperiali.

Nell'estate 1245 il F., insieme con il capitano imperiale nel Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, Vitale di Aversa, compì un'ulteriore spedizione per saccheggiare il distretto di Viterbo e la parte settentrionale dello Stato della Chiesa, senza riuscire però a piegare la resistenza della città. Nel frattempo a Firenze erano scoppiati disordini interni e Federico Il inviò nella città il F. insieme con il giudice della Magna Curia, Taddeo di Sessa, reduce dall'insuccesso della sua missione al concilio di Lione. I due funzionari imperiali conclusero una tregua tra i partiti che rimise la scelta del nuovo podestà nelle mani dell'imperatore: Federico designò allora suo figlio Federico d'Antiochia, completando di fatto con questa nomina l'integrazione di Firenze nella provincia imperiale di Toscana. Il nuovo podestà fiorentino diventò poco tempo dopo vicario generale della provincia, dato che il F., al più tardi nel dicembre 1245, venne sollevato dalla carica di capitano generale in Toscana.

Le cause del licenziamento si possono solo ipotizzare. La tesi che la corruttibilità del F. fosse il motivo della sua rimozione si fonda sulle accuse rivoltegli dopo il suo tradimento ed anche sul fatto che egli durante le trattative politiche in Toscana aveva effettivamente accettato donativi in denaro da parte di alcuni Comuni, il che doveva essere noto da tempo alla corte imperiale. Tuttavia, dal momento che non sappiamo esattamente quando il F. aderì alla congiura ordita contro l'imperatore dopo la deposizione di Federico II ad opera del concilio di Lione, non è possibile stabilire se l'imperatore nutrisse dubbi sulla lealtà del F. già negli ultimi mesi del 1245, 0 se essa sia venuta meno solo dopo la rimozione dalla carica. Dopo la sua destituzione il F. soggiornò presso la corte dell'imperatore a Grosseto; era qui quando, nel marzo 1246, un messaggero del conte Riccardo di Caserta rivelò all'imperatore l'esistenza di un complotto per rovesciarlo ed ucciderlo, complotto che aveva in Tebaldo Francesco, un parente acquisito del F., il principale esponente nel Regno.

Insieme con i fratelli presenti a Grosseto e con altri congiurati, il F. riuscì a fuggire, prima a Cometo e di lì a Roma, dove si considerò al sicuro dalle rappresaglie dell'imperatore. Dato che nell'aprile 1246 Innocenzo IV sperava ancora che la congiura avesse successo, egli incoraggiò il F. ad ulteriori azioni in collegamento con i nuovi legati pontifici, ma questi piani fallirono quando l'imperatore con una rapida contromossa costrinse i nobili ribelli a rinserrarsi dentro le mura di Capaccio ed in luglio li costrinse alla capitolazione. In quest'occasione furono distrutte Sala e Capaccio e la stessa Fasanella. Il papa compensò il F. della perdita con la concessione di nuovi feudi: Campagna e Giffoni presso Salerno, che Oddo di Laviano aveva restituito al pontefice.

Negli anni 1247-48 il F. prese parte agli scontri militari nelle Marche, dando man forte alla controffensiva del cardinale Raniero Capocci di Viterbo, che pose fine al predominio imperiale in questa provincia. Il 14 febbr. 1248, con altri personaggi della cerchia più stretta di Raniero, fece da garante per la conferma che Innocenzo IV avrebbe dovuto dare ai privilegi concessi dal cardinale al Comune di Iesi come premio per il passaggio alla parte guelfa, approvazione negata però dal papa nel novembre 1248. Nel 1249 sembra che Innocenzo IV avesse addirittura l'intenzione di affidare al F. la custodia del territorio ravennate, ma il sopravvento dei ghibellini a Ravenna nel settembre 1249 rese nullo il progetto.

Dopo la morte di Corrado IV (1254) il F. ritornò nel Regno e riprese possesso dei suoi vecchi feudi, ai quali si aggiunse la baronia di Postiglione, ereditata dal fratello Riccardo, defunto nel 1246. Il F. dovette, però, cedere Postiglione in seguito alle rivendicazioni esposte dinanzi al tribunale di Manfredi da Landolfina, moglie di Giovanni da Procida e figlia ed erede del precedente feudatario Guglielmo di Palude. Prima del 1258 il F. lasciò di nuovo il Regno ormai in mano a Manfredi probabilmente per salvarsi la vita. Quando Carlo d'Angiò nel 1265 fu investito dal papa del Regno di Sicilia, il F. tentò subito di legarsi al nuovo re tramite il vicario romano dell'Angioino, Giacomo Cantelmo, il quale informò Carlo delle intenzioni del F. già nell'aprile 1265. Nel febbraio 1266 il F. prese parte alla battaglia di Benevento, nella quale - secondo quanto tramanda Pandolfo Collenuccio - combatté in prima linea, e insieme con Ruggero di Sanseverino contribuì a sconfiggere i cavalieri tedeschi dell'esercito di Manfredi, decidendo in tal modo l'esito della giornata.

Ancora sul campo di battaglia di Benevento, il 4 marzo 1266, il F. fu nominato da Carlo d'Angiò giustiziere della Terra di Bari; il 12 marzo egli assunse l'ufficio.

Il suo primo compito consistette nel proteggere i porti e le coste dalle incursioni dei Tedeschi e dei ghibellini lombardi e toscani, i quali si erano mossi per mare in aiuto di Manfredi. Secondo gli ordini impartiti da Carlo, il F. revocò tutti i privilegi emanati da Federico II dopo la sua deposizione, ma anche quelli di Corrado IV e di Manfredi; al contempo confiscò i beni dei ribelli. Nella sua provincia questa azione colpì soprattutto i numerosi seguaci ciprioti e lombardi di Manfredi: Filippo Chinard e i suoi parenti Ugo Chabot, Ugo de Abemario, Guglielmo Grosso, Bartolomeo Semplice, nonché Federico e Bonifacio d'Agliano. Anche le chiese rivendicarono, però, la restituzione dei loro beni, e questo diede inizio, a partire dal maggio 1266, ad una lunga serie di contenziosi, promossi dal monastero di Ognissanti di Cuti presso Bari, dal capitolo di S. Nicola di Bari, dalla casa dei cavalieri teutonici in Puglia, ma anche dagli arcivescovi di Bari e di Monreale. Per ordine di Carlo d'Angiò il F. richiese ai giudici e ai notai insediati sotto Manfredi di esibire la prova della loro nomina ed investitura; da loro pretese il versamento delle consuete tasse e li confermò nell'ufficio, di modo che la continuità dell'amministrazione e della giurisdizione fu assicurata. Dopo che Carlo d'Angiò ebbe trasferito la Zecca da Siponto Novello a Brindisi) il F. vigilò sul monopolio della circolazione della nuova moneta nel commercio e nelle transazioni. Fece inoltre trasferire la vedova di Manfredi, Elena di Epiro, tenuta prigioniera a Trani, alla corte del re a Lagopesole. Per l'assedio di Lucera mise a disposizione i baroni della sua provincia; al maresciallo Jean de Brasseuse, infine, che assediava Reggio Calabria, inviò macchine ossidionali. Dall'ultimo resoconto sul proprio operato nella Terra di Bari, presentato solo nel 1278, si desume che dal luglio 1266 il F. aveva riscosso anche l'ultimo terzo della colletta generale prescritta a suo tempo da Manfredi; contemporaneamente impose alle universitates ed ai nobili della sua provincia un prestito forzoso di considerevole entità.

Dopo nove mesi di servizio, il 15 dic. 1266 il F. fu sostituito dal cavaliere francese Raymond Chibaud. In questo periodo relativamente breve era riuscito a riorganizzare senza fratture l'amministrazione sotto la nuova monarchia, ma anche a realizzare grossi cambiamenti nella distribuzione di proprietà e feudi, esautorando in modo sistematico il vecchio ceto dominante.

Nel periodo successivo il F. si dedicò, a quanto pare, alle vertenze riguardanti la restituzione dei suoi feudi, ottenendo completo successo su tutta la linea. Riottenne non solo la baronia di Fasanella con tutti i casali pertinenti, ma anche la baronia di Postiglione, ereditata dal fratello Riccardo e definitivamente sottratta alla moglie di Giovanni da Procida. Tra gli altri feudi in suo possesso erano anche Serritella, Controne, Selvanera, Castelluccio, una parte di Contursi e temporaneamente anche Polla (tutti in Cilento o nel Vallo di Diano). Il suo secondo matrimonio, anteriore al 1269-70, con Aquilina di Genzano completò questa cospicua dotazione con feudi in Basilicata: Genzano di Lucanio e Abriola, che gli appartenne solo per metà.

La discesa di Corradino nella primavera 1268 mise in serio pericolo la monarchia angioina, dato che nel nome dell'ultimo degli Svevi si sollevarono nobili di quasi tutte le province. Nell'estate di quell'anno Carlo d'Angiò nominò perciò il F. capitano delle province di Principato e Terra Beneventana; in questa veste egli godeva di un'autorità militare superiore a quella del giustiziere. La sua contromanovra strategica fece fallire l'attacco di Marino Capece a Montemarano, scongiurando il pericolo di un raggruppamento di ribelli provenienti da diverse province. Quando Carlo d'Angiò condusse Corradino prigioniero a Napoli, lasciò il F. in qualità di governatore di Capua (Collenuccio); il F. fu anche capitano di Terra di Lavoro. Con ogni probabilità intervenne anche nei combattimenti contro i partigiani di Corradino in Basilicata, poiché nel 1269 parenti di sostenitori di Corradino originari di quella regione risultavano suoi prigionieri. La rapidità d'azione dimostrata nel reprimere l'insurrezione ottenne il riconoscimento di Carlo, anche se il sovrano d'ora in avanti concesse sempre più spesso gli uffici a nobili francesi. Quando nel dicembre 1268 l'Angioino contrasse un nuovo matrimonio con Margherita di Nevers, il F. fu uno dei due testimoni nobili del Regno nell'atto relativo al dovario della nuova regina.

Nel febbraio 1270 il F. restituì alla Corona il feudo di Polla, conferitogli per ragioni non del tutto chiare ed in seguito concesso da Carlo al fratello del F., Matteo. Insieme con i suoi fratelli negli anni 1271-72 il F. fu impegnato a reprimere disordini a Padula. Quando il giustiziere di Terra d'Otranto Giovanni di, Brayda, nel marzo 1272, a causa di presunte malversazioni nella riscossione della colletta fu arrestato, il F. ne assunse pro tempore l'ufficio fino all'arrivo, al più tardi nel novembre dello stesso anno, del successore designato Ponce de Blanquefort.

Nell'ottobre 1274 Carlo d'Angiò nominò il F. suo vicario a Roma al posto del nobile messinese Nicoloso di Riso. Poco più di un anno dopo, nel novembre, 1275, gli succedette Guillaume de Barris. Abbiamo poche notizie in merito a questo periodo che dovette perciò trascorrere senza particolari avvenimenti e senza essere segnato da specifiche iniziative politiche. Quando Carlo, verso la fine del 1275, si recò personalmente a Roma e nominò suo nipote, il conte Roberto d'Artois, vicario generale del Regno, gli ordinò di accogliere al suo seguito, in veste di consiglieri, il F. e Ruggiero di Sanseverino, conte di Marsico. Dal 1273 il F. compare regolarmente come consigliere e familiare del re.

In seguito allo scoppio della rivolta dei Vespri siciliani, Carlo lo richiamò ancora una volta in servizio, dopo aver, nel maggio 1282, licenziato una parte dei nobili francesi dagli incarichi di giustizieri, sostituendoli con esponenti della nobiltà locale. Il 25 maggio 1282 il F. assunse il giustizierato in Terra di Lavoro in sostituzione di Ferrerio di Sant'Amanzio, mentre suo fratello Gilberto nell'ottobre 1282, m qualità di giustiziere della Terra di Bari, entrò anch'egli nell'amministrazione provinciale. Al F. furono concessi mezzi finanziari per il mantenimento in Terra di Lavoro di 50 cavalieri; egli rese sicuri i porti della sua provincia dagli attacchi dei pirati, mentre per l'ampliamento del Castel Nuovo a Napoli mise a disposizione la manodopera. Nel settembre ed ottobre 1282 inviò il ricavato della colletta generale riscossa nel 1281 e nel 1282. Nell'ottobre 1282, a Sessa, rese pubbliche le nuove costituzioni con le quali Carlo d'Angiò, il 10 giugno 1282, aveva reagito ai Vespri siciliani, stabilendo nuove norme per l'amministrazione. Ancora nel febbraio 1283 da Ferentino partì un mandato per il F. con l'ordine di effettuare i pagamenti al "magister passuum" della Terra di Lavoro, ma egli non dovette eseguirlo se nel maggio 1283 lo stesso mandato fu indirizzato ad un'altra persona.

Il F. morì probabilmente nel marzo 1283, mentre era giustiziere di Terra di Lavoro; già il 24 apr. 1283 il reggente Carlo di Salerno, che si trovava a Nicotera in Calabria, era infatti informato della sua morte. 1 suoi beni mobili furono sequestrati dal secreto del Principato e di Terra di Lavoro ed incamerati dalla Corona. Come giustiziere gli succedette temporaneamente Tommaso di Sanseverino, finché Carlo non nominò il successore Ruggiero di Sangineto.

Il F. ebbe almeno quattro fratelli, Matteo, Riccardo, Tommaso e Gilberto, tutti attivi nell'amministrazione del Regno. Dai suoi due matrimoni, con Alessandra di Palude e con Aquilina di Genzano, non lasciò alcuna discendenza. Giovanna, figlia di primo letto di Aquilina e perciò figliastra del F., sposò nel 1275-76 il nobile abruzzese Ruggero Morello, il cui parente, Guglielmo Morello, nel 1274 era stato maresciallo di Roma sotto il Fasanella. Aquilina dopo la morte del F. conservò come dote il castello di Ricigliano, mentre la baronia di Fasanella con gli altri beni e feudi nel 1284 fu trasmessa da Carlo d'Angiò a Tommaso di Sanseverino.

Il F. proveniva da una famiglia di bassa nobiltà, che grazie al duplice matrimonio del F. e del fratello Riccardo con due figlie di Tancredi di Palude era assurta al rango baronale, ma solo le riforme volute da Federico II permisero ai Fasanella l'accesso agli alti uffici statali e con ciò l'ascesa nella gerarchia feudale. Come capitano generale della Toscana, dove era abitualmente chiamato "il conte Pandolfo", fu un intransigente sostenitore della politica imperiale per la riorganizzazione dei territori italiani dell'Impero secondo il modello amministrativo sperimentato nel Regno di Sicilia. Il suo potere e la sua influenza furono tali che per il cronista Salimbene de Adam egli fu uno dei "principes quos habuit Fridericus". La deposizione dell'imperatore nel concilio di Lione fece però venir meno la sua lealtà, dato che egli, al pari di molti altri nobili meridionali, era condizionato, nel suo orientamento politico, dallo stretto legame basato sui rapporti feudali che legavano il Regno al Papato. La parteciPazione alla congiura del 1246 e la persecuzione subita dalla sua famiglia lo trasformarono in uno dei più acerrimi oppositori dei sovrani svevi, dapprima a fianco della Chiesa ed in seguito di Carlo d'Angiò. Per Carlo egli impiegò, anche in situazioni critiche, il suo indiscutibile talento militare ed amministrativo fino agli ultimi anni di vita. L'intera famiglia Fasanella, che partecipò alla sua ascesa politica e sostenne la sua carriera, si estinse nell'arco di una generazione: il patrimonio del F. passò alla casata dei Sanseverino, alla quale il F., sin dalla caduta di Federico II, aveva saputo legare le sue fortune politiche e private.

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