Giovio, Paolo

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Giovio, Paolo

Lara Michelacci

Storico e letterato, nato a Como nel 1486 e morto a Firenze nel 1552. Deve la sua fama alle Historiae sui temporis e alla straordinaria collezione di ritratti, conservata presso la villa-museo di Como. Dopo aver studiato medicina tra Padova e Pavia, e aver completato gli studi sotto la direzione di Marco Antonio della Torre, G. si volse alla storiografia. A Roma dal 1512, si legò al cardinale Giulio de’ Medici, poi papa Clemente VII; fu nominato vescovo di Nocera dei Pagani nel 1527. Una curiosità intellettuale insaziabile lo portò a comporre trattati di varia erudizione, tra cui il De romanis piscibus (1524) e il De optima victus ratione (1527), e, più tardi, il famoso Dialogo delle imprese (1555). A Roma G. visse la devastazione del sacco del 1527; dopo essere rimasto due mesi a Castel Sant’Angelo con il papa, fuggì a Ischia presso Vittoria Colonna e il suo entourage. Lì compose il Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus, «un documento fondamentale nella storiografia letteraria italiana del Cinquecento» (Dionisotti 1980, p. 413). Nel 1530 fu testimone dell’incoronazione di Carlo V a Bologna; per sollecitare un nuovo progetto di crociata, scrisse il Commentario de le cose de’ Turchi (1531), in cui dimostrò di saper valutare l’impatto del Vicino Oriente sulla politica europea. Dopo la morte di Clemente VII (1534) e del cardinale Ippolito de’ Medici (1535), G. trovò un nuovo punto di riferimento nel cardinale Alessandro Farnese, che lo avviò all’attività diplomatica e con il quale discusse a più riprese un progetto per la libertas Italiae fondato su un’alleanza tra il papa e l’imperatore. Del resto, l’esplicita difesa della politica imperiale e un sostanziale disinteresse nei processi di riforma della Chiesa, dimostrato anche con il rifiuto di partecipare alle sedute del Concilio di Trento, lo portarono ben presto allo scontro con Paolo III, che gli negò i benefici del vescovato di Como e di fatto lo costrinse a ritirarsi, nel 1549, nella sua casa sul Lario (cfr. P. Giovio, Scritti d’arte. Lessico ed ecfrasi, a cura di S. Maffei, 1999 e P. Giovio, La descrizione del Lario, a cura di F. Minonzio, 2007). L’anno successivo G. si spostò a Firenze alla corte del duca Cosimo, dove mise mano definitivamente alle Historiae. Il primo libro fu approntato per i tipi di Lorenzo Torrentino, che nel 1548 aveva già fatto uscire la Vita Leonis Decimi, ed era in commercio nel settembre del 1550, mentre la stampa del secondo volume era stata completata nella tarda estate del 1552, pochi mesi prima della morte di G. che avvenne nella notte tra l’11 e il 12 dicembre.

Negli anni Venti, al seguito del cardinale Giulio de’ Medici, G. ebbe occasione di prendere parte alla vita intellettuale fiorentina, e soprattutto alle riunioni degli Orti Oricellari. Tra quel gruppo di filosofi, storici, uomini politici e letterati, conobbe probabilmente M., allora impegnato nella stesura delle Istorie fiorentine (Dionisotti 1980, pp. 414 e 417, sulla scorta di Raimondi 1972, p. 235). Nel terzo libro del Dialogus de viris et foeminis, dove si rievocano gli anni fiorentini (cfr. Dialogo sugli uomini e le donne illustri del nostro tempo, a cura di F. Minonzio, 2011, p. 372) e il gruppo degli Orti, M. non viene nominato, probabilmente perché il ricordo della sua partecipazione poteva risultare imbarazzante (Price Zimmermann 1995, trad. it. 2012, p. 363 nota 13). Negli anni fiorentini G. si dedicò con particolare intensità alla scrittura delle Historiae e concluse i primi dieci libri, come si desume da una lettera al fratello scritta il 5 novembre 1520 (Price Zimmermann 1995, trad. it. 2012, p. 56). I temi storici erano argomento di discussione quotidiana negli Orti, e sulle riflessioni del De bello Italico di Bernardo Rucellai sembra convergere anche G., convinto (non diversamente da Francesco Guicciardini) che sotto la guida di Lorenzo de’ Medici l’Italia avesse goduto di una pace senza uguali spazzata via dalla folle disunione dei principi italiani, con il risultato di attirare le brame degli stranieri.

Le strade di G. e di M., a Firenze tra il 1520 e il 1522, dovevano essersi incrociate soprattutto perché proprio in quegli anni il cardinale Giulio de’ Medici era diventato il patrono di Machiavelli. D’altro canto, come sostiene T.C. Price Zimmermann, la posizione di G., rispetto alle discussioni coeve sul miglior governo di Firenze, era diametralmente opposta a quella di M. e dei teorici fiorentini. Da lombardo, G. conosceva bene le devastazioni del periodo repubblicano tardo medievale e non si faceva illusioni sugli esiti delle lotte di fazione che, a Como, avevano avuto come risultato solo la decadenza e la disgregazione (Price Zimmermann 1995, trad. it. 2012, p. 58); per questo, propendeva per un principato capace di difendere dagli attacchi esterni e di assicurare stabilità.

Il primo libro del Dialogus si concentra sulle ragioni della debolezza militare degli Stati italiani e sulla perdita della libertà. Notevoli i calchi da M., messi in evidenza sia da Price Zimmermann sia da Franco Minonzio, per il rapporto fortuna e virtù, per il discorso sulle truppe mercenarie, nonché per la polemica nei confronti di chi valutava la politica solo in base al risultato (cfr. Price Zimmermann 1995, trad. it. 2012, p. 381 nota 36). Tuttavia G. diverge da M. nell’identificare i motivi della crisi, a suo avviso da ravvisarsi nella divisione in fazioni, piuttosto che nell’incapacità dei principi. Minonzio (introduzione a Dialogo sugli uomini e le donne..., cit., p. xliv nota 93) rileva anche stilemi dell’argomentazione, che sembrano derivare direttamente da M.; Price Zimmermann (1995, trad. it. 2012, p. 128) sottolinea come talvolta il sogno gioviano di un uomo eccezionale, capace di unire le forze in nome della libertas Italiae, coincida con l’ideale del Segretario fiorentino. M. viene citato direttamente nel secondo libro del Dialogus come rei militaris et Florentinorum annalium vernaculus scriptor («autore in volgare di cose militari e di Istorie fiorentine», p. 237): due citazioni di opere da tenere in considerazione, se pur G., rivedendo il Dialogus nel 1535 (Price Zimmermann 1995, trad. it. 2012, p. 364 nota 23), ebbe l’agio di vederle pubblicate, da una parte perché possono riflettere un contatto diretto con M. incaricato della scrittura delle Istorie, dall’altra perché all’Arte della guerra G. doveva forse guardare con particolare interesse nel volgere degli anni Venti, per stendere quello che sarà un vero e proprio trattato ‘etnografico’, ma anche di arte militare, come il Commentario de le cose de’ Turchi stampato nel 1532 (cfr. l’ed. a cura di L. Michelacci, 2005). Nello stesso passo G. tratteggia un profilo di M. cui amoenum ingenium abunde superest, quum fortunae desint («cui, pur trovandosi in bassa fortuna, non manca in misura copiosa un piacevole ingegno», Dialogo sugli uomini e le donne..., cit., p. 237) e gli attribuisce il ruolo di imitatore di Aristofane ad effigiem comediae veteris («sul modello della commedia antica», p. 239). Qui G. si sofferma in modo particolare sulla Mandragola: Nicia è il «ridiculus senex», desideroso di avere prole, e le sue caratteristiche (tam stolide quam sinistre cupidus, «tanto stupidamente quanto infaustamente bramoso», p. 239) si definiscono nella duplicità di tratti «del personaggio che, in realtà, in quel suo desiderio, non è solo ‘stolido’, è anche ‘sinistro’ – balenante, a momenti, di cupa cattiveria» (Sasso 1988, p. 124). Come ha dimostrato Gennaro Sasso, ripensando le osservazioni di Ezio Raimondi, G. dimostra un’acuta comprensione del testo e quando si sofferma sull’esito della commedia, a pruriente iuvencula uxore in curuculam facetissime transmutatur («da sua moglie, una giovanetta che sente pruriti di voglia, si ritrova tramutato in cornuto in modi divertentissimi», p. 239), lo storico comasco rivela di sapere interpretare correttamente il significato di curuca (Mandragola I ii, su cui cfr. P. Stoppelli, La Mandragola: storia e filologia. Con l’edizione critica del testo secondo il Laurenziano Redi 129, 2005, pp. 123-26), che potrebbe derivare da Giovenale (II vi, vv. 268-85), ben presente a M., e quindi stare a indicare l’uccello che cova le uova del cuculo, come avviene nel caso di Nicia e Lucrezia, oppure nel significato di «inganno» che, riferito qui al contesto del matrimonio, vede Nicia «trasmutato in cornuto». Probabilmente G. ebbe modo di vedere una delle rappresentazioni della Mandragola a Firenze o a Roma, e forse ne discusse direttamente con M., nei colloqui cui G. allude negli Elogia («come mi diceva personalmente», Elogi degli uomini illustri, a cura di F. Minonzio, 2006, p. 259). È di nuovo Sasso (1958, 19802, pp. 30-31) a suggerire che in quell’incontro M. abbia potuto «carrucolare» G., lasciandogli intendere di avere fatto uso dei ‘fiori’ della lingua greca e latina solo in quanto presi in prestito da Marcello Virgilio.

M. è uno dei pochissimi scrittori volgari a essere incluso negli Elogia (1546). È utile ricordare che la forma dell’elogium è un «profilo critico» (F. Minonzio, Il museo di carta di Paolo Giovio, introduzione a Elogi degli uomini illustri, cit., p. lxii), secondo quanto teorizzato da G. stesso nella lettera a Girolamo Scannapeco (cfr. P. Giovio, Lettere, a cura di G.G. Ferrero, 1° vol., 1956, pp. 174-79). G. sottolinea le doti naturali del Segretario, capace di maturare «una perfetta competenza come scrittore» (Elogi degli uomini illustri, cit., p. 258) pur senza possedere una solida formazione nelle lettere latine. Il passo ha dato origine a discussioni sulla cultura di M. e sull’affidabilità di G., considerato spesso malevolo e pettegolo. Secondo Francesco Bausi (2005, p. 19 in nota) le affermazioni di G. varrebbero a smontare il «mito» di M. umanista, anche rispetto alle scelte linguistiche. Il nodo era già stato affrontato da Carlo Dionisotti, e vi è tornato anche Sasso, che interpreta il passo in nulla vel mediocri latinarum literarum cognitione («pur non avendo alcuna cognizione di lettere latine o, comunque, avendone una mediocre», Elogi degli uomini illustri, cit., p. 258) come allusivo a una debole conoscenza delle lettere latine, non della lingua latina tout-court (cfr. G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, 1993, p. 13 in nota). D’altra parte, il richiamo al debito contratto da M. nei confronti di Marcello Virgilio, da cui avrebbe appreso i «flores» della lingua greca e latina, merita ulteriori approfondimenti. Sempre Dionisotti (1980, p. 414), riprendendo polemicamente la posizione antigioviana di Roberto Ridolfi (1954, 19693, pp. 285-86), sostiene che qui si «parla di un ideale florilegio o antologia dell’una e dell’altra lingua classica», cioè di strumenti di servizio che potevano essere utilizzati anche all’interno delle opere volgari (cfr. anche P. Godman, From Poliziano to Machiavelli. Florentine humanism in the high Renaissance, 1998, pp. 184 e 273). La questione è destinata a rimanere aperta, perché se G. non dice che il florilegio fosse stato tradotto in volgare, l’ipotesi che M. potesse leggere il greco non è sostenuta da alcuna fonte (Sasso 1958, 19802, p. 13 in nota). Piuttosto, l’interesse di G. si focalizza sulle doti naturali di M., a cui riconosce una straordinaria capacità di portare a compimento qualsiasi lavoro, «che scrivesse di argomenti seri e di intonazione giocosa» (Elogi degli uomini illustri, cit., p. 258). Raimondi (1972, p. 242) ha sottolineato come il ritratto gioviano corrisponda alla facies di «un prosatore eterodosso, fuori dagli schemi e divise correnti, maestro nel gioco insidioso dell’ironia e dello sdegno represso».

G. esperto di cose toscane sa riconoscere praedulcis eloquentiae mella, occulto veneno illita («con il miele di una dolce eloquenza spalmandolo sopra al veleno che vi era nascosto», p. 258) e interpreta l’opera di M. «secondo le tre figure del principe, del guerriero e del senatore» (Raimondi 1972, p. 242), facendo poi corrispondere a quelle opere una frattura stilistica rispetto a Giovanni Boccaccio; un M., dunque, dall’intelligenza vivissima e capace di innovare «in forme nuove e “attiche” la prosa nell’idioma della sua patria» (Elogi degli uomini illustri, cit., p. 259). Il passo fu ripreso anche da Benedetto Varchi che, nel trattato Errori del Giovio nelle Storie (a cura di F. Minonzio, 2010, pp. 156-57), cita esattamente questo punto: «Non dice egli nella vita di Niccolò Machiavelli che il suo stile è più bello di quello delle novelle del Boccaccio?». Del resto, qui la nota relativa a M. rimanda, come ha sottolineato Franco Minonzio (p. 157 in nota), alla parte della Storia (cfr. B. Varchi, Storia fiorentina, a cura di L. Arbib, 1° vol., 1838, pp. 242-45) in cui Varchi si sofferma su una valutazione generale del Segretario che corrisponde al ritratto fornito da Giovan Battista Busini a Varchi in una lettera del 23 gennaio 1549 (G.B. Busini, Lettere a Benedetto Varchi, 1860, pp. 84-85).

Secondo l’Elogio gioviano, M. morì per avere assunto temerariamente un certo farmaco, giocando con la propria vita (vitae suae iocabundus illusisset, «facendosi beffe della sua vita», Elogi degli uomini illustri, cit., p. 258). Non può cogliersi qui un richiamo immediato alla leggenda del ‘sogno’ di M. (→); tuttavia il ritratto gioviano di un M. «irrisor et atheos» non è incoerente con il personaggio delineato appunto dal ‘sogno’. Come ha ribadito Minonzio (Dialogo sugli uomini e le donne..., cit., p. 261), la visibilità fornita attraverso l’elogio a un M. burlatore e ateo fu tale da suscitare una vera e propria ‘vulgata’, fino a far coincidere le osservazioni malediche di Busini (Lettere..., cit., pp. 84-85) con l’atto estremo di sfida nei confronti della vita, quello appunto di morire «dopo aver assunto un farmaco che lo avrebbe dovuto proteggere dalle malattie» (Dialogo sugli uomini e le donne..., cit., p. 259).

Bibliografia: Gli elogi degli uomini illustri, a cura di R. Meregazzi, Roma 1972; Elogi degli uomini illustri, a cura di F. Minonzio, Torino 2006; Dialogo sugli uomini e le donne illustri del nostro tempo, a cura di F. Minonzio, 2 voll., Torino 2011.

Per gli studi critici si vedano: R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19693, 19787; G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Napoli 1958, Bologna 19802, pp. 30-31; E. Raimondi, Machiavelli, Giovio e Aristofane, in Id., Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna 1972, pp. 235-52; C. Dionisotti, Machiavelli e il Giovio, in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 411-44; E. Travi, Giovio, gli Orti Oricellari e Machiavelli, «Testo», 1983, 5, pp. 53-61; G. Sasso, Postille alla Mandragola, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 3° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 123-50; T.C. Price Zimmermann, Paolo Giovio. The historian and the crisis of sixteenth-century Italy, Princeton 1995 (trad. it. Paolo Giovio. Uno storico e la crisi italiana del XVI secolo, a cura di F. Minonzio, Cologno Monzese 2012); T.C. Price Zimmermann, Giovio Paolo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 56° vol., Roma 2001, ad vocem; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

TAG

Niccolò machiavelli

Ippolito de’ medici

Giovanni boccaccio

Concilio di trento

Castel sant’angelo