VITA-FINZI, Paolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VITA-FINZI, Paolo

Claudio Giunta

– Nacque a Torino il 31 marzo 1899 da Carlo, ingegnere, ufficiale del genio, pioniere dell’aviazione in Italia, e da Celeste Malvano, entrambi di origine ebraica.

Lo zio di Celeste, Giacomo Malvano, fu uno dei più insigni diplomatici italiani tra i due secoli: Paolo ne fa un ritratto affettuoso nei primi capitoli della sua autobiografia Giorni lontani (Bologna 1989).

Crebbe a Torino, in una casa di via Papacino, a due passi dalla Scuola d’applicazione nella quale il padre era stato comandato come docente di elettrotecnica. Frequentò il liceo-ginnasio Massimo d’Azeglio: in Giorni lontani ricorda con speciale simpatia, tra i compagni, il futuro economista Piero Sraffa e, tra gli insegnanti, Umberto Cosmo (lettere), Claudio Giacomino (latino e greco), Pilo Predella (matematica) e Arturo Segre (storia). D’estate, trascorreva le vacanze nella villa di famiglia sulle colline torinesi, attingendo alla ricchissima biblioteca («nei lunghi mesi estivi divoravo in media un libro al giorno»: Giorni lontani, 1989, p. 59).

Si diplomò nel luglio del 1916 e, diciassettenne, fece domanda per arruolarsi nell’esercito. Entrato in Artiglieria come sottotenente di complemento (6 dicembre 1917), nella primavera del 1918 venne mandato sul Carso, nel XXIII corpo d’armata, agli ordini del generale Armando Diaz. Dopo un breve corso di formazione alla Scuola bombardieri di Sassuolo tornò sulla linea del fronte sul Monte Grappa, e nel giugno del 1918 partecipò alla battaglia del Piave (il 15 giugno ricevette i gradi di tenente), quindi, alla fine di ottobre, alla vittoriosa offensiva che portò alla ritirata dell’esercito austro-ungarico e all’armistizio. Fu insignito della medaglia di bronzo al valore militare e della croce di guerra al valore militare.

Finita la guerra, ma non ancora smobilitato, frequentò per alcuni mesi i corsi di giurisprudenza all’Università La Sapienza di Roma; quindi, riapprodato alla vita civile, fece ritorno a Torino. Durante il biennio rosso entrò in relazione con il quasi coetaneo Piero Gobetti (collaborò anche con un paio di traduzioni ai primi fascicoli della Rivoluzione liberale) e sfiorò Antonio Gramsci, senza però mai cadere sotto la fascinazione né del primo né tantomeno del secondo: «Se ammiravo l’intelligenza e la vertiginosa attività di Gobetti, le sue idee mi avevano sempre lasciato perplesso: per quanto sia elastica la parola ‘liberale’ non riuscivo a persuadermi che la rivoluzione russa fosse un atto di liberalismo» (Giorni lontani, p. 143). Laureatosi in giurisprudenza all’Università di Torino nel novembre del 1920, per qualche mese fu assistente dello storico dell’economia Giuseppe Prato all’Università Bocconi di Milano, al fianco di Agostino Lanzillo e Raffaele Mattioli.

A lato degli impegni universitari cominciò la sua attività di pubblicista. Negli anni 1922-23 fu dapprima a Monaco e poi a Berlino come corrispondente del Corriere mercantile, ed ebbe modo di seguire tra l’altro il processo per l’attentato a Walther Rathenau e l’occupazione franco-belga della Ruhr. Mentre si trovava in Germania, il padre si ammalò e, di lì a poco, morì: «Penso» – scrisse in Giorni lontani a distanza di più di sessant’anni – «che la morte di mio padre sia stato il maggior dolore che io abbia mai provato» (p. 193). Rientrato in Italia, nel giugno del 1924 vinse il concorso diplomatico e il 21 luglio entrò nei ruoli del ministero degli Esteri. Dopo un breve passaggio all’ufficio stampa del ministero, fu destinato al consolato di Algeri (dal 3 novembre 1925), ma l’incarico venne revocato prim’ancora della partenza. Prestò quindi servizio a Düsseldorf (reggente del consolato generale dal 10 luglio 1926), Berlino (addetto stampa dell’ambasciata), Sfax in Tunisia (viceconsole dal 25 novembre 1926), Tbilisi (console dal 12 marzo 1928: qui conobbe Nadia Touchmalova, nata a Pjatigorsk in Georgia, con cui si unì in matrimonio nel 1934, e che morì prematuramente a Londra nell’ottobre del 1952), Rosario in Argentina (nominato console generale dal 10 dicembre 1933, prese servizio nel febbraio dell’anno successivo), Sydney (console generale dal 2 settembre 1935). Sulla nave britannica Themistocles che portava lui e la moglie Nadia in Australia nacque il suo primo figlio Ennio (15 novembre 1935); il secondo, Claudio, nacque a Sydney un anno più tardi (21 novembre 1936).

Nell’intervallo tra l’una e l’altra destinazione Vita-Finzi prestò servizio al ministero degli Esteri: nel settembre del 1932 prese parte alla delegazione italiana alla Conferenza di Stresa per l’Europa centrale e orientale; nel gennaio del 1933 lavorò all’ufficio storico-diplomatico. Fra il 1937 e il 1939 si recò più volte in Spagna come corriere diplomatico, e qui, con il grado di capitano di artiglieria di complemento, partecipò alle operazioni militari della divisione «Frecce Nere» del Corpo truppe volontarie italiano (CTV), che combatteva al fianco dei franchisti (Cavarocchi, 2018). «Non avevo più» – rievocò in Giorni lontani – «la vitalità e la freschezza dei diciott’anni [quando aveva combattuto da volontario sul Grappa]; e tutto sommato ricordo malvolentieri quella poco felice iniziativa, che mi sarebbe stata aspramente rimproverata più tardi, quando di tutti gli avvenimenti s’accettava con compunzione la versione imposta dagli ‘intellettuali organici’» (p. 380).

Nel 1937 rientrò in Italia e in luglio venne nominato capo dell’ufficio III (America del Nord) della Direzione generale affari transoceanici. Nel 1938 assistette alla visita di Adolf Hitler a Roma: «Vidi Hitler al ricevimento in Campidoglio, il giorno dopo la rivista di Napoli, a non più di due metri di distanza. In quel momento era a fianco della regina Elena, che gli parlava amabilmente, inclinando il capo verso di lui. Il Führer non rispondeva e guardava fisso davanti a sé, con gli occhi grigio-azzurri che spiccavano sul volto arrossato da quelle poche ore di sole napoletano» (ibid., p. 386).

A causa delle leggi razziali Vita-Finzi fu costretto a lasciare la carriera diplomatica, perciò decise di tornare, stavolta da esule, in Argentina. Non si stabilì a Rosario, giacché così facendo, avrebbe «posto in una condizione imbarazzante i funzionari del consolato generale» che erano stati suoi colleghi quattro anni prima (ibid., p. 393), bensì a Buenos Aires. Qui si diede da fare per mantenere la moglie e i due figli (collaborazione assidua alla terza pagina del quotidiano La Nación ma anche, spinto dalla necessità, un piccolo commercio di libri usati), e tra l’altro fondò, diresse e in buona parte compilò la rivista trimestrale Domani, che raccoglieva testimonianze e speranze degli italiani antifascisti riparati nelle Americhe: Carlo Sforza, Max Ascoli, Rodolfo Mondolfo tra gli altri. Ma non solo gli italiani, dato che a Domani collaborarono anche scrittori come Stefan Zweig, H.G. Wells ed Ernesto Sábato, l’ultimo dei quali Vita-Finzi tradusse nel dopoguerra. L’esilio argentino fu addolcito dai rapporti d’amicizia che lo legarono ad altri espatriati italiani come Mondolfo, Alessandro e Benvenuto Terracini, Antonello Gerbi, i coniugi Maurizio ed Eugenia Lustig; e la collaborazione alla Nación gli valse contatti con i maggiori scrittori e intellettuali argentini dell’epoca, da Sábato ad Adolfo Bioy Casares, da Victoria Ocampo a Jorge Luis Borges.

Venne reintegrato come funzionario del ministero degli Esteri il 3 gennaio 1945, ma restò a Buenos Aires fino all’aprile del 1946. Lì lo raggiunsero, tra le altre, la notizia che il cugino Alberto era stato fucilato a Ferrara nel novembre del 1943 e che la sorella Laura era stata deportata ad Auschwitz e poi a Bergen Belsen, senza che se ne fosse saputo più nulla.

Promosso console generale di seconda classe (12 aprile 1946), quindi console generale di prima classe (12 marzo 1947), fu destinato a Londra (12 dicembre 1946), dove rimase fino al 1950; poi passò a Helsinki con credenziali di inviato straordinario e ministro plenipotenziario (5 marzo 1951), quindi fu nominato ambasciatore in Norvegia (30 settembre 1955) e in Ungheria (21 ottobre 1961). Tra gli altri incarichi ministeriali, presiedette la delegazione italiana per i trattati di commercio italo-portoghese (Roma, 1° luglio 1954) e italo-albanese (Tirana, 17 dicembre 1954). In Giorni lontani riflette con amarezza sulla sua estraneità alle consorterie e alle ‘cordate’ messe a punto nei corridoi del ministero: «Questi solerti colleghi avevano intuito che in Italia l’amministrazione s’andava sempre più intrecciando con la politica, e promettendosi reciproco appoggio avevano creato una specie d’ufficio d’aggancio con il partito più potente, la Democrazia cristiana» (p. 542). Nel 1953 fu nominato commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica, e nel 1957 grande ufficiale. Fu collocato a riposo nel 1965.

In margine alla professione di diplomatico, Vita-Finzi svolse un’attività di letterato e pubblicista di qualità e respiro davvero eccezionali. Gli esperti di letteratura lo conoscono soprattutto perché nel 1927, non ancora trentenne, pubblicò una Antologia apocrifa, cioè una raccolta di parodie di autori contemporanei, in prosa e in verso, già in parte uscite nella rivista L’Italia che scrive di Angelo Fortunato Formiggini.

Alla prima Antologia apocrifa (Roma 1927) fece seguito la seconda serie (Roma 1933); la prima e la seconda vennero poi rifuse nelle edizioni postbelliche: Milano 1961 e 1978; l’ultima edizione curata dall’autore si può leggere in e-book, con introduzione di Matteo Marchesini (Macerata 2015). Il libro ebbe successo e a buon diritto, perché è un capolavoro dell’intelligenza e del talento mimetico, memorabile soprattutto in quei passaggi, tanti, che castigano i vizi italiani del bellettrismo e della retorica (è celebre tra tutte la pagina dedicata a Giovanni Gentile: pagina che sembra parodica, per la tortuosità e l’evanescenza dei concetti, e che invece Vita-Finzi aveva copiato pari pari da un saggio del filosofo; ma il pezzo migliore del libro è forse la languorosissima Convalescenza di uno pseudo-Ungaretti).

Negli anni vissuti all’estero Vita-Finzi annotò, raccolse, studiò. I frutti di questo lavoro – cartelle piene di appunti e ritagli dalla stampa italiana ed estera – si possono vedere oggi sugli scaffali della Fondazione Spadolini – Nuova Antologia, che custodisce buona parte della sua biblioteca e dei suoi carteggi. Alla Germania di Weimar dedicò, dopo le corrispondenze giornalistiche per il Corriere mercantile, pagine splendide di Giorni lontani; all’Australia, un reportage da Canberra, freschissima capitale dello Stato (1937); e dall’esperienza argentina ricavò il saggio Perón mito e realtà (Milano 1973).

Ma in questo peregrinare fu il soggiorno in Unione Sovietica a dargli più di ogni altro materia di riflessione e scrittura. Quattro anni dopo il rientro da Tbilisi, Vita-Finzi pubblicò per l’Istituto per l’Europa orientale di Roma il saggio Grandezza e servitù bolsceviche. Sguardo d’insieme all’esperimento sovietico (Roma 1934) sotto lo pseudonimo di Peregrinus (così, dopo la guerra, firmò varie corrispondenze per i periodici italiani). È un libro importante, perché le relazioni informate e obiettive circa ciò che stava succedendo in Unione Sovietica erano rare.

Non mancavano, è vero, le corrispondenze dei giornalisti-scrittori come Corrado Alvaro, Mario Nordio, Vittorio Beonio Brocchieri, Luigi Barzini; ma si trattava di resoconti di viaggio che scontavano spesso la fretta, la mediazione delle guide governative, l’ignoranza della lingua. Nel 1933 era uscito per Bompiani un Giudizio sul bolscevismo di un altro testimone oculare, Gaetano Ciocca; ma Ciocca era un ingegnere che lavorava a Mosca alla costruzione di una fabbrica di cuscinetti a sfera: la sua prospettiva era limitata.

Oltre ad avere maggiore libertà di movimento, Vita-Finzi ebbe sotto gli occhi una delle zone dell’Unione Sovietica in cui la dekulakizzazione fu più cruenta e in cui, soprattutto, a essere coinvolta fu anche la popolazione di origine italiana. Sin dal Settecento, infatti, agricoltori lombardi e veneti si erano stabiliti nella regione ciscaucasica. L’emigrazione italiana era ripresa tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, coinvolgendo dopo il 1917 anche un buon numero di emigrati politici, sedotti dall’idea del bolscevismo: come diplomatico, Vita-Finzi si spese particolarmente per proteggere quei vecchi e questi nuovi coloni.

Dell’esperimento sovietico, in chiusura di libro, Vita-Finzi vaticinava il probabile successo. Nell’Unione Sovietica della metà degli anni Trenta, osservava, si stava affacciando alla vita politica una generazione che non aveva mai conosciuto un regime diverso da quello sovietico, una generazione allevata nel culto dello Stato e nell’odio per quell’entità cangiante che è il nemico di classe: «Non è l’uomo un animale che si abitua a tutto? Può darsi che il nuovo ambiente creato con così terribile dispendio di forze e di sangue reagisca a sua volta sulle giovani generazioni, ne trasformi le passioni e gli istinti. La rivoluzione sovietica è appunto il più grande tentativo di deviazione degli istinti, di razionalizzazione della storia, il più grande atto di violenza che l’umanità sinora ricordi» (Grandezza e servitù..., cit., p. 113).

Tra il 1954 e il 1958 Vita-Finzi collaborò con Il Mondo, e qui pubblicò tra l’altro alcuni dei saggi poi confluiti nel suo libro più noto e importante, Le delusioni della libertà (Firenze 1961; poi Milano 1979).

In esso, Vita-Finzi intendeva mostrare come negli anni a cavallo tra Otto e Novecento la causa della democrazia liberale fosse stata tradita da quegli intellettuali italiani e francesi che si erano lasciati sedurre ora (a sinistra) dal mito del popolo e della nazione, ora (a destra) da quello dell’élite virtuosa e dell’uomo forte: i diciotto capitoli del libro affrontano ciascuno, con un’impressionante ampiezza di documentazione, il pensiero di uno di questi intellettuali. Coltissimo, letteratissimo, Vita-Finzi non amava però coloro che pretendono di trasferire le idee apprese dai libri nella realtà, anzi nell’amministrazione dello Stato: «Alcune singolarità» – scrive nella premessa – «colpiranno chi sfoglierà queste pagine [...]: il connubio fra politica e letteratura, molto più sensibile nei paesi latini che in quelli anglosassoni o nordici. I predicatori di grandiose rivolte o di radicali riforme di cui si fa cenno in questo libro sono sovente dei letterati e dei poeti, senza nessuna esperienza d’amministrazione e di governo» (ed. 1979, p. 9). Questi visionari dediti alla causa dell’umanità erano in realtà, osserva Vita-Finzi le più zelanti vestali del culto della forza: «La violenza, la guerra, la rivoluzione erano il sogno vago, deliziosamente tormentoso degli intellettuali di quell’epoca, che oggi ci sembra felice perché viveva in relativa pace» (p. 74).

Le delusioni della libertà ebbe nei primi anni Sessanta una risonanza notevole. Lo recensirono, tra gli altri, Palmiro Togliatti e Nicola Chiaromonte; Delio Cantimori ne scrisse ampiamente su Itinerari; e, benché non si possa dire che gli autori studiati da Vita-Finzi fossero sconosciuti in Italia, è un fatto che – come nota con soddisfazione l’autore nella prefazione alla ristampa del 1979 – dopo l’uscita del suo saggio si ripubblicarono sia la Storia di quattro anni di Daniel Halévy sia gli scritti politici di Giuseppe Rensi.

L’attività di pubblicista si fece ancora più intensa – con elzeviri, reportage di viaggio, commenti sulla politica internazionale – a partire dalla metà degli anni Sessanta, quando Vita-Finzi rientrò definitivamente in Italia. Collaborò con il Resto del Carlino nel biennio 1967-68; poi, dal 1968 al 1972, su invito di Giovanni Spadolini, con il Corriere della sera e la Nuova Antologia. Pensionato, con più tempo per studiare e per scrivere, nel corso degli anni Settanta pubblicò volumi di politica estera per l’editore romano Giovanni Volpe (Il cane di Fedro ovvero la sicurezza europea, 1972) e per la collana di divulgazione Il timone dell’editore Pan. Terra e libertà in Russia da ieri e oggi (Milano 1972) è l’anello intermedio della riflessione sull’Unione Sovietica che era cominciata nel 1934 con Grandezza e servitù e che continuò, di lì a due anni, con il Diario caucasico (Milano-Napoli 1975).

Mentre Grandezza e servitù era un resoconto fatto quasi in presa diretta, in Terra e libertà il passare del tempo e il mutare dei tempi consentono un distacco e un’ampiezza di visione che però non mutano nella sostanza le conclusioni tratte quarant’anni prima circa l’esperimento sovietico. Il memoriale del 1934 si concludeva definendo la rivoluzione sovietica come «il più grande atto di violenza che l’umanità sinora ricordi». Il saggio del 1972 ribadisce e precisa quel giudizio: non «l’espressione della volontà popolare», non «la creazione spontanea delle masse», bensì «uno dei più grandi atti di violenza che la storia ricordi, la imposizione d’una nuova forma di vita, d’un nuovo destino, ad opera di una piccola ma implacabile minoranza cittadina alla grande massa sonnolenta del popolo russo» (p. 248).

Nella stessa collana Il timone uscì nel 1973 Perón mito e realtà. Perón, cioè il perfetto caso di studio per chi, come Vita-Finzi, era interessato soprattutto alle deviazioni populistiche della democrazia. Ed è sintomatico il fatto che, messo di fronte a Perón, l’autore di Le delusioni della libertà, cioè di un libro che rifletteva sui rischi dell’antiparlamentarismo tra Otto e Novecento, finisca per vedere gli unici sprazzi di buon governo nella storia argentina proprio nel governo oligarchico di inizio secolo («il gruppo dei grandi e medi proprietari terrieri, coadiuvati dalla borghesia ricca e colta delle città [...] ha assicurato alla Repubblica lunghi anni di pace esterna e interna, fomentato il commercio, favorito l’afflusso di capitali e di lavoratori, compiuto vaste opere pubbliche [...], fatto dell’Argentina il più progredito Paese dell’America del Sud»: p. 199) e nei quattro anni di governo del generale golpista Juan Carlos Onganía (1966-70).

Chiude questa serie di libri di alta divulgazione Presidente a metà. L’elezione presidenziale negli Stati Uniti (Milano 1980). Di minore impegno rispetto ai libri su Perón e sull’Unione Sovietica, anche in questo saggio affiora tuttavia una larghissima informazione, attinta sia dai libri sia dalla stampa periodica (si citano Time e Le Monde, ma si citano anche Guglielmo Ferrero e Tocqueville), e soprattutto un talento narrativo che riesce a trasformare in racconto anche l’argomento in apparenza più arido, e che poté svilupparsi infine in piena libertà, splendidamente, nella più volte citata autobiografia Giorni lontani. Appunti e ricordi, uscita postuma per Il Mulino (con prefazione di R. De Felice e introduzione di G. Spadolini, Bologna 1989).

Morì, a Chianciano, il 2 agosto 1986.

Fonti e Bibl.: Il Fondo Vita-Finzi è conservato presso la Fondazione Spadolini – Nuova Antologia di Firenze.

Per la biografia: Annuario diplomatico della Repubblica italiana 1963. Volume primo, Roma 1963, pp. 617 s.; G. Spadolini, P. V.-F. fra storia e diplomazia in sessant’anni di vita italiana, Firenze 1988 (estratti della Nuova Antologia); Arrigo Cajumi: lettere a V.-F. (1929-1955), a cura di G. Torlontano, in Nuova Antologia, 1989, n. 2169, pp. 406-439; n. 2170, pp. 123-166; E. Serra, I ricordi di P. V.-F., in Affari esteri, LXXXIV (1989), pp. 735-744; C. Giunta, P. V.-F.: le delusioni di un liberale, in Paragone Letteratura, 2018, n. 138-139-140, pp. 12-50; F. Cavarocchi, Il ministero degli Esteri di fronte all’applicazione delle leggi antisemite del 1938, in Giornale di storia, 2018, n. 28, pp. 1-14, https://www.giornaledistoria.net/wp-content/uploads/2019/01/Cavarocchi_1938_MAE_DEF.pdf (26 luglio 2020).

TAG

Angelo fortunato formiggini

Vittorio beonio brocchieri

Democrazia cristiana

Emigrazione italiana

Regione ciscaucasica