PAOLO di Dono, detto Paolo Uccello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PAOLO di Dono, detto Paolo Uccello

Lorenzo Sbaraglio

PAOLO di Dono, detto Paolo Uccello. – Nacque nel 1397 circa, probabilmente a Firenze, da Dono di Paolo di Dono e Antonia di Giovanni di Castello del Beccuto. La data si desume dall’età dichiarata nelle sue più antiche portate al Catasto (una sorta di dichiarazione dei redditi) del 1427, 1431 e 1433. Il padre esercitava il mestiere di barbiere e cerusico a Pratovecchio in Garfagnana e si immatricolò all’Arte dei medici e speziali il 16 dicembre 1365. Si trasferì poi a Firenze, città di cui prese la cittadinanza nel 1373. Nel 1387 sposò Antonia del Beccuto, appartenente a una nobile e ricca famiglia fiorentina che abitava vicino a S. Maria Maggiore, chiesa nella quale vantava il patronato di ben tre cappelle.

Paolo fu celebrato fin dalle fonti più antiche come virtuoso della prospettiva, che però fu per lui solo uno dei mezzi con i quali creò la sua rappresentazione del mondo, colorata e fantastica, in bilico tra realismo e astrazione, eccezione e regola, disordine e ordine, Gotico e Rinascimento. Nelle sue opere la prospettiva non è sempre norma chiarificatrice, ma può essere piegata a fini espressivi, come nel Diluvio Universale del Chiostro Verde di S. Maria Novella a Firenze, tra le immagini più potenti di tutto il Rinascimento fiorentino, in cui «è tale lo studio posto in ogni particolare, che ci fa credere aver Paolo voluto affrontare in una sola volta tutte le difficoltà per vincerle», condensando «ogni progresso fatto fin allora dall’arte fiorentina» (Cavalcaselle - Crowe, 1864, 1892, p. 48). L’interesse per il suo lavoro perdurò per tutto il Quattrocento, come dimostra l’impegno con cui Lorenzo il Magnifico cercò di avere i tre episodi della Rotta di San Romano, di cui riuscì a entrare in possesso nel 1484. Nello stesso periodo uno dei maestri del Magnifico, Cristoforo Landino (1481, p. 124), ne abbozzava un primo breve, ma fortunato profilo: «Paolo Uccello buono compositore et vario, gran maestro d’animali et di paesi, artificioso negli scorci, perché intese bene di prospettiva». Giorgio Vasari (1568, 1971, p. 123) lo inserì insieme a Filippo Brunelleschi, Donatello, Lorenzo Ghiberti e Masaccio tra i padri del Rinascimento fiorentino e ne tracciò un ritratto pieno di formule famose che delineano bene la figura di Paolo, «dotato dalla natura d’uno ingegno sofistico e sottile» (p. 61). Tuttavia, da artista cinquecentesco, Vasari mostra una sostanziale incapacità di comprendere e apprezzare appieno «quella sua maniera secca e tagliente» (p. 66) che «affatica la natura» (p. 61), quel suo amore per l’immergersi nelle difficoltà che – secondo la biografia vasariana – lo portò in vecchiaia a rinchiudersi «in casa attendendo alla prospettiva, che sempre lo tenne povero et intenebrato insino alla morte» (p. 71), dando così il via a un’interpretazione umbratile della figura di Paolo Uccello dominante fino al XIX secolo.

Il soprannome con cui è noto, testimoniato fin dalle più antiche fonti (Landino), fu utilizzato dal pittore a partire almeno dalla seconda metà degli anni Trenta. Compare infatti nelle firme apposte al Monumento a Giovanni Acuto nel duomo di Firenze e nell’episodio della Rotta di San Romano della Galleria degli Uffizi («PAVLI VGIEL[L]I OPVS»: in entrambi i casi). Anche nei documenti redatti da lui e da altri a partire da questo stesso periodo il soprannome inizia a comparire, per esempio, nella commissione e nel pagamento dello stesso Monumento all’Acuto («Paulo Uccello»; «Pagholo di Dino […] degli Uccegli»). L’origine risalirebbe, secondo Vasari, alla passione di Paolo per gli animali, che spesso studiava e disegnava; dato poi che «si dilettò più degli uccelli che d’altro, fu cognominato Paolo Uccelli» (Vasari, 1550, 1971, p. 65).

Un ruolo importante per la sua formazione lo ebbe Ghiberti, per il quale lavorò a lungo da ragazzo. Come ricorda anche Vasari (1568, 1971, p. 101), fu uno dei numerosi aiutanti per la finitura dei bronzi della seconda porta per il battistero di Firenze. «Pagolo di Dono» compare infatti nella cosiddetta seconda convenzione, stipulata nel giugno del 1407. La sua permanenza nella bottega ghibertiana è perciò successiva (probabilmente di non molto) a questa data, anche se il periodo esatto è ignoto: inizialmente definito «garzone», fu pagato 5 fiorini all’anno, aumentati in un momento non precisato a 7, per un totale di 20 fiorini e mezzo; in un secondo tempo ne ricevette circa 31, con una retribuzione di 25 fiorini annui. La durata complessiva dell’apprendistato può essere perciò quantificata tra i quattro anni e mezzo e i cinque circa. In questo lasso di tempo ebbe modo di lavorare al fianco degli svariati orefici, pittori, scultori e architetti fiorentini che assistevano Ghiberti, quali Bernardo Ciuffagni, Michelozzo e, forse, Masolino e Giovanni Toscani. Fu molto probabilmente Donatello l’assistente di Ghiberti che maggiormente impressionò il giovane Paolo. Tra i due nacque un’amicizia che durò tutta la vita, stando alla biografia vasariana, e certo il pittore ebbe fra i suoi artisti di riferimento Donato, sulle cui opere si aggiornò di continuo fino almeno agli anni Quaranta del Quattrocento.

In qualità di «dipintore» si iscrisse alla Compagnia di S. Luca, riservata ai pittori fiorentini, nel 1414 (data, difficilmente verificabile nel Libro delle matricole, sulla cui leggibilità sono stati avanzati dei dubbi). L’anno successivo, con la stessa qualifica, entrò a far parte dell’Arte dei medici e speziali, senza pagare l’iscrizione in quanto figlio di un membro della stessa corporazione.

Il periodo tra il 1415 e il 1425 è il meno documentato della vita del pittore. Vasari testimonia che «le prime pitture di Paulo furono in fresco» (1568, 1971, p. 63), ricordandone quattro, tutte a Firenze: i Ss. Antonio Abate, Cosma e Damiano nello spedale di Lelmo (poi spedale di S. Matteo, oggi sede dell’Accademia di belle arti), due figure non meglio precisate per il convento di Annalena (in realtà fondato nel 1455), una cappella in S. Maria Maggiore con affrescati nella volta l’Annunciazione e i Quattro Evangelisti e infine le Storie di s. Francesco nella controfacciata di S. Trinita. Questi dipinti sono andati tutti distrutti, eccetto l’ultimo, di cui si conserva un piccolo lacerto con il Cristo crocifisso in forma di serafino, che tuttavia, per motivi stilistici (per esempio l’aureola inspessita e scorciata), sembrerebbe databile negli anni Trenta del Quattrocento, o comunque non prima. A una fase anteriore potevano semmai appartenere i perduti affreschi per S. Maria Maggiore che decoravano la cappella Carnesecchi, probabilmente eseguiti nello stesso periodo della smembrata tavola d’altare di Masolino e Masaccio, databile verso il 1423.

I più antichi dipinti che gli studiosi tendono oggi a riferire a Paolo Uccello (dopo molti contrasti in passato, sia per l’attribuzione sia per la datazione) sono collocabili verso il 1420-25 circa. Il più antico è probabilmente una Madonna col Bambino custodita nel Museo di S. Marco a Firenze (Parronchi, 1969). Si tratta di un affresco staccato, a forma di lunetta, che un tempo sormontava una delle porte della casa dei del Beccuto, la famiglia della madre di Paolo. Dal punto di vista stilistico testimonia l’importante ruolo che l’arte tardogotica ebbe per la sua formazione, specialmente nella versione vivace ed estroversa fornita da Gherardo Starnina. Non è forse un caso che Vasari associasse quest’ultimo a Paolo Uccello, ritenendoli entrambi allievi – fatto impossibile, almeno per quanto riguarda Paolo – del pittore Antonio Veneziano (1568, 1967, p. 268). Successiva di qualche anno alla lunetta del Beccuto è una Crocifissione di collezione privata, che rappresenta la più recente acquisizione al catalogo di Paolo Uccello. L’attribuzione si deve all’intuito di Luciano Bellosi, il cui contributo sull’opera verrà pubblicato postumo nella rivista Prospettiva (cfr. De Marchi, in Da Donatello a Lippi, 2013, pp. 108 s.). Al termine di questo arco di tempo dovrebbero collocarsi le visionarie tavolette con S. Giorgio e il drago della National Gallery of Victoria di Melbourne (Longhi, 1928, 1968, p. 25: l’attribuzione è nell’ed. 1968) e l’Annunciazione dell’Ashmolean Museum di Oxford (Volpe, 1980, p. 18), che tuttavia per alcuni potrebbero essere state realizzate da Paolo nella seconda metà del terzo decennio.

Più problematica è l’attribuzione di una piccola Madonna col Bambino della collezione Martello di New York (Boskovits, 1992), che, se si deve alla mano dell’artista, dovette essere dipinta prima delle opere appena citate. Al giovanissimo Paolo, basandosi su un’iscrizione settecentesca, sono stati riferiti anche gli affreschi staccati con la Madonna del Latte e santi del tabernacolo di Lippi e Macia oggi nella chiesa di S. Maria Mater Dei a Novoli (Firenze), più probabilmente opera di Pietro Nelli (per le vicende critiche cfr. Hudson, 2008, pp. 311 s.).

Tra il 1425 e il 1430 Paolo soggiornò a Venezia. Forse l’interesse dei veneziani per il lavoro del pittore fu dovuto alle raccomandazioni del suo primo maestro Ghiberti, che nell’inverno 1424-25 si fermò per qualche settimana nella città veneta. La partenza di Paolo avvenne poco dopo il 5 agosto 1425, giorno in cui redasse un primo testamento in previsione della lunga assenza da Firenze. Il 12 luglio del 1427 la portata al Catasto del pittore fu infatti presentata in sua vece da Deo di Deo del Beccuto, parente della madre Antonia, che riferì che «Pagholo […] andossi chon Dio più di II anni fa ed è a Vinegia» (Deo si confonde leggermente sui tempi, avendo Paolo lasciato Firenze da meno di due anni). Tra i due ci furono anche rapporti economici, dato che il Beccuti, nella sua portata del 1431, dichiarava di dovere al pittore la considerevole cifra di 184 fiorini. La lunetta oggi al Museo di S. Marco, anche se proveniente dalle case della famiglia dei del Beccuto, non basta da sola a giustificare, se non in una parte minima, l’ingente somma (giusto per dare un’idea dell’effettivo valore, l’abitazione di Paolo fu pagata 110 fiorini). Il ritorno dell’artista a Firenze avvenne entro il 31 gennaio 1431, quando presentò di persona la sua portata agli ufficiali del Catasto.

L’attività veneziana di Paolo resta piuttosto oscura. L’unico elemento certo è che nel 1425 eseguì una figura di S. Pietro a mosaico per la facciata di S. Marco. La notizia si ricava da una lettera del 1432 in cui gli operai dell’Opera del duomo di Firenze si informavano presso l’ambasciatore fiorentino a Venezia sulle capacità dell’artista, che nel documento viene definito «magistro musajci». Il S. Pietro, distrutto nel XVII secolo, si trovava sullo spigolo alto della facciata della basilica Marciana ed è visibile sullo sfondo del telero con la Processione in piazza S. Marco dipinto da Gentile Bellini (Venezia, Gallerie dell’Accademia). Gli studiosi hanno poi avanzato numerose proposte per identificare testimonianze concrete dei lavori che Paolo eseguì a Venezia. L’attribuzione più probabile è quella di un riquadro con tarsie marmoree prospettiche nel pavimento di S. Marco che, per disegno e cromatismo, si avvicina ai modi dell’artista fiorentino; l’opera raffigura un Dodecaedro stellato (Muraro, 1956, fig. 105), circondato da una fascia decorata da un motivo di probabile derivazione brunelleschiana, che si ritrova a Firenze nelle tarsie marmoree della nicchia dell’Arte dei beccai di Orsammichele (1412 circa).

Nella prima metà degli anni Trenta Paolo decise di stabilirsi definitivamente a Firenze e nel 1434 comprò casa, come testimonia lo stesso pittore nelle sue successive portate al Catasto. L’abitazione, nella quale dimorò per il resto della vita, era in via della Scala, nel popolo di S. Lucia, vicino a S. Maria Novella.

Una delle più importanti imprese di Paolo in questo periodo è la decorazione della prima campata del lato est del Chiostro Verde di S. Maria Novella (il cui nome deriva dalle decorazioni ad affresco, per lo più eseguite a monocromo in terra verde) raffigurante la Creazione degli animali e di Adamo in alto e la Creazione di Eva e il peccato originale in basso. Tranne alcune significative eccezioni, questi dipinti sono sempre stati attribuiti a Paolo Uccello. Quanto alla datazione, gli studiosi sono divisi se collocarli subito prima o poco dopo il soggiorno veneziano.

Vasari riferisce che Paolo, oltre ad affrescare la prima e la quarta campata (v. oltre) del lato est, «lavorò nel medesimo chiostro sotto due storie di mano d’altri» (1568, 1971, p. 66); lo storiografo aretino si riferisce qui, forse, agli affreschi della seconda e della terza campata dello stesso lato, attribuibili a due diversi pittori non ancora identificati, ma che presentano alcuni elementi affini ai contigui dipinti di Paolo. Si può quindi supporre che il pittore ebbe un qualche ruolo anche nella decorazione di queste zone.

Sufficientemente circoscrivibile è invece la datazione degli affreschi della cappella dell’Assunta nel duomo di Prato raffiguranti Storie della Vergine e Storie di s. Stefano (Longhi, 1940, p. 179), ormai attribuiti concordemente a Paolo nonostante in passato siano sorte varie discussioni al riguardo, dato anche che questo lavoro non è mai attribuito al pittore nelle fonti quattro-cinquecentesche. Delle tre storie previste per ciascuna parete laterale, Paolo compì la Natività della Vergine e la Presentazione della Vergine al Tempio sulla destra. Nella lunetta sinistra dipinse la Disputa di s. Stefano, ma della scena sottostante, raffigurante la Lapidazione del santo, eseguì solamente la metà superiore con la veduta di una città portuale. I lavori si interruppero quindi bruscamente e dopo qualche tempo furono completati da Andrea di Giusto. Paolo eseguì inoltre Quattro Virtù nella volta e i Ss. Paolo, Francesco, Girolamo e Domenico nel sottarco di ingresso. Delle figure dipinte sulla parete di fondo si è conservato solo il Beato Jacopone da Todi, recuperato nel 1871 dietro l’altare seicentesco, staccato e oggi esposto nel Museo dell’Opera del duomo di Prato. L’insolita presenza del beato tuderte fornisce un termine post quem per l’esecuzione degli affreschi: nel gennaio del 1433, infatti, le sue reliquie furono ritrovate a Todi; l’evento ebbe vasta eco e fu celebrato nella Pasqua di quell’anno anche a Prato durante una delle popolarissime prediche di Bernardino da Siena. Un termine ante quem è invece fornito dalla figura del S. Francesco nel sottarco, citato da Andrea di Giusto nel Polittico dell’Assunzione della Vergine della Galleria dell’Accademia di Firenze, datato 1437. Per via stilistica è inoltre possibile restringere ulteriormente questo arco di tempo e ipotizzare una datazione verso il 1433-34 della parte dipinta da Paolo.

Non sembrerebbero essere validi altri elementi adottati in passato per definire la cronologia degli affreschi della cappella dell’Assunta, come evidenziato dagli studi svolti nel catalogo di una recente mostra pratese (Da Donatello a Lippi, 2013), in occasione della quale è stata raccolta buona parte delle opere giovanili e della prima maturità di Paolo. Tra di esse è l’inedita Madonna col Bambino della collezione Alana (Newark, DE; De Marchi, ibid., pp. 116 s.), riferibile agli stessi anni in cui Paolo fu attivo a Prato. Si tratta del frammento di un paliotto, come dimostrano l’orizzontalità delle assi che compongono la tavola e le decorazioni dietro alla Madonna che simulano una stoffa. Al periodo pratese è stato riferito anche il Cristo portacroce della Pinacoteca Stuard di Parma, la cui attribuzione a Paolo Uccello risulta però meno convincente di quella ad Alesso Baldovinetti proposta da Parronchi (1974, pp. 60 s.).

Sembrerebbero riferibili allo stesso periodo o poco dopo, verso la metà degli anni Trenta, la predella proveniente da S. Bartolomeo a Quarate, vicino a Firenze, con l’Adorazione dei magi tra S. Giovanni a Patmos e i Ss. Giacomo Maggiore e Ansano inginocchiati (Firenze, Museo diocesano di S. Stefano al Ponte; Marangoni, 1931-1932) e l’Adorazione del Bambino con i ss. Girolamo, Maria Maddalena e Eustachio della Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe (Loeser, 1898, pp. 89 s.).

Le due tavole, insieme agli affreschi di Prato, furono le opere eponime intorno alle quali vennero enucleati tre gruppi di dipinti, ritenuti di supposti allievi o seguaci di Paolo Uccello: il Maestro di Karlsruhe (Pudelko, 1935 ), il Maestro di Quarate (Salmi, 1934-1935, pp. 20 s.) e il Maestro di Prato (Pope-Hennessy, 1950). Si tratta in realtà di lavori in buona parte eseguiti da Paolo stesso, per lo più in giovinezza o nella prima maturità. Tali raggruppamenti, costituiti spesso dalle medesime opere, hanno avuto una certa fortuna nella letteratura sul pittore a partire dagli anni Trenta del Novecento, anche fino a tempi piuttosto recenti. Ormai si possono ritenere del tutto superati, soprattutto a partire dall’intervento di Carlo Volpe del 1980 che ha contribuito considerevolmente a fare chiarezza sui primi due-tre decenni di attività del pittore.

Agli stessi anni del ciclo pratese dovrebbero appartenere il citato frammento delle Storie di s. Francesco in S. Trinita a Firenze, il Ritratto di giovane di profilo del Museum of Art di Indianapolis (Volpe, 1980, p. 16), mentre leggermente più tarda è la Madonna col Bambino con s. Francesco dell’Art Museum di Allentown, PA (Ragghianti, 1938, pp. XXIV s.).

Nel corso degli anni Trenta Paolo, partendo da uno stile debitore della cultura di Ghiberti in primis, ma anche dei modi di Masaccio e dell’Angelico, affinò sempre di più le competenze prospettiche e la propensione per la monumentalità delle figure e per un realismo di matrice donatelliana. Elementi rinascimentali, questi, che però convissero sempre con nostalgie per il mondo tardogotico nel quale si era formato. Tra i più celebri esiti di questo percorso, che portò Paolo a diventare, in una maniera del tutto personale ed eccentrica, uno dei più importanti esponenti del primo Umanesimo figurativo, è il Monumento a Giovanni Acuto, ovverosia John Hawkwood, capitano di ventura inglese che, durante la guerra contro la Milano viscontea, fu al comando delle truppe fiorentine fino alla morte, a Firenze, nel 1394. Il grande affresco, realizzato in terra verde per simulare un monumento bronzeo, è la prima opera firmata da Paolo e segna l’inizio della sua attività nella cattedrale, per la quale lavorò in più occasioni negli anni seguenti.

Il dipinto sostituiva un altro affresco eseguito nel 1395 da Agnolo Gaddi e da Giuliano d’Arrigo detto il Pesello, alla cui composizione dovette ispirarsi la nuova versione. Il concorso fu deliberato nel 1433 e l’opera realizzata speditamente tra il 30 maggio 1436 – data in cui Paolo fu incaricato – e il pagamento alla definitiva conclusione dei lavori nel 31 agosto dello stesso anno, il giorno dopo l’inaugurazione della cupola di Brunelleschi. Il 28 giugno, però, gli operai del duomo fiorentino avevano ordinato che l’affresco appena realizzato da Paolo venisse distrutto e rifatto completamente. Non è noto il perché di questa richiesta, ma si può ipotizzare che alla fine, dato anche il poco tempo a disposizione, il pittore abbia apportato solamente alcune modifiche alla sua opera, come sembrerebbe suggerire anche lo studio del disegno preparatorio per il monumento (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi). Per inciso, si tratta di uno dei pochi disegni di Paolo Uccello unanimemente considerati autografi, benché l’attività grafica del pittore sia stata intensa, tanto che i suoi nipoti raccontarono a Vasari che Paolo «lasciò a’ suoi parenti […] le casse piene di disegni» (1568, 1971, p. 70; sui disegni di Paolo Uccello cfr. Melli, 1998, e Hudson, 2008, pp. 299-302, 318-324).

Più o meno in questo periodo Paolo affrescò la frammentaria Adorazione del Bambino di S. Martino Maggiore a Bologna (Volpe, 1980), che reca sull’intonaco la data «143[…]».

L’ultima cifra sembrerebbe interpretabile come un 1, un 2 o un 7. Parte degli studiosi, considerando lo stile monumentale dell’affresco, più vicino al Monumento all’Acuto che ai dipinti dell’inizio del decennio, ha privilegiato l’ultima opzione di lettura, 1437. Altri hanno assunto questa data come termine ante quem per l’affresco bolognese, che comunque per motivi stilistici non pare collocabile prima del 1435 circa. L’opera – di cui è ignoto il committente – è stata riscoperta nel corso di alcuni lavori nell’attuale sagrestia della chiesa, restaurata tra il 1978 e il 1980 e trasferita nella cappella Marescotti dove si trova tutt’oggi.

Verso la fine degli anni Trenta Paolo eseguì il suo lavoro più conosciuto, la Battaglia di San Romano, a coronamento del percorso svolto in questo decennio per lui decisivo. Parallelamente Domenico Veneziano, affiancato dal giovane Piero della Francesca, iniziava nel 1439 ad affrescare il coro della chiesa fiorentina di S. Egidio: il perduto ciclo con Storie di Maria dovette rappresentare un’opera di grande importanza nel panorama artistico del periodo, fiorentino e non, ed essere una sorta di manifesto di quella ‘pittura di luce’ nitida e colorata, ordinata prospetticamente, che nel Paolo Uccello delle Battaglie ebbe uno dei suoi principali interpreti.

Denominata Rotta di San Romano nei documenti più antichi, l’opera è costituita da una serie di tre grandi tavole divisa tra la National Gallery di Londra, gli Uffizi di Firenze e il Louvre di Parigi. Vi si celebra lo scontro che avvenne il 1° luglio 1432 nell’ambito della cosiddetta guerra di Lucca, durante il quale le truppe fiorentine e veneziane ebbero la meglio su quelle senesi, imperiali, milanesi, lucchesi e genovesi. Nell’episodio di Londra Niccolò Mauruzi da Tolentino guida la coalizione fiorentina; il secondo agli Uffizi si ritiene tradizionalmente che raffiguri il Disarcionamento di Bernardino Ubaldini della Carda (e non Ciarda, come è indicato spesso), uno dei capitani delle truppe della coalizione senese. Infine, nella tavola di Parigi, si assiste al Contrattacco di Micheletto Attendolo da Cotignola, comandante in seconda dell’esercito vincitore.

Solo di recente è stato appurato che la Battaglia di San Romano non fu commissionata dai Medici, ma da un esponente della famiglia fiorentina dei Bartolini Salimbeni (Caglioti, 2001). Il personaggio in questione può essere identificato con Lionardo di Bartolomeo, che forse richiese le tavole in occasione del suo secondo matrimonio nel 1438, nello stesso periodo in cui si svolse la seconda fase della guerra di Lucca, durante la quale ricoprì un importante ruolo politico. Il ciclo della Battaglia di San Romano fu eseguito per il palazzo di Porta Rossa (vicino a S. Trinita) ed ereditato nel 1479 dai figli di Lionardo, Andrea e Damiano, dai quali Lorenzo il Magnifico riuscì a ottenerlo per trasferirlo nel palazzo di via Larga (odierno palazzo Medici-Riccardi). Subito dopo questo spostamento le tavole, originariamente centinate per essere inserite in un ambiente voltato, furono decurtate della parte superiore e riquadrate agli angoli alti per essere esposte nella «camera grande terrena» della residenza medicea, dove sono ricordate nell’inventario redatto alla morte di Lorenzo nel 1492. Nello stesso palazzo Vasari (1568, 1971, p. 65) vide altre opere di Paolo Uccello: una Battaglia tra draghi e leoni e una Storia di Paride, oggi perdute. L’inventario del 1492 le descrive nella stessa sala e delle medesime dimensioni della serie della Battaglia di San Romano.

Per gli stessi Bartolini Salimbeni il pittore eseguì altre «quattro storie in legname piene di guerre» (ibid., p. 69), che al tempo di Vasari erano state portate nella cinquecentesca villa della famiglia in via Valfonda (già Gualfonda), forse anch’esse provenienti dal palazzo di Porta Rossa. I Medici potrebbero invece aver avuto un qualche ruolo nella più modesta commissione del disegno per la «chortina», ossia il tendaggio, per l’altare maggiore della basilica di S. Lorenzo che, secondo i documenti, il pittore eseguì nel 1438. Di questo periodo (1437) sono anche i pagamenti per un S. Zanobi e una Pietà, distrutti, che Paolo dipinse per il già citato spedale di Lelmo. Altri due lavori fiorentini andati perduti, riferiti fin dalle fonti cinquecentesche a Paolo, sono il «dossale di san Cosimo e Damiano» per la cappella di S. Girolamo di patronato dei del Pugliese nella basilica del Carmine e gli affreschi della volta dell’arco dei Peruzzi, decorata dalla raffigurazione dei Quattro elementi in forma di animali (Vasari, 1568, 1971, pp. 65, 69 s.).

Tra le opere conservate sono probabilmente riferibili più o meno a questo periodo, verso il 1440 circa, la Madonna col Bambino della National Gallery of Ireland di Dublino (Pudelko, 1936) e la frammentaria tavola con S. Monica (?) e due fanciulli della Galleria degli Uffizi di Firenze (ibid., p. 133), un tempo parte di una Sacra Conversazione, tra le più antiche rappresentate in ambiente unificato.

Nella portata al Catasto dell’agosto 1442 Paolo dichiarava di pagare – non si sa da quando – l’affitto per una bottega in via delle Terme. Oltre a essere in una zona di Firenze dove diversi artisti avevano i loro laboratori, si trovava assai vicino – e forse non è un caso – al palazzo di Porta Rossa dei Bartolini Salimbeni. Nella successiva portata del 1458 la bottega è indicata in piazza S. Giovanni, dove il pittore potrebbe essersi trasferito poco dopo l’estate del 1442, data la frequenza con la quale lavorò nella cattedrale a partire dall’anno successivo. Nell’ultima denuncia al Catasto, presentata nel 1469, non è indicata alcuna bottega.

Nel 1443 realizzò il grande Quadrante (o Mostra) dell’orologio nella controfacciata della cattedrale fiorentina, affrescando agli angoli, entro tondi scorciati prospetticamente, quattro possenti teste nimbate che gli studiosi hanno variamente interpretato come Evangelisti o Profeti. Per l’esecuzione di queste figure fu probabilmente ricompensato con un primo pagamento datato 22 febbraio. Nel documento si fa riferimento a lavori all’«oriuolo», senza precisare quale parte fu compiuta da Paolo, mentre nel secondo e conclusivo pagamento del 2 aprile si specifica che eseguì la doratura della lancetta bronzea e che stese il colore azzurro dello sfondo.

Tra il 21 febbraio 1443 e il 28 gennaio 1445 ricevette i pagamenti per eseguire i cartoni e collaborare con i maestri vetrai alla realizzazione di tre vetrate degli oculi del tamburo della cupola brunelleschiana: la Natività e la Resurrezione sono ancora in loco, mentre dell’aspetto dell’Annunciazione, distrutta da un fulmine nell’Ottocento, non si conserva alcuna testimonianza.

Dopo diversi anni Paolo tornò a collaborare con gli stessi maestri: nella portata del 1458 è infatti indicato un credito piuttosto consistente nei confronti di Bernardo di Francesco «et conpagnj che fanno le finestre del vetro ala Piazza di Santto Giovannj […] per dipintura di finestre glj dipinssi nel’ano 1456». Per l’Opera del duomo lavorò ancora nel 1453, dipingendo una perduta figura del Beato Andrea Corsini per la Biblioteca della cattedrale, pagata il 30 giugno di quell’anno. Su commissione dell’Arte di Calimala è invece documentato nel 1450 circa intento a eseguire un «Tabernacolo di San Giovanni e di NS. [Nostro Signore o Nostra Signora]», anch’esso perduto, che probabilmente si trovava nei pressi del battistero, di cui la corporazione dei mercanti aveva il patronato.

Intorno al 1445 circa, subito dopo i lavori per il duomo, è generalmente collocato il soggiorno di Paolo a Padova, città in cui – stando a Vasari (1568, 1971, p. 69) – fu chiamato grazie a Donatello, lì presente dal 1443. L’imponenza statuaria delle grandi teste del Quadrante della cattedrale fiorentina, enfatizzata dalla loro presentazione di sottinsù, caratterizzava probabilmente anche le perdute figure di Giganti che Paolo eseguì in terra verde nel cortile di Casa Vitaliani a Padova.

Questi affreschi, perduti, ebbero un qualche ruolo nello sviluppo della pittura veneta e, secondo la testimonianza dell’umanista padovano Girolamo Campagnola, erano «tanto belli che Andrea Mantegna ne faceva grandissimo conto» (cit. da Vasari, 1568, 1971, p. 69). Mantegna sembrerebbe poi aver avuto presente anche l’Ebbrezza di Noè del Chiostro Verde quando dipinse il pergolato in forma di griglia prospettica in uno dei brani superstiti degli affreschi della cappella Ovetari.

Verso la seconda metà del quinto decennio dovrebbero essere stati affrescati il Diluvio Universale e recessione delle acque e il Sacrificio e l’ebbrezza di Noè nella quarta campata del lato est del Chiostro Verde, esito ultimo, libero e immaginifico, della fase più monumentale e prospettica di Paolo, in parallelo con le ampie e drammatiche composizioni che l’amico Donato andava ideando a Padova. Secondo Vasari (1568, 1971, pp. 66-68), che riserva a questi affreschi moltissimo spazio e ampie lodi, Paolo avrebbe ritratto Dello Delli come Cam nell’Ebbrezza di Noè. Dato che l’amico artista, partito per la Spagna nel 1433, ritornò a Firenze solo nel 1446, una larga parte degli studiosi ha ritenuto di collocare l’opera intorno a quest’ultima data o poco dopo; altri hanno lecitamente obiettato che lo storiografo potrebbe essersi sbagliato, ma la corrispondenza tra la data del ritorno di Dello e lo stile dell’opera suggerisce – in mancanza di indizi più sicuri – di non scartare quest’indicazione. Allo stesso periodo risale probabilmente anche la lunetta dipinta proveniente dal chiostro dell’ex ospedale di S. Martino in via della Scala raffigurante la Natività (Paatz, 1934), oggi nei depositi della Galleria degli Uffizi di Firenze. L’affresco, molto rovinato, è eseguito ancora in terra verde, con alcune zone colorate diversamente per rompere la monocromia. Con i dipinti appena citati del Chiostro Verde, la Natività – d’altra parte – non ha in comune solo la tecnica d’esecuzione, ma anche le vertiginose prospettive multifocali e la grandiosità dei personaggi.

Nel 1450 circa Paolo, ormai superati i cinquant’anni di età, sposò Tommasa di Benedetto Malifici (o Malefici), allora più o meno diciassettenne (vedi la portata del 1458). Dal matrimonio nacquero due figli, ai quali furono dati, come spesso accadeva, i nomi dei nonni paterni: Donato e Antonia. Entrambi pittori, furono battezzati rispettivamente il 1° novembre 1451 e il 13 ottobre 1456. Donato accompagnò il padre a Urbino e probabilmente lo aiutò nei lavori di bottega durante il suo ultimo decennio di vita; morì a Firenze nel 1497 (Boeck, 1939, p. 108). Antonia lasciò la casa paterna prima del 1469, dato che nella portata di quell’anno non risulta più far parte del nucleo familiare. Divenne presto suora carmelitana e si spense nella città natale nel 1491, venendo definita «pittoressa» nel Registro dei morti che ne riporta il decesso (ibid., p. 107).

Alcuni studiosi hanno tentato di individuare opere dipinte dai due figli di Paolo, ma nessuna delle proposte avanzate finora è risultata pienamente fondata. Alcune versioni della Madonna col Bambino (Berlino, Bode Museum; Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, già Parigi, collezione Hamilton; Prato, collezione privata; Raleigh, The North Carolina Museum of art; cfr. Hudson, 2008, pp. 303-308), che mostrano un’indubbia vicinanza allo stile di Paolo Uccello, sono state variamente attribuite a lui stesso, alla sua bottega, al Maestro di Karlsruhe, al figlio Donato o alla figlia Antonia. Tra di esse, il dipinto già in collezione Hamilton a Parigi mostra più degli altri un’individualità artistica, derivante ma autonoma rispetto a quella di Paolo. Potrebbe quindi essere la testimonianza dello stile di un suo figlio o comunque di un suo allievo. Le altre non sembrerebbero distanziarsi altrettanto dai modi dell’artista (per esempio la Madonna del Getty Museum è vicina allo stile della predella di Urbino); al di là di chi le dipinse materialmente, sembrerebbero quindi da considerare uscite dalla bottega di Paolo Uccello, ideate e forse in parte eseguite dal pittore stesso. Sono inoltre stati variamente riferiti alla sua bottega, a lui stesso e – dubitativamente – al figlio Donato, anche alcuni pannelli per cassone (Kanter, 2000; De Marchi, 2007, p. 407).

A partire dalla metà del Quattrocento circa la produzione di Paolo iniziò a rarefarsi. Il pittore tese sempre di più a concentrarsi su dipinti di piccolo formato, nei quali si riscontra un graduale attenuarsi delle preoccupazioni spaziali e prospettiche, della rigorosa monumentalità, del rilievo plastico delle forme e dell’aspetto realistico delle figure. Lo stile del pittore sembra così indirizzarsi progressivamente verso un parziale recupero dei modi tardogotici.

La predella dell’oratorio della Confraternita della Ss. Annunziata di Avane (Cavriglia, Arezzo), attualmente esposta nel Museo di S. Marco a Firenze (Longhi, 1940, p. 179), è in buona parte occupata da un’iscrizione in lettere capitali rosse su fondo oro, che ne attesta l’esecuzione nel 1452 su commissione di tale Antonio di Pietro del Golia. In questa, che è l’unica opera datata di Paolo Uccello, sono raffigurati il Vir dolorum tra la Madonna e s. Giovanni Evangelista dolenti, entro tre tondi. La predella era un tempo sovrastata da un’Annunciazione, rubata nel 1897, di cui non si conservano riproduzioni.

Di pochi anni successivo è il trittichetto portatile raffigurante la Crocifissione tra santi e una suora brigidina inginocchiata del Metropolitan Museum of art di New York (Boskovits, 1990, p. 178 n. 21). Grazie a un’iscrizione sul dipinto, che individua la donatrice in suor Felicita, è stato possibile ipotizzare per l’opera una datazione verso il 1455, data dell’ingresso di Felicita di Francesco Casavecchia nel monastero di S. Brigida del Paradiso di Bagno a Ripoli, vicino a Firenze (M. Mazzalupi, lettera al Metropolitan Museum del 10 ottobre 2013; cfr.: http://www.metmuseum.org/ collection/the-collection-online/search/ 438028). Sono poi concordemente riferite alla tarda attività di Paolo la Crocifissione tra la Madonna e i ss. Giovanni Battista, Giovanni Evangelista e Francesco del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid (van Marle, 1928) e il S. Giorgio e il drago della National Gallery di Londra (Loeser, 1898, pp. 88 s.). Le due pitture, rispettivamente su tavola e su tela, furono forse eseguite nella seconda metà degli anni Cinquanta, ma nella letteratura su di esse si leggono anche proposte di datazioni successive.

Nel 1461 (cfr. Venturini, 2005) Paolo eseguì la sua ultima impresa di grande respiro conservata, anche se in modo assai frammentario, nel chiostro superiore di S. Miniato al Monte a Firenze: il lunare ciclo con Storie dei santi Padri. Il pittore fu criticato per la tecnica esecutiva degli affreschi, con figure e qualche altro particolare in terra verde, e il resto realizzato con una selezionata e irrealistica scelta di colori, perché «non osservò molto l’unione di fare d’un solo colore, come si deono, le storie, perché fece i campi azzurri, le città di color rosso e gli edifici variati secondo che gli parve» (Vasari, 1568, 1971, p. 64).

Da rilevare che Paolo lavorò spesso per congregazioni benedettine: oltre ai già citati cicli pittorici per la chiesa vallombrosana di S. Trinita e per il monastero olivetano di S. Miniato al Monte, affrescò in terra verde le Storie di s. Benedetto in un chiostro del monastero camaldolese di S. Maria degli Angeli a Firenze; di quest’ultimo ciclo, perduto, assai apprezzato da Vasari (1568, 1971, pp. 68 s.), non si conosce la data di esecuzione. Ancora per gli olivetani fiorentini dipinse una Crocifissione nel refettorio di S. Miniato, assistito da tale Antonio di Papi. In uno dei vari pagamenti per quest’opera ormai scomparsa, che si succedettero dall’ottobre del 1454 all’aprile del 1455, interessante è l’accenno a pitture che Paolo fece a olio, probabilmente per la rifinitura dell’affresco, a testimonianza dell’impiego di una tecnica a quel tempo forse più diffusa di quanto non si pensi, ma anche dello spirito sperimentatore del pittore.

Tra il febbraio del 1467 e l’ottobre del 1469 una serie di pagamenti a Paolo e a suo figlio Donato da parte della Compagnia del Corpus Domini attesta la loro presenza a Urbino, dove dipinsero la predella raffigurante i sei episodi del Miracolo dell’Ostia profanata (Urbino, Galleria nazionale delle Marche; Crowe - Cavalcaselle, 1864, pp. 297 s.); scomparto maggiore dell’opera, eseguita per l’altare della Compagnia urbinate, era l’imponente pala con Comunione degli apostoli, terminata poi da Giusto di Gand nel 1474 (Urbino, Galleria nazionale delle Marche).

La permanenza di Paolo nelle Marche non fu continuativa, dato che nell’agosto del 1469 era a Firenze per presentare la sua ultima portata al Catasto, dove sosteneva di essere «vecchio e senza inviamento e no[n] posso esercitare». Tali dichiarazioni, tuttavia, furono probabilmente effettuate nella speranza di ottenere uno sconto sulle tasse. La sua attività, pur ridimensionata, non si era interrotta: lo dimostra la causa che condusse contro il legnaiolo Domenico del Tasso nel 1474, per riscuotere del denaro dovuto «per quadri dui dipinti, a lui venduti e dati» evidentemente dopo il 1469, dato che nella portata di quest’anno non vi è alcun accenno a tale debito. Il pittore allora non aveva più una bottega, ma probabilmente continuava a esercitare il mestiere nella sua casa di via della Scala, assistito dal figlio Donato.

Negli ultimi anni si dedicò spesso all’esecuzione di opere di dimensioni ridotte per l’arredamento domestico.

Per Jacopo e Giovanni Lanfredini dipinse una non meglio specificata «tavola» tra il 1451 e il 1452, e Giovanni Rucellai, nel suo Zibaldone (1457-81, 2013, p. 158), lo ricorda come uno degli autori «di pitura e di tarsie e comessi» che egli aveva nel palazzo di famiglia. Vasari, poi, testimoniava che «in molte case di Firenze sono assai quadri in prospettiva per vani di lettucci, letti et altre cose piccole» eseguiti da Paolo Uccello (1568, 1971, p. 69). Lo storiografo sembrerebbe qui riferirsi in particolare a tarsie lignee, e in effetti, anche se non si conoscono opere del genere su disegno di Paolo, è probabile che fosse impegnato anche su questo fronte. Già a Venezia, al tempo in cui era definito maestro di mosaico, aveva probabilmente fornito cartoni per tarsie marmoree. Vasari stesso, poi, nella vita di Benedetto da Maiano, ricorda che «per li modi di Paolo Uccello e di Filippo Brunelleschi s’era dato in Fiorenza fortemente opera alle cose di legno commesse in prospettiva» (ibid., p. 523). D’altra parte la progettazione di tarsie parrebbe uno sbocco naturale della sua passione per la prospettiva. Quando Paolo mostrò a Donatello i suoi disegni con complesse forme tirate in prospettiva, lo scultore – riferisce Vasari – commentò sprezzante che «queste son cose che non servono se non a questi che fanno le tarsie» (ibid., p. 63). Certo una frase del genere non sarebbe uscita dalla bocca di Brunelleschi, che nel periodo in cui Paolo lavorò assiduamente per il duomo (forse anche grazie a lui) pare strano che non gli avesse mai chiesto di eseguire progetti per lavori prospettici, in marmo o in legno.

Tra le opere di destinazione domestica Paolo dovette dipingere certamente diversi ritratti, ma dei tanti che gli sono stati attribuiti (cfr. Hudson, 2008, pp. 325-339) solo quello già citato di Indianapolis è opera sua. Inoltre, dalla bottega del pittore uscirono numerose anconette per la devozione privata, dipinte da lui o con l’aiuto più o meno consistente dei collaboratori, e alcuni pannelli per cassone, nessuno dei quali sembrerebbe però riferibile direttamente alla sua mano.

Due tra le ultime opere di Paolo, concordemente assegnate al periodo tardo, probabilmente erano dei pannelli per spalliera. Il S. Giorgio e il drago del Museo Jacquemart-André di Parigi (Loeser, 1898, p. 89) viene identificato con una tavola raffigurante lo stesso soggetto e inserita in una cornice intagliata, che fu dipinta per Lorenzo di Matteo Morelli nel 1465. La proposta – generalmente accettata negli studi recenti – resta plausibile ma, anche in considerazione di alcune incongruenze dimensionali, è allo stato attuale da accogliere con prudenza. A suo favore è lo stile ‘neoprimitivo’ dell’opera, tipico del tardo Paolo Uccello e che quindi ben si adatta alla data della tavola ricordata nei documenti. Quasi certamente fu parte di una spalliera anche uno dei dipinti più celebri e affascinanti di Paolo, la Caccia nella foresta (o Caccia notturna) dell’Ashmolean Museum di Oxford (Berenson, 1896, p. 129). L’opera è generalmente datata nella fase estrema della sua carriera, verso il 1470 circa e verrebbe la tentazione di proporne l’identificazione con uno dei lavori richiesti da Domenico del Tasso. La cifra indicata nel relativo documento, 3 fiorini larghi per due dipinti, è però un po’ troppo bassa per un’opera impegnativa come la Caccia. Perciò, a meno che non ci si riferisse a un pagamento parziale, è più probabile che si trattasse di quadri più semplici, magari raffiguranti prospettive. Va detto, inoltre, che per questa tavola sono state proposte anche datazioni nel sesto decennio e la provenienza dalla corte urbinate di Federico da Montefeltro.

Sono infine generalmente riferite alla tarda attività di Paolo, non senza significative eccezioni, la cosiddetta Tebaide (Via di perfezione) della Galleria dell’Accademia di Firenze (Boeck, 1931), forse una delle opere più prossime alla predella di Urbino. Il dipinto, eseguito su tela come il S. Giorgio di Londra, è giunto alle Gallerie fiorentine dal monastero di S. Giorgio alla Costa a Firenze, ma è più probabile che in origine fosse destinato alla Compagnia (o ‘Buca’) di S. Girolamo, Confraternita di flagellanti che nel Quattrocento si riuniva in S. Giorgio e della quale Paolo era stato membro nel 1438.

L’ultima opera di Paolo fu, secondo Vasari (1568, 1971, pp. 70 s.), l’Incredulità di s. Tommaso, dipinta sulla facciata della chiesa dedicata all’apostolo nel mercato Vecchio di Firenze, demolito alla fine dell’Ottocento.

L’11 novembre 1475 Paolo dettò un secondo testamento dove nominò suo erede universale il figlio Donato ed espresse la volontà di essere tumulato nella tomba paterna in S. Spirito.

Morì a Firenze verso il 12 dicembre 1475, giorno in cui fu sepolto secondo i suoi desideri nella basilica fiorentina.

Fonti e Bibl.: La vasta letteratura dedicata a Paolo Uccello rende necessaria una consistente selezione delle voci bibliografiche a lui riferibili. Per i documenti riguardanti il pittore si vedano i seguenti regesti, nei quali sono indicati ulteriori rimandi bibliografici: Boeck, 1939, pp. 94-109; Jacobsen, 2001; Hudson, 2008, pp. 371-396. Il riferimento per i documenti citati nel testo è a quest’ultima voce, alla quale si rimanda anche per la bibliografia specifica completa sulle singole opere, sia quelle conservate sia quelle andate distrutte o di cui si sono perse le tracce. Le voci bibliografiche che seguono la prima citazione di ciascuna opera si riferiscono alla prima volta in cui ne è stata proposta l’attribuzione a Paolo Uccello. Quando il nome del pittore è testimoniato nei documenti o il riferimento è unanimemente accettato fin dalle fonti quattro-cinquecentesche non si è inserita alcuna indicazione bibliografica. Per fonti antiche, monografie, cataloghi e saggi su aspetti particolari o su argomenti specifici, si segnalano in particolare: B. Rucellai, Zibaldone (1457-1481), a cura di G. Battista, Firenze 2013; A. Averlino, detto il Filarete, Trattato di architettura (1460-64 circa), a cura di A.M. Finoli - L. Grassi, I, Milano 1972, p. 285; C. Landino, Comento… sopra la Comedia di Dante Alighieri poeta fiorentino (1481), in Scritti critici e teorici, a cura di R. Cardini, I, Roma 1974, p. 124; Il libro di Antonio Billi (1506-30 circa), a cura di C. von Fabriczy, Firenze 1891, p. 32; Il Codice Magliabechiano (1537-42 circa), a cura di C. Frey, Berlin 1892, pp. 99-100; G. Vasari, Le vite… (1550 e 1568), a cura di R. Bettarini - P. Barocchi, II, Testo, Firenze 1967, p. 268, III, Testo, 1971, pp. 61-72, 101, 123, 523.

J.A. Crowe - G.B. Cavalcaselle, A new history of painting in Italy, II, London 1864, pp. 283-301 (ed. it., V, Firenze 1892, pp. 19-65); B. Berenson, The Florentine painters of the Renaissance, with an index to their works, London - New York 1896, pp. 129 s.; C. Loeser, P. Uccello, in Repertorium fur Kunstwissenschaft, XXI (1898), pp. 83-94; R. Longhi, Ricerche su Giovanni di Francesco (1928), in Id., Opere complete, IV, Firenze 1968, pp. 21-36; R. van Marle, Eine Kreuzigung von P. Uccello, in Pantheon, I (1928), p. 242; W. Boeck, Ein Frühwerk von P. Uccello, in Pantheon, VIII (1931), pp. 276-281; M. Marangoni, Una predella di P. Uccello, in Dedalo, XII (1932), pp. 329-346; G. Poggi, P. Uccello e l’orologio di S. Maria del Fiore, in Miscellanea di storia dell’arte in onore di Igino Benvenuto Supino, a cura della Rivista d’arte, Firenze, 1933, pp. 323-336; W. Paatz, Una Natività di P. Uccello e alcune considerazioni sull’arte del maestro, in Rivista d’arte, XVI (1934), pp. 111-148; G. Pudelko, The early works of P. Uccello, in The Art Bulletin, XVI (1934), pp. 231-259; M. Salmi, Paolo Uccello, Domenico Veneziano, Piero della Francesca e gli affreschi del Duomo di Prato, in Bollettino d’arte, s. 3, XXVIII (1934-1935), pp. 1-27; G. Pudelko, Der Meister der Anbetung in Karlsruhe, ein Schüler P. Uccellos, in Adolph Goldschmidt zu seinem siebenzigsten Geburtstag, Berlin 1935, pp. 123-130; Id., An unknown Holy Virgin panel by P. Uccello, in Art in America, XXIV (1936), pp. 127-134; C. Ragghianti, Intorno a Filippo Lippi, in La Critica d’arte, III (1938), pp. XXII-XXV; W. Boeck, P. Uccello. Der Florentiner Meister und sein Werk, Berlin 1939; R. Longhi, Fatti di Masolino e di Masaccio, in La Critica d’arte, V (1940), 25-26, pp. 179 s.; J. Pope-Hennessy, The complete work of P. Uccello, London 1950 (London-New York 19692); M. Muraro, L’esperienza veneziana di P. Uccello, in Venezia e l’Europa. Atti del XVIII Congresso internazionale di storia dell’arte… 1955, Venezia 1956, pp. 196-199; E. Sindona, P. Uccello, Milano 1957; A. Parronchi, Probabili aggiunte a Dello Delli scultore, in Cronache di archeologia e di storia dell’arte, VIII (1969), p. 104; E. Flaiano - L. Tongiorgi Tomasi, L’opera completa di P. Uccello, Milano 1971; A. Parronchi, P. Uccello, Bologna 1974; C. Volpe, P. Uccello a Bologna, in Paragone, XXXI (1980), 365, pp. 3-28; M. Boskovits (in collab. con S. Padovani), Early Italian painting 1290-1470: the Thyssen-Bornemisza Collection, Stuttgart 1990, pp. 170-178; Pittura di luce. Giovanni di Francesco e l’arte fiorentina di metà Quattrocento (catal., Firenze), a cura di L. Bellosi, Milano 1990 (con contributi su P. Uccello di L. Bellosi, A. Angelini); A. Padoa Rizzo, P. Uccello. Catalogo completo, Firenze 1991; M. Boskovits, in The Martello collection: further paintings, drawings and miniatures 13th-18th century, a cura di M. Boskovits, Firenze 1992, pp. 140-143; L. Melli, Nuove indagini sui disegni di P. Uccello agli Uffizi: disegno sottostante, tecnica, funzione, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, XLII (1998), pp. 1-39; L.B. Kanter, The ‘cose piccole’ of P. Uccello, in Apollo, CLII (2000), pp. 11-20; F. Caglioti, Nouveautés sur la “Bataille de San Romano” de P. Uccello, in Revue du Louvre, LI (2001), 4, pp. 37-54; W. Jacobsen, Die Maler von Florenz zu Beginn der Renaissance, München 2001, pp. 612-614; Masaccio e le origini del Rinascimento (catal., San Giovanni Valdarno), a cura di L. Bellosi (con la collab. di L. Cavazzini e A. Galli), Milano 2002 (con contributi su P. Uccello di L. Bellosi, M. Boskovits, A. Angelini, L. Melli); L. Venturini, P. Uccello nel chiostro di S. Miniato al Monte, in Paragone, s. 3, LVI (2005), 59, pp. 3-13; A. De Marchi, in Fascino del bello. Opere d’arte dalla collezione Terruzzi (catal., Roma), a cura di A. Scarpa - M. Lupo, Milano 2007, p. 407; H. Hudson, P. Uccello. Artist of the Florentine Renaissance Republic, Saarbrücken 2008; Da Donatello a Lippi. Officina pratese (catal., Prato 2013-14), a cura di A. De Marchi - C. Gnoni Mavarelli, Milano 2013 (con contributi su P. Uccello di A. De Marchi, M. Mazzalupi, M. Medica); Officina pratese: tecnica, stile, storia. Atti del Convegno…, Prato… 2013, a cura di P. Benassai - M. Ciatti - A. De Marchi - C. Gnoni Mavarelli, I. Lapi Ballerini, Firenze in corso di stampa.

CATEGORIE
TAG

Niccolò mauruzi da tolentino

Metropolitan museum of art

Assunzione della vergine

Federico da montefeltro

Galleria degli uffizi