GUINIGI, Paolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUINIGI, Paolo

Franca Ragone

Figlio di Francesco di Lazzaro e forse di Filippa di Arbore Serpenti, nacque a Lucca probabilmente intorno alla metà degli anni Settanta del secolo XIV, nel 1372 secondo l'anonimo estensore di una breve nota intercalata a regesti di documenti familiari in un notulario settecentesco (Arch. di Stato di Lucca, Archivio Guinigi, 312, c. 155r). Molto poco sappiamo della sua formazione di mercante; è noto che egli fu inviato giovanissimo prima a Londra, nel 1389 (in quell'anno il suo nome figura tra i fattori della società facente capo al fratello Lazzaro), quindi nelle Fiandre, a Bruges, almeno fino dal 1390: la sua presenza è qui documentata nell'agosto del 1390, nel 1391 e nel 1392; il suo tirocinio si svolse dunque presso i fondaci commerciali della florida compagnia familiare. Non sappiamo con precisione quando fece ritorno a Lucca; certamente nel marzo del 1393 fu designato al Consiglio generale; nel bimestre marzo-aprile 1395 rivestì per la prima volta la carica di anziano, che ricoprì ancora nel bimestre marzo-aprile 1397; nel maggio di questo stesso anno, allorché il Collegio degli anziani decise di inviare commissari nella Garfagnana, da dove provenivano voci di rivolte, egli fu tra i prescelti; nel secondo semestre del 1398 fu vicario di Pietrasanta; in quel torno di anni ricoprì incarichi di varia natura ed ebbe più volte la carica di conducterius (1397 e 1398). Nel maggio-giugno 1399 e nel settembre-ottobre 1400, l'anno in cui si fece signore della città, ricoprì ancora l'incarico di anziano.

Nell'ultimo decennio del secolo XIV il G. aveva intrecciato importanti relazioni con il casato degli Antelminelli, sposando Maria Caterina, pronipote di Castruccio Castracani. Già sul finire del Trecento il G. si ritrovò a essere titolare di un notevole patrimonio personale, della cui estensione fornisce un'idea un inventario compilato nel 1412: i suoi beni erano disseminati in tutto il contado; in città egli figurava come proprietario di una porzione del palazzo grande, nella contrada dei Ss. Simone e Giuda (probabilmente spettatagli in eredità dopo la morte del fratello Bartolomeo), ma soprattutto dell'imponente edificio della cittadella, ubicato nelle contrade di S. Pietro in Cortina e S. Dalmazzo, in gran parte costruito sui resti dell'Augusta castrucciana: una notevole parte dei beni posseduti in città gli provenivano dall'eredità di Castruccio, confluita per lasciti successivi nelle mani di Vallerano, padre di Maria Caterina; spettavano al G. anche porzioni delle eredità dei fratelli. L'acquisto più consistente era però frutto di una donazione fattagli dalla madre il 4 febbr. 1409, comprendente beni provenienti da altre donazioni di cui a sua volta Filippa aveva beneficiato da parte di personaggi appartenenti alla consorteria degli Antelminelli e da Francesco di Iacopo Sbarra: una donazione che sembra peraltro conferire un assetto formale e giuridico al possesso di beni già acquisiti dal G. mediante il suo matrimonio con Maria Caterina.

Al 1399 risale la sua partecipazione alle processioni dei bianchi, partiti da Lucca al seguito del crocifisso con un corteo di numerosi proseliti.

Tra alcune deposizioni di testimoni partecipanti alla processione (edite in Bini) figuravano anche quelle del G., di suo cugino Baldassarre di Nicolao, di Bartolomeo Sercambi, fratello del più noto cronista Giovanni: nella propria deposizione il G. affermava che il 16 ag. 1399 aveva visto guarire miracolosamente a Signa una giovane affetta da una deformazione agli arti.

Di lì a poco dovette essere di ritorno a Lucca. Si distinse insieme con il fratello Bartolomeo nella repressione dell'azione che aveva visto l'assassinio del fratello maggiore e guida della casata, Lazzaro, a opera del fratello Antonio e del cognato Nicolao Sbarra. In quell'occasione, mentre fronteggiava i due, che si erano asserragliati in piazza S. Michele, "fu menato molti colpi et fedito in nella mano" (Sercambi, Croniche, II, p. 409). Gli assassini furono comunque catturati e giustiziati il giorno successivo.

Nel volgere di breve tempo la città, in cui la situazione dopo la morte di Lazzaro si era fatta molto critica per i sostenitori del partito guinigiano, fu investita da una pestilenza in cui trovarono la morte molti congiunti e alleati; il G. e Bartolomeo avevano cercato insieme scampo nel contado, ma nonostante questa precauzione Bartolomeo si ammalò mortalmente e lo stesso G., contratto il morbo, pareva avere ormai poche speranze di sopravvivenza. Per fronteggiare quest'emergenza si attivò un gruppo compatto di sostenitori della famiglia, fra i quali figurava Giovanni Sercambi, artefice principale della fortuna del G.: il primato di quest'ultimo in seno alla casata era infatti tutt'altro che pacifico e Sercambi dovette faticare non poco per convincere i suoi partigiani dell'opportunità della scelta del giovane figlio di Francesco come capo della consorteria. In Lucca furono adottate misure d'emergenza, e nel luglio del 1400 fu concessa piena balia con amplissimi poteri governativi a dodici cittadini, scelti tutti nell'ambito della fazione: tra loro lo stesso G., ormai ristabilitosi. L'ottenimento di questa autorità costituì senz'altro il preludio alla signoria: nell'ottobre dello stesso anno, infatti, egli, allora anziano e ancora membro del Collegio dei dodici di balia, si fece eleggere difensore del Popolo e della città; l'iniziativa, di cui sembra fossero a conoscenza soltanto Giovanni Sercambi, Tommaso da Ghivizzano e i cancellieri Guido Manfredi da Pietrasanta e Marco Martini, provocò qualche stupore e un certo malcontento fra gli stessi Dodici.

La signoria del G. così stabilita si rivelò non prettamente cittadina; temendo evidentemente di incontrare resistenze, il G. e i suoi sostenitori fecero appello a forze armate provenienti dal contado e anche agli aiuti pisani inviati dal duca di Milano Gian Galeazzo Visconti. Per quanto conseguente a uno stato di emergenza, e perciò frutto di una certa concitata improvvisazione, il nuovo governo mosse cautamente i primi passi sulla falsariga della politica filoviscontea promossa e avviata da Lazzaro negli anni immediatamente precedenti. La politica lucchese riconosceva nella saldezza e nella sicurezza del dominio milanese su Pisa il proprio presupposto: era stata questa considerazione che aveva dato al G. il destro per dimostrare sempre più apertamente il favore accordato all'iniziativa milanese in Toscana, a danno della stabilità del dominio territoriale di Firenze. Questa, benché fosse noto l'aiuto fornito dal duca all'ascesa del G., aveva reagito inviando a Lucca già dal 16 ottobre una lettera gratulatoria e, più tardi, anche gli ambasciatori Matteo Castellani e Filippo Corsini.

Critica apparve subito però la situazione interna per la nuova signoria; oltre all'opposizione, pur debole, manifestata già dalla magistratura dei Dodici, ben altro peso ebbe una clamorosa congiura ai danni del G. ordita da alcuni canonici della cattedrale e dal vescovo, nonché congiunto del G., Nicolao Guinigi.

La sensazione di latente pericolo sollecitò la costruzione della cittadella che si cominciò a edificare - secondo quanto afferma Sercambi - il 9 maggio 1401 e che avrebbe rappresentato la stabile residenza del signore; contemporaneamente fu concepito il progetto edilizio della villa suburbana dei Borghi e, qualche anno più tardi, anche quello di un palazzo a Pietrasanta.

Fu diretta conseguenza della sventata congiura clericale l'evoluzione del capitanato del G. in signoria vera e propria: fin dal gennaio del 1401, abolite le magistrature degli Anziani e dei Consigli, era stato creato un organo consultivo che, almeno fino al 1405, ebbe base rappresentativa fondata sulla tradizionale ripartizione della città in terzieri: ognuno di questi forniva tre uomini al Consiglio, che fu presieduto dall'anziano Dino Guinigi, nominato vicario del signore; del Consiglio fecero subito parte i collaboratori e i sostenitori del G., sebbene non mancassero esponenti di famiglie che in passato avevano figurato tra gli avversari della famiglia: si trattava forse di un tentativo di superare l'immagine della signoria vincolata da legami di fazione. Successivamente la composizione del Consiglio superò lo schema rappresentativo, e alcuni decreti signorili puntualizzarono la possibilità che esso si riunisse anche con un numero progressivamente ridotto di consiglieri; le nomine di questi ultimi, poi, erano decise direttamente dal signore secondo le proprie esigenze.

Un capitolo rilevante della storia del governo del G. è costituito dalla politica ecclesiastica, improntata a una certa autonomia. L'atteggiamento nei confronti della congiura del 1400, straordinariamente mite data la gravità della circostanza (fu punito con la morte soltanto uno dei congiurati, l'unico laico) fu finalizzato a ottenere dal pontefice importanti concessioni; i buoni rapporti con la Curia romana, negli anni difficili dello scisma, furono una costante della politica estera del G.: nei primi anni del suo governo l'intesa con Bonifacio IX gli fruttò infatti la possibilità di intervenire nella nomina dei rettori dei maggiori benefici ecclesiastici e nell'opera di riforma di alcuni enti caduti in uno stato di profondo discredito agli occhi della cittadinanza lucchese, nonché di interferire in delicati settori dell'amministrazione del vescovo.

In politica estera furono inizialmente tesi i rapporti con Firenze, che l'iniziativa di Gian Galeazzo nell'Italia centrale mirava a escludere da ogni accesso al mare; il duca invitò il G. a chiudere ai Fiorentini il porto di Motrone, piccolo scalo versiliese che serviva d'appoggio nella via marittima diretta a Genova; nello stesso tempo un editto visconteo colpiva il commercio fiorentino a Pisa, mentre alla comparsa di una galea milanese armata a Foce di Magra si accompagnavano scorrerie lungo le vie di terra. Inaspettatamente il punto debole di questa morsa micidiale fu offerto da Lucca, dove interessi commerciali ed economici e relazioni politiche, forse mai interrotte, consigliavano di evitare la rottura con Firenze; ne conseguì, nella primavera del 1402, una concitata serie di ambascerie, inviate a Lucca sia da Firenze sia da Milano, finché il G., di fronte a un'evidente crisi dei rapporti con Gian Galeazzo, si convinse ad allinearsi alle scelte viscontee assumendo nei confronti di Firenze un atteggiamento ostile, mitigato in parte dal mantenimento di buoni rapporti personali con alcuni membri dell'oligarchia fiorentina (una costante, peraltro, questa, della diplomazia guinigiana). La morte inattesa di Gian Galeazzo Visconti, avvenuta a Marignano il 3 sett. 1402, pose fine alla difficile situazione.

Negli anni immediatamente successivi alla morte del duca la posizione politica del G. appare ispirata a una prudente attesa degli eventi. Intanto, nel 1403, egli provvide ai bisogni dello Stato, emanando un decreto in materia estimale e procurando i mezzi per il restauro della chiesa di S. Romano, attigua alla cittadella, dove sarebbe stato celebrato il matrimonio con Ilaria, figlia di Carlo Del Carretto, signore di Finale, che vantava ottime relazioni con l'entourage visconteo. Alla fine del 1403 il G. decretò una visita ricognitiva dei propri possessi; quel viaggio sarebbe stato preludio alla compilazione di un estimo dei beni fondiari portato a compimento soltanto tra il 1411 e il 1413. In questo stesso anno furono riaperte le trattative con Firenze per il porto di Motrone, trattative che in maggio sembravano essere ormai prossime alla conclusione; tuttavia scogli non bene precisati le avrebbero bloccate nei mesi successivi: secondo Giovanni Morelli, che in una pagina dei suoi Ricordi si lancia in un'aspra invettiva, fu solo l'avidità del G. a impedire il successo del negoziato.

Nel 1404, approfittando del dissesto e della dissoluzione di parte dei domini milanesi, il G. concluse con Giovanni Colonna, già capitano delle armi viscontee, un patto per la cessione di Carrara e del suo distretto, che sarebbero stati nell'ottobre organizzati in vicaria. Muovendosi alla ricerca di un nuovo protettore con cui controbilanciare l'iniziativa fiorentina, il G. andava intanto stringendo in quegli anni legami con Ladislao d'Angiò Durazzo, re di Napoli, interessato ad acquisire posizioni in Toscana.

Firenze aveva prontamente reagito alla morte di Gian Galeazzo, riprendendo le fila dei propri progetti espansionistici soprattutto a danno di Pisa; a Pisa si rivolse anche l'iniziativa di Luigi d'Orléans, fratello di Carlo VI re di Francia e genero di Gian Galeazzo, appoggiato nelle sue mire dal pontefice avignonese Benedetto XIII. Altra pedina essenziale della politica avignonese erano gli Angiò; i loro diritti sul Regno di Napoli erano di fatto usurpati da Ladislao del ramo rivale degli Angiò Durazzo che, dal 1399, regnava non senza difficoltà sul Napoletano, con l'appoggio del pontefice di obbedienza romana, Bonifacio IX. Nel 1404 il gioco intricato di queste alleanze si concentrò intorno a Pisa: la città, estenuata dalle insidie e dalle offensive fiorentine, aveva chiesto la protezione del re di Francia. In questa delicata situazione il G. giocò, non senza abilità, un importante ruolo di informatore per conto di Ladislao e di Bonifacio IX che prepararono segretamente un'azione contro Pisa; le circostanze politiche generali lo rendevano evidentemente propenso a favorire l'intervento napoletano in Toscana e, al limite, una stabile occupazione della città da parte delle potenze a cui in quei mesi si veniva legando mediante fili sottili ma sicuri. L'impresa congiunta di Ladislao e del papa si arenò quando era ormai a buon punto, e fu definitivamente vanificata dalla morte di Bonifacio IX; la conquista fiorentina di Pisa avvenne nell'ottobre del 1406; anche in questa circostanza il ruolo del G. fu tutt'altro che passivo e il successo fiorentino segna un grave insuccesso della sua politica, vanamente tesa a opporsi all'azione di Firenze.

Tuttavia va detto che, in seguito alla conquista di Pisa, Lucca veniva a trovarsi momentaneamente al sicuro da mire espansionistiche immediate: si spiega così il perseguimento di una politica di mediazione, tanto insistentemente ribadito nella corrispondenza ufficiale da lasciar credere che il signore di Lucca e i suoi collaboratori avessero proprio in essa identificato i presupposti di una difficile sopravvivenza.

Una nuova sfida alla politica del G. fu offerta dalla situazione apertasi con l'elezione al soglio pontificio di Gregorio XII, nel 1406: sembrò infatti che finalmente i papi di Roma e di Avignone fossero vicini alla soluzione dello scisma. Troppi interessi, però, ostavano al progetto. I due pontefici agli inizi del 1408 finirono per sostare a pochi chilometri di distanza - Gregorio a Lucca (e il G. ottenne in cambio della sua ospitalità l'ambito riconoscimento della Rosa d'oro), Benedetto a Portovenere -, senza raggiungere l'accordo. Con Gregorio si schieravano Venezia, sua città natale, il G., che lo ospitò, e soprattutto il re di Napoli, che nell'aprile del 1408 prendeva possesso di Roma. Questa conquista ebbe immediate ripercussioni perché il G. vide in Ladislao un ottimo alleato contro l'invadenza fiorentina e, dopo almeno cinque anni di buoni rapporti, si legò formalmente a lui nel giugno del 1408, dando nuovamente esca alle preoccupazioni dei Fiorentini, i quali riuscirono a riunire contro il re di Napoli una lega comprendente il nuovo papa Alessandro V (eletto nel 1409 dal concilio di Pisa, che aveva deposto sia Gregorio XII sia Benedetto XIII), il legato pontificio Baldassarre Cossa (futuro papa con il nome di Giovanni XXIII), Luigi II d'Angiò e la città di Siena. Le operazioni della lega, alla quale nel settembre del 1409 venne a mancare l'appoggio di Genova, ribellatasi alla Francia, si protrassero a lungo con alterne vicende, a prezzo di grandi sacrifici militari e finanziari. Lucca fu in pericolo perché le truppe francesi passarono per il suo territorio, ma il G. le accolse, conciliandosi il favore regale. Firenze intanto non riusciva a guadagnarsi l'appoggio del nuovo governo genovese e i rapporti con la città ligure si fecero sempre più difficili, causando ai mercanti fiorentini gravi disagi che andavano ad aggiungersi a quelli provocati dalla guerra con Ladislao. La lega subì le ripercussioni di questo stato di cose e, nel gennaio del 1411, Firenze concluse con Ladislao una pace separata. Le condizioni di insicurezza generalizzata facevano dei trasporti via mare uno strumento indispensabile per il commercio; il ceto mercantile fiorentino, però, non riuscì a spuntare la pace con Genova fino al 27 apr. 1413; mediatore, nei sofferti e ripetuti tentativi di venire a un accordo, fu proprio il G. il quale, signore di una città di mercanti gravemente danneggiata e implicata negli scontri tra Genova e Firenze, preferiva una posizione di neutralità e di attesa. Dopo la mediazione tra Genova e Firenze seguirono per lui anni di maggiore tranquillità, nei quali risalta la concessione del titolo di vicario imperiale di Lucca, ottenuta dall'imperatore Sigismondo di Lussemburgo nel 1413, che dava alla signoria l'ambito fondamento giuridico, nonché la trasmissibilità ai figli.

Il 1418 segna un anno cruciale per la storia del principato del G.: in giugno infatti il territorio lucchese fu investito dalle armate di Braccio da Montone (Andrea Fortebracci) che agiva, pare certo, agli ordini di Firenze; una grave pestilenza infieriva in quei mesi nella città, che si trovò pertanto ad affrontare un momento di gravissima crisi. Al G. non restò che venire a patti con Braccio ma, durante le trattative con il condottiero, ebbe l'amara sorpresa di riscontrare il tradimento di Guido Manfredi da Pietrasanta, già suo fedelissimo cancelliere. A partire da questo momento il signore di Lucca si trovò a fronteggiare situazioni sempre più critiche. Sul finire del secondo decennio del Quattrocento si andava intanto ricostituendo l'unità territoriale del Ducato milanese sotto la guida di Filippo Maria Visconti, con il conseguente ridefinirsi delle alleanze intorno a Firenze e Venezia, costrette a impegnarsi con il duca in un conflitto destinato a concludersi solo nel 1428 con la pace di Ferrara; il legame tra Lucca e Firenze era stato sancito da una lega stipulata per cinque anni a partire dal 1° sett. 1422. Il G. sentì la necessità di motivare la scelta di un legame così vincolante di fronte a una parte dei suoi cittadini: il 4 settembre fece dunque riunire circa cento persone nella sala nuova del palazzo dei Borghi dove spiegò le ragioni dell'alleanza; di fronte a quel consesso fece inoltre leggere da uno dei suoi cancellieri una lettera del traditore Guido Manfredi, che ne dimostrava l'intenzione di osteggiare la lega stessa; è evidente che già a quest'epoca si aprivano crepe irreparabili nel consenso interno che il G. aveva faticosamente cercato di costruire e mantenere.

Il governo del G. era stato infatti costellato di numerose congiure, non di rado ordite con il segreto sostegno del governo fiorentino; esse poterono essere sempre sventate per tempo. Il G. dovette però vivere nella consapevolezza della precarietà della propria posizione e nel trentennio del suo governo non si spinse mai oltre i confini del proprio territorio; indotto presumibilmente dalla preoccupazione di sottrarre le proprie considerevolissime sostanze ai rischi di un eventuale rovescio, aveva nel 1408 trasferito a Venezia la somma di 40.000 ducati, ottenendo anche il titolo di cittadino onorario; quando in seguito, nel 1426, i Veneziani lo privarono della cittadinanza per essersi schierato a fianco dei Visconti, i suoi denari furono sequestrati e incamerati e mai né lui, né i suoi discendenti, né la ripristinata autorità comunale che gli succedette nel 1430 riuscirono a riaverli. Il legame con Firenze era rimasto abbastanza saldo fino all'inizio degli anni Venti; una certa riluttanza del G. ad agire apertamente a fianco di Firenze è forse però già il segno del suo tentativo di cercare l'ennesima alternativa alla rischiosa colleganza fiorentina, ora che vedeva aprirsi nuovamente, come ai tempi di Gian Galeazzo, la possibilità di trovare nel duca di Milano un potente protettore.

Intorno al 1425 i rapporti con Firenze entrarono così in crisi e negli anni immediatamente successivi la tensione si fece palpabilissima; circolava ormai la voce che le simpatie del G. per il Visconti si erano spinte fino all'invio del figlio Ladislao ai servizi del Ducato; tale posizione era inequivocabilmente in contrasto con gli interessi degli antichi alleati, mentre a Firenze montava il malumore nei confronti del G., di cui si lamentava l'inaffidabilità e la scarsa disponibilità a osservare i patti; soltanto il partito che faceva capo a Niccolò da Uzzano, a lui legato da antica familiarità, difendeva a Firenze con efficaci ragioni la sua causa. L'urto diplomatico si aggravò nel 1428 intorno alla questione della partecipazione lucchese alla spesa per la condotta a suo tempo siglata con Braccio da Montone e prevista nei capitoli della lega del 1422. Le infinite discussioni intorno a ciò che nella documentazione fiorentina è definito come "factum Lucanum" sfociarono alla fine del 1429 nella decisione del conflitto; quanto a Filippo Maria, il trattato stipulato a Ferrara nel 1428 (in cui il G. non era stato compreso, a dimostrazione del suo crescente isolamento) gli impediva di intromettersi nelle cose di Toscana. Quando il territorio lucchese fu invaso dalle truppe di Niccolò Fortebracci (Niccolò della Stella), capitano al soldo fiorentino, a nulla valsero le proteste del G. presso il governo di Firenze; questo aveva ormai deciso di risolvere con ogni mezzo l'impresa di Lucca, contando sull'impossibilità del G. di ricevere aiuti dal duca di Milano che invece finse di licenziare dal proprio servizio Francesco Sforza per mandarlo in soccorso all'alleato lucchese. L'arrivo del condottiero alla fine di luglio provocò l'arretramento dell'esercito avversario e Firenze fu costretta ad avviare trattative con lo Sforza perché le lasciasse la libertà di assalire Lucca. Di fatto, con la complicità del condottiero una congiura di cittadini capeggiati da Pietro Cenami depose il G. nella notte tra il 14 e il 15 ag. 1431.

Non è possibile stabilire con precisione quali furono i veri motivi della fine del suo principato, se cioè la congiura fosse stata provocata dalla volontà dei cittadini o dagli interessi politici della fazione dei suoi oppositori interni; anche la posizione di Francesco Sforza in proposito non è del tutto chiara; certo è che il G. viveva in un clima di sospetti sempre più teso se, il 31 genn. 1430, Rinaldo degli Albizzi, scrivendo ai Dieci di balia, comunicava di aver saputo che "il Signore di Lucca è forte sbigottito, e tiensi perduto […] e che caccia fuori moltissimi, e sospetti a lui; e che i cittadini sono molto malcontenti, e pochissimi vi sono che ben gli voglino" (Commissioni…, III, p. 338).

Dopo la deposizione il G. fu deportato insieme coi figli maschi nel castello di Pavia, sotto la custodia del Visconti; da lì fece sentire ancora una volta la sua voce, chiedendo che gli fossero restituite le famiglie dei figli; ma non poté ottenere soddisfazione. Morì due anni dopo, nel 1432, e fu sepolto a S. Pietro in Ciel d'Oro, nella cappella di S. Agostino.

Il giudizio sul G. è andato incontro a modifiche soltanto in epoca recente: fino a tutto il secolo XIX la voce degli studiosi locali è stata pressoché unanime nel condannarne l'operato, avulso dalla tradizione repubblicana della città. Oggi invece se ne sottolinea la capace opera di amministratore e di politico: sotto il suo governo fu intrapreso un tentativo di razionalizzazione dell'intero sistema politico comunale e se la sua politica economica fu, più che una proposta, una semplice risposta alla congiuntura, ben più massiccio fu l'atteggiamento manifestato in altri delicati settori di competenza. È il caso della materia beneficiale, dove vennero stravolti a vantaggio del signore e del suo entourage gli equilibri esistenti in seno al capitolo della cattedrale e alla diocesi; della promozione di Pietrasanta come centro di potere alternativo, sia pure di modesto rilievo, all'interno del dominio; della politica matrimoniale, volta a privilegiare la scelta di famiglie extracittadine di notevole rilevanza; della politica fiscale, con la promozione di nuove compilazioni estimali. Il G. protrasse inoltre a proprio piacimento la durata di incarichi delicati come quello del podestà, rivide le compilazioni normative della Corte dei mercanti e del Comune; promosse all'interno della corte l'ascesa di inusitati poteri personali che agli occhi di alcuni contemporanei provocarono perplessità; anche se va detto che certamente la mossa più importante del nuovo governo si attuò nel settore istituzionale, con l'eliminazione dei Consigli cittadini.

Celebrato, ma oggi soggetto a una più cauta lettura, il mecenatismo del G. e lo sfarzo della sua piccola corte; evidente comunque lo sforzo di aprire la città alle suggestioni dell'arte europea: durante il trentennio guinigiano operarono a Lucca ingegneri e artisti ben noti; l'artista più importante che lavorò a Lucca durante la sua signoria fu Iacopo Della Quercia (Iacopo di Piero), che scolpì il monumento sepolcrale per Ilaria Del Carretto. Notevole la sua biblioteca, fatta oggetto di attenzione da S. Bongi, che sottolineò anche l'importanza dell'entourage di colti collaboratori del signore.

Il G. si sposò quattro volte: con Maria Caterina Antelminelli, dalla quale non nacquero figli; con Ilaria Del Carretto, dalla quale ebbe Ladislao e Ilaria; con Piacentina di Rodolfo da Varano, che gli dette Rinaldo e Agostino Filippo (un altro maschio, Francesco Angelo, morì poco dopo il parto) e Sveva e Vangelista; con Iacopa Trinci, dalla quale ebbe Filippa; da una schiava ebbe infine Stefano, che fu allevato insieme con gli altri maschi della famiglia e pare fosse al fianco del fratello Ladislao nella difesa di Lucca.

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