GIOVANNI VIII, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOVANNI VIII, papa

Antonio Sennis

Romano di nascita, figlio di Gundo, della sua vita prima dell'elezione a pontefice si sa che fu arcidiacono ed ebbe un ruolo di rilievo al concilio dell'853, nel corso del quale Anastasio Bibliotecario, allora cardinale prete del titolo di S. Marcello, fu deposto dall'ufficio sacerdotale. In occasione del concilio romano antifoziano del giugno 869, di cui sottoscrisse gli atti, G. lesse la Allocutio Hadriani prima, con ogni probabilità sua.

La successione di G. ad Adriano II, morto dopo la metà di novembre dell'872, dovette avere luogo non senza contrasti. In alternativa a lui era stato infatti proposto Formoso, l'energico vescovo di Porto che, in virtù anche dell'abilità mostrata nel corso della sua missione in Bulgaria nell'866, godeva di ampi consensi all'interno della Curia romana. G. fu comunque consacrato il 14 dic. 872.

La gran parte delle informazioni su G. è ricavabile dalla corrispondenza del pontefice, conservatasi in tre nuclei documentari principali. Il primo è rappresentato da un codice (Arch. segreto Vaticano, Reg. Vat. 1), redatto nel sec. XI a Montecassino con ogni probabilità a partire dal registro originale, che contiene le lettere relative alle ultime sei indizioni pontificie (876-882). Il secondo è costituito dalla nota Collectio canonum di Deusdedit, approntata sotto Vittore III e che contiene, tra gli altri, alcuni frammenti di epistole redatte nei primi anni di pontificato di Giovanni VIII. Infine la cosiddetta Collectio Britannica, contenuta in un codice del XII secolo oggi conservato alla British Library (Add. mss. 8873). Altri frammenti sono sopravvissuti, in numero minore, in raccolte quali la cosiddetta Collectio trium partium, e quelle di Anselmo da Baggio, Ivo di Chartres, Graziano (cfr. Ewald).

Uno dei primi impegni del nuovo pontefice fu quello di affrontare con decisione la minaccia costituita da bande di saraceni che, acquartierati al Garigliano, correvano ormai da decenni le coste laziali. In una delle sue prime lettere, indirizzata all'imperatrice Engelberga, moglie di Ludovico II, G. manifestò infatti l'intenzione di realizzare un ambizioso programma che prevedeva l'approntamento di una flotta e l'ulteriore munizione delle difese cittadine.

I Saraceni intrattenevano rapporti di reciproco aiuto con i diversi potentati - il Ducato di Amalfi, il Ducato di Gaeta, il Ducato di Napoli, il Principato di Salerno - che si trovavano lungo il litorale tirrenico a sud di Roma. G. inviò una serie di lettere ai loro reggitori, minacciando ora l'uno ora l'altro di scomunica se non avessero abbandonato quel sodalizio. Tuttavia se, come pare plausibile, il "Degivilis excommunicatus", cui il papa si rivolse (in un'epistola conservatasi in forma frammentaria e databile con qualche approssimazione al dicembre 872-maggio 873), è da identificare con l'ipato di Gaeta Docibile, allora appare evidente che gli avvertimenti pontifici non sortirono effetti rilevanti.

G. dovette allora comprendere che non sarebbe mai riuscito a rompere quei patti se non accettando pesanti compromessi, anche economici. Nell'874 egli donò quindi a Docibile i patrimonia pontifici di Traetto (odierna Minturno) e Fondi, situati lungo la costa meridionale della Campania romana. La concessione, e la successiva conferma da parte di papa Giovanni X (914 circa), sopravvivono solo come inserti all'interno di un documento del luglio 1014 relativo a una disputa tra Giovanni (V) duca di Gaeta, Dauferio conte di Traetto e il monastero di Montecassino. È dunque problematico non solo cogliere appieno la portata giuridica, oltre che la reale consistenza, della donazione, ma anche le circostanze precise in cui essa fu conferita. Stando alla testimonianza del cronista Erchemperto, i Gaetani - insieme con i Salernitani, gli Amalfitani e i Napoletani - si erano apertamente uniti in alleanza ai Saraceni, e insieme con loro minacciavano Roma. È molto probabile che la concessione di cui sopravvive testimonianza facesse parte di una serie di tentativi papali di riguadagnare alla Chiesa di Roma la solidarietà armata dei signori meridionali. Secondo il racconto della cronaca cassinese, solo i Napoletani perseverarono nella propria ostilità nei confronti del pontefice, e infatti il loro duca Sergio (II) fu prima scomunicato da G., e poi accecato e condotto prigioniero a Roma dal suo stesso fratello, il vescovo Atenolfo. Il principe salernitano Guaiferio fu invece pronto ad abbandonare la lega, ingaggiando addirittura battaglia con i Saraceni. Anche gli Amalfitani promisero nuova dedizione a G., in cambio di una cospicua somma di denaro e di importanti agevolazioni commerciali. È molto probabile, anche se il cronista non specifica la natura dell'intervento papale, che i Gaetani seguissero una condotta simile. Risulta infatti che pochi anni più tardi, nell'880-881, essi "Romano tantum pontifici serviebant" (Chronica monasterii Casinensis, p. 113).

Nel frattempo (agosto dell'875) era morto l'imperatore Ludovico II. G. decise di manifestare il proprio favore nei confronti del sovrano dei Franchi occidentali Carlo il Calvo, figlio di secondo letto di Ludovico il Pio e fratellastro di Lotario, padre dell'imperatore da poco defunto. Nel settembre di quello stesso anno egli inviò dunque al re un'ambasceria, capeggiata proprio dal suo rivale di qualche anno prima, il vescovo Formoso, con cui G. doveva quindi avere stabilito rapporti di collaborazione. La missione, cui parteciparono anche i vescovi Gauderico di Velletri e Giovanni di Arezzo, aveva lo scopo di comunicare a Carlo che G. aveva scelto lui come nuovo imperatore, e di invitarlo a recarsi a Roma per la cerimonia di incoronazione.

La scelta di G. non era affatto scontata, come farebbe pensare l'andamento disteso della lettera portata dai legati papali (cfr. Fragmenta registri […], in Registrum Iohannis VIII papae, n. 59 p. 311). Al contrario, tra i grandi del Regno franco non vi era affatto accordo su chi dovesse essere il nuovo imperatore. Stando ad alcune fonti - per esempio l'anonimo Libellus de imperatoria potestate… - in punto di morte Ludovico II aveva fatto il nome di Carlomanno, re di Baviera e figlio di Ludovico il Germanico, quale suo successore. Non si trattava forse che di una fiduciosa indicazione, anche se in seguito Carlomanno l'avrebbe intesa come investitura formale, almeno per ciò che concerneva l'Italia, dato che si riferì a Ludovico II, nipote di suo padre, e suo primo cugino, come a colui "qui nobis regnum istud disposuerat" (cfr. per esempio un diploma dell'ottobre 877 destinato al monastero abruzzese di S. Clemente a Casauria, in Mon. Germ. Hist., Diplomata, Diplomata regum Germaniae ex stirpe Karolinorum, I, a cura di P. Kehr, Berlin 1956, n. 4, pp. 289 s.). In ogni modo una fazione "orientale", che appoggiava la candidatura di Carlomanno, esisteva e accoglieva personaggi di dignità ineccepibile, prima fra tutti Engelberga, la vedova di Ludovico II.

La decisione di G. fu forse dettata anche dalla volontà di non contravvenire alle preferenze dei due pontefici suoi predecessori - Niccolò I e Adriano II - che già in passato, il secondo addirittura in una lettera all'interessato, avevano considerato benevolmente l'eventualità di un'accessione imperiale di Carlo. Non è possibile stabilire con certezza se il favore di cui nella circostanza poté godere il sovrano fosse in qualche misura prezzolato, come sostenne l'autore della terza parte degli Annales Fuldenses. Questi, che scriveva probabilmente a Magonza e non nascondeva la propria adesione al ramo carolingio franco-orientale, affermò infatti che Carlo doveva il proprio successo alla "pecunia" con cui, nuovo Giugurta, si era guadagnato l'alleanza del "senatus populi Romani". È possibile che i desideri ai quali, secondo questa forse maliziosa presentazione degli avvenimenti, il pontefice avrebbe dato il proprio assenso, fossero quelli del Senatus di Roma (cfr. Arnaldi, 1990, pp. 10 s.). In tal modo non si accusava direttamente il pontefice di corruzione, ma si avanzavano comunque pesanti dubbi sulla sua integrità. Si può tuttavia pensare che l'annalista, accogliendo una versione che doveva circolare in quegli stessi ambienti franco-orientali (vedi per esempio Reginone di Prüm), riferisse il primo "eius" non al Senato, ma a Carlo stesso. Egli quindi avrebbe inteso che tutta la compagine cittadina, compreso G. (e quell'"ita ut etiam" di attacco dava alla constatazione un tono di affettato stupore), non aveva fatto altro che assecondare, per avidità o debolezza, le smanie di potere del figlio di Ludovico il Pio. D'altronde egli non fa alcun cenno all'invito che - stando a fonti romane o vicine alla fazione occidentale, per esempio gli Annales Bertiniani - il pontefice avrebbe rivolto a Carlo il Calvo affinché scendesse in Italia per cingere la corona imperiale. Il ruolo di G. nella vicenda, che da parte romana si voleva comprensibilmente enfatizzare, risultava quindi, nelle interpretazioni della parte avversa, se non affatto marginale certamente secondario rispetto alla volontà del sovrano franco. La testimonianza di Reginone di Prüm concorre inoltre a mostrare che in quegli ambienti non vi era alcuna reticenza ad accusare esplicitamente Carlo di avere comprato la propria dignità e quindi, nemmeno troppo indirettamente, il pontefice di avergliela venduta. Nella sua Chronica universalis egli dichiarò infatti che Carlo "imperatoris nomen a praesule sedis apostolicae Iohanne ingenti pretio emerat" (pp. 112 s.).

Il conferimento della dignità imperiale a Carlo ebbe comunque luogo a Roma, il 25 dic. 875. La procedura seguita per l'elezione e la cerimonia dell'unzione e incoronazione furono dettagliatamente ripercorse dallo stesso G. circa due anni dopo, nell'agosto 877, al cospetto dei vescovi riuniti a Ravenna. Le parole con cui il pontefice ne diede conto sono state oggetto di minuziose analisi (Arnaldi, 1990, pp. 1-19) con lo scopo di cogliere le strategie di rappresentazione ideologica del Papato, e con esso della società romana, nella tarda età carolingia. In un racconto che mirava - nei simboli e nelle formule cui ricorreva - a sottolineare la cornice antichizzante in cui la cerimonia si sarebbe svolta, G. avrebbe tra le altre cose fatto passare per consolidato, e quindi autorevole, anche il processo decisionale che aveva portato alla scelta del nuovo imperatore. Egli avrebbe infatti definito "prisca" la consuetudine secondo la quale alla scelta imperiale avevano concorso il clero, l'aristocrazia ("senatus") e il popolo romano. Sarebbe cioè in sostanza ricorso a un brillante sotterfugio per fare credere assodato ciò che era tutto da dimostrare: il fatto che era Roma a scegliere l'imperatore dei Romani.

È tuttavia possibile che il pontefice, nel quadro di quella sottile strategia di affermazione ideologica delineata da Arnaldi, fosse più prudente di quanto non appaia da questa lettura. Millantare per canonica una procedura come quella appena descritta, contando semplicemente sulla distrazione degli ascoltatori, sarebbe forse stato un tentativo troppo velleitario. Si può invece ritenere che G., nel parlare di "prisca consuetudo", facesse riferimento unicamente alla cerimonia di incoronazione e unzione del nuovo imperatore, cioè al conferimento dei simboli - lo scettro e il nomen augustalis - della dignità imperiale e all'aspersione del candidato con l'olio santo. È ben noto del resto che proprio Carlo il Calvo fu il sovrano carolingio che più ebbe a cuore la messa a punto di cerimoniali di incoronazione via via più raffinati (cfr. a tale proposito R.-H. Bautier, Sacres et couronnements sous les Carolingiens et les premiers Capétiens. Recherches sur la genèse du sacre royal français, in Annuaire - Bulletin de la Société de l'histoire de France, CXXIV [1987], pp. 33-43). D'altronde l'unzione del sovrano da parte di un vescovo rappresentava, nell'interpretazione franca delle cerimonie dei sovrani d'Israele tradite dalla Bibbia, proprio una tradizione ecclesiastica. Il pontefice avrebbe così presentato, come garanzia (quasi a posteriori) di genuinità della scelta propria, del clero e dei Romani - o, meglio, di tutto ciò che era avvenuto nei giorni immediatamente precedenti la cerimonia di incoronazione -, il rispetto di una consuetudo formale indiscussa, alla cui definizione e legittimità concorrevano autorità scritturale e tradizione regia. Va segnalato inoltre il fatto che il pontefice non era il solo a rappresentare in tale modo l'elezione imperiale di Carlo. In quegli stessi anni, l'anonimo continuatore della cronaca dell'arcivescovo Adone di Vienne sottolineò infatti con forza ancora maggiore da un lato il ruolo della cittadinanza romana nella scelta imperiale, dall'altro il valore legittimante della consacrazione da parte del pontefice. Egli infatti scriveva che Carlo "orandi causa ad limina apostolorum pervenit, ibique a cuncto populo Romano imperator eligitur, et a Iohanne papa in imperatorem consecratur" (p. 325). È inoltre molto probabile che, in occasione di questa prima discesa in Italia del sovrano franco, sia giunta a Roma la cosiddetta "cattedra di s. Pietro", il trono ligneo con decorazioni in avorio, argento e paste vitree oggi conservato nella basilica vaticana. Non è invece chiaro se sia da riferire a questa stessa circostanza, o piuttosto alla seconda spedizione italiana di Carlo il Calvo (estate 877), una Bibbia confezionata, forse a Reims subito dopo l'870, in onore della seconda moglie del sovrano, Richilde, e oggi conservata a S. Paolo fuori le Mura (sui due oggetti, sulle circostanze del loro arrivo a Roma e sui loro contenuti ideologici sono ancora essenziali, tra gli altri, E.H. Kantorowicz, The Carolingian king in the Bible of S. Paolo fuori le Mura, in Late classical and Medieval studies in honor of A.M. Friend, Princeton 1955, pp. 287-300; E. Gahedle, The Bible of S. Paolo fuori le Mura in Rome, in Gesta, V [1966], pp. 9-21; G. Arnaldi, La cattedra di S. Pietro, in La Cultura, XII [1974], pp. 336-347; C. Frugoni, L'ideologia del potere imperiale, in Bull. dell'Istituto storico italiano per il Medioevo, LXXXVI [1976-77], pp. 1-104; J.M. Wallace-Hadrill, A Carolingian renaissance prince: the emperor Charles the Bald, in Proceedings of the British Academy, LXVII [1978], pp. 155-184; G. Arnaldi, 1990, pp. 115-128).

Nelle aspettative del pontefice, Carlo il Calvo avrebbe dovuto rappresentare un valido aiuto nella lotta contro i Saraceni. Del resto egli sulle prime si mostrò piuttosto favorevole verso la Sede apostolica, mantenendo nei suoi confronti atteggiamenti munifici, anche se E. Stengel è del parere che, contrariamente a ciò che si legge nel Libellus de imperatoria potestate… (pp. 208 s.), il privilegio rilasciato da Carlo a G. nell'estate dell'876 a Ponthion, pur rappresentando un importante incremento dei privilegi della Chiesa, non è altro che una riproposizione, dilatata, del patto più antico. Il nuovo eletto deluse però ben presto le speranze di G., limitandosi ad affidare la difesa dei territori pontifici a Lamberto, duca di Spoleto. Il pontefice decise quindi, da un lato, di rafforzare la presenza apostolica Oltralpe nominando Ansegiso di Sens suo vicario in Gallia e Germania (gennaio 876), dall'altro, egli mirò a dare ulteriore solidità alle proprie posizioni sul fronte interno, fiaccando sul nascere le ambizioni di potere di coloro che lo avversavano. Tra loro vi era anche Formoso, con il quale G. sembrava, come si è visto, avere mantenuto rapporti di collaborazione. Il 31 marzo 876, cioè solo poco tempo dopo l'elevazione al trono di Carlo, il pontefice, dopo aver denunciato al neoimperatore, che si trovava a Pavia, i misfatti che avevano compiuto, fece rimettere al nomenculator Guglielmo e al magister militum e vestararius Giorgio "de Aventino" un mandato di comparizione. Quindici giorni più tardi i due, impadronitisi di buona parte del tesoro, fuggirono da Roma con i loro complici, fra i quali, oltre ad altri dignitari del Palatium Lateranense, c'era anche il vescovo di Porto, Formoso. I fuggitivi furono subito giudicati in contumacia e l'11 luglio, a Ponthion, fu data pubblica lettura della missiva con cui il 21 aprile G. aveva dato notizia al clero e ai fedeli di Gallia e Germania della "damnatio Formosi episcopi, Gregorii nomencolatoris et consentientium eis". Fra le accuse vi era anche quella di avere attentato alla solidità dell'Impero, probabilmente un nemmeno troppo velato accenno a un loro dissenso nel corso della scelta imperiale avvenuta pochi mesi prima.

Tuttavia la situazione tornò a farsi critica quando, nella tarda estate dell'877, Carlomanno scese in Italia per rivendicare i propri diritti dinastici. Carlo il Calvo - che nonostante la continua minaccia delle incursioni normanne, cedendo alle insistenze di G. perché gli prestasse aiuto contro i Saraceni, aveva intrapreso la sua seconda spedizione italiana e, dopo aver incontrato il papa a Vercelli, in quel momento si trovava a Pavia -, dapprima ripiegò con G. a Tortona da dove, quando apprese che non gli sarebbero giunti gli attesi rinforzi, decise di far ritorno in patria, morendo per via, mentre il papa rientrava a Roma. Anche Carlomanno, caduto malato, fu costretto a rivedere le proprie ambizioni, e ciò fece sì che i duchi Lamberto di Spoleto e Adalberto di Toscana tentassero di forzare la situazione. Essi infatti, con il sostegno del gruppo di esiliati capeggiato da Formoso, entrarono in città, imprigionarono il pontefice e obbligarono la cittadinanza a giurare la propria fedeltà a Carlomanno.

G. riuscì a fuggire e, per mare, giunse in Provenza (maggio 878). La sua prima scelta per la successione imperiale a Carlo il Calvo dovette cadere sul figlio di questo, Ludovico il Balbo.

Il pontefice nominò proprio Ludovico suo consiliarius a secretis al posto del padre defunto. Tuttavia l'accoglienza che gli fu riservata non fu delle migliori. Anche i suoi tentativi di convocare a concilio i sovrani che si dividevano il Regno dei Franchi (Ludovico il Balbo e i tre figli di Ludovico il Germanico) fallirono a più riprese. Alle sue lettere i sovrani orientali risposero addirittura di non capire il motivo della richiesta. Dal Regno franco-occidentale, dove si era recato nel maggio 878 e dove, nell'agosto, a Troyes, riuscì a convocare il progettato concilio, andato però praticamente deserto (lo stesso Ludovico il Balbo arrivò in ritardo, malato), G. rientrò a Roma a mani vuote, scortato fino a Pavia da Bosone, conte di Vienne e fratello di Richilde, vedova di Carlo il Calvo, nel quale intravide per qualche tempo un possibile candidato all'Impero. Morto Ludovico il Balbo (aprile 879), colpito da paralisi Carlomanno all'inizio dello stesso anno, incerto sul da farsi Ludovico il Giovane, il pontefice dovette quindi risolversi a optare per il terzo figlio di Ludovico il Germanico, Carlo il Grosso. Appare infatti poco sostenibile una pur suggestiva ipotesi secondo la quale il fatto che in una lettera del giugno 880 G. si rivolgesse a Sventopluk di Moravia con la formula "apostolatus nostri ulnis extensis te quasi unicum filium amore ingenti amplectimur", farebbe pensare che il papa aveva pensato di sostituire il duca di Moravia ai Carolingi alla guida dell'Impero (Havlík, 1991, pp. 170 s., che pure sfuma, accettandola però nella sostanza, l'opinione di F. Dvornik, The Slavs. Their history and civilisation, Boston 1956, p. 96).

Carlo il Grosso, però, ben lungi dall'ottemperare alle richieste di G. che voleva da lui alcune garanzie, nell'879 invase senza indugio l'ex Regno longobardo d'Italia, che lasciò per far ritorno in patria nell'aprile dell'anno seguente, sempre incurante degli appelli papali. Solo nel febbraio 881 si recò a Roma, dove fu incoronato imperatore. Date queste premesse, non sorprende che egli abbia eluso le aspettative del papa, che dovette da solo prendere l'iniziativa di fortificare l'area extramuranea circostante il monastero di S. Paolo, dando vita alla cosiddetta "Iohannipolis". Il nuovo nucleo fortificato muniva, insieme con la "Gregoriopolis" (fondata da Gregorio IV sul sito dell'antica "civitas Hostiensis") e con "Portus" (ricolonizzata da Leone IV), il percorso che dalla foce del Tevere conduceva a Roma.

A partire dall'878 G. tentò anche di ristabilire buoni rapporti con la Chiesa bizantina. Il patriarca Fozio, condannato nel corso dell'ottavo concilio ecumenico (Costantinopoli, ottobre 869 - febbraio 870), era stato reintegrato nelle sue funzioni, dopo la morte, il 23 ott. 877, del patriarca Ignazio. L'imperatore Basilio I chiese pertanto a G. di riconoscere la legittimità di Fozio. Il pontefice, per il tramite di legati che aveva inviato a Costantinopoli, si dichiarò pronto a soddisfare la richiesta, a patto che Fozio riconoscesse gli errori commessi nei confronti della Chiesa romana e, soprattutto, che la Chiesa di Costantinopoli rinunciasse alla giurisdizione sulla Chiesa bulgara. Le epistole con cui il pontefice rendeva esplicite le proprie condizioni furono lette nel corso di un concilio presieduto dallo stesso Fozio (novembre 879). Tuttavia la traduzione greca che fu fatta di esse alterò in parte il loro contenuto, probabilmente per espungere i passi di più aperta condanna nei confronti del presule costantinopolitano. In sostanza si giunse comunque a un accordo: da parte bizantina si rinunciò a contestare alla Chiesa di Roma i diritti giurisdizionali che essa vantava su quella bulgara (in cambio i missionari inviati da Costantinopoli avrebbero però potuto continuare a operare indisturbati); da parte romana si accettò l'annullamento dei sinodi antifoziani e la riaffermazione della validità del Credo approvato dal concilio del 381, senza ulteriori aggiunte (il che voleva dire in sostanza senza il "Filioque", ma evitando di dirlo apertamente), e si riconobbe esplicitamente l'ecumenicità del concilio di Nicea del 787. Tuttavia, almeno sul fronte bulgaro, il successo di G. fu solo apparente. La Chiesa bulgara sarebbe rimasta definitivamente sotto la giurisdizione di Costantinopoli.

In altri campi, poi, i rapporti con la Chiesa bizantina si mantennero tesi. Nel corso del pontificato di G. rimasero infatti evidenti i contrasti tra Roma e la capitale dell'Impero d'Oriente per il controllo ecclesiastico dell'Illirico e della Dalmazia, da sempre area di frizione tra le due Chiese. Nel giugno dell'879 il pontefice scrisse per esempio a Teodosio, vescovo designato di Nin (Nona), in Dalmazia, per esortarlo a rientrare "ad gremium sedis apostolicae" e a non pensare neppure a rivolgersi "in quamlibet aliam partem" per vedere riconosciuta la propria legittimità episcopale. Teodosio, infatti, evidentemente blandito dal patriarca costantinopolitano, stava indugiando troppo ad accettare di essere consacrato da Giovanni. Questi minacciò anche di ricorrere all'arma estrema della scomunica contro quei vescovi dalmati - in particolare quelli di Zara, di Ossero e di Spalato - che si fossero mostrati riluttanti a tornare all'obbedienza romana che avevano abbandonato accettando "consecrationes et pallia" da altri. Il pontefice si dichiarava del resto pronto a fornire il proprio aiuto nel caso che a questi presuli giungesse qualche minaccia "de parte Grecorum vel Sclavorum". In questa circostanza l'iniziativa di G. fu comunque coronata da successo. Il vescovo di Nin decise di seguire le indicazioni che gli giungevano da Roma, e la scelta latina del popolo croato sembrava avviarsi a essere definitiva. È molto probabile che su tale risoluzione avesse peso l'orientamento romano del principe Branimir, la cui autorità era stata di recente riconosciuta come unica e suprema da tutte le tribù croate. In una serie di lettere inviate a Branimir tra l'879 e l'882, G. si felicitò con lui per la fedeltà che aveva mostrato nei confronti della Sede romana.

Eguale, pur se momentaneo, fu il successo di G. nella difesa dell'attività pastorale di Metodio, arcivescovo di Pannonia ed evangelizzatore della Moravia, osteggiato dal clero germanico. Quando questi fu imprigionato dal vescovo di Frisinga (873), G. ottenne che fosse liberato e che gli fosse consentito di riprendere la predicazione procedendo anche alla traduzione dei testi liturgici nella lingua locale. L'ostilità del clero germanico, tuttavia, crebbe a tal punto che G. fu costretto, in una lettera dell'879 allo stesso Metodio, a vietargli qualunque uso liturgico della lingua locale.

G. morì il 16 dic. 882 e fu sepolto subito fuori della basilica vaticana, "iuxta portam Iudicii". Secondo l'anonimo compilatore della quarta parte degli Annales Fuldenses, egli sarebbe stato avvelenato da qualcuno che gli era vicino, forse addirittura un suo parente, e quindi percosso a morte da un gruppo di congiurati che facevano capo a costui. La testimonianza è tuttavia isolata, e non è quindi possibile determinare con precisione le circostanze della sua morte.

Alcuni episodi successivi, come il ritorno di Formoso e la sua successiva ascesa al pontificato o gli atteggiamenti di papa Stefano V riguardo alla questione metodiana, farebbero pensare che le decisioni di G. abbiano avuto breve durata.

Si può tuttavia aggiungere che la memoria colta avrebbe rielaborato alcuni episodi del pontificato di G. in chiave talvolta anche romantica. Così il suo viaggio in Francia ebbe eco vastissima nelle fonti dell'epoca, finendo registrata in quasi tutte le cronache e le compilazioni annalistiche redatte tra IX e XII secolo (per esempio, Annales Sangallenses maiores, a cura di D.I. von Arx, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, I, Hannoverae 1826, p. 77; Chronicon Suevicum universale, a cura di H. Bresslau, ibid., XIII, ibid. 1881, p. 65; Annales Floriacenses breves, a cura di G. Waitz, ibid., p. 87; Annales Weingartenses, a cura di G.H. Pertz, ibid., p. 66), alcune volte con un resoconto dettagliato del viaggio (cfr. Annales Vedastini, a cura di G.H. Pertz, ibid., p. 517), altre con particolari probabilmente non veritieri, come la consacrazione in quella circostanza dei due monasteri di S. Maria di Vézelay e dei Ss. Pietro e Paolo a Pothières (Monumenta Vizeliacensia, a cura di R.B.C. Huygens, in Corpus Christianorum. Continuatio mediaevalis, XLII, Turhnolti 1976, p. 212). E, ancora, nel dare conto dell'accessione di Carlo il Calvo all'Impero, l'anonimo compilatore di una genealogia dei re franchi (edita, dal ms. Parigi, Bibl. nat., Par. lat. 5294, nella raccolta Genealogiae Karolorum, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, XIII, Hannoverae 1881, p. 247), attivo tra il 954 e il 986, avrebbe dichiarato che questi "imperium obtinuit ordinatus a Iohanne bono papa". In questo caso rimane, certo, il dubbio che ciò che pare un favorevole giudizio morale sia semplicemente il risultato di un lapsus calami di qualcuno che erroneamente ritenne G. il "nonus" della serie dei pontefici con quel nome. Evidente è invece in una canzone di gesta la rilettura epica di alcuni atti di G. nel corso del suo viaggio in Francia (Lohrmann, 1982).

Fonti e Bibl.: Ado archiepiscopus Viennensis, Chronicon, a cura di G.H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, II, Hannoverae 1829, p. 325; Chronica monasterii Casinensis, a cura di H. Hoffman, ibid., XXXIV, München 1980, p. 110; Erchempertus, Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. Waitz, ibid., Script. rer. Lang. et Ital. saec. VI-IX, ibid. 1878, p. 249; Annales Bertiniani, a cura di G. Waitz, ibid., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, V, Berolini 1883, p. 127; Annales Fuldenses, a cura di F. Kurze, ibid., VII, ibid. 1891, ad indicem; Regino abbas Prumiensis, Chronicon cum continuatione Treverensi, a cura di F. Kurze, ibid., L, ibid. 1890, pp. 112 s.; Registrum Iohannis VIII papae, a cura di E. Caspar, ibid., Epistolae, VII, 1-2, ibid. 1912-28, p. 85; G. Levi, Il tomo I dei Regesti vaticani (lettere di G. 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