INNOCENZO III, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62 (2004)

INNOCENZO III, papa

Werner Maleczek

Lotario nacque verso il 1160-61 a Gavignano, nel Lazio, a sud di Roma, figlio di un Trasmundo "de comitibus Signie", con cui non si allude al titolare di una contea di Segni, ma a un membro della nobiltà fondiaria che poteva essere annoverato tra i notabili della cittadina vescovile. La madre Clarissa apparteneva alla famiglia romana degli Scotti, circostanza che segnala precoci relazioni della famiglia con Roma. Col pontificato di I. III iniziò l'ascesa della famiglia, che fu presto chiamata Conti e che divenne una delle casate nobiliari più influenti dell'Urbe fino agli inizi dell'Evo moderno.

Lotario ricevette la prima educazione a Roma e in seguito, nella seconda metà degli anni Settanta, fu mandato a Parigi. Dopo aver frequentato i corsi di arti liberali, si dedicò alla teologia e tra i suoi professori lo stesso Lotario dava particolare risalto a Pietro di Corbeil. Probabilmente Lotario frequentò anche le lezioni di Pietro Cantore, il più influente dei maestri parigini alla fine del XII secolo.

Questi studi segnarono profondamente il suo modo di pensare e di argomentare e lo misero in contatto con un'élite intellettuale sulla quale, divenuto papa, poté in parte appoggiarsi, non da ultimo nominando cardinali suoi esponenti. Secondo l'anonima biografia del pontefice, i Gesta Innocentii III, Lotario studiò anche a Bologna, ma non si va oltre questa breve notizia. Poiché Bologna era il centro indiscusso degli studi di diritto romano e canonico, le congetture secondo cui Lotario possa avervi studiato teologia o altre discipline appaiono poco convincenti, tanto più che le eccellenti conoscenze giuridiche del papa sono state incessantemente celebrate dai suoi contemporanei. Non è escluso che a Bologna sia stato allievo dell'illustre decretista Uguccione, come riferirà centocinquant'anni più tardi Giovanni d'Andrea, ma un rapporto diretto fra allievo e maestro è poco probabile. Comunque il soggiorno a Bologna dovette essere stato relativamente breve, circa tre anni, assumendo come termine cronologico il conferimento del suddiaconato da parte di papa Gregorio VIII, che nel corso del suo pontificato di appena sette settimane soggiornò solo in Toscana e in Emilia Romagna, e che fu proprio a Bologna tra il 18 e il 20 nov. 1187.

Il decisivo avanzamento di carriera giunse nell'autunno 1190, quando Clemente III lo nominò cardinale diacono dei Ss. Sergio e Bacco. Lotario entrò così nel novero dei numerosi chierici romani che quel pontefice, originario di Roma, elevò al cardinalato dopo la riconciliazione con il Comune nel 1188, con l'intento di rafforzare i suoi sostenitori locali e tutelandosi in tal modo da tendenze antipapali nella classe comunale dirigente. Il 7 dic. 1190 sottoscrisse per la prima volta in questa veste un privilegio papale. In questo tempo Lotario fece restaurare a proprie spese la piccola chiesa dei Ss. Sergio e Bacco al foro Romano, oggi scomparsa.

Negli oltre sette anni del suo cardinalato non ebbe mai un ruolo di spicco nella Curia, malgrado firmasse la maggior parte dei privilegi di papa Celestino III. Più volte gli venne affidata, per lo più con altri cardinali, l'istruzione preliminare di processi. È giunta fino a noi la risposta, poco significativa, a una lettera dell'imperatore Enrico VI, indirizzata anche agli altri porporati.

La vera importanza del periodo di cardinalato di Lotario è nelle opere da lui scritte, che lo mostrano saldamente ancorato alle correnti spirituali del suo tempo.

Il De miseria humane conditionis risale probabilmente al 1194-95 e rientra nella categoria della letteratura del contemptus mundi, in cui l'uomo viene descritto come una creatura che si è allontanata dal Creatore e diviene vittima della propria superbia. Il tono di fondo pessimistico e desolato dell'opera avrebbe dovuto essere temperato da un secondo trattato, preannunciato nel prologo ma mai apparso, sulla dignità della natura umana. La fosca visione del mondo che trapela da queste pagine sembra essere stata uno degli atteggiamenti di fondo del pontefice, che ritorna in molte lettere e sermoni, comunque sempre attenuato dalla certezza dell'azione salvifica di Cristo.

L'opera conobbe un immenso successo. Se ne sono conservati più di 700 manoscritti, dato che dimostra come essa possa essere annoverata fra gli scritti religiosi più letti del Medioevo.

Il De missarum misteriis, trattato liturgico-allegorico, commenta in modo esauriente la messa papale e vi ricollega affermazioni teologiche sull'eucaristia, tra le quali un posto preciso spetta ai problemi, a essa collegati, della transustanziazione e della reale presenza, interpretando la messa come memoria della vita di Cristo. Anche l'abbigliamento liturgico è spiegato in senso allegorico tradizionale. Inoltre il trattato introduce all'ecclesiologia del pontefice.

La tradizione manoscritta (circa 200 manoscritti conservati) e una gran quantità di estratti e rielaborazioni mostrano come anche quest'opera rappresenti un importante fondamento per l'interpretazione dei sacramenti fra le generazioni successive, tanto più che in essa sono esposte idee che riemergono in decretali e canoni del IV concilio Lateranense.

Nella prima parte del De quadripartita specie nuptiarum Lotario delinea un'interpretazione spiccatamente allegorizzante, dall'impronta personale, dei quattro tipi di unione matrimoniale, una carnale e tre mistiche (uomo-donna, natura umana e divina nella persona di Cristo, Cristo-Chiesa, Dio-anima); nella seconda, difficilmente collegabile alla prima, commenta in modo convenzionale il Salmo 44.

Quest'opera, la più originale del futuro papa, risulta illuminante non solo in relazione alle usanze matrimoniali dell'epoca, ma anche alle idee ecclesiologiche di Lotario. L'opera sopravvive solo in pochi manoscritti e scarsa fu la sua influenza su autori successivi.

Per disegnare un panorama più esauriente è opportuno menzionare ora anche gli scritti più tardi, iniziando dai Sermoni.

L'affermazione contenuta nei Gesta, secondo cui I. III sarebbe stato "sermone tam vulgari quam litterali disertus" (c. 1), viene confermata dai contemporanei del papa e molte occasioni in cui predicò sono ben documentate, per esempio il sermone di apertura del IV concilio Lateranense. Sono traditi circa 80 sermoni di I. III, in gran parte inseriti in una raccolta del 1202-04 destinata all'abate di Cîteaux, Arnaldo, successivamente ampliata. Considerando i manoscritti tramandati (oltre 60), dovettero destare comunque un notevole interesse. Sono documentabili anche frequenti paralleli con altre opere e lettere.

Pochi mesi prima di morire I. III prese la penna ancora una volta per scrivere un commento ai Salmi penitenziali, che presenta un interesse teologico e ha un'impronta molto personale.

Quest'opera di rilievo, tramandata in circa 30 manoscritti e debitrice dell'interpretazione allegorica nello stile della teologia scolastica, mostra il papa, dopo diciotto anni di pontificato, ancora all'altezza della dimestichezza acquisita a Parigi con i testi biblici, ma rivela anche lo scetticismo del vescovo universale, all'apparenza così potente, il quale guarda scoraggiato alla propria opera.

Quando, l'8 genn. 1198, Lotario di Segni fu eletto papa nella zona del Settizodio e si fece consacrare e incoronare (22 febbraio) era il più giovane dei 24 membri che componevano il Collegio cardinalizio. Nel governo della Chiesa era un "foglio bianco", ma evidentemente, oltre all'origine romana, lo rese consigliabile la sua personalità dalle qualità spiccate, alla quale i suoi elettori affidarono la carica suprema in una difficile congiuntura politica e in un periodo di instabilità sul fronte ecclesiastico-religioso.

Anche se il carattere del papa e le sue inclinazioni si rivelarono pienamente solo nel corso degli anni, già in questa fase si può tentare di delineare un profilo della personalità di Innocenzo III. Vennero magnificate dai contemporanei la sua grande cultura e la sagace intelligenza, che gli consentiva di afferrare rapidamente le situazioni e di emettere un giudizio conforme ai suoi principî. Poteva contare inoltre su una straordinaria memoria e sul dono di sapersi esprimere in modo brillante sia oralmente sia per iscritto. La sua prontezza di spirito, abbinata al senso dell'umorismo, affiorava soprattutto nelle udienze giudiziarie, circostanze in cui poteva anche diventare sarcastico o addirittura cattivo, e non esitava a usare un linguaggio diretto perfino nelle occasioni cerimoniali. Il suo zelo era smisurato, tuttavia non lo si può definire un maniaco del lavoro, poiché era di salute cagionevole, e quindi seppe risparmiarsi adottando ritmi lavorativi ragionevoli e concedendosi una pausa di riposo pomeridiana ed escursioni nella natura. Soffriva il caldo in estate, si rammaricava della sua costituzione fragile e le malattie lo confinavano spesso a letto (primavera 1198, autunno 1199, particolarmente acute nell'autunno 1203 e alla fine del 1209). Sopra tutti gli atti politici e giurisdizionali e sui provvedimenti di organizzazione ecclesiastica che abbracciavano l'intera Cristianità non va dimenticato che I. III era un uomo profondamente pio, il quale, più di una volta, si rammaricò che le occupazioni di governo lo distogliessero dalla preghiera e dalla meditazione. Sempre rigorosamente determinato a salvaguardare la purezza della fede e della morale, gran parte delle sue iniziative scaturirono da un atteggiamento religioso di fondo da cui tuttavia a volte si discostò per ragioni politiche.

Volendo isolare dall'ampio corpus di testi le idee centrali di I. III, è inevitabile chiedersi in quale misura il papa fosse direttamente coinvolto nella stesura delle lettere - oltre 10.000 - redatte a suo nome. È certo che gran parte delle normali lettere giudiziarie, i privilegi e le consuete lettere di grazia siano stati scritti senza il suo personale contributo; è però fondata l'ipotesi che il papa non abbia affidato ad altri la formulazione di testi più complessi. Parallelismi riscontrabili fra le lettere di argomento teologico, sermoni e trattati, affermazioni di fondo di carattere giuridico e teologico determinanti, reminiscenze personali, giudizi insoliti su persone e situazioni, uso sporadico del singolare invece del pluralis maiestaticus suggeriscono un forte apporto personale di I. III nelle formulazioni più importanti.

Nel sermone della consacrazione, o in occasione di una commemorazione di quest'evento (Patr. Lat., CCXVII, col. 658), lo stesso I. III descrisse la propria posizione come quella di vicario di Gesù Cristo, successore di Pietro, consacrato del Signore, Dio del faraone, che è posto al centro fra Dio e gli uomini, al di sotto di Dio ma al di sopra degli uomini, che è inferiore a Dio ma superiore all'uomo. Profondamente compenetrato della dignità e della responsabilità del suo ufficio, il papa, soprattutto nei primi anni del pontificato, continuò a sviluppare le idee tradizionali relative all'istituzione papale e, anche senza formularle sempre in modo stringente, le difese con grande fermezza, dando prova anche di una notevole flessibilità spirituale per imporre certi diritti. Le idee relative al primato della giurisdizione, alla competenza legislativa, alla riserva di tutte le "causae maiores" e delle canonizzazioni, il diritto di convocare e presiedere i concili generali non erano affatto nuove, ma I. III le perseguì con un'intransigenza e una coerenza mai riscontrate fino a quel momento nel Papato. I. III si considerava "vicarius Christi", dalla cui posizione di re e sommo sacerdote, sull'esempio di Melchisedec, si faceva derivare la "plenitudo potestatis" pontificale. Egli trasferì al papa e alla Chiesa il modello paolino del capo e delle membra, analogamente ritenne la Chiesa romana, identificata con Pietro e i suoi successori, la "mater omnium ecclesiarum" e la Sede apostolica romana la fonte dell'intero diritto canonico. Talvolta l'"ecclesia Romana" fu addirittura equiparata da I. III all'"ecclesia universalis". Il primato, inteso in senso estensivo, includeva anche l'episcopato universale, fatto che significava negare in via di principio la derivazione del potere vescovile dall'autorità divina; esso veniva al contrario interpretato unicamente come partecipazione alla pienezza del potere papale ("vocati in partem sollicitudinis"). I. III non mise in discussione in linea di massima l'elezione dei vescovi, ma considerò traslazioni, postulazioni, deposizioni e modifiche dei confini delle diocesi un diritto esclusivo del papa, dal momento che facevano parte del primato di giurisdizione. Nei confronti di patriarchi e metropoliti esercitò il suo potere assoluto in modo ancor più rigido. Questa concezione del potere assegnava al papa non solo la posizione di ultima istanza d'appello nelle questioni giudiziarie, ma anche la facoltà di intervenire in ogni fase di un procedimento, in qualità di "iudex ordinarius omnium", avocandolo a sé. I. III si attribuì inoltre un'ampia competenza nelle questioni riguardanti gli ordini, che gli consentì non solo di prendere in esame nuove regole e modificarle a propria discrezione prima che entrassero in vigore mediante l'annuncio papale, ma si comportò negli affari personali e materiali come un superiore universale degli ordini.

Nelle questioni relative al potere temporale I. III incarnò posizioni differenziate. Nel Patrimonium S. Petri e nella città di Roma si considerò sovrano temporale con tutti gli attributi dell'autorità e i poteri coercitivi connessi. Come signore feudale gli spettavano anche diritti d'intervento diretto, sia nello Stato vassallo che era il Regno di Sicilia, soprattutto durante la minorità di Federico II, sia in Inghilterra, il cui sovrano Giovanni Senzaterra si era sottomesso al papa nel 1213 secondo il diritto feudale. Una serie di regni, pur non avendo un rapporto di dipendenza feudale con il papa, intratteneva stretti vincoli di fedeltà e di obbedienza canonica nei suoi confronti: l'Ungheria, la Norvegia, l'Aragona, che con l'incoronazione di Pietro II nel 1204 non divenne un feudo, ma con cui il pontefice istituì un particolare rapporto di protezione che comportava il riconoscimento del Regno di Pietro; analoga era la situazione della Bulgaria.

Ma la rivendicazione del potere temporale da parte del papa come "vicarius Christi" trascendeva i limiti dell'ambito ecclesiastico per includere la "Christianitas" nella sua totalità. Non significava, comunque, un diritto concreto di sovranità universale, ma un governo spirituale che poteva investire anche questioni temporali. Sulla supremazia del "Sacerdotium" nei confronti del "Regnum" non sussistono dubbi, come testimonia per esempio la metafora sole-luna ricorrente più volte in questo contesto (Die Register, I, 401, pp. 599-601; Regestum Innocentii III, 141, 179, pp. 333, 386). Dunque il potere secolare, in seno alla Cristianità, assolveva il proprio compito solo a condizione di uniformarsi all'autorità spirituale. In accordo con i suoi obblighi spirituali come "vicarius Christi", egli interferiva spesso in veste di pacificatore nelle questioni temporali. L'esercizio del potere temporale era inteso unicamente come un intervento sussidiario in singoli casi, ispirato dalla convinzione che il suo diritto alla guida temporale fosse di tutt'altra natura di quello dei principi. Per illustrare le rivendicazioni di I. III relative all'esercizio del potere temporale i canonisti del Duecento fanno spesso riferimento alle decretali Venerabilem (marzo 1202), Per venerabilem (autunno 1202) e Novit (aprile 1204), senza tuttavia tenere nella debita considerazione il fatto che questi testi dovevano giustificare l'azione in una situazione concreta.

Le idee del pontefice relative all'Impero erano estremamente complesse, in quanto vi si mescolavano l'azione politica nella disputa per il trono tedesco, le rivendicazioni territoriali nell'Italia centrale, la minaccia di un accerchiamento svevo del Patrimonium S. Petri, la tradizione di pensiero curiale e le dottrine dei canonisti. Gran parte dei testi relativi a questo insieme di argomenti si trova nel registro sulla disputa per il trono tedesco, ma anche in uno scambio di note con l'imperatore bizantino. Poiché il papa è "caput et fundamentum totius Christianitatis", all'imperatore non spetta alcuna giurisdizione universale: se pure la sua dignità imperiale lo pone al di sopra dei "regna", questo non gli attribuisce comunque una sovranità immediata ma solo un rango e una considerazione più elevati.

Il potere imperiale discende direttamente da Dio, non dal papa, ma l'imperatore ha con il "vicarius Petri" un particolare rapporto di contiguità, che si fonda sul suo dovere di proteggere la Chiesa di Roma. Al contrario, la Chiesa di Roma poteva far valere nei confronti del suo "defensor" precisi diritti, allorché gli conferiva il titolo imperiale tramite consacrazione e incoronazione: il diritto di verificare la sua idoneità, di punirlo laddove fossero stati violati dei doveri o in caso di ostilità e, in ultima istanza, il diritto di affidare l'"imperium" a un altro popolo. Nella decretale Venerabilem I. III precisò e ampliò la sua concezione distinguendo fra elezione e incoronazione imperiale: il papa riconosceva ai principi tedeschi il diritto di eleggere il re, e in tal modo egli era già "in imperatorem electus", tuttavia lo collegava alla dottrina della traslazione e sottolineava la sua facoltà di verificare la dignità e l'idoneità del candidato - com'era necessario per qualsiasi consacrazione - prima di incoronarlo imperatore.

Sotto I. III la Curia divenne un centro di potere dalle competenze fortemente ampliate, commisurato alle pretese universalistiche del Papato. Nei confronti dei suoi collaboratori più stretti, i cardinali, I. III mantenne, in senso sia giuridico sia ideale, la sua posizione sovrana in cui non vi era spazio per un governo oligarchico esercitato dal Collegio cardinalizio o addirittura per considerare di origine divina il potere di questo. Ma il papa era consapevole della funzione imprescindibile dei cardinali. Il Collegio cardinalizio nel 1198 si componeva di 24 membri, provenienti in massima parte da Roma o dal Patrimonium S. Petri. Nei primi anni di pontificato, I. III ne destinò un contingente abbastanza notevole alle legazioni, all'amministrazione, alla giustizia curiale, ma già dal 1202 al 1204, grazie al parziale rinnovamento del Collegio cardinalizio, è possibile individuare un circolo ristretto di cardinali annoverabili tra i suoi collaboratori prediletti: sono soltanto pochi i sopravvissuti del "vecchio" gruppo.

I. III creò 30 cardinali in sei tornate (1198, 1200, 1204, 1206, 1212, 1216). Più della metà era originaria di Roma e del Patrimonium S. Petri; in tal modo egli intendeva legare al sistema di potere curiale famiglie insigni della città e del contado: quattro dei cardinali erano anche imparentati col papa. In questo senso il suo nepotismo non oltrepassava il livello abituale ai suoi tempi. Alcuni cardinali dovevano la loro ascesa ai servizi resi nella Cappella pontificia, nella Cancelleria e nella Camera. Altri appartenevano al ceto dirigente di Milano, Vercelli, Capua, pochi erano gli stranieri: tre francesi, uno spagnolo, due inglesi. Questi ultimi, Stefano Langton e Roberto di Corson, erano magistri all'Università di Parigi, una scelta che illustra uno dei criteri applicati da I. III nell'individuare i suoi collaboratori più stretti: essere dotati di una solida cultura. Al contrario era irrilevante appartenere a un ordine religioso, infatti solo tre cisterciensi rientrano nel gruppo di cardinali creati dal papa. I. III convocava i cardinali a consulto - il concistoro ha un altro significato - e discuteva con loro tutti gli affari più importanti.

La Cancelleria, preposta alla redazione di privilegi e lettere, fu oggetto di un'attenzione particolare da parte del papa, in quanto vennero incrementati vigorosamente sia la produzione scritta (stimata oltre le 10.000 lettere) sia, di conseguenza, il personale impiegato (notai, scrittori). A capo della Cancelleria, col compito di datare i privilegi, erano tre notai, in carica da uno a tre anni; solo dal dicembre 1205 al giugno 1213 Giovanni Odelo, cardinale diacono di S. Maria in Cosmedin e imparentato col papa, svolse le funzioni di cancelliere della Chiesa romana. La sua importanza era modesta.

Durante il pontificato I. III riformò la Cancelleria a varie riprese - la cronologia è incerta - per impedire le falsificazioni, rendere più trasparente l'iter burocratico e naturalmente anche per rendere più redditizia l'attività.

Con il pontificato di I. III si avvia la serie quasi ininterrotta dei registri di Cancelleria, tenuti da diversi notai, i quali per volere del papa o anche dei destinatari registravano i pezzi significativi (dal 20 al 30% circa della produzione complessiva di documenti), con l'intento di compilare alcuni promemoria ufficiali del pontificato, di creare una base per la redazione delle decretali e di salvaguardare l'autenticità delle disposizioni emanate. Il registro speciale (Regestum super negotio Romani Imperii) aveva lo scopo di documentare il sostegno ininterrotto del papa prima a Ottone IV e poi a Federico II. L'attività della Camera, che era preposta alla gestione delle finanze pontificie, rimane tuttora imperscrutabile in quanto non si conosce molto di più dei nomi dei camerari. La Curia era finanziata in massima parte tramite le rendite patrimoniali, i censi cui erano soggetti i monasteri e altre istituzioni religiose, che erano stati inseriti durante il pontificato di Celestino III nel Liber censuum, i tributi feudali, le tasse per l'esercizio della giustizia, le tasse di Cancelleria e donazioni di ogni tipo, che non riuscirono a cancellare il pregiudizio di una Curia avida e venale. La Curia, sotto I. III, cominciò a frammentarsi in ulteriori "uffici" con personale assegnato e specifiche competenze. La Penitenzieria, che concesse pieni poteri di assoluzione a vescovi e legati, e inoltre impartiva l'assoluzione ai penitenti, assunse contorni più definibili sotto il successore di I. III, Onorio III, ma è ugualmente possibile ripercorrerne gli esordi. Lo stesso vale per la "Audientia litterarum contradictarum".

Il papa risiedette prevalentemente nel palazzo del Laterano, ma anche a S. Pietro, dove fece erigere una torre (dei 222 mesi del suo pontificato, ne trascorse circa 160 a Roma, di cui 30 a S. Pietro: il periodo più lungo fu dal settembre 1204 al maggio 1206). Nei mesi estivi I. III, insieme con la Curia, lasciava abitualmente la città per soggiornare in località del Patrimonium S. Petri (soprattutto a Viterbo, Anagni, Ferentino, Segni, ma anche a Subiaco, Orvieto, Rieti, Montefiascone, Perugia, ecc.).

La funzione principale della Curia era indubbiamente quella di tribunale. Sotto il suo governo la Curia divenne la prima fonte del diritto e il tribunale per eccellenza della Cristianità in Occidente. In effetti, resoconti coevi sui processi condotti dalla Curia mettono in rilievo il costante coinvolgimento del papa e dei suoi consiglieri in questioni giuridiche. Affluivano alla Curia postulanti provenienti da ogni luogo della Cristianità, e se anche molti casi venivano delegati a giudici locali, senza che il papa intervenisse direttamente nel dibattimento, la quantità dei procedimenti restanti è tale da rendere comprensibili le sue lagnanze per il sovraccarico di lavoro.

Non solo tutti i pareri legali, ma anche molte altre lettere furono inserite nelle collezioni di decretali, compilate già dopo pochi anni da uomini vicini alla Curia, che avevano facoltà di copiare i testi sui registri (Ranieri di Pomposa, 1201, Gilberto, 1202-03 circa, Alano Anglico, 1206 circa, Bernardo da Compostela, 1208). Per garantirne l'autenticità, nel 1209 I. III incaricò il suo notaio Pietro Collivaccino di Benevento di redigere a partire dai registri una collezione ufficiale di decretali - denominata in seguito Compilatio tertia - e di inviarla a Bologna. Nei 1971 capitoli del Liber extra del 1234 le decretali di I. III, con 596 numeri, a cui se ne aggiungono altre 70 del IV concilio Lateranense, rappresentano la parte più consistente.

A I. III stava particolarmente a cuore la crociata per liberare la Terrasanta, nell'incrollabile convinzione della legittimità, e addirittura della qualità morale, dell'impiego della forza contro gli infedeli e in generale contro i nemici della Chiesa. Ma proprio la quarta crociata, avviata con grande fervore nel 1198 e conclusa senza grande successo nel 1207, mostra impietosamente i limiti delle possibilità di un'azione laico-militare alla quale il papa si sentiva chiamato in quanto detentore della "plenitudo potestatis".

Le notizie degli insuccessi dell'esercito crociato tedesco indussero I. III, nell'estate 1198, a un intervento energico e alla decisione di assumere personalmente la gestione di gran parte dell'organizzazione della spedizione. Il forte appello del 15 ag. 1198 non soltanto prometteva ai crociati i consueti privilegi, ma conteneva anche indicazioni minuziose in merito alla pianificazione e nominava due cardinali legati ai quali era affidato un compito ben maggiore della guida spirituale dell'impresa. L'attuazione delle misure organizzative fu celere: propaganda attraverso i predicatori, pacificazione di tutto l'Occidente e dell'Oriente cristiano per favorire il reclutamento dei cavalieri combattenti, finanziamento mediante tassazione dell'intero clero, preparazione diplomatica nell'area del Mediterraneo orientale presso l'imperatore bizantino e i principi latini del Levante che erano perennemente in contrasto fra loro. Il reclutamento procedette in un primo tempo in modo stentato, poi, in seguito ai rinnovati appelli del papa, nell'autunno del 1199, si costituì il nucleo dell'esercito crociato, formato da un gruppo di principi in prevalenza originari della Francia settentrionale, che intendeva avviare la spedizione nell'estate del 1202 muovendo da Venezia. I. III cedette l'iniziativa a quest'esercito, perché nel frattempo era emerso con chiarezza che egli aveva sopravvalutato le proprie possibilità di organizzare un'impresa militare tanto dispendiosa. Con tale decisione egli si trasformò da promotore attivo in istanza di controllo in balia della buona volontà dei partecipanti. Quando nell'estate 1202 un numero molto meno cospicuo del previsto di crociati giunse a Venezia e non fu in grado di effettuare integralmente i pagamenti previsti dal contratto, il doge Enrico Dandolo propose di dilazionare il saldo del debito a condizione che l'esercito crociato si impadronisse del porto dalmata di Zara, conteso tra Veneziani e Ungheresi. Sul piano morale veniva quindi a crearsi una situazione coattiva: da un lato, era garantita in tal modo la prosecuzione dell'impresa, dall'altro, era inevitabile attaccare il re ungherese, che già da lungo tempo aveva preso la croce ed era di conseguenza sotto la protezione speciale della Chiesa: pertanto i crociati si sarebbero esposti a pesanti sanzioni religiose. Dai primi mesi del 1202 I. III aveva dovuto confrontarsi con i progetti ancora confusi del principe bizantino Alessio - figlio di Isacco II Angelo, l'imperatore spodestato da Alessio III nel 1195 - fuggito in Occidente, il quale intendeva usare l'esercito crociato che si stava formando per riportare sul trono il padre. Aveva ottenuto l'appoggio di Filippo di Svevia e di Bonifacio I marchese del Monferrato, che dall'autunno 1202 aveva assunto il comando dell'esercito. I. III respinse il progetto, ma nondimeno i tentativi in questa direzione proseguirono e riguadagnarono d'attualità nella città di Zara conquistata, anche perché qui fece la sua comparsa nel gennaio 1203 il giovane pretendente al trono bizantino insieme con gli accompagnatori svevi. Poiché l'esercito si trovava in una situazione critica - continue diserzioni, penuria di viveri, difficoltà finanziarie - i baroni si lasciarono sedurre dalle promesse svevo-bizantine, che in un colpo avrebbero eliminato tutti gli inconvenienti rendendo possibile una vittoriosa riconquista della Terrasanta. E Venezia, grazie a questo avvicendamento sul trono, avrebbe potuto assicurarsi una posizione privilegiata a Costantinopoli e anche migliori condizioni per i suoi commerci. La decisione di condurre l'esercito a Costantinopoli, stringendo addirittura accordi precisi, venne presa a Zara ancor prima che partisse l'ambasceria inviata al papa, sicché il comportamento tenuto nei confronti della Curia - col quale i crociati avrebbero dovuto ottenere il proscioglimento dalla scomunica - può essere considerato un deliberato raggiro. Questo dimostra, in ogni caso, che I. III non era tempestivamente informato degli eventi e che la spedizione era sfuggita al suo controllo. Nei suoi contatti con i crociati, nei mesi successivi, non riuscì mai a precorrere i tempi e cercò vanamente di prendere il controllo della situazione, che perse completamente alle prime azioni contro Costantinopoli nel luglio 1203 e alla definitiva conquista della città nell'aprile 1204. L'organizzazione dell'Impero latino, la sua frammentazione in principati feudali, l'insediamento di una gerarchia latina furono tutti eventi realizzati indipendentemente dalla volontà di I. III che aveva nutrito grandi speranze, poi deluse, sull'unione della Chiesa latina con quella greca. L'interesse del papa per la crociata si spense progressivamente e nella primavera 1207 egli definì per l'ultima volta i latini nel nuovo Impero "crucesignati".

Il fallimento della crociata era ormai palese. La Terrasanta ne fu indebolita, l'unione delle Chiese latina e greca si rivelò un'illusione, l'Impero latino ebbe vita breve e dipese costantemente dal sostegno occidentale, la frattura tra Oriente e Occidente si accentuò irreparabilmente e l'Impero bizantino non riuscì mai più a risollevarsi realmente da questo tracollo. Non si può supporre la corresponsabilità di I. III nel mutamento di rotta dell'esercito, che non fu conseguenza di un piano sapientemente elaborato ma frutto di un'imprevedibile concatenazione di eventi; un più energico intervento prima e dopo la conquista di Zara avrebbe però senz'altro modificato il corso delle cose.

Nella seconda metà di aprile 1213 I. III bandì una nuova crociata, fermamente intenzionato a evitare gli errori commessi nella precedente impresa.

Direttive il più possibile minuziose ed esaurienti per la preparazione dell'impresa avrebbero dovuto determinare il successo di questa crociata: disposizioni dettagliate in merito ai privilegi dei crociati, finanziamento, obblighi di chierici e laici per l'armamento dei soldati e delle navi, proscrizione della pirateria, propaganda, processioni augurali, nomina dei delegati per la crociata. I preparativi furono avviati celermente. In effetti, presero la croce numerosi personaggi insigni: Giovanni Senzaterra e Federico II, alla sua seconda incoronazione ad Aquisgrana nel luglio 1215, Leopoldo VI duca d'Austria, il re Andrea d'Ungheria. La crociata fu uno dei temi portanti del IV concilio Lateranense. La dichiarazione più eloquente fu l'annuncio che il papa in persona avrebbe benedetto l'esercito crociato, che doveva partire il 1° giugno 1217, segno manifesto della prioritaria importanza della crociata per il suo pontificato. Negli ultimi mesi di pontificato, I. III lavorò febbrilmente per la sua realizzazione. Anche il suo successore la considerò una delle eredità più significative del precedente pontificato.

"Ad extirpandas hereses universas": è questa la formula centrale della prima lettera (Die Register, I, 81, p. 120) in cui viene trattato il problema degli eretici, scritta a poche settimane dall'inizio del pontificato, che I. III ripeterà spesso. La lotta contro l'eresia fu un tema capitale che attraversò l'intero pontificato e il papa investì una profusione di energie e di mezzi senza precedenti in quest'impresa. Ma la persecuzione, spinta fino all'annientamento fisico tramite la crociata, era solo un risvolto della questione. L'altro era la comprensione per i motivi di quanti intendevano ritornare alla fede cattolica, e la ricerca delle ragioni della diffusione dell'eresia anche nel clero.

Nel Sud della Francia il catarismo era diventato un temibile rivale per la Chiesa, perché, essendo stato favorito da istanze sociali e politiche, aveva potuto diffondersi senza incontrare ostacoli, avvantaggiandosi anche del declino morale dell'alto clero e delle aspirazioni religiose rimaste inappagate di ampi strati di popolazione. Anche nell'Italia centrale e settentrionale, fin dentro il Patrimonium S. Petri, i catari crearono attive comunità, e altri gruppi come i valdesi si erano diffusi nella Francia settentrionale e in aree della Germania e dell'Italia. Gli strumenti - rivelatisi poi inefficaci - di cui si avvalse la Chiesa per combattere l'eresia furono, accanto alla predicazione e all'opera di persuasione, sanzioni religiose come la scomunica e l'interdetto e sanzioni che si estendevano anche sul piano sociale ed economico che furono adottate a partire dal III concilio Lateranense del 1179 e dal sinodo di Verona del 1184 (Ad abolendam); ma queste misure rimasero lettera morta, e furono un compito esorbitante per i vescovi, ai quali spettava in primo luogo di combattere l'eresia.

Anche I. III cercò per anni di procedere contro i catari della Francia meridionale facendo ricorso agli abituali strumenti della Chiesa e riponendo le sue speranze in una serie di legati, soprattutto appartenenti all'Ordine cisterciense. Ma i risultati furono deludenti. Nel Patrimonium S. Petri il papa mescolò motivi politici alla lotta contro l'eresia e la decretale contro l'eresia Vergentis in senium, inserita programmaticamente all'inizio della seconda annata del registro, non era stata concepita in un primo momento come programma generale, ma era solo indirizzata al Comune ribelle di Viterbo. Ma ben presto venne recepita come decretale e lo stesso papa la trasferì ad altre situazioni.

I sostenitori dell'eresia dovevano essere coperti d'infamia, ovvero perdere i diritti civili, essere esclusi dai pubblici uffici e da qualsiasi negozio giuridico. L'obiettivo consisteva nell'isolare gli eretici e nel ricondurli in seno alla Chiesa grazie a queste pressioni e, all'occorrenza, nel loro annientamento sociale e fisico.

Nel Sud della Francia il pontefice scelse il ricorso alla violenza. Dal 1204 chiese ripetutamente al sovrano francese di intervenire militarmente contro gli eretici, ma Filippo II Augusto, troppo impegnato nella guerra contro Giovanni Senzaterra, continuò a respingere le pretese del papa, anche quando, nell'autunno del 1207, venne rivolto a tutti i credenti di Francia un appello alla lotta contro l'eresia.

Alla fine, il ricorso alla violenza fu determinato dall'uccisione del legato, il cisterciense Pietro di Castelnau, il 14 genn. 1208, che lo stesso I. III imputò allo scomunicato Raimondo VI conte di Tolosa. Alcune settimane più tardi il papa chiamò un'altra volta i grandi di Francia, sia laici sia ecclesiastici, alla lotta contro l'eresia, ma quando la creazione di un esercito consistente fallì di nuovo per la protesta del re e quest'ultimo consentì soltanto a un modesto contingente militare di battersi contro gli eretici, I. III lo sopravanzò, proclamando la spedizione di una crociata, con tutti i privilegi connessi, e impartendo le disposizioni organizzative, come già era accaduto per l'analoga impresa in Oriente. In seguito definì i partecipanti "crucesignati". Malgrado la sottomissione di Raimondo di Tolosa, che ottenne l'assoluzione nel giugno 1209, poco dopo ebbe inizio la sanguinosa e spietata guerra che ben presto doveva degenerare in una guerra di conquista scatenata dai baroni della Francia settentrionale. Non ne seguiremo qui gli sviluppi, interessandoci ora solo del comportamento del papa. Sembra che I. III avesse abbandonato l'idea della crociata già nel corso del 1209, per vedere nell'impresa solo una guerra contro gli eretici: una distinzione capziosa, di fronte alle devastazioni e ai danni religiosi irreparabili che ne derivarono. Negli anni fino al IV concilio Lateranense il papa fu coerentemente irremovibile sull'uso della violenza nella lotta contro l'eresia: non sempre riuscì però a intuire i mutevoli giochi politico-militari fra Raimondo di Tolosa, l'ambizioso Simone di Montfort, re Pietro II d'Aragona e i contendenti coinvolti, né i legati interpretarono sempre fedelmente la volontà del pontefice. Anche se fu scarsamente informato sulle atrocità della guerra e se nuovamente si pose il problema della trasmissione delle notizie, con la connessa impossibilità di gestire in modo idoneo la variabile situazione politico-militare, non si può assolvere I. III dalla corresponsabilità nell'accaduto, anzi I. III è il primo papa colpevole di aver acconsentito che si abusasse dei privilegi crociati. Solo dopo la morte in battaglia del re aragonese a Muret, nel settembre 1213, I. III contribuì a chiarire la situazione inviando un cardinal legato, il giurista Pietro di Benevento. Tutto mirava alla cessione dei territori conquistati a Simone di Montfort, anche se il legato dispose affinché fossero incorporati per un certo lasso di tempo nei possedimenti della Chiesa di Roma. Solo durante il IV concilio Lateranense il papa pronunciò, senza soddisfare nessuno, il verdetto in merito ai territori conquistati della Linguadoca, che conteneva in sé i presupposti di futuri conflitti. Simone di Montfort ottenne tutte le terre conquistate dai crociati, ma dovette prenderle in feudo dai precedenti titolari. La terra non conquistata sarebbe stata amministrata dalla Chiesa finché Raimondo VII di Tolosa, figlio di Raimondo VI, mandato in esilio, non fosse stato in grado di governarle autonomamente.

L'ombra oscura della crociata contro gli albigesi non deve far dimenticare l'altro risvolto del confronto con gli eretici. I. III venne incontro abilmente alle richieste dei gruppi riformistico-radicali e riuscì a ricondurli in seno alla Chiesa fissando regole più flessibili. Gli umiliati, un movimento formatosi nelle città lombarde nell'ultimo quarto del XII secolo, raccoglievano laici e chierici che conducevano una vita laboriosa, semplice, ispirata ai precetti del Vangelo, ma nel 1184 erano stati tacciati di eresia a causa della pratica della predicazione dei laici. Tuttavia le loro comunità continuarono a sopravvivere e suscitarono ampi consensi grazie alle molte attività caritatevoli e allo stile di vita esemplare. Poco dopo l'inizio del pontificato furono avviate le trattative tra il papa e gli umiliati, che approdarono nel giugno 1201 al riconoscimento e alla regolamentazione da parte della Chiesa. Questo rappresentò una svolta nella posizione della Curia verso i movimenti religiosi e l'eresia. Analoga fu la vicenda con alcuni gruppi di valdesi, quelli più tardi detti "pauperes catholici" che ebbero come portavoce Durando di Huesca, e i seguaci di Bernardo Prim: ambedue i gruppi ottennero il "propositum conversationis", la protezione papale e il permesso di condurre vita apostolica e di predicare.

Non solo con i gruppi eterodossi riconquistati alla Chiesa ma anche in altre circostanze I. III dimostrò una vigile sensibilità per le novità che affioravano nelle comunità religiose. Per favorire la loro integrazione con Roma, egli trovò spesso soluzioni a metà strada fra restrizioni giuridiche e magnanima condiscendenza, anche perché aveva una spiccata inclinazione personale per la vita degli ordini ed eresse a programma la sua incentivazione. Durante il suo pontificato tutta una serie di ordini organizzati in modo più tradizionale ottennero il riconoscimento o la regola dal papa: l'Ordine ospedaliero dello Spirito Santo di Guido di Montpellier (1198; nel 1204 egli lo trasferì a Roma e nel 1208, dopo la morte di Guido, l'ospedale di S. Spirito in Sassia divenne la casa madre), l'Ordine dei trinitari di S. Giovanni di Matha (1198), l'Ordine teutonico (1199), l'Ordine ospedaliero di S. Marco a Mantova (1207).

Particolarmente carico di conseguenze per la storia della Chiesa è l'incontro di I. III con Francesco d'Assisi, che resta ammantato da un'aura di leggenda. Francesco, nella primavera del 1209, venne a Roma con i suoi compagni penitenti di Assisi. Sostenuto dall'appoggio del vescovo locale sperava di ottenere dal papa l'approvazione di un "propositum", di uno stile di vita conforme al Vangelo e il permesso per la predicazione dei laici. Dopo che un cardinale incaricato ebbe esaminato le richieste con esito positivo, essi furono ricevuti in udienza dallo stesso I. III, il quale peraltro non accordò una conferma scritta, ma approvando le intenzioni della piccola comunità concesse a questa comunque un'opportunità. Potevano predicare e realizzare il loro stile di vita radicale, a condizione di assoggettarsi a un rigoroso controllo da parte del vescovo locale e della S. Sede. In questo contesto non si dovrebbe parlare di una "conferma orale" della regola primitiva, ma piuttosto di un positivo incoraggiamento. I. III diede spazio all'appassionato entusiasmo di Francesco, confidando nella possibilità di una stretta osservanza del Vangelo. Come apprendiamo da Jacques de Vitry, nella Curia crebbe la simpatia per "fratres et sorores minores", sebbene non vi sia notizia di un altro incontro fra I. III e il "poverello". Il papa non ebbe invece contatti con Chiara d'Assisi.

Il can. 13 del IV concilio Lateranense (Ne nimia religionum), che proibiva l'introduzione di nuovi ordini religiosi e orientava gli aspiranti verso le regole già approvate, non ha infatti nulla a che fare direttamente con Francesco o Domenico, ma esprime la preoccupazione di disciplinare i movimenti religiosi in rapido sviluppo con le loro molteplici forme di comunità. Il canone rimase, d'altronde, lettera morta e non fu più rispettato dai papi.

Anche nell'esercizio della sovranità temporale sul Patrimonium S. Petri e su Roma, I. III determinò il corso degli eventi per lungo tempo, talora per secoli. Con tempismo e risolutezza il pontefice seppe volgere a suo favore il crollo del potere imperiale nell'Italia centrale, dopo la morte di Enrico VI, per riesumare antiche pretese del Papato, che furono estese dal Lazio alla Marca di Ancona, al Ducato di Spoleto e alla Tuscia. Anche la Sardegna fu annoverata fra gli obiettivi del dominio papale, ma il progetto naufragò a causa della supremazia pisana. Malgrado l'estrema frammentazione del potere e le numerose rivalità locali, nell'arco di pochi anni vennero poste le basi per la creazione di un'amministrazione più efficiente nel Patrimonium S. Petri, che avrebbe raggiunto nei pontificati successivi una notevole solidità.

Una delle premesse per il successo di questa politica di recuperi territoriali era il solenne riconoscimento da parte dei re tedeschi (Ottone IV a Neuss nel 1201 e a Spira nel 1209; Federico II a Eger nel 1213). Mentre il dominio papale nella Marca di Ancona, in Umbria e nella Toscana meridionale rimase in superficie, I. III si comportò da autentico sovrano temporale nell'odierno Lazio, riscuotendo alterno successo: in particolare Viterbo si mostrò a lungo recalcitrante al suo potere. Il dominio temporale del papa si stabilizzò effettivamente solo con la grande Dieta convocata per la prima volta a Viterbo nel settembre 1207. Quanto fosse precario quest'ordine solennemente istituito fu evidente già pochi anni dopo, allorché i baroni del Patrimonium della Tuscia nella quasi totalità e le città a eccezione di Viterbo si schierarono dalla parte di Ottone IV.

Solo negli ultimi anni di pontificato il governo di I. III a nord di Roma fu incontrastato, anche perché egli seppe adattarsi alle molteplici forme dell'esercizio del potere delle città e della nobiltà. Nella Sabina e nel Lazio meridionale il dominio pontificio si era consolidato già dalla metà del XII secolo, rendendo così relativamente agevole la politica dei recuperi. I nobili più potenti della Sabina, in precedenza soprattutto sostenitori dell'Impero, si sottomisero rapidamente. Anche fra i grandi baroni della Campagna, dopo un iniziale stallo, si allargò il consenso per il nuovo papa. La maggior facilità con cui l'autorità papale veniva riconosciuta a sud di Roma dipende senz'altro anche dalla presenza molto più frequente della Curia nella Campagna, soprattutto durante i mesi estivi. Anche i rapporti di parentela rinsaldarono i legami della regione col papa. Nel corso di tutto il XIII secolo e anche oltre, la più importante istituzione del Patrimonium S. Petri fu il rettorato della provincia. Era stato introdotto già intorno alla metà del sec. XII nel Lazio meridionale, ma I. III rinvigorì questo sistema di amministrazione provinciale e lo estese anche alle altre regioni dello Stato della Chiesa. Da quattro a cinque rettori operavano contemporaneamente con un ampio ventaglio di mansioni amministrative e giuridiche. A partire da I. III si può seguire il loro avvicendarsi in modo quasi ininterrotto. I detentori di quest'ufficio furono in prevalenza cardinali, ma non di rado anche laici, fra cui personaggi imparentati con il papa.

Anche Roma, della quale I. III si considerò signore temporale con molta maggior intensità rispetto ai suoi predecessori, divenne parte irrinunciabile della sua politica di recuperi. Ma per riuscire ad assicurarsi questo dominio il papa dovette impegnarsi in un lungo e difficile confronto, la cui valutazione è ardua a causa dell'univocità delle fonti.

La polarizzazione politica interna alla città provocava sempre nuovi disordini nei quali emersero le famiglie dei Conti, degli Annibaldi, dei Capocci, degli Orsini, più tardi decisive. Fino all'autunno 1204 a Roma la situazione rimase confusa: per mesi i partiti contendenti ingaggiarono una sanguinosa guerra civile. L'opposizione antipapale aspirava alla creazione di un Comune completamente autonomo, sul modello di quelli dell'Italia settentrionale. I. III dovette addirittura abbandonare la città per un periodo piuttosto lungo. Ma nell'ottobre 1204 la fazione antipapale aveva esaurito le sue forze e dovette cedere. I. III dettò le condizioni della pace: Roma da quel momento in poi sarebbe stata soggetta al suo dominio, il papa avrebbe avuto l'ultima parola in merito alle cariche senatoriali, il radicalismo delle aspirazioni comunali era sconfitto. Per il resto del pontificato non sarebbero stati più contestati i diritti del papa al governo del Comune e i senatori nominati negli anni seguenti svolsero di fatto la funzione di suoi luogotenenti a Roma. Il clan dei Conti fu il principale beneficiario di questa situazione.

Gli stretti rapporti col Regno di Sicilia che i papi avevano intrattenuto dalla metà dell'XI secolo comportarono anche per I. III un grande impegno nel Sud dell'Italia e nelle isole. Da cardinale Lotario aveva sperimentato come Enrico VI, con la "unio regni ad imperium", avesse posto un minaccioso ostacolo alla libertà della Chiesa romana stringendo in una morsa lo Stato pontificio e avesse propugnato tenacemente i diritti regi, soprattutto nelle nomine dei vescovi e nelle legazioni. Pertanto I. III, nel corso di tutto il suo pontificato, perseguì nella politica siciliana il duplice obiettivo di impedire la paventata "unio regni ad imperium" e di ridurre l'influenza regia nel governo della Chiesa.

Nel settembre 1197, dopo la morte dell'imperatore, la vedova Costanza d'Altavilla prese il potere e si rivolse subito al pontefice come signore feudale per rafforzare il proprio potere e quello del figlio. Le trattative le fecero ottenere dopo oltre un anno l'auspicato riconoscimento al prezzo delle rinunce richieste. Ma l'improvvisa morte di Costanza, il 27 nov. 1198, fece precipitare la situazione. Nel suo testamento l'imperatrice aveva nominato I. III tutore del figlio, di appena quattro anni, e reggente del Regno perché ella evidentemente solo da lui si aspettava un sostegno nei temuti disordini. I. III assolse questo compito con grande impegno e di conseguenza si trovò coinvolto per una decina d'anni in un viluppo spesso inestricabile di forze, in cui condottieri tedeschi, baroni gelosi della propria indipendenza, alti prelati, le città del Regno, il Consiglio dei familiari residente a Palermo, le città portuali di Genova e Pisa, nonché avventurieri di varia provenienza si contendevano il predominio. I. III riuscì solo per brevi periodi a imporre la sua autorità e fu ripetutamente costretto a formare compromettenti coalizioni e a sborsare ingenti quantità di denaro.

La prima fase fu segnata dal conflitto con Marquardo di Annweiler fino alla morte di questo, nel 1202. Ancora più oscura appare la fase che si concluse con la fine della reggenza nel 1208. Sull'isola, in questi anni di anarchia, dominarono il capitano tedesco Guglielmo di Capparone, lo scaltro Gualtieri di Pagliaria, già cancelliere dell'imperatore e vescovo di Troia, Palermo e infine Catania, e addirittura il legato pontificio, mentre sulla terraferma Dipoldo di Schweinspeunt, conte di Acerra, e Gualtieri di Brienne, principale sostegno della politica papale, erano i due poli intorno ai quali si andavano formando mutevoli coalizioni. Ma anche Federico, dopo l'uscita di tutela, si mostrava poco malleabile; il conflitto che si andava profilando fu però fermato da quello con Ottone IV. A partire dall'incoronazione imperiale di questo nel 1209 la politica siciliana del pontefice coincise con la politica nei confronti dell'Impero.

I. III intrattenne relazioni con tutti i paesi della Cristianità latina, ma anche con il mondo greco e addirittura con i capi musulmani. La sue lettere raggiunsero quasi tutte le terre conosciute all'epoca, documentando l'orizzonte universale del Papato. In esse le questioni ecclesiastico-religiose si mescolano con quelle più strettamente politiche, ma le prime ebbero sempre il sopravvento. Per lo più erano sollecitate dalla periferia e avevano lo scopo di ottenere una sentenza giudiziaria, di avere risposta a un quesito giuridico oppure dottrinario, di assicurarsi diritti già acquisiti o di conquistarne di nuovi. Solo pochi temi erano direttamente riconducibili all'iniziativa papale, ma vennero affrontati con grande tenacia: la crociata, la lotta contro l'eresia, la riforma della Chiesa, il concilio e naturalmente il dominio temporale del Patrimonium S. Petri e, in senso più ampio, del Regno di Sicilia. I rapporti si delineano più chiaramente attraverso le legazioni, che I. III affidò, con una consistenza e un'ampiezza di raggio d'azione fino ad allora sconosciute, soprattutto a cardinali, ma anche ad altri uomini della Curia o ad abati e semplici monaci, in particolare cisterciensi. Nella loro prospettiva il potere papale si materializza in modo più tangibile. Le legazioni più frequenti riguardavano l'Italia, dove le mete principali erano il Patrimonium S. Petri e il Regno del Sud, seguiti dall'Italia settentrionale e, in ordine decrescente, Francia e Germania, Inghilterra, Oriente e Impero latino, Ungheria, Dalmazia, Spagna, Bulgaria, ecc. In qualche caso il pontefice inviò in alcune regioni anche incaricati speciali, che portavano altri titoli, per assolvere compiti più circostanziati: per esempio, i "visitatores", che fra il 1205 e il 1208 dovettero eliminare alcuni abusi nell'episcopato lombardo. È sufficiente limitare l'analisi in modo paradigmatico ad alcuni paesi dove l'aspetto politico si trova in primo piano: Germania, Francia, Inghilterra, Aragona e, nell'area più periferica, Ungheria e Bulgaria.

L'atteggiamento di I. III nella disputa per il trono tedesco, ben documentato dal Regestum super negotio Romani Imperii, a dispetto delle sottili argomentazioni giuridiche e morali addotte - già illustrate in precedenza a proposito della concezione papale del rapporto fra "Imperium" e "Sacerdotium" - dipendeva unicamente da motivi politici, ossia dalla preoccupazione di difendere la libertà della Chiesa romana e la consistenza dei recuperi territoriali e di stornare la minaccia di una "unio regni ad imperium". Poiché i due pretendenti (Filippo di Svevia, eletto il 6 marzo 1198 e Ottone di Brunswick, eletto l'8 giugno 1198) per rafforzare le rispettive posizioni, ambigue dal punto di vista giuridico, cercarono di guadagnarsi il favore del pontefice e chiesero di ricevere da lui la corona imperiale, molto dipese dalla decisione di I. III, soprattutto rispetto ai principi ecclesiastici vincolati dall'obbedienza al pontefice. Poiché da parte degli Hohenstaufen veniva sempre più chiaramente portata avanti la politica già perseguita da Federico Barbarossa e da Enrico VI, mentre Filippo lasciava a desiderare per quanto riguardava il capitolo sottomissione, il papa non poté che scegliere Ottone, disposto a riconoscere i diritti e i possedimenti della Chiesa romana. Ma I. III si fece garantire sulla base di documenti scritti queste promesse. Ottone il 9 giugno 1201 presentò a Neuss il documento prescritto, che conteneva ampie assicurazioni relativamente ai territori e si impegnava ad appoggiare la politica papale di recuperi e a mantenere l'indipendenza del Regno di Sicilia. Alcune settimane più tardi il legato pontificio Guido pubblicò solennemente a Colonia il riconoscimento papale di Ottone, eletto re e imperatore, e annullò i giuramenti di fedeltà prestati a Filippo di Svevia. I. III procedette con una certa flessibilità nei confronti dei conflitti di coscienza dei sostenitori dello Svevo tanto più che per i guelfi la situazione peggiorava continuamente. Dal 1204 si innescò un ampio movimento di defezioni, per cui nell'autunno 1206 Ottone era ormai confinato nelle sue terre d'origine. I. III gli tolse gradualmente il suo sostegno e avviò trattative con Filippo. Nella primavera 1207 due dei cardinali più agguerriti si recarono in Germania, in estate annullarono la scomunica di Filippo, in autunno annunciarono una tregua e nella primavera seguente ripartirono alla volta di Roma accompagnati da emissari di entrambi i sovrani, affinché il papa stesso concludesse le trattative. L'obiettivo fu raggiunto, ma si ignora il contenuto preciso degli accordi. La morte di Filippo, ucciso da Ottone di Wittelsbach per una vendetta personale il 21 giugno 1208, restituì a I. III la sua libertà di manovra. Il papa si rivolse di nuovo al candidato guelfo e si impegnò a sostenere energicamente la sua causa fra i principi tedeschi. Tuttavia, ancor più decisivo della sua iniziativa fu lo stato d'animo dominante in Germania, ormai estenuata da questa contesa: l'elezione di Ottone a Francoforte, l'11 nov. 1208, fu accolta da ampi consensi. Al desiderio di Ottone di essere incoronato imperatore, I. III rispose inviando due cardinali legati e rinnovando la richiesta di concessioni scritte, che venne soddisfatta a Spira il 22 marzo 1209. Le promesse relative alla Chiesa (libertà nella elezione dei vescovi, rinuncia ai diritti di regalia e di spoglio) e il reiterato riconoscimento delle "recuperationes", dei beni matildici e della signoria feudale del papa sulla Sicilia - per quanto in quel momento potessero essere stati intesi seriamente - non vennero rinnovati da Ottone in occasione dell'incontro con il pontefice nel giugno 1209, per cui sull'incoronazione imperiale, il 4 ott. 1209, già si allungava l'ombra del conflitto. Poiché Ottone venne meno alle promesse, solo pochi mesi dopo I. III lo minacciò di scomunica se non avesse desistito dal prendere iniziative ostili nei confronti della Chiesa romana e di Federico. La scomunica fu confermata allorché un distaccamento di truppe imperiali avanzò verso l'Italia meridionale, e venne proclamata solennemente quando Ottone, nel novembre 1210, varcò i confini del Regno. Furono sciolti i giuramenti di fedeltà e ai vescovi fu ordinato di annunciare l'anatema in tutto l'Impero. Di fronte alla mancanza d'efficacia delle misure canoniche il papa dopo alcuni mesi di incertezza avallò le intenzioni di un gruppo di oppositori fra i principi tedeschi e diede il suo assenso all'elezione di un nuovo sovrano. Eletto nel settembre 1211, Federico II, che poté registrare i primi successi della sua politica di rivendicazioni proprio nel Regno di Sicilia, si assunse i rischi dell'impresa e dopo aver lasciato l'isola, nel marzo 1212, si assicurò a Roma l'appoggio del papa e nel settembre 1212 raggiunse la Germania sudoccidentale (la nuova elezione ebbe luogo a Francoforte nel dicembre 1212 e l'incoronazione a Magonza). Sostenuto dall'alleanza con la Francia, Federico ingaggiò battaglia con Ottone, che alla fine venne sconfitto a Bouvines nel luglio 1214. Ma già in precedenza I. III aveva chiesto, in cambio del suo appoggio, le più solenni assicurazioni. A Eger Federico garantì con una bolla d'oro e la menzione di numerosi testimoni principeschi le concessioni territoriali ed ecclesiastiche (come Ottone IV già aveva fatto quattro anni prima; un anno più tardi assegnò solennemente alla Chiesa romana i territori recuperati, la Sardegna e la Corsica). Un anno dopo la nuova incoronazione ad Aquisgrana, il 25 luglio 1215, Federico dovette acconsentire a dare altre assicurazioni sotto giuramento dinanzi a un cardinal legato: rinunciare alla Sicilia dopo l'incoronazione imperiale e alla patria potestà sul figlio Enrico, incoronato re di Sicilia, e affidare a un uomo approvato dal papa la tutela del bambino fino alla maggiore età. Il concilio Lateranense confermò le trasformazioni politiche e vanificò qualsiasi speranza di restituzioni di Ottone IV. Come durevole risultato della lotta per il trono tedesco I. III poté assicurarsi il riconoscimento della sovranità feudale sul Regno di Sicilia e dar veste giuridicamente valida alla sua politica di recuperi nell'Italia centrale.

Del complesso delle lettere di I. III circa un terzo è destinato alla Francia: più che a tutti gli altri paesi. Più volte il papa manifestò la sua predilezione per il paese in cui aveva studiato.

I rapporti con esso ruotarono principalmente intorno a tre temi: il matrimonio del re Filippo II Augusto con Ingeborg di Danimarca, la guerra anglo-francese e la lotta all'eresia nelle regioni meridionali. La principessa danese, sposata nel 1193 e subito ripudiata, si era appellata alla Sede apostolica contro la sentenza di annullamento emessa dal compiacente episcopato francese, e già sotto Celestino III aveva ottenuto giustizia, ma ciò non aveva impedito al re di prendere in moglie Agnese di Andechs-Meranien. I. III riprese subito la causa e nel 1200, in seguito all'ostinato rifiuto di Filippo di separarsi da Agnes per riunirsi a Ingeborg, colpì addirittura il Regno di Francia con un interdetto di nove mesi. Si adoperò per far riconciliare la coppia e rimase tenacemente schierato dalla parte di Ingeborg fino alla soluzione puramente formale della vicenda nel 1213, pur astenendosi dal prendere provvedimenti radicali per timore delle ripercussioni politiche. In previsione della crociata, già nel 1198 la guerra anglo-francese venne arginata e un cardinal legato svolse un ruolo decisivo nelle trattative che condussero infine alla pace di Le Goulet (22 maggio 1200), che separò i belligeranti per un certo periodo di tempo. Ma i tentativi di mediazione di I. III negli anni successivi si rivelarono infruttuosi: Filippo II Augusto portò a termine la conquista delle province inglesi sulla terraferma, senza curarsi affatto dei moniti e delle minacce di Roma. È opportuno ricordare nuovamente in questo contesto la decretale Novit, che giustificò l'intervento papale "ratione peccati". Nel 1202 nella Per venerabilem era già stata messa in risalto la sovranità del re rispetto all'imperatore. Invece l'invito rivolto al re francese di sottomettere l'Inghilterra a causa dell'atteggiamento ostinato di Giovanni Senzaterra nel grande interdetto avrebbe avuto seguito se Giovanni, in ultimo, non avesse ceduto il suo Regno come feudo alla S. Sede nel 1213. Così I. III cambiò completamente la sua posizione. Il papa poté annoverare fra i propri successi la mediazione pacificatrice dopo la disfatta di Bouvines e l'annullamento dei progetti d'invasione dell'Inghilterra da parte del figlio primogenito di Filippo Augusto. Infatti la cessazione delle ostilità in Occidente avrebbe reso disponibili soldati per la crociata. Della crociata contro gli albigesi e dell'atteggiamento del sovrano francese si è già parlato in precedenza.

Poiché i rapporti di I. III con l'Inghilterra e con la Chiesa inglese sono quelli meglio studiati, le osservazioni qui presentate possono valere, mutatis mutandis, anche per altri paesi.

In linea di massima I. III non avanzò richieste nuove, ma mostrò una maggiore determinazione e sottolineò costantemente che ciò discendeva dalla sua supremazia spirituale. L'aspetto politico e quello esclusivamente religioso appaiono inscindibili; il primo, tuttavia, ebbe implicazioni internazionali, soprattutto nei confronti della Francia e nella contesa per il trono tedesco. I primi anni del pontificato furono segnati, da un lato, dagli sforzi di I. III per assicurarsi il sostegno del re inglese a favore di Ottone IV, dall'altro, soprattutto in vista della crociata, per giungere a una pace tra il re di Francia e il suo avversario inglese. Ma il papa non riuscì a evitare che Filippo II conquistasse la Normandia o a convincerlo a tornare sui propri passi. In quegli anni l'influsso papale mostrò la ben nota sfaccettatura: appellazioni che davano luogo a una giurisdizione fortemente delegata, tassazioni del clero per la crociata, norme per la commutazione e lo scioglimento dal voto di recarsi in crociata, conferimento dei benefici. Dal 1205 lo spinoso conflitto per l'elezione dell'arcivescovo di Canterbury pesò in modo determinante sui rapporti con l'Inghilterra. I. III respinse sia il candidato del capitolo sia il vescovo Giovanni di Norwich, appoggiato da Giovanni Senzaterra, annullò entrambe le elezioni e fece scegliere da membri del capitolo presenti a Roma Stefano Langton, cardinale inglese ed ex professore di teologia dell'Università di Parigi. Il papa intendeva imporlo a Canterbury mediante sanzioni di ordine spirituale. In seguito all'opposizione del sovrano, nel marzo del 1208 lanciò l'interdetto su tutta l'Inghilterra, provocando in risposta misure di ritorsione da parte del re. Alla fine, dopo il fallimento delle trattative, Giovanni Senzaterra venne scomunicato nel gennaio 1209. Al contrario di altri paesi, gli Inglesi sentivano intensamente l'autorità papale. Dopo che la vita religiosa per anni declinò e Giovanni Senzaterra proseguì nella sua politica di repressione, I. III, nel febbraio 1213, gli pose un ultimatum - i documenti per lo scioglimento dei sudditi del sovrano dal giuramento di fedeltà erano già pronti - ed esortò il re di Francia a conquistare l'Inghilterra. Giovanni, temendo di non poter più fare affidamento sui suoi baroni, mutò bruscamente atteggiamento e, nel maggio 1213, accettò le condizioni di pace del papa, acconsentendo a riconoscere Stefano Langton come nuovo arcivescovo, a reintegrare nelle loro sedi i vescovi scacciati e a restituire i beni ecclesiastici confiscati. Il 15 maggio 1213 cedette il Regno alla Sede apostolica e lo riottenne in feudo contro il pagamento di un censo annuale di 1000 libbre. Di conseguenza il pontefice sospese immediatamente l'intervento francese e inviò alcuni legati per riorganizzare la Chiesa inglese. I. III non riuscì a impedire la nuova spedizione di Giovanni Senzaterra sulla terraferma, che si concluse con la sconfitta di Bouvines (27 luglio 1214), ma il cardinal legato Roberto di Corson fu coinvolto nella mediazione che condusse alla tregua. Anche nel confronto fra Giovanni Senzaterra - che il 4 marzo 1215 aveva preso la croce - e i baroni ribelli, che l'avevano costretto a sottoscrivere la Magna Charta (12 maggio 1215), I. III appoggiò il nuovo vassallo dichiarando nulla la validità del documento il 24 ag. 1215. Il pontefice, con sanzioni spirituali, cercò di scongiurare la minaccia di un trasferimento del Regno d'Inghilterra all'erede al trono francese al quale i baroni ribelli lo avevano offerto, e inoltre dispose un riordinamento interno della Chiesa inglese affidando il compito al suo legato Guala, un cardinale fra i più validi, che al momento della morte del papa e del re (19 ott. 1216) era in piena attività. Si deve a Guala se la corona rimase al minorenne Enrico III, se si concluse la pace e se negli anni seguenti furono annullate le conseguenze del grande interdetto.

L'efficacia della diplomazia pontificia non deve comunque essere sopravvalutata. I suoi fallimenti furono più numerosi dei successi pieni e duraturi. I rapporti con il re Enrico di Ungheria (1196-1204) ne sono un eloquente esempio.

Nei primi anni di pontificato I. III si adoperò - con risultati positivi - per ricomporre la disputa tra il re e il fratello Andrea, soprattutto in vista di un coinvolgimento ungherese nella crociata, che parve realizzarsi quando entrambi i fratelli presero la croce. Per questo motivo il papa sorvolò su alcune spinose questioni, quali talune promesse non mantenute nei confronti della Serbia o la riorganizzazione della Chiesa serba da parte di vescovi ungheresi. Ma l'aggressione a Zara, da circa vent'anni ungherese, da parte dell'esercito crociato, condannata dal papa molto tiepidamente, guastò i rapporti, come pure gli intensificati contatti con la Bulgaria di Kalojan (Joannitsa 1197-1207), che aveva mire espansionistiche ed era in lite con l'Ungheria a causa di conflitti irrisolti soprattutto in Serbia. La prospettiva di riunire la Chiesa bulgara a quella latina, estendendo così la giurisdizione papale nei Balcani, indusse I. III ad accondiscendere alle richieste di Kalojan, che desiderava essere innalzato di rango e incoronato. Ma la legazione del cardinale Leone di S. Croce nei Balcani dalla primavera 1204 era nata sotto auspici sfavorevoli. Pur riuscendo a scongiurare la guerra imminente fra Kalojan ed Enrico, non si giunse a un arbitrato in merito alle materie del contendere: il legato fu anzi preso prigioniero dal sovrano ungherese per impedirgli di proseguire il viaggio per la Bulgaria, allo scopo di ottenere altre concessioni.

Per motivi non chiariti - in ogni caso non in seguito alle proteste e alle minacce del papa - il legato alla fine venne rilasciato e il 4 nov. 1204 incoronò Kalojan re di Bulgaria. Ma la prevista mediazione di pace fra Bulgaria e Ungheria fallì. Neppure gli atti d'amicizia nei confronti di Kalojan poterono impedire l'aggressione sferrata contro l'Impero latino, che si concluse con la disfatta di Adrianopoli, la cattura e la morte dell'imperatore Baldovino alcuni mesi più tardi. Nessuno dei problemi politici dei Balcani fu risolto definitivamente dalla diplomazia pontificia, che raccolse solo successi effimeri: né i conflitti fra Bulgari e Ungheresi, né la riorganizzazione della Chiesa serba o le dispute intorno alla sovranità in Serbia, o ancora l'espansionismo bulgaro antitetico alle intenzioni latine.

L'apogeo del pontificato di I. III coincide con il concilio celebrato nella basilica del Laterano dall'11 al 30 nov. 1215. La convocazione con la bolla Vineam Domini Sabaoth (19 apr. 1213) e l'appello alla crociata, di pochi giorni successivo, Quia maior nunc, mettono in risalto la stretta connessione fra gli obiettivi della riforma della Chiesa e della riconquista della Terrasanta. Ma dovevano essere risolti anche i problemi politici che laceravano la Cristianità. All'apertura del concilio presenziarono oltre 400 vescovi, 800 abati e priori e molti rappresentanti delle potenze secolari, sicché il IV Lateranense fu il concilio più frequentato del Medioevo.

Lo svolgimento del concilio è ben documentato dal resoconto di un testimone oculare e dimostra che i canoni conclusivi furono discussi solo in piccola parte. Invece, in presenza del pontefice, furono trattate nel corso di tre sedute numerose questioni ecclesiastiche e politiche: l'elezione contestata del patriarca latino di Costantinopoli e i diritti primaziali dell'arcivescovo di Toledo nei confronti degli arcivescovi di Braga, Santiago de Compostela, Tarragona e Narbona. Si era già parlato del riassetto della carta geopolitica della Francia meridionale a favore di Simone di Montfort, malgrado la presenza dei conti di Foix e di Tolosa. La decisione in merito alla legittimità di Ottone IV o Federico II come sovrano tedesco non fu affrontata, perché fra gli emissari nemici scoppiò una rissa. Nella terza sessione, il 30 novembre, venne approvato solennemente il Credo, fu condannata l'eresia, specialmente quella di Gioacchino da Fiore e di Amalrico di Bena, e fu approvata la crociata con la bolla Ad liberandam. Con la crociata, che doveva procedere senza intralci, I. III motivò anche la scomunica dei baroni inglesi, che si erano sollevati contro Giovanni Senzaterra, e la sospensione dell'arcivescovo di Canterbury Stefano Langton. Confermò, inoltre, definitivamente Federico II e condannò Ottone IV. Solo a conclusione del concilio vennero proclamati i 70 decreti che non furono però votati. Non erano neppure stati integralmente formulati, perché la redazione finale e la diffusione ai vescovi fu rinviata al 1216. Possono essere considerati opera di I. III, che in tal modo fece sancire dal concilio i suoi propositi dogmatici e riformatori. Se ne possono individuare le premesse nelle opere del papa e nelle decisioni prese fino a quel momento, piuttosto che nei concili provinciali precedenti al 1215, ai quali in parte presenziarono legati pontifici (Avignone 1209, Parigi 1212, Montpellier 1215). La professione di fede introduttiva Firmiter (can. 1) e le altre due costituzioni dogmatiche (cann. 2, 3) avevano un orientamento espressamente antiereticale e rielaboravano nella dottrina dei sacramenti concetti della scuola teologica di Parigi, per esempio la transustanziazione. Le costituzioni riformatrici si riferivano a quasi tutti i settori della vita ecclesiastica. Alla moralità del clero si provvide con circostanziate norme di comportamento (cann. 14-20) e si rinnovò la condanna di ogni forma di simonia (cann. 63-66). Venne messa in risalto la responsabilità dei vescovi nella cura delle anime e fu loro prescritto di preoccuparsi anche della scelta di predicatori e confessori idonei (can. 10), nonché di insegnanti da destinare alle cattedrali per la preparazione del clero (can. 11), e soprattutto di sorvegliare la formazione dei candidati al sacerdozio (can. 27). Le disposizioni in merito all'elezione canonica dei vescovi, libera dall'influenza temporale, continuarono ad avere effetto per secoli (cann. 24-26). Venne menzionato anche il compito di tenere periodicamente capitoli provinciali e di visitare gli ordini, insieme con il divieto di fondare nuovi ordini religiosi (cann. 12, 13). L'obbligo della decima venne esteso anche ai conventi (cann. 55-56) e, vista la contiguità con la simonia, il concilio proibì di chiedere denaro all'ingresso di un candidato in convento (can. 64). L'obbligo della confessione annuale e della comunione pasquale per tutti i credenti (can. 21) fu il più duraturo nel tempo. Anche la regolamentazione del diritto matrimoniale continuò a essere valida per secoli e in parte lo è ancora oggi nella Chiesa: poiché le regole invalse fino ad allora, secondo le quali i parenti fino al settimo grado non potevano contrarre matrimonio, avevano provocato molti abusi e reso quasi impossibili le unioni fra nobili, il can. 50 ridusse l'impedimento al matrimonio fra parenti al quarto grado e il can. 52 abolì la "affinitas secundi et tertii generis". I matrimoni clandestini vennero proibiti e ai parroci venne imposto l'obbligo di rendere pubblica l'intenzione di celebrare il matrimonio (can. 51). Prescrizioni assai dettagliate completarono la procedura dei processi penali e civili (cann. 8, 24, 42, 48, 61). Le disposizioni contro gli ebrei emesse per motivi di una scrupolosa cura d'anime (divieto di commerciare e di assumere cariche pubbliche; contrassegno sulle vesti; cann. 67-70) approfondirono la generale consapevolezza della loro inferiorità e contribuirono a discriminarli. A eccezione di pochi canoni i decreti vennero inseriti nel Corpus iuris canonici e lasciarono la loro impronta sulla Chiesa più di qualsiasi altro concilio medievale fino al tridentino.

I. III morì il 16 luglio 1216 a Perugia. Restò sepolto fino al 1892 nella cattedrale di questa città, poi le sue spoglie furono traslate a Roma in S. Giovanni in Laterano.

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