GIOVANNI XXII, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOVANNI XXII, papa

Christian Trottmann

Jacques Duèse (Jacme Duesa), figlio di Arnaud, nacque a Cahors nel Sudovest della Francia, intorno al 1244 da una famiglia molto abbiente della borghesia cittadina.

Minuto e delicato nel fisico, aveva tuttavia una mente vivace e uno spirito arguto ed era dotato soprattutto di una notevole perspicacia politica. Ebbe una formazione principalmente giuridica, acquisita a Cahors, a Montpellier e a Orléans, dove conseguì il titolo di dottore in utroque iure; pare abbia studiato anche teologia a Parigi, ma senza giungere alla licenza; fu docente di diritto civile a Tolosa. Ottenne benefici nella sua regione di origine e in un ambito più vasto: fu arciprete di Cahors, canonico di St-Front di Périgueux, arciprete di Sarlat, decano di Le Puy. Nel 1300 venne eletto vescovo di Fréjus. Familiare del re di Sicilia Carlo II d'Angiò ancor prima del 1298, questi lo nominò nel 1308 cancelliere del Regno di Sicilia. A questa fase risale il primo complotto ordito contro di lui. Nel frattempo aveva con ogni probabilità conosciuto e assistito con i suoi consigli il figlio di Carlo II, Ludovico, arcivescovo di Tolosa, che si sarebbe affrettato a canonizzare (nel 1317) poco dopo la sua elezione al soglio pontificio. Jacques Duèse rimase probabilmente ancora per qualche tempo presso la corte napoletana, al servizio di Roberto d'Angiò, succeduto al padre nel 1309, ma il 18 marzo 1310 Clemente V lo nominò vescovo di Avignone, città nella quale si era stabilita la corte pontificia. Passò dunque al servizio del papa, che gli affidò missioni delicate, confacenti alle sue competenze giuridiche, come nel processo alla memoria di Bonifacio VIII o, in seguito, al concilio di Vienne. Nel dicembre 1312, all'età di 68 anni, fu creato cardinale del titolo di S. Vitale. Nell'aprile dell'anno successivo ebbe assegnato il ricco vescovato di Porto.

La sua elezione al papato, nel 1316, fu estremamente complessa e l'avvio del suo pontificato molto turbolento.

Prima di morire a Roquemaure, nel Gard, il 20 apr. 1314, Clemente V aveva previsto la difficoltà di arrivare a eleggere un nuovo pontefice nella costituzione Ne Romani del 1312. Prospettando il caso in cui i cardinali, incapaci di trovare un accordo, si fossero allontanati dal conclave, individualmente o insieme, la disposizione del papa stabiliva che in virtù della costituzione precedente, Ubi periculum di Gregorio X, del 1274, ai pubblici poteri della città in cui si svolgeva l'elezione - o in ultima istanza ai principi, secondo l'opinione di Giovanni d'Andrea - sarebbe spettato il compito di costringerli a riprendere i loro lavori, che avrebbero dovuto tenersi entro i confini della diocesi in cui il papa era defunto.

A seguito di ciò, ventitré cardinali, in assenza di Luca Fieschi, si riunirono nel palazzo episcopale di Carpentras, all'epoca sede della Curia, agli inizi di maggio del 1314. Come previsto, fra i prelati si produsse una spaccatura e si configurarono quindi tre schieramenti: il più potente, quello guascone, raccoglieva dieci cardinali, tutti creati dal defunto papa, ed era appoggiato da due suoi nipoti, Bertrand de Got visconte di Lomagne e Raimond Guilhem de Budos. A questo fronte piuttosto compatto si contrapponeva un gruppo italiano, che poteva contare su sette membri, divisi tuttavia da reciproci sospetti. Infine, un terzo partito francese, ancor più disomogeneo, comprendeva tre cardinali originari della Linguadoca, due della Normandia e il futuro papa, del Quercy. Gli italiani avanzarono una prima candidatura, quella del giurista Guillaume de Mandagout, ma i guasconi la respinsero insieme con gli altri due cardinali della Linguadoca.

Mentre il conclave si trovava in questa impasse, nella città di Carpentras scoppiarono gravi disordini, che in un primo tempo videro fronteggiarsi servitori dei cardinali italiani e di quelli guasconi nonché soldati al soldo dei nipoti del defunto papa. Il 24 luglio 1314, i cardinali italiani, presi di mira, riuscirono ad aver salva la vita fuggendo dal palazzo episcopale sotto assedio. Fu così che il Sacro Collegio si disperse fra Avignone, Orange e Valence, con il risultato che il lungo tergiversare e le persistenti rivalità lasciarono vacante la Sede pontificia per oltre due anni.

La morte di Filippo il Bello, sopravvenuta il 24 nov. 1314, vanificò inoltre i reiterati tentativi del sovrano di richiamare all'ordine i cardinali; suo figlio, Luigi X, assicurò la continuità di questa politica, con il risultato di allontanare in un primo tempo la minaccia rappresentata dai nipoti di Clemente V. Il fratello del re, Filippo, conte di Poitiers (il futuro re di Francia Filippo V), poté assolvere l'incarico di riunire i cardinali a Lione nella primavera del 1316.

Tuttavia, mentre le operazioni si trascinavano nuovamente, la morte prematura di Luigi X contribuì ad accelerare il processo. Il conte di Poitiers, ritenendo che tali circostanze richiedessero la sua immediata presenza a Parigi, a tutela dei propri interessi, ed essendo ormai sciolto dalla promessa di non costringere i cardinali al conclave, li rinchiuse nel convento dei giacobini a Lione, dal quale non sarebbero usciti se non dopo aver eletto il nuovo pontefice. Affidò al conte di Forez l'incarico di vigilare sul conclave, indicandogli anche le proprie preferenze. Ma le prime candidature emerse in questa situazione non trovarono un sufficiente appoggio.

A questo punto il nome di Jacques Duèse, che figurava anche fra i papabili segnalati da Filippo, fu proposto da tre cardinali italiani e sulla sua persona si giunse a un accordo con i guasconi. La maggioranza assicurata da questo consenso si trasformò in unanimità il 7 ag. 1316 e il nuovo pontefice, eletto all'età di 72 anni, prese il nome di Giovanni XXII e si insediò rapidamente ad Avignone.

L'avvio del suo pontificato fu segnato da una serie di complotti, dei quali il più famoso fu quello ordito dal vescovo di Cahors, Hugues Géraud. A conclusione di una minuziosa indagine, il vescovo venne accusato di aver tentato di avvelenare sia il pontefice sia due suoi cardinali, Bertrando del Poggetto (Bertrand du Poujet) e Gaucelme de Jean. Furono salvati grazie alla tempestiva scoperta del complotto, ma la morte dell'amatissimo nipote del papa, Jacques de Via, il 13 giugno 1314, fu ritenuta effetto dei misfatti confessati da Hugues Géraud, che fu sottoposto a supplizio e bruciato nel settembre 1317. Questi esordi travagliati possono in qualche modo spiegare le tendenze nepotistiche di G., in quanto, tenuto conto dei pericoli, circondarsi di persone fidate si poteva considerare una misura precauzionale.

Grazie a un'abile gestione dei benefici ecclesiastici e alla messa a punto di un efficace sistema fiscale, G. inaugurò una politica oculata che fece affluire ingenti ricchezze alle casse della Chiesa. Infatti a tutte le collazioni e riserve di benefici corrispondeva una tassazione variegata e fruttuosa: servizi, annate, vacanze, decime, sussidi, diritti di spoliazione. Il 15 sett. 1316 la bolla Ex debito, prolungando la legislazione vigente, specificava che tutti i principali benefici divenuti vacanti per decesso "apud Sedem Apostolicam", per deposizione o privazione, per rinuncia nelle mani del papa, per trasferimento ad altro beneficio su iniziativa del papa, per rigetto di postulazione o di elezione, per accettazione di altri benefici conferiti dal papa sotto forma di provvigione o di aspettativa, dovevano essere riservati alla collazione pontificia. Di conseguenza il papa poté centralizzare un crescente numero di nomine a diversi benefici ecclesiastici, tanto più che la bolla Exsecrabilis, del 17 nov. 1317, vietava in linea di principio l'accumulo di più di un beneficio cum cura animarum e di un beneficio sine cura. I benefici in esubero dovettero quindi essere oggetto di rinuncia da parte dei loro beneficiari e furono così soggetti a nuove collazioni pontificie. Centralizzando le nomine, il Papato estendeva il proprio potere e induceva a moltiplicare le suppliche per ottenere i suoi favori. Lo stesso papa dispose inoltre delle sedi episcopali, anzi tese a eliminare le elezioni tramite i capitoli delle cattedrali.

Il pontefice si adoperò anche per ridimensionare le diocesi troppo importanti situate in prossimità della Sede papale: fu questo il caso della diocesi di Tolosa. Fin dall'inizio del XIII secolo Folchetto da Marsiglia aveva richiamato l'attenzione sulla sua eccessiva estensione e Bonifacio VIII il 23 luglio 1295 aveva già creato la diocesi di Pamiers. Ma G. sezionò ulteriormente il territorio di Tolosa, e precisamente i vescovati di Montauban, Rieux, Lombez, Saint-Papoul, Mirepoix e Lavaur. Insieme con Pamiers costituirono una nuova provincia ecclesiastica di cui Tolosa era la sede metropolitana. Allo stesso modo furono distaccati Castres da Albi, Sarlat da Périgueux, Vabres da Rodez, Alet e Saint-Pons de Tommières da Narbona, Condom da Agen, Luçon e Maillezais da Poitiers, Tulle da Limoges, Saint-Flour da Clermont. Questa politica fu proseguita in Aragona, con il distacco di Saragozza dalla provincia di Tarragona nel luglio 1318, e in Italia con l'erezione dell'abbazia di Montecassino a vescovato, il 2 maggio 1322 (revocata da Urbano V nel 1367).

Quanto alla politica estera di G., essa si estese fino al Baltico. Il papa non si limitò a incoraggiare una nuova crociata, ma sollecitò la lotta dei sovrani della penisola iberica contro i Mori, si preoccupò di rispondere all'appello dei re armeni minacciati dai Turchi, organizzò una serie di coalizioni e si impegnò affinché il re scismatico di Serbia Stefano Uroš III rientrasse in seno alla Chiesa romana (12 giugno 1323). Studi recenti documentano la corrispondenza ricevuta dal granduca di Lituania Gediminas nel 1322-23, il quale, nella sua opposizione all'imperatore, meditava di diventare vassallo del papa. Questi lo appoggiò contro l'Ordine teutonico, ma tardò troppo a inviargli i suoi emissari, che avrebbero potuto ottenere una conversione alla quale però Gediminas rinunciò nel 1324.

G. incoraggiò inoltre le missioni domenicane fra i Mongoli a nord del Mar Nero e in Persia, eresse a metropoli la città di Sultanieh (1° apr. 1318), poi Kerç in Crimea (1° ag. 1333), a vescovato Tiflis in Georgia per sostituire Smirne occupata nel frattempo dai Turchi e non dimenticò le missioni in Estremo Oriente, in Cina e in India.

Il papa si adoperò anche per ristabilire la pace all'interno dei territori della Cristianità, nel tentativo di evitare guerre in procinto di scoppiare, per esempio, tra la Francia e l'Inghilterra e fra il Ducato di Borgogna e la Contea d'Angiò, ma anche nel Mediterraneo, fra il Regno di Cipro e quello d'Armenia.

All'interno dell'attività legislativa di G. si situa, nel 1317, la promulgazione delle Clementine, decretali del suo predecessore Clemente V, emesse quasi interamente in occasione del concilio di Vienne. G., da parte sua, emanò un gran numero di testi che, raccolti sotto il nome di Extravagantes communes o Extravagantes Iohannis XXII, vennero successivamente riuniti al Corpus iuris canonici.

Ma il suo pontificato è contrassegnato soprattutto da tre grandi controversie: quella sulla povertà di Cristo, che lo costrinse al confronto con gli spirituali francescani, quella sul Papato e l'Impero, che lo oppose all'imperatore Ludovico IV il Bavaro e, negli ultimi anni, quella sulla visio beatifica che coinvolse l'intera Cristianità del tempo.

In relazione alla questione della povertà, G. aveva ereditato una difficile situazione, frutto di due anni di vacanza della Sede apostolica e della politica di compromesso condotta dai suoi predecessori. Le bolle Exiit qui seminat di Niccolò III e Exivi de Paradiso, approvata dal concilio di Vienne, avevano stabilito che la proprietà di beni materiali di cui godevano i frati minori era trasferita alla Sede apostolica, mentre essi ne avrebbero conservato unicamente l'uso. La cura della gestione delle proprietà francescane veniva quindi a ricadere sul papa e sui rappresentanti da lui designati, mentre i seguaci di s. Francesco potevano godere dei beni necessari alla loro sussistenza.

L'Ordine francescano era attraversato però dalla divisione profonda tra i conventuali, che si accontentavano di una povertà regolata secondo i principî esposti, e gli spirituali, che rifiutavano qualunque forma, anche mediata, di proprietà e che avevano ottenuto da Clemente V la facoltà di praticare forme di vita ascetica separatamente o all'interno di alcuni conventi dell'Ordine. Alcuni di loro conducevano un'esistenza da eremiti dentro grotte dell'Umbria o della Calabria, altri erano fuggiti dai conventi toscani per trovare rifugio in Sicilia. Inoltre gli spirituali, approfittando della duplice vacanza della Sede apostolica e della carica di generale dell'Ordine, avevano scacciato i conventuali dalle case in cui erano in maggioranza, per esempio a Narbona e a Béziers, le quali agli occhi del pontefice vennero così a rappresentare due minacciose roccaforti alle porte del suo dominio.

Il 2 maggio 1316 - appena due mesi prima dell'ascesa al soglio di G. - era stato eletto alla guida dell'Ordine francescano Michele da Cesena, il quale inoltrò al nuovo pontefice cinque suppliche che avevano l'obiettivo di risolvere il contrasto con gli spirituali. Il papa non tardò a prendere i primi provvedimenti: tra marzo e aprile del 1317 chiese al re di Sicilia Federico III d'Aragona e ai prelati di Sicilia di consegnare i frati ai superiori del loro Ordine e ordinò che le due roccaforti degli spirituali presenti in Linguadoca fossero evacuate. Una numerosa delegazione di spirituali si accampò davanti alle porte del palazzo pontificio di Avignone in attesa di essere ricevuta in udienza. Il 13 maggio 1317 essa venne ricevuta dal papa, ma la difesa degli irriducibili, affidata a Bernard Délicieux, risultò a tal punto maldestra che il loro portavoce venne arrestato insieme con altri cinque esponenti del gruppo. Nello stesso anno Angelo Clareno, dopo aver subito un processo, fu costretto a prendere l'abito della Congregazione dei celestini, mentre Ubertino da Casale divenne benedettino di Gembloux, dove peraltro non si recò, preferendo restare in Curia presso la famiglia cardinalizia di Napoleone Orsini.

Il 7 ott. 1317 fu promulgata la bolla Quorundam exigit, nella quale il pontefice riconosceva la povertà di Cristo, nel solco di Niccolò III, come pure le misure contro la proprietà concepite da Innocenzo IV e Clemente V. Tuttavia, su alcuni punti concreti, come sulla lunghezza dell'abito e sulle scorte di cibo da conservare, G. affidava il compito di decidere ai superiori dell'Ordine francescano. Minacciava inoltre di scomunica chiunque avesse rifiutato di sottomettersi a queste regole, ricordando che l'obbedienza era virtù superiore alla povertà.

Con le successive bolle Sancta Romana atque universalis Ecclesia, del 30 dic. 1317, e Gloriosam Ecclesiam, del 23 genn. 1318 G. prendeva di nuovo di mira i gruppi di fraticelli, bizzocchi o beghini di ogni obbedienza, nonché gli appartenenti a congregazioni non riconosciute dalla Sede apostolica. Le bolle ricordavano inoltre che i sacramenti erano validi a condizione che coloro che li amministravano, a prescindere dai loro costumi e dalle credenze professate, rispettassero l'obbedienza alla Chiesa spirituale dei successori di Pietro.

La fase seguente della battaglia di G. prese di mira gli scritti di Pietro di Giovanni Olivi, principale fonte di ispirazione dei discorsi con cui gli spirituali attaccavano il papa e la Chiesa. Questo francescano era stato perseguitato lungo l'intero corso della sua vita, dentro e fuori l'Ordine, a causa delle sue tesi radicali che non riguardavano unicamente la povertà di Cristo. Il suo corpo, a Narbona, era oggetto di una fervente venerazione. L'esame delle sue Postillae super Apocalypsim fu iniziato nel 1319 e approdò a una serie di condanne, anche se quella ufficiale fu pronunciata dal papa solo l'8 febbr. 1326. Il testo conteneva una dottrina ritenuta eretica, contraria alla sovranità del pontefice e all'unità della Chiesa, che veniva paragonata a Babilonia e alla prostituta dell'Apocalisse. Mentre l'Inquisizione perseguitava i sostenitori di spirituali e beghini non solo nel Sud della Francia ma anche in Spagna, in Italia e in Germania, i rappresentanti della comunità francescana riuniti in capitolo generale condannarono la dottrina dell'Olivi come eretica nella Pentecoste del 1319 e allontanati da Narbona i fedeli dell'Ordine, fecero radere al suolo la sua tomba.

Il dibattito sulla povertà di Cristo fu rilanciato in occasione del processo di un beghino, celebrato a Narbona nel 1321 dal domenicano Jean de Beaune, il quale giudicava eretica la proposizione secondo la quale Gesù Cristo non avrebbe posseduto mai niente, né di proprio né in comune. Ma il lettore del convento dei frati minori della città, Berengario Talon, intervenne richiamandosi alla decretale Exiit qui seminat di Niccolò III per affermare che questa dottrina, lungi dal costituire un'eresia, era stata accettata dalla Chiesa. Le sue dichiarazioni fecero sì che fosse ascoltato e trattenuto alla corte di Avignone, dove il papa sottopose ai suoi cardinali e teologi la questione riformulata in altri termini, ossia se fosse eresia negare con ostinazione che Gesù Cristo e i suoi apostoli avessero mai avuto qualcosa di proprio o in comune.

La discussione, nella Curia e anche al di fuori di essa, fu articolata e di ampio respiro. Gran parte dei francescani sostenne la tesi dell'assoluta povertà di Cristo, accolta, fra gli altri, dal cardinale Vital du Four, da Bertrand de La Tour e da un consistente numero di vescovi. Successivamente, G. con la bolla Quia nonnunquam del 26 marzo 1322 revocò il divieto, presente nella bolla di Niccolò III Exiit qui seminat di commentare la regola di s. Francesco. Sulla questione della povertà Ubertino da Casale giunse a proporre una soluzione la cui sottigliezza conciliatrice appare sorprendente provenendo da un esponente del francescanesimo più radicale. In quanto prelati universali della Chiesa, Cristo e gli apostoli possedettero beni per distribuirli ai poveri e ai ministri di Dio, ma come individui fondatori della povertà evangelica non possedettero nulla, limitandosi a esercitare il diritto naturale sui beni necessari alla loro sussistenza. Negare l'una o l'altra proposizione equivaleva a cadere nell'eresia.

I responsabili dell'Ordine francescano, che scorgevano nel dibattito una possibile minaccia per il loro privilegio di vivere in assoluta povertà, non solo individuale ma anche collettiva, convocarono un capitolo generale a Perugia, che nel giugno 1322 produsse una dichiarazione, sottoscritta da una quarantina di maestri di teologia di Parigi e Oxford, in cui si affermava che né Cristo, né gli apostoli avevano mai avuto proprietà personali o collettive. Adducendo numerose e ben articolate argomentazioni, si appoggiavano sull'autorità dei testi già citati di Niccolò III e Clemente V, approvati da G., ma anche su quelli di s. Francesco, di s. Antonio da Padova e di s. Ludovico di Tolosa, canonizzato da poco dal pontefice.

Basandosi sul principio che su tali questioni la decisione spettava alla Sede apostolica, G. rispose alle conclusioni del capitolo francescano con la bolla Ad conditorem canonum, dell'8 dic. 1322, con la quale il Papato rinunciava per sempre ai suoi diritti sui beni devoluti ai frati minori o a qualsiasi altro ordine mendicante. In tale modo poneva fine ai compromessi consentiti dai suoi predecessori, che aveva invece inizialmente approvato per tacitare gli scrupoli dei partigiani più estremisti della povertà assoluta. Il papa faceva rilevare che, ben lungi dall'emendarsi, i frati minori si erano mostrati ancora più aspri nella vittoria e più fieri della loro prerogativa evangelica, e affermava inoltre che nel caso di beni fungibili, la differenza fra proprietà e uso era pura finzione.

La risposta dell'Ordine, presentata da Bonagrazia da Bergamo, interpretando il sistema adottato in precedenza - ai cui fondamenti giuridici si faceva riferimento - come un regime di diritto divino, fu a tal punto violenta che il papa dovette temporaneamente recedere dalle sue posizioni, accettando di mantenere la proprietà della Chiesa romana sui beni più importanti quali chiese o abitazioni. Ma questo apparente ripiegamento lasciò al pontefice il tempo necessario per preparare la sua risposta dottrinale, che fu affidata il 12 nov. 1323 alla bolla Cum inter nonnullos.

Di tutta questa fase del dibattito, il manoscritto Vat. lat. 3740 fornisce una testimonianza preziosa. Come si è detto, la consultazione dei teologi più insigni era continuata dopo i concistori del marzo 1322. Nella primavera dell'anno seguente il papa ordinò che le risposte principali fossero copiate in uno stesso manoscritto per suo uso personale.

Annotato di suo pugno, il manoscritto, nelle prime due parti, espone le opinioni dei cardinali, vescovi e teologi francescani più importanti favorevoli alla povertà assoluta di Cristo e degli apostoli, seguite da una serie di obiezioni anonime e dalle risposte dei cardinali Vital de Four e Bertrand de La Tour. La terza parte raccoglie le opinioni contrarie della maggior parte dei cardinali non appartenenti all'Ordine dei frati minori. La quarta raggruppa quelle ostili alla povertà assoluta di un gran numero di vescovi: tra i più famosi, i due domenicani Durand de Saint-Pourçain, vescovo di Le Puy, e Egidio da Ferrara, patriarca di Alessandria. Fra i maestri che condividevano la stessa opinione, i cui contributi sono riuniti nella quinta parte, si annoverano i domenicani Hervé de Nédellec e Giovanni di Napoli, mentre tra gli anonimi figura un parere attribuito a Ubertino da Casale. Infine, la sesta parte comprende la redazione preparatoria della costituzione Cum inter nonnullos.

Questo documento, al pari di altri sulla questione della visio beatifica, testimonia del travaglio di elaborazione dottrinale di questo periodo e, in questo contesto, della stretta collaborazione di vescovi e teologi con il pontefice. Mancano il contributo del francescano Enrico Del Carretto, vescovo di Lucca, e del re Roberto d'Angiò, giunti troppo tardi per poter essere copiati insieme agli altri. Anche quello del carmelitano Guido Terreni fu ultimato solo alla vigilia di Natale. In altri manoscritti si trovano i testi di Michele da Cesena e Bonagrazia da Bergamo o, nel campo domenicano avverso, di Pietro da Palude e di Roberto da Bologna.

La bolla Cum inter nonnullos poneva fine al dibattito dottrinale dichiarando eretica la proposizione che negava che Cristo e gli apostoli avessero posseduto alcunché di proprio o in comune. Cristo e gli apostoli godevano non solo di un diritto d'uso sui beni in loro possesso ma anche di alienazione. Tra i francescani si delinearono allora due atteggiamenti: i cardinali della Curia, dei quali sono stati menzionati i contributi al dibattito, non ebbero difficoltà a sottomettersi, mentre gli oppositori più strenui della decisione del pontefice non tardarono ad allearsi con Ludovico il Bavaro. Fu questo il caso di tre eminenti personaggi: Michele da Cesena, Guglielmo di Occam e Bonagrazia da Bergamo. Il primo, convocato ad Avignone per dare spiegazioni a proposito della reazione dell'Ordine alle bolle pontificie, era già sospetto di collusione con Ludovico il Bavaro. Il secondo era perseguitato per le sue opinioni filosofiche e teologiche dagli esponenti dello scotismo oxoniense. I tre, consapevoli di non potersi sottrarre a una condanna, trovarono il modo di fuggire da Avignone nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1328, per raggiungere in Italia Ludovico il Bavaro, che vi aveva nel frattempo cinto la corona imperiale, nonché Pietro da Corbara, un francescano designato papa dall'imperatore con il nome di Niccolò V.

Quanto alla direzione dell'Ordine dei frati minori, al pontefice non restò che deporre Michele da Cesena (6 giugno 1328) e trovare un generale dei francescani che gli subentrasse maggiormente bendisposto nei suoi confronti. Guiral Ot (Gerardo Oddone), originario di Camboulit, fu eletto alla guida dell'Ordine nel corso di una seduta preparata accuratamente dal cardinale de La Tour. Circa un anno dopo la sua fuga notturna da Avignone, Michele da Cesena fu colpito da anatema (29 apr. 1329). Da quel momento si adoperò con ogni mezzo, insieme ad altri francescani scismatici riuniti intorno all'imperatore, per dimostrare che era stato un papa eretico a pronunciare la sentenza di scomunica nei suoi confronti. G. rispose con una nuova bolla, Quia vir reprobus, del 16 nov. 1329, in cui approfondiva la sua riflessione sulla povertà e spiegava il significato dei suoi tre precedenti testi, Ad conditorem, Cum inter nonnullus, Quia quorumdam.

Con la fuga dei tre frati minori da Avignone per rifugiarsi presso la corte imperiale si viene a configurare in tutta la sua complessità il secondo grande contrasto che ha segnato il pontificato di G., quello con Ludovico il Bavaro.

Alla morte di Arrigo VII, nel 1313, la divisione fra gli elettori era approdata a una duplice elezione. Alla sua ascesa al soglio G. aveva trovato una situazione confusa, in quanto i due prescelti si contendevano il trono imperiale: Ludovico, duca di Baviera, incoronato ad Aquisgrana nel 1314, e Federico duca d'Austria, consacrato a Bonn. G. ne approfittò per dichiarare l'Impero vacante. In tal caso la potestà temporale tornava al pontefice, che volle sottolineare in tal modo la superiorità del suo potere su quello imperiale.

La politica italiana di G. sembrò favorire in un primo tempo Federico: egli ne aveva affidato la guida a Roberto d'Angiò, ma allorché l'appoggio di Filippo VI di Valois si rivelò insufficiente a piegare le città in mano ai ghibellini, come Milano, il papa fece appello a Federico. Il 28 sett. 1322 questi venne però fatto prigioniero da Ludovico il Bavaro a Mühldorf. Nondimeno il papa non volle riconoscere in Ludovico il solo pretendente ormai rimasto in lizza per la corona imperiale, anzi gli ingiunse di sospendere entro tre mesi l'esercizio della sua potestà. Non essendo stato rispettato il termine imposto, il papa scomunicò il re dichiarandolo decaduto dai diritti attribuitigli dalla sua elezione.

La replica consistette nell'appello di Sachsenhäuser, del 24 maggio del 1324, che, nello spirito dei fraticelli accolti da Ludovico alla sua corte, denunciava il pontefice come eretico e convocava un concilio per designarne il successore. In questa fase venne prodotta una copiosa letteratura, la cui espressione più nota è il Defensor pacis di Marsilio da Padova, il cui pensiero politico, influenzato dall'averroismo politico, esaltava l'indipendenza del potere temporale nei confronti della Chiesa. Da questo principio si deducevano il dominio dello Stato sui beni del clero, la soppressione dei tribunali ecclesiastici, il ridimensionamento dei poteri papali e il governo della Chiesa esercitato da un concilio convocato dall'imperatore. Dal Defensor pacis G. trasse cinque proposizioni che condannò il 23 ott. 1327. Sembra che a questo periodo risalga anche la condanna del De monarchia di Dante da parte di Bertrando del Poggetto.

Ludovico non si accontentò più di condurre una politica ostile agli interessi del Papato in Italia, dove aveva assicurato il suo appoggio a Matteo Visconti e Cangrande Della Scala, ma scese lui stesso nella penisola e nel passaggio a Milano si fece incoronare re d'Italia. Il 17 genn. 1328 a Roma un'assemblea popolare lo elesse imperatore e ben presto fu consacrato in questa stessa città da vescovi avversi a Giovanni XXII. Fra il 14 e il 18 aprile un'assemblea di laici convocata dall'imperatore depose il papa e lo sostituì con il frate minore Pietro Rainalducci di Corvara, che assunse il nome di Niccolò V. Non potendo trattenersi più a lungo in Italia, l'imperatore risalì verso Nord abbandonando a Pisa l'antipapa, il quale, come la maggior parte dei signori delle città ghibelline, non tardò a sottomettersi al papa beneficiando di un atto di clemenza di Giovanni XXII.

Come il Defensor pacis aveva fornito un fondamento teorico agli interventi di Ludovico in Italia, i suoi rovesci di fortuna videro fiorire ad Avignone una messe di trattati politici di ispirazione teocratica, tra i quali si possono ricordare la Summa de ecclesiastica potestate di Agostino Trionfo, il De planctu Ecclesiae di Alvaro Pelagio, il De Ecclesiae potestate di Alessandro Fassitelli da Sant'Elpidio, generale degli agostiniani: in queste opere si teorizza il primato del potere spirituale su quello temporale, entrambi concentrati nelle sole mani del pontefice, e la loro estensione universale.

Una terza controversia, che agitò gli ultimi anni del pontificato di G., venne ad aggiungersi a quelle relative alla povertà di Cristo e al rapporto fra potere temporale e spirituale: la questione della visio beatifica. Nel sermone pronunciato per la festività di Ognissanti del 1331, dal pulpito della cattedrale di Notre-Dame-des-Doms, il papa affermò che le anime dei santi in cielo non vedevano e non avrebbero visto Dio faccia a faccia prima del giudizio universale. G. interpretava in tal senso l'esegesi contenuta nei Sermones de Sanctis di Bernardo di Chiaravalle a proposito del versetto dell'Apocalisse 6, 9. I martiri collocati sotto l'altare di Cristo dovevano accontentarsi di contemplare la sua umanità fino al giorno del giudizio, allorché la sua divinità si sarebbe manifestata a tutti. Quest'opinione, sviluppata nuovamente dal pontefice in numerosi sermoni tra la fine del 1331 e l'inizio dell'anno successivo, era in contrasto con quasi un secolo di intensa e controversa riflessione dottrinale dei teologi sulla visione beatifica. In un primo momento si era giunti a fissare a contrario il contenuto della visione beatifica: i beati vedono l'essenza di Dio in se stessa, senza intermediari. Era questa la traduzione metafisica proposta dai teologi al termine di una prima riflessione sul tema, per il faccia a faccia promesso dalle Scritture (I Cor. XIII, 12; Giovanni III, 2). Una volta stabilito che i beati vedevano proprio l'essenza divina in se stessa, rimanevano da definire le modalità di questa visione, e la questione occupò uno spazio via via crescente nelle dispute e nei trattati teologici della seconda parte del XIII secolo.

La tesi di G. si opponeva a questi sviluppi sulla visione dell'essenza di Dio, ma da un punto di vista differente: l'interrogativo centrale non era "come", bensì "quando" i beati avrebbero visto Dio, e l'impostazione del papa rifletteva lo spirito del giurista. Se in effetti le anime dei santi vedono già Dio, cosa aggiungerà il giorno del giudizio? Una stessa causa può forse essere giudicata due volte da un Dio giusto? Una volta di più, l'opinione del pontefice mostra al tempo stesso elementi di continuità e di rottura con la riflessione di un cospicuo numero di teologi. Consapevoli delle difficoltà, costoro supponevano un incremento della visione di Dio, per gli uni in intensità e per gli altri solo in estensione, al momento della resurrezione finale e del giudizio universale. Invece il papa non faceva aumentare la visione nel giorno del giudizio, bensì la differiva fino a quel momento.

Quali ragioni avevano potuto spingere G. ad aprire la questione della visio beatifica? Quest'idea, germinata nella sua mente di giurista quasi novantenne, aveva anche un fondamento teologico oltre al possibile effetto suscitato da una storia di spiriti di cui racconta Jean Gobi il giovane nella Scala coeli, come è stato pure ipotizzato? Secondo altre congetture, tutta la questione si spiegherebbe come una risposta ai sophismata pronunciati a Oxford l'anno precedente e considerati lontani dalla fede, oppure come un tentativo di rilanciare il dibattito con la Chiesa d'Oriente su una questione scottante che avrebbe dato ben presto origine alla crisi palamita. Ma è più verosimile che questa teoria della visione differita scaturisca da una cristologia e un'ecclesiologia teocratiche.

Secondo G., il Figlio, incarnandosi, avrebbe acquisito nella sua umanità un potere di giurisdizione sugli uomini che avrebbe conservato fino al giorno del giudizio e solo allora l'avrebbe rimesso al Padre. Di conseguenza, finché il genere umano non sarà giunto alla fine dei tempi, Cristo regnerà su di esso nella sua umanità, così come il suo vicario terreno. Inoltre, questo capo è tutt'uno con il suo corpo mistico composto dalla Chiesa militante e trionfante. Pertanto, finché la Chiesa trionfante non sarà completamente riunita, non potrà accedere alla sua gloria né alla sua visione definitiva, e dunque i martiri situati sotto l'altare devono restare sotto la protezione dell'umanità di Cristo, accontentandosi di contemplarla finché non saranno riuniti a coloro che ancora devono affrontare la grande prova.

È qui che la teologia di G. intorno alla sovranità esercitata dall'umanità di Cristo nel suo vicario fino alla fine dei tempi si salda all'escatologia propugnata da Bernardo di Chiaravalle e interpreta la sua lettura dell'Apocalisse VI, 9. Ben lungi dall'essere stato spogliato dal suo dominium sui beni materiali a causa della volontà di vivere una povertà assoluta, il Cristo incarnato lo esercita non solo su di essi ma anche sui beni spirituali fino al giorno del giudizio. Le anime dei santi dovranno perciò attendere quel momento per accedere alla perfetta visione della sua divinità: fino ad allora godranno soltanto della protezione della sua umanità. La tesi di G. sulla visione beatifica assume pertanto un chiaro significato politico nel quadro della lotta fra Impero e Papato.

L'opinione espressa dal papa non mancò di suscitare una serie di obiezioni e diede origine a una nutrita controversia teologica, che prese avvio all'interno della Curia, dove il papa aveva invitato cardinali e teologi a pronunciarsi sull'argomento. Una serie di questioni fu oggetto di disputa nella Curia, dove personaggi come il cardinale Annibaldo Caetani dei conti di Ceccano o il maestro del Sacro Palazzo, il domenicano Armand de Bellevue, svolsero un ruolo di primo piano, rispettivamente a favore e contro la tesi pontificia della visione differita (Cambridge, University Library, II.3.10, cc. 95v-118). Il punto di vista dell'opposizione domenicana alla visione differita, espresso dal lettore della Curia, ma anche da Giovanni da Napoli, coincide in massima parte con quello della teologia morale ispirata da Tommaso d'Aquino: Dio non sarebbe giusto se differisse la ricompensa alle anime meritevoli. Del resto, la gloria cui allude Cristo in Giovanni XVII, 24, chiedendo che le anime (con gli apostoli) possano vederla sul suo volto, è quella che egli possedeva prima della creazione del mondo, ed è dunque la gloria della sua divinità eterna. È per contemplare questa divinità, e non la sola umanità di Cristo, che Paolo desiderava morire (Filippesi I, 23). Fra gli oppositori moderati della tesi papale si può annoverare anche il cardinale Jacques Fournier, mentre i teologi scotisti oxoniensi presenti nella Curia, come John Lutterell, Guglielmo di Alnwick e Gualtiero di Chatton, si schierarono dalla parte del pontefice. La teologia francescana della visione beatifica manteneva in effetti nella visione la presenza di una species, malgrado la sua immediatezza. Alcuni, come per esempio Gualtiero di Chatton, riconobbero nell'umanità di Cristo la species ultima di cui gli stessi angeli avrebbero goduto in attesa della visione definitiva della sua divinità a partire dal giudizio universale.

Ma la discussione teologica era stata appena avviata nella quiete della Curia, allorché l'opposizione sistematica nei confronti del pontefice, guidata dai francescani rifugiatisi presso Ludovico il Bavaro, si impadronì delle tesi espresse nei sermoni papali sulla visione beatifica, con l'intento di ricavarne una nuova serie di eresie, da aggiungere a quelle già riscontrate nei testi concernenti la povertà di Cristo e degli apostoli. L'elenco più esauriente si trova negli appelli di Bonagrazia da Bergamo per la convocazione di un concilio che deponesse il papa eretico. Questa letteratura polemica, che aveva preso le mosse assai prima del 1331, si prolungò oltre la morte di G. prendendo di mira anche il suo successore. Anche Francesco della Marca dovette dare il suo contributo, al pari di Guglielmo di Occam, i cui scritti politici coinvolgono i due pontefici.

La polemica penetrò fin nel cuore della città avignonese, allorché il domenicano Thomas Waleys, il 3 genn. 1333, pronunciò dal pulpito della chiesa avignonese del suo Ordine un sermone in cui attaccò la tesi pontificia, accusando al tempo stesso i suoi fautori di volerla difendere nella speranza di vedersi assegnare dal papa qualche beneficio ecclesiastico. Il domenicano fu rapidamente incarcerato e perseguito dall'Inquisizione, in mano ai frati minori. Quest'offensiva indusse i partigiani più risoluti del pontefice ad abbandonare le loro riserve. Fu il cluniacense François Christiani, cappellano del cardinale Annibaldo Caetani, a rispondere dal pulpito il 17 gennaio all'attacco sferrato da Thomas Waleys due settimane prima. Dopo François Christiani, fu la volta di Gualtiero di Chatton, che prese le difese del papa dal pulpito avvalendosi di uno stile oxoniense molto sottile, e ripreso in seguito da altri, per appoggiare l'opinione pontificia. Ma il cardinale Caetani ricorse a una linea di difesa più dura: rifiutandosi di entrare in argomentazioni teologiche, si attenne unicamente alle Scritture, raccogliendo autorità scritturali e patristiche favorevoli all'opinione del papa. Annibaldo Caetani fu anche autore di un trattato incompiuto, una parte del quale dovette servire da preparazione al processo di Thomas Waleys e che diede origine a una risposta anonima, molto estesa e vigorosa (pubblicata in Dykmans, 1975), che potrebbe essere opera del priore del convento domenicano di Avignone. Dopo un periodo di latenza, il processo contro Waleys coinvolse anche il suo confratello Durand de Saint-Pourçain, vescovo di Meaux, che aveva inviato al papa un trattato in cui si criticava la sua posizione sulla questione della visione beatifica.

Con il processo contro Waleys e Durand de Saint-Pourçain la controversia, che aveva già suscitato una certa risonanza alla corte imperiale, raggiunse anche Parigi, suscitando l'intervento del re Filippo VI. Alla fine del 1332, in occasione di una disputa alla Sorbona, un maestro domenicano aveva sostenuto che la questione sollevata dal pontefice non rientrava nella sfera delle opinioni. Due baccellieri, Arnaud de Clermont (dell'Ordine dei frati minori) e un carmelitano, inviati alla Sorbona dal pontefice per leggere le sentenze, cercarono di rispondere a questo maestro dell'Ordine dei predicatori, ma la disputa rimase confinata all'Università (per il Commentarium ad Sententias di Arnaud de Clermont, cfr. Parigi, Bibliothèque national de France, Fonds lat., 5288, cc. 107-111; Bibl. apost. Vaticana, Ottob. lat. 2520, cc. 238-245; per il trattato del carmelitano cfr. Ibid., Vat. lat. 4004). In settembre, invece, con l'arrivo a Parigi del generale dei francescani Guiral Ot insieme con Arnaud de St-Michel, inviati da G. in missione in Scozia, proprio dopo la sentenza avignonese contro Thomas Waleys e Durand de Saint-Pourçain, la disputa assunse una forte valenza politica. In effetti, sembra che il generale francescano abbia approfittato della sua sosta parigina per difendere del pulpito la tesi del pontefice. Il re avrebbe reagito biasimando i predicatori che non insegnavano la visione immediata, tant'è che il papa avvertì la necessità di ricordargli, in una lettera datata 18 nov. 1333, che si trattava di una questione dottrinale aperta sulla quale egli stesso aveva esortato i teologi a pronunciarsi.

Invitato a sostenere durante l'Avvento una disputa di quodlibet, Guiral Ot si vide ben presto convocare a Vincennes, di fronte a ventinove teologi, che condannarono due proposizioni estratte dalla disputa. Ma attraverso la sua persona il re intendeva nello stesso tempo colpire l'opinione espressa dal pontefice e far assumere all'Università di Parigi il ruolo di terzo potere in grado di intervenire come mediatore nel conflitto tra Papato e Impero. L'opinione espressa da Guiral Ot era comunque ingegnosa: respingendo ogni argomentazione relativa all'intensità della visione di Dio, ne distingueva tre forme successive: quella dei saggi in questo mondo, quella delle anime separate e quella più perfetta delle anime resuscitate. Le anime separate non godono ancora di questa visione perfetta, ma sarebbe presunzione negare loro la visione intermedia. Il maestro francescano poteva sperare, con quest'accorgimento, di sottrarsi abilmente a una situazione che per lui si stava facendo critica. Ma fu un espediente vano e dovette ritrattare pubblicamente. Comunque il tentativo del re di far condannare dai dottori della Sorbona la tesi del papa attraverso quella di Guiral Ot fallì ugualmente. Il 28 dicembre G. comunicò che la decisione dottrinale non spettava a Parigi e convocò un concistoro ad Avignone, con la speranza che venisse formulata una definizione relativa alla visione beatifica in sintonia con la sua opinione. Ma non riuscì nell'intento.

A questo punto la situazione era in una fase di stallo: il pontefice non poteva ottenere la decisione dottrinale auspicata, l'imperatore non era in condizione di riunire il concilio che avrebbe dovuto deporre G., e neppure l'Università aveva la facoltà di concludere un dibattito di natura principalmente dottrinale. Gran parte dei maestri era tuttavia contraria alla visione differita, come testimonia la relazione che essi consegnarono al sovrano sull'argomento (cfr. Parigi, Bibliothèque national de France, Fonds lat., 12971, cc. 74-104). Un insigne maestro francescano come Niccolò da Lira non esitò a prendere posizione contro i sostenitori della tesi pontificia, tra i quali si annoverava il generale del suo Ordine; anzi impegnò addirittura tutta la sua sapienza di teologo e di esegeta per difendere il domenicano Durand de Saint-Pourçain, condannato ad Avignone (cfr. ibid., 3359, cc. 17-24; Città del Vaticano, Archivio di S. Pietro, D.202, cc. 74-84).

Malgrado questa battuta d'arresto sul piano istituzionale, la disputa sulla visione beatifica si era estesa frattanto all'intera Cristianità. Il re di Francia non fu il solo sovrano a intervenire: Roberto d'Angiò inviò a G. un trattato scritto di suo pugno in cui prendeva posizione contro la tesi pontificia, a conclusione di un'argomentazione molto serrata e riccamente documentata. Nonostante la differenza d'età e di rango, il patriarca di Alessandria Giovanni d'Aragona condannò ugualmente l'opinione del papa, dall'alto della sua dignità di grande di Spagna. Ma la crisi non raggiunse soltanto le corti di Monaco, Napoli o Parigi, le Università di questa città e di Oxford, bensì si propagò in tutti gli ambienti, suscitando violente reazioni da parte dei sostenitori degli spirituali nel Sudovest della Francia e, seppur più moderate, anche da un docente di diritto canonico dell'Università di Tolosa come Géraud du Pescher, sul cui sostegno il papa faceva a torto grande affidamento (cfr. Géraud du Pescher, Opus quadripartitum, Parigi, Bibliothèque national de France, Fonds lat. 4367, cc. 52-87; Bibl. apostolica Vaticana, Vat. lat. 3172, cc. 1-39B); oppure da un prete dell'Ordine teutonico, tale Ulrich, che produsse un'importante difesa del suo Ordine (cfr. ibid., 4005).

Mentre la stagnazione istituzionale pareva insormontabile, la soluzione della crisi che infiammava tutta la Cristianità toccò a un uomo di grande valore, sia per la sua sapienza teologica sia per le sue doti diplomatiche: il cardinale Jacques Fournier. Egli ottenne dal papa, sul letto di morte, una ritrattazione: in presenza di due cardinali, G. ammise, il 3 dic. 1334, che le anime separate dai corpi e pienamente giustificate vedono Dio e l'essenza divina faccia a faccia chiaramente, nella misura in cui lo comportano lo stato e la condizione di un'anima separata. La riserva finale lasciava supporre che questa visione fosse meno perfetta di quella conseguita nel giorno del giudizio. Jacques Fournier, che sarebbe successo a G. con il nome di Benedetto XII, pose fine alla questione riconoscendo la visione immediata nella costituzione Benedictus Deus del 29 genn. 1336, pur lasciando aperto il problema teologico dell'eventuale incremento della visione beatifica al momento della resurrezione finale e del giudizio universale. Ma intanto G. ritrattava un'opinione che sebbene fondata su una tradizione patristica molto antica annullava i progressi conseguiti da oltre un secolo di riflessione teologica sulla visione beatifica.

G. morì il 4 dic. 1334 ad Avignone e venne sepolto nella cattedrale di Notre-Dame-des-Doms (dove ancora si trova il monumento funerario). Scavi recenti sembrano tuttavia confermare che le sue spoglie mortali siano state gettate nel Rodano durante la Rivoluzione Francese.

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Un completo excursus relativo in particolare al conflitto che contrappose G. all'imperatore Ludovico il Bavaro e alla "questione della povertà" che animò in quegli anni l'Ordine francescano si potrà trovare nella già segnalata "voce" di G. Mollat in Dict. de théol. catholique, in partic. alle coll. 634-638. Cfr. anche gli aggiornamenti bibliografici proposti da R. Aubert, Jean XXII, in Dict. d'histoire et géographie ecclésiastiques, XXVI, Paris 1997, coll. 1168-1171 e la voce Fraticelles, ibid., XVIII, ibid. 1977, coll. 1063-1108 (in partic. coll. 1070-1074). Oltre queste ampie rassegne si veda per l'edizione critica delle Constitutiones di G., redatte ad Avignone nel 1325-27 circa: Extravagantes Iohannis XXII, a cura di J. Tarrant, in Monumenta iuris canonici, s. B, Corpus Collectionum, VI, Città del Vaticano 1983; per gli interventi di G. in materia di benefici ecclesiastici cfr. J. Brown, The "Declaratio" on John XXII's decree "Exsecrabilis" and the early history of the Rota, in Bulletin of Medieval canon law, XXI (1991), pp. 47-78. Per le fonti e la letteratura riguardanti il dibattito relativo alla "povertà di Cristo" nonché i rapporti fra Papato e Impero ai tempi del pontificato di G. cfr. inoltre H.-J. Becker, Zwei unbekannte kanonistische Schriften des Bonagratia von Bergamo in cod. Vat. lat. 4009, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XLVI (1966), pp. 219-276; Id., Bonagrazia da Bergamo, in Diz. biogr. degli Italiani, XI, Roma 1969, pp. 505-508; R. Manselli, Giovanni XXII papa, in Enc. Dantesca, III, Roma 1971, pp. 189 s.; A. Schütz, Der Kampf Ludwigs des Bayern gegen Papst Johannes XXII. und die Rolle der Gelehrten am Münchener Hof, in Die Zeit der frühen Herzöge, von Otto I. zu Ludwig dem Bayern…, a cura di H. Glaser, München-Zürich 1980, pp. 388-397; Angelo Clareno Opere, I, Le lettere, a cura di L. von Auw, in Fonti per la storia d'Italia [Medioevo], CIII, Roma 1980, pp. LX-LXIV; R. Manselli, Papato avignonese ed ecclesiologia trecentesca, in Aspetti culturali della società italiana nel periodo del Papato avignonese, Atti del XIX Convegno, Centro di studi sulla spiritualità…, Todi… 1978, Todi 1981, pp. 175-195; J. Miethke, Kaiser und Papst im Spätmittelalter, in Zeitschrift für historische Forschung, X (1983), pp. 421-446; C. Dolcini, Marsilio e Ockham. Il diploma imperiale "Gloriosus Deus", la memoria politica "Quoniam scriptura", il "Defensor minor", in Id., Crisi di poteri e politologia in crisi, Bologna 1988, pp. 291-427; A. Tabarroni, Paupertas Christi et apostolorum. L'ideale francescano in discussione (1322-1324), Roma 1990, ad ind.; Francisci de Esculo Improbatio contra libellum domini Iohannis qui incipit "Quia vir reprobus", a cura di N. Mariani, Grottaferrata 1993; R. Lambertini, "Usus" and "usura": poverty and usury in the Franciscans' responses to John XXII's "Quia vir reprobus", in Franciscan Studies, LIV (1994-97), pp. 185-210; C. Flüeler, Eine unbekannte Streitschrift aus dem Kreis der Münchener Franziskaner gegen Johannes XXII., in Archivum Franciscanum historicum, LXXXVIII (1995), pp. 497-514; U. Horst, Evangelische Armut und päpstlisches. Lehramt Minoriten Theologen im Konflit mit papst Johannes XXII., Stuttgart 1996; Nicolaus Minorita, Chronica. Documentation on pope John XXII, Michael de Cesena and the poverty of Christ, a cura di G. Gál - D.E. Flood, New York 1996 (cfr. anche le annotazioni critiche di J. Miethke, Der erste vollständige Druck der sogenannten "Chronick des Nicolaus Minorita" (von 1330/1338)…, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters, LIV [1998], pp. 623-642); P. Vian, Francesco della Marca, in Diz. biografico degli Italiani, IL, Roma 1997, pp. 793-797; Angelo Clareno Opera, II, Historia septem tribulationum Ordinis minorum, a cura di O. Rossini, in Fonti per la storia dell'Italia medievale - Rer. Ital. Script., III ed., II, Roma 1999, ad ind.; C. Dolcini, Nuove ipotesi e scoperte su Dante, Marsilio e Michele da Cesena. Il nodo degli anni 1324 e 1330, in Etica e politica: le teorie dei frati mendicanti nel Due e Trecento. Atti del Convegno internazionale, Assisi… 1998, Spoleto 1999, pp. 279-299; Cfr. anche Rep. font. hist. Medii Aevi, II, s.v. Bonagratia de Pergomo; VI, s.v. Iohannes XXII papa; VII, sub vocibus Ludovicus IV imperator, Marsilius Mainardinus de Padua, Michael de Cesena; VIII, s.v. Nicolaus Minorita; VIII, s.v. Occam, Guillelmus; Lexikon des Mittelalters, V, sub vocibus Johannes XXII, Ludwigs IV. der Bayer; Medioevo latino, I (1980) e successivi., s.v. Iohannes XXII papa.

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