NICCOLÒ III, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)

NICCOLO III, papa

Franca Allegrezza

NICCOLÒ III, papa. – Giovanni Gaetano Orsini nacque a Roma tra il 1212 e il 1216, da Matteo Rosso di Giovanni Gaetano e da Perna Caetani. Secondogenito, fu probabilmente destinato dall’infanzia alla vita religiosa.

Una tradizione minoritica, posteriore alla sua morte, vuole che il padre, in stretti rapporti con Francesco d’Assisi, lo avesse oblato al santo umbro, il quale avrebbe pronunciato una profezia sul suo avvenire, prevedendogli il papato e un futuro come protettore dell’Ordine dei minori ma non la sua appartenenza al medesimo.

Sull’infanzia e la prima giovinezza non si hanno notizie, poiché la notizia di una sua formazione presso l’abbazia savoiarda di Hautecombe, fondata su dati molto discutibili, è stata da tempo rifiutata dagli storici. Benché sia certo che fosse entrato nel clero ricevendo soltanto gli ordini minori – fu consacrato sacerdote dopo l’elevazione al pontificato – anche la prima fase della sua carriera religiosa, durante la quale ottenne i canonicati di York, Soissons e Laon, e prebende nelle chiese romane di S. Lorenzo in Damaso e di S. Crisogono, è rimasta nell’ombra a causa della scarsità delle fonti. Meno oscure le motivazioni che spinsero Innocenzo IV, il 28 maggio 1244, in occasione della prima promozione cardinalizia del suo pontificato, a elevarlo dalla schiera dei suddiaconi e cappellani papali al rango di cardinale diacono di S. Nicola in carcere tulliano: il papa si trovava allora nella necessità di ampliare la base dei suoi sostenitori (Chronica majora, 1877, p. 354) come mossa preliminare al definitivo attacco contro Federico II – messo a segno nel luglio 1245 – e la promozione di Giovanni Gaetano si inseriva pienamente in quella strategia.

Matteo Rosso Orsini, nominato una prima volta senatore di Roma nel 1241, con avallo, se non per diretto intervento, di Gregorio IX, si era distinto come animatore e sostenitore dei diritti di Roma e del Papato contro l’imperatore e aveva svolto un ruolo di primo piano, ancorché discutibile, nel conclave da cui era uscito eletto il predecessore di Innocenzo IV, Celestino IV, destinato a un brevissimo regno. Seppure la storiografia, attribuendogli un’adamantina scelta a favore della Chiesa, ha probabilmente proiettato su lui le più decise posizioni assunte dai suoi figli dalla fine degli anni Cinquanta del Duecento, è tuttavia indubbio che fu la sua partecipazione alla lega guelfa del 1242 – l’unione dei centri del Lazio e dell’Umbria nel giuramento di non concludere pace separata con l’imperatore fintanto che proseguiva la guerra contro il papa – a porlo nella schiera degli avversari della causa imperiale: agli occhi del papa si collocava dunque fra i cittadini romani da compensare con benevolenza.

Con la nomina di Giovanni Gaetano a cardinale, Innocenzo IV volle gratificare la famiglia, che tornava così ad annodare legami diretti con la Curia – al 1221 o al 1223 risaliva la morte del cardinale Aldobrandino, fratello di Matteo Rosso (Thumser, 1990-91, pp. 41-49) – e proprio negli anni in cui le famiglie romane, già da qualche tempo influenti in Senato e in possesso di domini extraurbani, iniziavano a partecipare, per la peculiare situazione politica che si stava sviluppando nell’Italia centrale, come interlocutrici e potenziali alleate dei pontefici alla nuova definizione degli assetti meridionali. Lo stesso Innocenzo IV permise, in quegli anni, il rafforzamento territoriale di un altro ramo degli Orsini, i discendenti di Napoleone di Giovanni Gaetano, lungo la via Tiburtina, dove già dagli inizi del Duecento la famiglia possedeva castelli. Il papa avrebbe ratificato anche il loro inserimento nella Marsica abruzzese, quando, concedendo a Manfredi il vicariato nel Regno di Sicilia, ne escluse deliberatamente il giustiziariato d’Abruzzo e raccomandò al suo emissario nel Regno, frate Ruggero da Lentini, di assegnare a persone fedeli i beni dei ribelli alla Chiesa romana, situati colà (Regesta …, 1875, nr. 14.236).

Durante il pontificato di Innocenzo IV, Giovanni Gaetano non ottenne incarichi particolari. Pochi giorni dopo aver ricevuto il titolo cardinalizio si imbarcò a Civitavecchia, con altri esponenti della Curia, per Genova, dove sottoscrisse per la prima volta un documento papale il 27 settembre 1244, e da lì proseguì per Lione, sede del concilio, dove il papa gli assegnò il ruolo di auditor, veste in cui si trova attestato nelle fonti. Nuove testimonianze si hanno al tempo del ritorno della Curia in Italia. Il 3 luglio 1251 Orsini era presente insieme con il cardinale di S. Maria in via Lata, Ottaviano Ubaldini, alla preparazione di un compromesso tra il vescovo di Torino e il conte Tommaso di Savoia. Dopo aver raggiunto la Curia a Perugia alla fine dell’anno, nell’agosto 1252 fu inviato in Toscana dal papa insieme con il cardinale Riccardo Annibaldi, per sollecitare una tregua tra Siena e Firenze.

I suoi incarichi appaiono di importanza relativa, seppure destinati ad affinare le sue capacità politiche, di cui soprattutto Alessandro IV, succeduto alla fine del 1254 a Innocenzo, iniziò a servirsi. Dagli anni 1255-56 ottenne i primi incarichi di rilievo: il papa gli assegnò il compito di seguire gravi questioni dottrinali e teologiche, chiamandolo a partecipare alla commissione pontificia per esaminare il Tractatus de periculis novissimorum temporum – rivolto contro gli Ordini mendicanti – del maestro di teologia all’Università di Parigi Guillaume de Saint-Amour e a presiedere il processo intentato contro il generale dell’Ordine francescano Giovanni da Parma, accusato di idee eterodosse. Presso il pontefice, in Curia e più in generale negli ambienti politici, Orsini stava quindi rapidamente guadagnando stima: per l’integrità dei costumi, per il disinteresse economico (suscitava vivo stupore il fatto che vivesse del proprio patrimonio) per la neutralità della posizione politica ( nelle missive di quegli anni tra il re Luigi IX e il suo ambasciatore presso la corte papale è indicato come il cardinale più adatto per la mediazione tra Francia e Inghilterra perché gradito a entrambe le parti) e forse anche per il suo particolare prestigio fisico, che gli aveva guadagnato il soprannome di «el Composto» (Historia ecclesiastica…, 1727, col. 1179).

Con l’inizio del pontificato di Urbano IV – nel settembre 1261 – vide crescere la sua influenza sullo stesso papa, che gli doveva l’appoggio per l’elezione. Dal novembre 1262 è attestato come inquisitor generalis nella lotta contro le eresie, particolarmente vive nel Viterbese; tra 1261 e 1262 fu nominato protettore dell’Ordine francescano e nel 1263 delle clarisse.

Ancora tra il 1261 e il 1262 Urbano chiamò un nipote di Giovanni Gaetano, Matteo Rosso, figlio di suo fratello Gentile, e il cognato di suo fratello Napoleone, Giacomo Savelli (poi Onorio IV), a far parte del Sacro Collegio. Ma soprattutto Urbano, riprendendo con rinnovata energia le trattative con i possibili aspiranti alla corona di Sicilia, coinvolse anche Giovanni Gaetano nella politica ormai decisamente indirizzata verso l’insediamento del fratello di Luigi IX, Carlo d’Angiò, sul trono meridionale. Tra la fine del 1262 e la primavera del 1263 il pontefice giunse a discutere con Carlo i punti fondamentali dell’accordo. Giovanni Gaetano, che vantava tra i suoi successi politici la negoziazione di una pace nel 1258 tra i sovrani di Francia e Inghilterra, uomo di fiducia del papa e perciò sicuramente al corrente, se non uno degli ispiratori, della strategia curiale, si impegnò personalmente, e spinse i fratelli e i nipoti a impegnarsi, per il candidato francese.

La famiglia Orsini, alla stregua di altre influenti famiglie romane, vedeva i propri membri schierati su opposte posizioni già dagli anni in cui il nobile bolognese Brancaleone degli Andalò aveva tenuto la carica senatoria (1252-55; 1257-58): i discendenti di Matteo Rosso – fratelli e nipoti di Giovanni Gaetano – appoggiavano la Curia, i discendenti di Napoleone, possessori di castelli lungo la via Tiburtina e nella Marsica, apparivano piuttosto legati agli Svevi, tanto che il cronista Saba Malaspina, trattando degli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento, li annovera senza titubanze tra i capi ghibellini della città. Era urgente chiarire in maniera inequivocabile la propria posizione politica. Fu così che, tra la fine del 1262 e la primavera del 1263, Giovanni Gaetano fu scelto come arbitro per la definitiva separazione dei diritti comuni mantenuti fino ad allora indivisi dalla famiglia Orsini sugli immobili urbani. Consolidata la propria presenza in città, dove controllava ormai il ponte S. Angelo, unico accesso alla città leonina, situata intorno alla basilica di S. Pietro, il ramo Orsini direttamente imparentato con il cardinale riuscì a entrare in possesso, grazie alla lunga operazione di politica economica intrapresa nel 1262 e portata a compimento solo alcuni anni più tardi dal loro congiunto, del castello di Marino, a sud di Roma, sull’itinerario che stava soppiantando il percorso della via Appia. La spregiudicatezza di cui in quella circostanza diede prova Giovanni Gaetano si sommava alla mano pesante dimostrata nella lotta contro gli eretici condotta nel Viterbese, nonostante gli inviti alla moderazione avanzati da Clemente IV.

I fratelli e i nipoti di Giovanni Gaetano conquistarono una forte posizione in città: controllavano territori strategicamente rilevanti nei dintorni di Roma e condividevano la strategia papale a favore di Carlo d’Angiò. Questi motivi li resero alleati importanti per Carlo che, già senatore di Roma, ricevette nel giugno 1265 la promessa del Regno di Sicilia da Clemente IV e fu incoronato a S. Pietro il 6 gennaio 1266. La vittoria su Manfredi a Benevento (1266) e quella su Corradino a Tagliacozzo (1268) assicurarono a Carlo il trono siciliano, ovvero al Papato il definitivo successo sugli Svevi, e ridisegnarono a vantaggio degli interessi della Curia papale la mappa del potere politico nell’Italia centrale.

Durante il pontificato di Urbano IV la fortuna di Giovanni Gaetano toccò il suo apice. Meno favorevole fu per lui l’epoca successiva.

L’eccezionale durata del conclave di Viterbo – dal dicembre 1268 al 1° settembre 1271 – fu causata dall’emergere di diverse posizioni nel Sacro Collegio: alcuni cardinali appoggiavano l’intraprendente politica che Carlo I d’Angiò, dopo il definitivo successo sugli Svevi, stava mettendo in atto in Italia grazie al mantenimento dell’ufficio senatorio a Roma, al possesso della corona siciliana e al predominio guelfo in Toscana. Altri temevano di precipitare di nuovo in una situazione analoga a quella che il papato aveva subito durante il regno di Enrico VI e soprattutto di Federico II. Alla fine la scelta cadde su un uomo di Curia esterno al Collegio, l’arcidiacono piacentino e vicario apostolico a Gerusalemme Tebaldo Visconti.

Il nuovo papa, Gregorio X, inaugurando una politica di contenimento delle pretese del re di Sicilia, sembra aver diffidato di Giovanni Gaetano: non tanto la disponibilità, sua e della sua famiglia, dimostrata a Carlo d’Angiò, quanto la sua grande potenza romana gli alienarono forse la confidenza del papa. Certo è che Giovanni Gaetano non seguì il pontefice e la Curia a Orvieto nell’estate del 1272, né a Lione, dove si tenne il concilio nel 1274.

Anche durante i due successivi, brevissimi pontificati di Innocenzo V e Adriano V, Giovanni Gaetano rimase nell’ombra. Fu con Giovanni XXI, di cui aveva caldamente appoggiato l’elezione, che tornò a coprire cariche importanti. Con un atto significativo e foriero di conseguenze il 18 ottobre 1276 il pontefice lo nominò arciprete del capitolo di S. Pietro, di cui gli Orsini avrebbero mantenuto il controllo sino al 1342 e forse al 1350.

In qualità di arciprete, Giovanni Gaetano aumentò da 22 a 30 il numero dei canonici e iniziò forse a progettare la costruzione, accanto alla basilica, di un palazzo papale che rappresentasse una degna alternativa alle dimore lateranensi: un progetto ripreso pochi giorni dopo la sua elezione papale, dal 16 dicembre 1277, data dalla quale sarebbero iniziati gli acquisti di vigne e terre nell’area circostante la basilica in vista della costruzione di «nova palatia» (D’Onofrio, 1983, pp. 555 s.).

Nel maggio 1277 la morte colse anche Giovanni XXI nel palazzo papale viterbese. La rapida successione, in meno di un anno, di tre papi, la conseguente rapida decimazione del Sacro Collegio – né Innocenzo V, né Adriano V, né Giovanni XXI avevano infatti creato cardinali – finalmente aprirono la strada alla faticosa elezione del cardinale decano Giovanni Gaetano, avvenuta a Viterbo il 25 novembre 1277.

Era allora podestà, e quindi garante dell’ordine cittadino e della tranquillità del conclave, uno dei nipoti del cardinale, Orso di Gentile; la circostanza, notata dagli storici, non è ovviamente rilevante rispetto all’elezione, quanto chiarificatrice delle differenziate forme di pressione che la famiglia stava mettendo in atto nel Viterbese dagli anni in cui Giovanni Gaetano era stato nominato inquisitore nella Provincia.

Il nuovo papa fu consacrato sacerdote in S. Pietro e intronizzato il 26 dicembre 1277. La scelta del nome, Nicolaus, fu compiuta probabilmente per inserirsi, immediatamente e in modo manifesto, nella prestigiosa tradizione dei papi di quel nome – sia Niccolò I che Niccolò II erano stati pontefici di elevata statura politica – ma forse vi concorsero anche fattori religiosi: Giovanni Gaetano nutriva una particolare devozione nei confronti del santo titolare del suo titolo cardinalizio, cui volle in seguito dedicata una cappella in S. Pietro.

Giovanni Gaetano si era dimostrato durante la sua lunghissima e onorevole presenza nel Sacro Collegio – 33 anni – un politico accorto e tenace, poco incline alle posizioni estreme e alle utopie, ma molto fermo nei suoi propositi. Il primo passo, necessario per il modesto numero cui era ormai ridotto il Sacro Collegio – sette membri – era la nomina di nuovi cardinali: il 12 marzo 1278 Niccolò III provvide a immettervi nove ecclesiastici. Di questi, tre erano suoi parenti: Latino Malabranca era figlio della sorella Mabilia; Giordano Orsini era suo fratello per parte di padre; Giacomo Colonna era figlio di Margherita Orsini, sorella di Matteo Rosso; due, Girolamo d’Ascoli (poi Niccolò IV) e Bentivegna da Todi, appartenevano all’Ordine dei minori: il primo ne era generale, succeduto a s. Bonaventura nel 1274, il secondo era intimo amico di Niccolò III, suo cappellano e confessore dal 1266 (Waley, 1966, pp. 587 s.). Mosso dall’urgenza di risolvere un problema per la Curia romana, Niccolò III compì quindi una precisa scelta, rafforzando nel Sacro Collegio il ruolo dei familiari, dei romani, dei suoi amici religiosi.

Girolamo d’Ascoli e Bentivegna da Todi – e con loro Pietro di Giovanni Olivi – in seguito collaborarono con il papa alla redazione della decretale Exiit qui seminat (14 agosto 1279), con la quale il pontefice avrebbe voluto porre al riparo da critiche e attacchi la regola dei minori e nel contempo risolvere i dissidi all’interno dell’Ordine francescano, definendo gli obblighi sull’osservanza della povertà da parte dei frati e confortando ancora una volta, con il suggello dell’autorità pontificia, la conformità della regola al Vangelo. La proibizione di commentarla con cui concluse la decretale, e che le meritò l’appellativo di Noli me tangere (Lambertini, 1990, p. 181), non lascia dubbi sulla volontà di Niccolò III di chiudere i dissidi una volta per tutte; ma il fine auspicato non fu raggiunto, e anzi nei decenni successivi le polemiche, mai sopite, si riaccesero tanto da provocare l’intervento di un altro pontefice, Giovanni XXII, nel 1322.

Agli inizi del suo pontificato, nel gennaio 1278, Niccolò III, dopo aver consultato il vice cancelliere e alcuni notai, provvide a riformare la Cancelleria modificando le norme sulla modalità di preparazione delle lettere pontificie.

L’inserimento di suoi familiari e amici nel Sacro Collegio era propedeutico a un programma politico ampio e complesso, certamente elaborato negli ultimi anni del suo servizio come cardinale, perché si manifestò in tutta la sua portata quasi all’indomani dell’incoronazione. Appare articolato in più punti tra loro strettamente connessi e lucidamente perseguiti. Il punto centrale consisteva nella rivalutazione del ruolo guida del pontefice sugli assetti politici dell’Italia e del Mediterraneo, che doveva necessariamente passare attraverso il radicale ridimensionamento del ruolo di Carlo d’Angiò, a Roma, in Italia e nel Mediterraneo. Corollario non scontato fu l’esaltazione di Roma in quanto sede del Papato, e quindi città speciale, attraverso una serie di committenze artistiche e architettoniche.

La prima mossa, squisitamente politica, fu l’emanazione, il 18 luglio 1278 da Viterbo, della bolla Fundamenta militantis ecclesiae, «la magna charta dei rapporti fra il pontefice e il popolo romano» (Duprè-Theseider, 1952, p. 211). La bolla, che si ispira a un passo dall’82° sermone di Leone I, è concepita con una lunga prolusione sui diritti vantati dai pontefici su Roma in virtù della donazione di Costantino, sulle prerogative dei Romani in quanto popolo eletto e sui pericoli cui la città si espone affidandosi a governanti stranieri e improvvisati. Prosegue subordinando la scelta dei senatori, pure di pertinenza del Popolo romano, all’approvazione del papa, interdicendo le magistrature cittadine agli stranieri e vietando a tutti di prolungare oltre l’anno, senza speciale mandato del pontefice, le cariche ricevute. Destinatario primo della Fundamenta fu Carlo d’Angiò, da dieci anni senatore di Roma, in virtù dei patti sottoscritti nel 1268 con Clemente IV. Il termine della carica stava per spirare (16 settembre 1278) e il 27 luglio Niccolò III incaricò i cardinali Latino Malabranca e Giacomo Colonna di recarsi a Roma per il passaggio delle consegne. Con una scelta sicuramente guidata dall’alto, i Romani offrirono – ignota la data della nomina – la carica senatoria «toto tempore vitae» al papa, ma in quanto privata persona.

Il pontefice accettò nominando due nobili laici romani, Giovanni Colonna, suo cugino, e Pandolfo Savelli, cognato di suo fratello Napoleone, come rappresentanti. I due appartenevano a influenti famiglie del baronato romano, ripetutamente presenti in Senato prima della lunga preminenza angioina, dagli anni Quaranta del Duecento. Con questa scelta Niccolò III diede un chiaro segnale sul senso della bolla da poco emanata: il governo di Roma spettava alle famiglie della più alta e rappresentativa nobiltà urbana e a loro doveva ormai tornare di diritto e di fatto.

Probabilmente fu negli anni dell’esercizio, seppure per mezzo di rappresentanti, dell’ufficio senatorio da parte di Niccolò III che l’aula superiore del palazzo del Senato fu decorata con stemmi della famiglia Orsini, alternati a quelli del Senato romano e accompagnati da motivi a girali vegetali. Probabilmente nello stesso periodo Cimabue rappresentava ad Assisi il Campidoglio con gli stemmi degli Orsini nell’affresco noto col nome di Ytalia, nella crociera della basilica superiore di S. Francesco.

Dopo aver chiarito i confini entro cui era disposto ad assecondare le aspettative di Carlo d’Angiò, Niccolò III affrontò una questione assai più spinosa: la sistemazione delle terre di Romagna, di cui nel 1274 Gregorio X aveva ottenuto la cessione da Rodolfo d’Asburgo come contropartita alla sua elezione imperiale. Lo scarso interesse di Rodolfo per le questioni italiane, i brevissimi pontificati dei successori di Gregorio X e, soprattutto, le pressioni di Carlo d’Angiò, che esercitava il vicariato imperiale in Toscana, avevano concorso al mantenimento di una situazione mal definita. Tra l’estate e l’autunno del 1278, il papa affrontò di petto la questione romagnola e nel febbraio successivo ottenne dal re dei Romani un chiarimento dei diritti: Rodolfo cedeva con tutte le formalità la Romagna alla Chiesa come ammenda per la mancata organizzazione della crociata. A settembre Niccolò III aveva nominato il nipote Bertoldo Orsini rettore in temporalibus in Romagna, con il difficile compito di riportare la pace tra le città della via Emilia e di preparare il loro passaggio alla S. Sede. Affiancava Bertoldo, con il titolo di legato pontificio, il cardinale Latino Malabranca.

Ci si è interrogati, fondandosi sulle affermazioni dei cronisti, sulla reale esistenza di un piano di Niccolò III per la creazione di due nuovi regni in Italia – uno in Lombardia, l’altro in Toscana da affidare a sue creature – per impedire un raccordo troppo pericoloso tra i possedimenti angioini in Provenza e in Piemonte e il Regno meridionale. È difficile credere che un pragmatico come Niccolò III abbia davvero potuto ipotizzare una risistemazione tanto radicale di territori caratterizzati dalla presenza di vivaci e potenti organismi cittadini in lotta tra loro e divisi in fazioni interne. La stessa missione romagnola, che andava avanti a rilento anche per le incomprensioni sorte tra i due uomini del papa, si stava rivelando fallimentare, e sotto l’aspetto politico e sotto quello economico. L’operazione di Niccolò III in Romagna diede alle terre della Chiesa le frontiere mantenute fino alla costituzione del Regno d’Italia nel 1860, ma la pace stabilita a Bologna tra le fazioni dei Lambertazzi e dei Geremei nel 1279, e quella conclusa a Firenze nel 1280 tra i guelfi e i ghibellini, seppure ebbero un parziale successo, non pacificarono davvero le città. Un progetto italiano tanto sconvolgente dei precedenti equilibri, e verosimilmente destinato all’insuccesso, non appare quindi attribuibile al papa.

Certo è invece il successo conseguito nel ridimensionare l’influenza di Carlo d’Angiò nell’Italia centrale e nel Mediterraneo. Tra le iniziative del papa si colloca la ripresa del progetto di Gregorio X di far concludere un’alleanza tra Angiò e Asburgo tramite le nozze del nipote di Carlo I, Carlo Martello, con la figlia dell’imperatore Rodolfo d’Asburgo, Clemenza. Nel 1279 Carlo d’Angiò fu allontanato dal vicariato toscano: nel novembre dello stesso anno i Fiorentini chiesero al papa di designare per due anni i magistrati che avrebbero dovuto tenere la carica di podestà e capitano del Popolo e permisero alle truppe pontificie di presidiare le loro rocche di Ampinana e Montacuto. I progetti di Carlo d’Angiò furono frenati anche in Oriente: il papa, pur se rifiutò di colpire con la scomunica gli alleati del re in Epiro e in Tessaglia, ostacolò i suoi piani temendo un attacco a Costantinopoli.

L’altro punto del programma di Niccolò III – l’esaltazione di Roma – si articolò in un ventaglio di interventi nei principali luoghi di culto e di residenza dei pontefici, nelle basiliche di S. Pietro e S. Paolo fuori le Mura, nel Palazzo e nel Sancta Sanctorum presso il Laterano, e in Campidoglio. Questi interventi, progettati e perseguiti con lucida sistematicità, segnarono profondamente l’arte, romana e non, dell’ultimo ventennio del Duecento (Belting, 1983).

Oggetto della prima cura di Niccolò III fu la sistemazione del colle vaticano, presso la basilica di S. Pietro, dove dai tempi di Innocenzo III esisteva un palazzo fortificato adoperato come sede dal pontefice, ma non paragonabile alla residenza presso il Laterano. Il papa fece quindi costruire un edificio solenne degno di ospitare lui e la Curia, e fece impiantare intorno ampi giardini. Era abbastanza scontato che iniziasse dalla sede pietrina, sia per motivi di ordine puramente religioso, sia perché, come lui stesso scrisse in una lettera del 1279, considerava chiesa ‘di famiglia’ la basilica di S. Pietro, di cui Orsini erano stati spesso arcipreti. Dimorando nella casa-fortezza di Montegiordano, situata dirimpetto a Castel S. Angelo sulla sponda meridionale del Tevere, e avendo possessi presso l’attuale ospedale di S. Spirito in Sassia, vicinissimi a S. Pietro, eleggevano spesso questa a proprio luogo di sepoltura. Nel portico della basilica Niccolò III fece effigiare le storie di s. Pietro e di s. Paolo, distrutte dall’incendio del 1606, e costruire, nell’ultima navata destra, una cappella intitolata al suo santo eponimo, destinata al suo sepolcro. Nella navata centrale volle fossero rappresentati i pontefici suoi predecessori, secondo un progetto riproposto e attuato subito dopo anche a S. Paolo fuori le Mura.

In quegli anni – è ignota la data esatta – gli Orsini ottennero dal papa Castel S. Angelo, un possesso che avrebbero parzialmente conservato sino al 1348 e forse fino al 1360-63 (Roma, Archivio storico Capitolino, Archvio Orsini, Diplomatico, II.A.VII.39). Risale al pontificato di Niccolò III anche la costruzione del ‘passetto di Borgo’, il corridoio ricavato sulle mura leonine che, collegando S. Pietro con Castel S. Angelo, avrebbe permesso un rapido riparo al papa (attraverso ponte S. Angelo si raggiungeva facilmente la fortezza di Montegiordano).

Ma l’opera più grandiosa di Niccolò III, e l’unica ancora interamente conservata, fu la ricostruzione della cappella del Sancta Sanctorum presso S. Giovanni in Laterano. Secondo le fonti, la fece completamente riedificare, forse perché il terremoto che aveva colpito Roma nel 1277 ne aveva compromesso la struttura. Il ciclo pittorico che ne decora le pareti rappresenta, sullo sfondo di monumenti romani – alcuni sono i monumenti oggetto dei suoi stessi interventi architettonici –, scene ispirate alla più autentica tradizione martirologica cittadina: la crocifissione di s. Pietro, la decapitazione di s. Paolo, i martiri dei ss. Agnese, Lorenzo e Stefano; conclude il ciclo un miracolo di s. Nicola. Le pitture furono tutte realizzate da autori di grande perizia, ma è nell’affresco della parete orientale, quella dell’altare, che l’alto livello della committenza romana tocca il suo vertice. Accompagnato e incoraggiato dai ss. Pietro e Paolo, vestito degli abiti pontificali, il papa vi compare nell’atto di offrire a Cristo, secondo un topos dell’arte medievale, il modello dell’edificio rifondato. Contrariamente alla consuetudine, però, l’offerente, genuflesso, figura alto quasi quanto i santi martiri che lo affiancano e di poco inferiore al Cristo seduto: di fronte a Cristo, come di fronte agli uomini, Niccolò III si vuole rappresentato come Pietro stesso.

Per garantire il successo del suo programma, il pontefice aveva dovuto impegnarsi a consolidare e ampliare la forza dell’aristocrazia romana, e in primo luogo quella della sua famiglia, presentandone i membri, laici ed ecclesiastici, come i principali interlocutori a ogni controparte e in ogni iniziativa politica da lui intrapresa. Ma l’innalzamento dei suoi familiari alle massime cariche politiche, sommato all’aggressiva politica nel Viterbese per assicurare agli Orsini il controllo della regione, offrì materia ai contemporanei per costruire un durissimo giudizio sulla cupidigia di Niccolò. In particolare destò rumore, nel luglio 1278, la nomina del nipote Orso Orsini a rettore del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia e maresciallo della S. Sede, quindi a podestà di Viterbo. Servendosi delle milizie fornitegli dalla Chiesa, e forte dell’appoggio di Niccolò III, Orso si impadronì di almeno sette castelli situati nei pressi dei monti Cimini, tra i quali Soriano, strappato ai possessori con il pretesto che questi si erano macchiati di eresia (Annales …, 1876, p. 91).

Soriano fu in seguito munito di una fortissima rocca e divenne dimora prediletta del pontefice: tutta la sua corrispondenza è datata o da S. Pietro o da Soriano. Lì morì il 22 agosto 1280.

La storiografia più recente ha insistito piuttosto sulla necessità politica del nepotismo di papa Orsini, e più in generale del nepotismo dei pontefici del Duecento, costretti dall’elettività della propria carica e dalle deboli strutture amministrative del potere temporale ad affidarsi soprattutto alle capacità persuasive di familiari e clientes potenti.

Fonti e Bibl.: Biblioteca apost. Vaticana, Archivio del Capitolo di S. Pietro, capsa LXI, cc. 165, 225; Historia ecclesiastica Ptolemaei Lucensis, in Rerum Italicarum Scriptores, XI, Milano 1727, coll. 1179-82; G. Villani, Cronica, in Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, I, Trieste 1857, pp. 134 s., 137; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di A. Potthast, II, Berlin 1875, 21258-21730; Annales Ptolemaei Lucensis, in Cronache dei secoli XIII e XIV, Firenze 1876, pp. 90 s.; Matthaei ParisiensisChronica majora, in Rerum Britannicarum Medii Aevi scriptores, LVII, 4, a cura di H.R. Luard, 1877, p. 354;E. Duprè-Theseider, Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia (1252-1377), Bologna 1952, pp. 193-95, 199-220, passim; D. Waley, Bentivegna, Bentivegna, in Diz. biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 587 s.; H. Belting, Assisi e Roma. Risultati, problemi, prospettive, in Roma anno 1300. Atti della IV Settimana di Studi … Roma … 1980, a cura di A.M. Romanini, Roma 1983, pp. 93-8; M. D’Onofrio, Le committenze e il mecenatismo di papa N., ibid., pp. 553-62; R. Lambertini, Apologia e crescita dell’identità francescana (1255-1279), Roma 1990, pp. 171-181; M. Thumser, Aldobrandino Orsini (1217-1221). Ein Kardinal Honorius’ III., in Römische Historische Mitteilungen, 1990-91, n. 33-34, pp. 41-49; S. Carocci, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento, Roma 1993, pp. 52 s., 133-35, 393 s.; F. Allegrezza, Organizzazione del potere e dinamiche familiari. Gli Orsini dal Duecento agli inizi del Quattrocento, Roma 1998, pp. 15 s., 19-22, 36-41, passim; Id., N., in Enciclopedia dei papi,II, Roma 2000, pp. 437-445.

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