SILVESTRO II, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 92 (2018)

SILVESTRO II, papa

Massimo Oldoni

SILVESTRO II, papa. – Buona parte delle informazioni biografiche in nostro possesso su Gerberto d’Aurillac sono riferibili all’opera di Richero di St-Remi (949 ca.-post 996), suo allievo alla scuola cattedrale di Reims.

Richero nel libro terzo delle Historiae (capp. 43-65) e nel libro quarto (capp. 89-101) offre precise notizie sulla formazione, gli studi, le opere del famoso «scholasticus», certo uno dei più grandi sapienti del Medioevo, e propone alcune analisi intorno alla condotta politica di questo protagonista del passaggio del Mille. Richero lo dice aquitanus genere, «di famiglia aquitana»; Ademaro di Chabannes (988-1034), nel Chronicon (III, 31), «natione aquitanus». Il nome Gerbertus (o Girbertus) è diffuso fra Aquitania e Alvernia. Le Pontificum Romanorum Vitae (XIII secolo) riportano una notizia (ignota la fonte) secondo la quale il padre di Gerberto si chiamava Agilberto. La sua origine umile giustifica l’assenza della data di nascita nei documenti d’ogni provenienza e nelle genealogie.

Dopo essere stato allevato presso il cenobio del santo confessore Geraldo (Géraud d’Aurillac) ed educato nella grammatica, ancora adolescente Gerberto incontrò nell’abbazia di St-Geraud il «dux Borrellus» recatosi colà per pregare; nel 970 partì da Aurillac «adulescens», cioè fra i quattordici e i vent’anni. In una lettera del 997 (ep., in Opera, in PL, CXXXIX, 1880, col. 208) Gerberto fa riferimento alla «senectus mea»; questo lascia supporre una nascita intorno al 945, «ex infimo genere procreatus» secondo Ademaro (Chronicon III, 31), «obscuro loco natus» secondo la Chronique de Saint-Géraud d’Aurillac (Vetera Analecta, a cura di J. Mabillon, II, Paris 1723, 37) risalente al XIII secolo.

L’educazione presso i monaci di St-Géraud d’Aurillac portò Gerberto in una temperie culturale alta: la tradizione dell’abbazia, fondata alla fine del IX secolo, era quella d’un luogo di pellegrinaggio al sepolcro dell’aristocratico fondatore Géraud che aveva posto il monastero sotto la diretta protezione del papato e che, alla sua morte, nel 909, divenne destinatario di culto. Oddone, abate di Cluny, prese nella propria giurisdizione l’abbazia e scrisse, dopo il 925, una Vita sancti Geraldi. Da oblato Gerberto condusse il proprio apprendistato di monaco dell’Ordine benedettino. Si dedicò a studi di grammatica, all’Ars Donati, a letture classiche; il suo maestro fu Raimondo di Lavaur. Di un adolescente così intellettualmente vivace s’interessò il conte catalano Borrell: nel 967 si recò a venerare il sepolcro di s. Géraud e, secondo il racconto di Richero, «Borrell fu ricevuto con grande cordialità dall’abate del luogo che [...] gli chiese se vi fossero in Spagna uomini di grande cultura nel settore delle arti. Ricevuta una risposta pronta e affermativa dal conte, l’abate non impiegò molto a convincerlo a prendere un religioso del monastero e a condurlo con sé per fargli apprendere le scienze. Guardandosi bene dal rifiutare, il duca accettò la richiesta e portò con sé Gerberto con il consenso dei confratelli» (Historiae III, 42). Una tradizione storiografica sorta nel XII secolo, che costituisce il primo segmento della letteratura sul mito di Gerberto, attribuisce a lui, precoce adolescente, un’espulsione o una fuga dal monastero per seguire Borrell in Spagna mosso dalle proprie insaziabili curiosità intellettuali: lo scrittore Guglielmo di Malmesbury (1080-1142) è il principale assertore di questa tesi, seguito dal cronista Ugo di Flavigny (1065-1140); tesi che si giustifica nella dimensione letteraria del mito di Gerberto, ma non nella realtà: i rapporti fra Gerberto e Géraud d’Aurillac, con l’abate e i confratelli rimasero ottimi per tutta la vita.

Astronomia, geometria, aritmetica: questi i nuovi poli di studio nella formazione di Gerberto arrivato in Catalogna e affidato, presso Vich, al vescovo Attone, riorganizzatore degli studi dei canonici, conoscitore delle «matematiche» (Richero) e primo formatore della cultura del Quadrivio (astronomia, aritmetica, geometria, musica) in Gerberto, che in Catalogna lesse opere di Boezio, Isidoro di Siviglia, innari e antifonari copiati presso la locale scuola di musica secondo la notazione neumatica catalana. Forse a Ripoll Gerberto incontrò Miro Bonfill, cugino del conte Borrell: Miro, vescovo di Gerona nel 971, fu ottimo letterato, conoscitore del greco, autore di glossari e formulari. Nella vicina Barcellona Gerberto entrò in contatto, inoltre, con Sunifred Lobet, chierico della cattedrale e traduttore del De astrologia, un trattato sull’astrolabio; a lui, molto vicino al conte Borrell, Gerberto chiese, nel 984, una copia della sua traduzione. Gerona, Barcellona, Ripoll, Vich, forse Cordova: questo il perimetro intellettuale di Gerberto in Catalogna. Ademaro di Chabannes, nell’XI secolo, dà per certa la sua presenza a Cordova: la tradizione mitografica ha buone ragioni per dar credito alla notizia, ma quel che conta è la ricchezza, l’eterogeneità e l’eterodossia della formazione di questo adolescente la cui cultura, ormai formatasi, sembra attrezzata a nuovi paesaggi storici.

Per sottrarre dalla tutela dell’arcivescovo di Narbona la diocesi di Vich, Attone e il conte Borrell decisero di coinvolgere il papa, Giovanni XIII, chiedendo di costituire una metropoli catalana. I due si recarono a Roma un po’ pellegrini di Pietro, un po’ politici in caccia d’appoggio: con loro andò Gerberto, che a Roma conobbe Giovanni XIII e l’imperatore Ottone I con il figlio Ottone II. L’entourage ottoniano aveva già dimostrato grande sensibilità verso il ruolo degli intellettuali: Gunzone da Novara, Stefano da Novara erano a S. Gallo, poi alla Reichenau; la corte imperiale frequentava la cultura greco-latina e bizantina grazie all’influente presenza delle imperatrici Adelaide e Teofane. Prosegue Richero: «Il re non esitò a proporre al papa di trattenere quel giovane e di non permettergli di ritornare in Spagna» (Historiae III, 44). Così accadde. Intanto il conte Borrell tornò in Spagna da solo, perché Attone di Vich fu assassinato a Roma il 22 agosto 971. Gerberto rimase dunque presso Giovanni XIII, pronto a entrare alla corte degli Ottoni, dov’egli diventò giovane maestro del sedicenne Ottone II. A diciannove anni, nella Pasqua del 972, il 14 aprile, Ottone II sposò la principessa bizantina Teofane. Gerberto si trovava al centro di un reticolo sassone-latino-greco-bizantino e curiale: Ottone I, sua moglie Adelaide, Ottone II, sua moglie Teofane, il papa. Ma non basta: in quel periodo arrivò a Roma un’ambasceria di Lotario, re di Francia, guidata da Geranno, arcivescovo di Reims. Anche Geranno presenziò al matrimonio. La sua conoscenza della dialettica incuriosì Gerberto, del quale Geranno apprezzava la conoscenza del Quadrivio. Alla ripartenza di Geranno, il giovane venuto dalla Catalogna decise di non fermare il proprio circuito di conoscenze e nozioni: chiese al papa e all’imperatore di essere autorizzato ad andare a Reims. Ottone capì che quel giovane fedele poteva servirgli in terra di Francia: Gerberga, sorella di Ottone I, era la madre del re di Francia Lotario che aveva sposato Emma, figlia di Adelaide. Gerberto si trasferì, dunque, da Roma a Reims, la sede metropolitana più importante del Regno, mentre l’arcivescovo di Reims era uno dei massimi esponenti politici ed ecclesiastici del tempo. Fu l’inizio di una parabola esistenziale che avrebbe poi visto Gerberto tornare a Roma. A Reims egli si stabilì nel chiostro della cattedrale, sede di una già celebre scuola, riferimento in città di altre biblioteche attive. Intanto, nel settembre del 972 morì Giovanni XIII e nel maggio del 973 morì Ottone I. Gerberto a Reims cominciò in questo periodo la sua carriera di «scholasticus» sotto l’arcivescovo Adalberone, che chiese a Gerberto di insegnare le arti alle «discipulorum turmae» (Historiae III, 45). Questa attività di scholasticus durò fino alla morte di Adalberone (989), con l’interruzione degli anni 980-983, allorché Gerberto divenne abate di Bobbio, in Italia.

L’educazione ricevuta nella Spagna catalana e musulmana gli suggerì studi sui numeri, sulle proprietà geometriche delle figure piane e dei volumi, nonché il perfezionamento dell’uso dell’abaco. Le sfere, l’astronomia celeste, lo studio dei volumi e della fisica dei solidi consentirono di ampliare a dismisura l’arco scientifico del magistero di Gerberto d’Aurillac a Reims, scienziato e filosofo, ma anche estensore, nella cancelleria dell’arcivescovo Adalberone, di comunicazioni e documenti ufficiali e di lettere personali che gettano qualche luce sulle lotte fra Carolingi e Capetingi per la successione sul trono di Francia. In questa lotta entrò anche la Chiesa, che ebbe nei personaggi di Adalberone di Reims e Adalberone di Laon, amante della regina Emma, figure di grande spicco. I pretendenti al trono del re Lotario erano suo fratello Carlo e Ugo Capeto. Ma in Italia, dopo la morte di Giovanni XIII, gli succedettero Benedetto VI e Bonifacio VII: il primo venne strangolato, il secondo scappò, il tutto fra il 973 e il 974; seguì poi Benedetto VII.

Nel 980 a Pavia Adalberone e Gerberto incontrarono Ottone II: scendendo in battello lungo il Po la nobile comitiva si portò a Ravenna; era il Natale del 980. A Ravenna, al cospetto dell’imperatore e di tutta la corte Gerberto si misurò in una famosa disputa filosofica con Otrico, scholasticus di Magdeburgo, noto per la sua dottrina. Richero, tra i presenti, registrò in appunti tutta la discussione e in dieci capitoli delle Historiae (III, 55-65) diede la cronaca in diretta della vittoria di Gerberto, accusato ingiustamente da Otrico di subordinare la fisica alla scienza matematica «come la specie al genere» e di confondere le cose umane e le cose divine. Si tratta del più importante dibattito filosofico del X secolo sulle categorie del sapere e sul ruolo della filosofia contrapposto al ruolo della fede. Alla fine dello stesso anno Ottone II nominò Gerberto abate di Bobbio, centro monastico di rilievo per i rapporti con la feudalità locale, per l’amministrazione delle terre imperiali e per le dotazioni di libri ivi custodite. Gerberto era estraneo a quel mondo, veniva da un’esperienza monastica profondamente formativa qual era stata la sua a Reims, aveva tutti i requisiti per applicare anche a Bobbio quell’ordine di cose, proprietà e uomini grazie al quale Ottone II avrebbe conservato intatta la propria influenza sull’Italia settentrionale. Gerberto rimase a Bobbio fino alla primavera del 984. Ma non furono anni di studio, bensì di scontri aspri: delle tredici lettere scritte dall’abbazia, tre trattano l’acquisto di manoscritti, ma dieci affrontano problemi di disciplina monastica; si registrano disordini amministrativi e sparizioni di denaro, alienazioni di beni da parte di Pietro, vescovo di Pavia, e del priore Petroaldo, che reggeva l’abbazia prima di Gerberto, il quale si sentiva circondato da nemici, da «volpi», da intrighi che non riusciva a dirimere. Si rivolse disperato a Ottone II, ma l’imperatore morì nel 983, a ventotto anni. Senza il sostegno di Ottone II Gerberto era ancora più solo in quanto: il nuovo papa, Giovanni XIV (983-984), non gli fu d’aiuto. Senza cessare di essere abate di Bobbio, Gerberto decise di ritornare a Reims, fra i suoi studenti e i suoi studi.

Tra il 984 e il 989 si situa un periodo di magistero e impegni politici gravosi. La scuola gerbertiana a Reims era punteggiata di nomi illustri: Riccardo di Saint-Vanne, Gerardo di Cambrai, Fulberto di Chartres, Richero di Reims, Radulfo di Liegi, Hartwich di Sant’Emmeram, Remigio di Mettlach, Erigero di Lobbes, Adelbodo di Lobbes, Sigefredo, zio dell’arcivescovo Adalberone di Reims, e Roberto, figlio del re Ugo Capeto; poi, l’ebreo Erberto di Lagny e Costantino di Fleury. Le questioni lasciate in sospeso a Bobbio non cessarono di preoccuparlo e con questo spirito ricevette alcuni monaci bobbiesi recatisi a trovarlo a Reims. Forse Gerberto non disperava di rientrare nella sua abbazia; intanto lo occupavano gli affari politici accanto ad Adalberone mentre nel 983 Ottone III, a soli tre anni, fu consacrato alla successione imperiale, sotto la tutela della madre Teofane e dell’imperatrice madre Adelaide.

Il Regno di Francia, grande realtà problematica del momento, vide la morte nel 986 del re Lotario. Per la successione al trono si aprì una disputa tra il carolingio Luigi V, figlio di Luigi IV, e Ugo Capeto. Dopo un anno di regno di Luigi V (scomparso nel 987), Gerberto favorì l’avvento al trono di Ugo Capeto, sicuro che in cambio avrebbe avuto l’arcivescovato di Reims, resosi vacante per la morte, nel 987, di Adalberone. Ugo Capeto, però, non venne incontro a quelle attese e nominò arcivescovo di Reims, nel 989, Arnolfo, bastardo del carolingio Luigi. L’intenzione di Ugo era quella di sanare l’antica disputa riconoscendo a un discendente carolingio un potere pubblico di grande immagine che si sarebbe certo riflesso sul consolidamento della monarchia capetingia regnante adesso in armonia con il clero. Così, dopo essere stato segretario di Adalberone di Reims e del re Ugo Capeto, Gerberto divenne segretario di Arnolfo, il quale, tuttavia, si dimostrò un difficile interlocutore e, come restituendo il voltafaccia del re Ugo nei confronti di Gerberto, adottò una linea politica che tendeva a richiamare in causa le rivendicazioni carolingie sulla corona contro Ugo Capeto a favore dello zio Carlo di Lorena, fratello dello scomparso re Lotario. Dopo un primo concilio, tenutosi a Senlis nell’agosto del 990, per valutare la posizione avversa del duo Arnolfo di Reims-Carlo di Lorena, Ugo Capeto, re in carica, riunì a Saint-Basle, nel giugno del 991, un secondo concilio, convocato senza l’approvazione del pontefice Giovanni XV (985-986). L’abbazia di Saint-Basle, a Verzy, vide così riunito un concilio dei cui Acta Gerberto fu l’estensore, ma anche l’ispiratore di alcuni aperti interventi contro Arnolfo di Reims: fra quelli la forte denuncia del vescovo Arnolfo d’Orléans, che certo si servì della cultura di Gerberto per le proprie argomentazioni. La partecipazione di molti vescovi del clero di Francia fece del dibattito di Saint-Basle il primo momento del ‘gallicanesimo’: la Chiesa di Francia contrapposta alle disposizioni di Roma. Questo concilio emise la condanna per Arnolfo di Reims, per Carlo di Lorena e sancì l’elezione all’arcivescovato remense di Gerberto d’Aurillac. L’epistola n. 180 è la professio fidei di Gerberto davanti ai confratelli, una professio tutta teologica dove si ribadivano l’unicità di Dio, la natura consustanziale della Trinità, l’incarnazione del Figlio, la redenzione dei peccati mediante il battesimo, la comunione con i cristiani riconciliati, la benedizione del matrimonio, il permesso di mangiare carne animale. Una professio dalla quale trapelano i contenziosi teologici ed ecclesiologici che, negli anni di Gerberto, avevano dato vita a profonde scissioni e all’insorgere di eresie intorno alla presenza del corpo di Cristo nell’Eucarestia.

Non si sa molto dell’attività di Gerberto all’interno della diocesi, ma la sua profonda conoscenza del diritto canonico lo pose di fronte a qualsiasi controversia. In due occasioni, riguardanti la diocesi di Tours e quella di St-Denis, Gerberto si trovò contro l’altro grande sapiente del tempo, quell’Abbone di Fleury, matematico ed erudito, che finì davanti ai re Ugo e suo figlio Roberto. La necessaria riforma di Saint-Denis, osteggiata da Abbone e auspicata da Gerberto, fu portata avanti da Odilone, abate di Cluny dopo la morte di Maiolo, nel 994. La questione nella diocesi di Tours mise Gerberto in contrapposizione con Abbone, ma soprattutto in grave dissidio con la Chiesa di Roma. Nel giugno del 991 morì l’imperatrice Teofane e la vecchia imperatrice madre Adelaide restò sola a esercitare la reggenza per l’undicenne imperatore Ottone III. Il papa Giovanni XV mandò in Francia l’abate Leone perché prendesse diretta conoscenza delle questioni ecclesiastiche e politiche verificatesi dopo il concilio di Saint-Basle. Leone convocò nel marzo del 992 un concilio ad Aix-la-Chapelle, ma pochissimi si presentarono: i rapporti tra Roma e la Francia erano freddi, ma non interrotti; Gerberto, dopo Saint-Basle, aveva scritto a Giovanni XV difendendo la propria equidistanza. Anche Ugo Capeto aveva scritto al papa, invitandolo a incontrarsi con lui a Grenoble. Ma Giovanni XV voleva re e vescovi di Francia a Roma, mentre i torbidi del Regno tennero re e vescovi a casa: nel sinodo di Chelles, del 994, presieduto da re Roberto, figlio di Ugo Capeto, l’episcopato transalpino apparve apertamente in dissenso con Roma nell’intenzione di eliminare ogni «abuso» con la facoltà di cancellare ogni «anatema» emanato contro qualsiasi confratello; scrive Richero: «[...] Vollero che, qualora il papa romano prendesse una decisione contrastante con i decreti dei Padri, questa decisione dovesse essere considerata nulla e senza alcun effetto» (Historiae IV, 89). Intanto, nel 994, Ottone III fu dichiarato maggiorenne. Nel giugno del 995, a Mouzon, alla presenza del legato pontificio Leone, riprese la querelle fra Arnolfo e Gerberto, ma quest’ultimo si trovò escluso dalla comunione con decreto papale. L’arcivescovo di Reims ribatté: «Non esiste potere di alcuno, sia vescovo o papa, che escluda qualcuno dalla comunione, salvo che sia riconosciuto colpevole o si sia rifiutato di comparire» (ibid. IV, 107). L’arcivescovo di Treviri accusò Gerberto di ribellione al papa, e Gerberto accettò di rinunciare a celebrare la messa al sinodo di Reims fissato per il luglio 994. Così Gerberto, pur arcivescovo, venne scomunicato. Per giustificare il proprio operato egli pubblicò gli Acta del concilio di Saint-Basle che vennero esaminati dal legato pontificio Leone. Nel sinodo di Reims, del luglio 995, non si risolse del tutto la faccenda, Arnolfo comunque fu reintegrato, Gerberto fece penitenza, Leone tornò in Italia.

Il 21 maggio 996 Ottone III fu incoronato imperatore da suo cugino, il papa Gregorio V, al secolo Bruno di Carinzia. Gerberto divenne segretario del nuovo imperatore; questo non impedì a Gregorio, lucido e prudente gestore delle cose papali, di tracciare una precisa linea di distacco dall’esuberanza intellettuale e politica di Gerberto; in una bolla consegnata a Eluino, nuovo vescovo di Liegi, Gregorio V definiva Gerberto «usurpatore» della cattedra di Reims e riconosceva ad Arnolfo il giusto titolo di arcivescovo. Alla corte di Ottone III Adalberto di Praga, grande amico di Gerberto, cominciò forse a preparare il domani del maestro di Reims, ormai in pieno urto con Roma, e non solo con Roma. Il figlio di Ugo Capeto, Roberto, poi detto il Pio, un tempo discepolo di Gerberto, aveva una vita coniugale tempestosa tra mogli e ricerca di figli maschi: Susanna di Fiandra, Berta di Chartres, donne non al primo letto e nemmeno giovani quanto Roberto avrebbe meritato, e nemmeno troppo lontane in parentela. Unioni quasi incestuose di fronte alle quali Gerberto mostrò tutta la sua generosa ruvidezza, condannandole da uomo di Chiesa pur forse comprendendole sul piano personale. Nel febbraio del 997 Gregorio V presiedette a Pavia un sinodo che lanciò anatemi contro gli avversari del papato; gli anni immediatamente precedenti al 998-999 furono anni di straniamento totale per Gerberto, che non sembrò più capire il tempo suo e i suoi interlocutori; continuò a dubitare della limpidezza del papato.

Ottone III, dalla Germania, decise che era arrivato il momento di chiamare presso di sé quell’inimitabile e stanco maestro: Gerberto già preparò la sua partenza definitiva da Reims ma il suo ruolo nell’opporsi all’illogicità delle decisioni della Chiesa di Roma restò una scuola di vita: da Saint-Basle alla rinuncia di Gerberto si scrisse una pagina fondamentale nell’ecclesiologia europea e nella difesa delle libertà individuali nei confronti del potere: da una parte un episcopato geloso della propria autonomia e dall’altra la sovranità ottusa della Chiesa di Roma; nel 997 Gerberto lasciò Reims per recarsi alla corte di Ottone III: un esilio che si acquietò con il ritorno agli studi e con la preparazione a nuove, decisive, finali prove. Gerberto aveva circa cinquant’anni.

Ottone III aveva diciassette anni, era cresciuto tra donne: la madre, la nonna, le sue tre sorelle; aveva interessi culturali forti, letterari e scientifici; accanto a Ottone c’era Adalberto di Praga. Poi Adalberto, nel Natale del 996, partì per l’Ungheria e non ne sarebbe più tornato. Gerberto era già pronto lì, accanto all’imperatore; s’incontrarono a Magdeburgo, dove Gerberto aveva ripreso i suoi studi di scienza: astronomia, fisica e costruzione di orologi e cannocchiali. Nel 998 Ottone III decise di stabilirsi a Roma per meglio controllare le mosse del papato; per Gerberto era pronto l’arcivescovato di Ravenna. Ottone III e Gerberto assunsero, con cariche e pressioni differenti, un significativo ruolo politico in Italia.

Dopo aver incrociato tante esistenze decisive per il X secolo e la storia d’Europa, Gerberto trovò a Ravenna l’eredità del monaco Romualdo, già venerato come santo. Ma Ravenna fu per lui di nuovo attività politica in Italia. Dopo l’esilio alleviato dall’atmosfera sapiente della corte di Ottone III, tornare in Italia voleva dire per Gerberto, com’era stato nel caso di Bobbio, affrontare problemi reali ed esigenze di riforme, di pulizia d’ambiente. I possedimenti ravennati erano ampi, e comprendevano anche l’abbazia di Bobbio. Gerberto si mise subito al lavoro: un sinodo di vescovi, nel maggio 997, sancì la lotta alla simonia e alle vendite dei sacramenti; promosse il ripristino intellettuale e morale dei chierici, la lotta all’analfabetismo, ai monaci bastardi, a coloro che violano il diritto di soggiorno, il divieto di accettare qualcos’altro oltre quello che nei funerali parenti e amici offrono alla Chiesa. Con la nomina di s. Romualdo ad abate di S. Apollinare in Classe Ottone III tentò di mettere nelle mani di due forti pastori a lui fedeli la Chiesa ravennate e, di riflesso, la gestione del clero in Italia settentrionale. Ma il rigore di Romualdo non venne accettato dalla comunità monastica; l’abate fu costretto a dimettersi; Gerberto, accogliendo il giuramento di Pietro, il nuovo abate, raccomandò di non alienare il patrimonio dell’abbazia. Era una preoccupazione vera: privati dei beni e dei patrimoni fondiari, i vescovi e gli abati, tutti vassalli dell’imperatore, non potevano fornirgli sostegno economico e militare. Ottone III e Gerberto, nell’editto di Pavia del 998, sancirono questa logica economica a tutela dell’autorità imperiale, che aveva titolo nella gestione dei beni ecclesiastici: altra rotta di collisione per il Medioevo del futuro. Un provvedimento riguardò la tutela dei beni di Bobbio (della cui abbazia Gerberto era ancora titolare, pur tramite il suo delegato Petroaldo), infine, nel 999, si definì la condanna di Roberto, re di Francia, attore di un matrimonio contro natura con la cugina Berta. Ma tra il febbraio e il marzo del 999 morì all’improvviso Gregorio V, forse ucciso: Ottone III rientrò a Roma da un pellegrinaggio al Monte Gargano e decise di chiamare sul soglio di Pietro il maestro e amico Gerberto: fu la terza R di una complessa e tormentosa carriera, Reims-Ravenna-Roma; Elgaldo di Fleury (scrittore franco dell’XI secolo) sintetizza così: «Gerberto è passato di R. in R. poi è diventato papa in R.» (Scandit ab R. Girbertus in R., post papa vigens R).

A sessant’anni circa Gerberto fu papa, eletto il 2 aprile 999; scelse il nome di Silvestro: il primo Silvestro aveva battezzato Costantino, questo secondo Silvestro collaborerà con l’imperatore secondo un identico progetto che la cultura di Gerberto, formatasi su Boezio e sui logici matematici, gli suggeriva per la gestione armonica degli affari di Chiesa e Impero.

A Roma, grazie a questo pontefice conoscitore della musica, i canoni si arricchirono di liturgie cantate in onore degli angeli e dello Spirito Santo; riprese i suoi studi sull’abaco e sulla geometria, scambiò testi con Bernellino (suo antico allievo) e con Notkero di Liegi. Ma, da papa, Gerberto non poteva non occuparsi delle questioni patrimoniali ecclesiastiche: scarsi i risultati perché in contrasto con ormai collaudate tradizioni giuridiche locali. Nel gennaio del 1001 Silvestro II denunciò la pseudo donazione di Costantino, inventata nell’VIII secolo al tempo della formazione dello Stato pontificio. Silvestro II non aveva interesse a gestire in prima persona questa falsa donazione, fidandosi molto di più dell’alleanza con Ottone III; nel suo Epistolario, d’altronde, si colgono chiaramente le logiche che, poi, ispireranno la sua concezione del papato: morale e politica devono armonizzarsi, la politica è fondata sull’onestà e sull’utilità; ciò che è utile non deve scaturire dall’opinione comune, ma dalla propria coscienza e dalla cultura. Il bene pubblico va anteposto al privato; va perseguita la pace tra i Regni; è opportuno circondarsi di pochi e fidati consiglieri; occorre combattere l’anarchia, le passioni, le sopraffazioni d’interessi. La politica papale di Gerberto tese a rimettere ordine fra problemi ancora pendenti (l’affare di Saint-Basle, la questione di Bobbio, i rapporti con il legato pontificio Leone). Tutte situazioni risolte nel senso della riconciliazione. Uno sguardo più attento il papa lo ebbe per la Polonia dove il corpo del santo vescovo Adalberto di Praga meritava una sepoltura e una venerazione adeguate. L’intento di portare a Roma quelle sacre spoglie cadde e la città polacca di Gniezno custodì le reliquie del vescovo taumaturgo; qui l’imperatore Ottone III si recò a rendergli omaggio. Quando finì il Novecento e si compì l’alba del Mille Ottone III e Silvestro II erano a Roma; qualche giorno dopo vi giunse Bernardo di Hildesheim, antico maestro dell’imperatore, per una disputa di competenze patrimoniali e disciplinari con il prepotente arcivescovo di Magonza Willigiso. La questione fu in parte risolta, mentre alcune sollevazioni antimperiali del clan dei Crescenzio suggerirono a Ottone di lasciare la città per qualche tempo. Il pontefice, intanto, sbrigò con cura gli affari ecclesiastici e tutto suo fu il merito di aver condotto la questione ungherese fino al battesimo di Stefano, duca d’Ungheria, poi consacrato re nell’agosto 1001. Forse si tratta dell’atto ufficiale più importante del pontificato di Silvestro II. Dal canto suo Ottone III rientrò in Italia nel tentativo di riprendere in mano la situazione politica dove poteri locali centro-settentrionali tendevano a liberarsi dell’autorità imperiale. Ma il 24 gennaio 1002, a ventidue anni, Ottone III, ammalatosi, morì. Silvestro II restò ancora solo, privato del braccio temporale della propria autorità e con le famiglie Crescenzio e Tuscolo che, da Roma, seminavano fronti antipapali. Furono giorni di disorientamento, dove era palese la difficoltà di controllare spinte locali ormai troppo decise; in Francia, intanto, si era riaperta la ferita anticapetingia. Il papa minacciò sanzioni contro i disordini interni ed esterni. L’età avanzata e la solitudine della sua condizione indebolirono la sua linea politica e le sue certezze. Il 3 maggio 1003, mentre diceva messa in S. Croce in Gerusalemme, Silvestro II fu colto da un malore; il 12 maggio morì nel palazzo del Laterano. Fu sepolto nella basilica di S. Giovanni: ma nella tomba il corpo di Gerberto non c’è più. Nel 1648, durante alcuni lavori in Laterano, la tomba venne aperta, creduta ormai da secoli «viva» e miracolosa. Il canonico Cesare Rasponi redasse il verbale: «Quando si scavò sotto il portico, il corpo di Silvestro II fu trovato intatto, sdraiato in un sepolcro di marmo a una profondità di dodici palmi. Era rivestito degli ornamenti pontificali, le braccia incrociate sul petto, la testa coperta dalla sacra tiara; la croce pastorale pendeva ancora dal suo collo e l’anulare della mano destra portava l’anello papale. Ma in un momento quel corpo si dissolse nell’aria, che ancora restò impregnata dei soavi profumi posti nell’urna; nient’altro rimase che la croce d’argento e l’anello pastorale».

La storia di Gerberto d’Aurillac/Silvestro II non finì con la sua morte. Dopo quella di S. Giovanni in Laterano, altre due iscrizioni trecentesche, poste in S. Croce in Gerusalemme, ripresero il filo di un episodio storico che, proprio dalla morte di Gerberto, cominciò con impensabile ed eccezionale vigore. È l’altro Gerberto, quello del suo mito, quello del mito della sua sapienza, così inimitata nel secolo, così unica, così foriera di attribuzioni maligne. Il mito di Gerberto è un differente capitolo nell’esistenza di questo enigmatico e titanico personaggio la cui singolarità sta nella disparità della sua cultura. Una cultura che lascia opere come la Geometria, il Liber de rationali et ratione uti, le Epistolae, l’Opera mathematica, gli Acta Concilii Remensis ad Sanctum Basolum, il Libellus de corpore et sanguine Domini (attribuito, ma di Erigero di Lobbes), il Sermo de informatione episcoporum, i Decreta, i Diplomata. Nel Liber pontificalis, dove sono raccolte le biografie di tutti i papi, un diacono redasse, nel XV secolo, la nota sulla vita di Silvestro II: «Si chiamava Gerberto, fu monaco nella diocesi di Aurillac; ma, abbandonato il monastero, rese omaggio al diavolo affinché ogni cosa gli riuscisse proprio come desiderava, e il diavolo promise». Sembra quasi che il biografo del Liber pontificalis contraddica la bell’epigrafe di Sergio IV, ma già da tempo si narrava in Europa che Gerberto era diventato così famoso e potente grazie ai favori del demonio. Scrittori angli del XII secolo gli attribuiscono il possesso di una magica testa parlante ch’egli avrebbe consultato prima di ogni impresa o decisione; si tratta in realtà di eliopile (recipienti riempiti in parte d’acqua che, fatta bollire, produce sibili dalle fessure) costruite da Gerberto. Altre fonti lo descrivono come uno sciamano in grado di aprirsi misteriosi passaggi per introdursi nei sotterranei della Roma antica dove scopriva ambienti e abitatori d’oro (mito dei tesori d’Ottaviano); in altri testi è detto schiavo del Maligno che, in forma di donna, lo seduce (mito di Meridiana). Primo esempio medievale del mito dell’Aristotele ‘cavalcato’ (sapiente, ma schiavo delle passioni), Gerberto, novello Salomone, e straordinario capitolo del mito medievale di Salomone subisce anche l’istupidimento dei sensi. La sua conoscenza delle artes mechanicae, dell’algebra, dell’astronomia, della geometria, della musica, fabbrica l’ideale caso della trasgressione del sapiente, e i suoi seguaci vennero chiamati gerbertisti, abacisti, come per denunciare l’errore di aver ecceduto i confini consentiti della conoscenza, creduti inospiti a Dio.

Tutti i secoli della letteratura medievale e non, fino a Pascal, fino a Hugo, fino al XX secolo, sono connotati dal perdurare del mito di Gerberto, sempre in equilibrio fra denuncia, condanna e incerte difese. Bennone di Osnabruck (morto nel 1098), suo primissimo accusatore e nemico dell’episcopato di Francia e di Roma, scrive che Silvestro II «sentendosi venire addosso la morte, supplicò che gli fossero troncate le mani e la lingua, perché con esse, sacrificando al diavolo, aveva disonorato Dio» (Gesta Romanae Ecclesiae contra Hildebrandum II, 4-8). Guglielmo di Malmesbury (morto nel 1142) gli attribuisce il possesso di un libro segreto che lo guidava negli studi di negromanzia. In Italia, fra XIII e XIV secolo, Martin Polono, Alberico di Tre Fontane, Ricobaldo da Ferrara registrano questa sua fisionomia ambigua. Nell’identico clima del Liber pontificalis e di questa tradizione negativa nasce l’iscrizione perduta di S. Croce in Gerusalemme. Abaci, strumenti astronomici e musicali, sfere magiche gli sono attribuite con disinvoltura. Alla metà del Cinquecento, Arnaud Vuion narra che «a Tivoli, a sedici chilometri dal Tevere, nei cosiddetti Orti Estensi, è ancora possibile ammirare un organo e un orologio ad acqua costruito da Gerberto d’Aurillac, mentre a Ravenna è ancora visibile una grande clessidra opera sua». Quasi due biografie: quella storica e quella del mito; un suo amico lo aveva profetizzato: Non abacus, non te mathesis, Gerberte, iuvabunt («Non l’abaco, non la matematica, Gerberto, ti salveranno»). L’abaco, quella piccola cassetta lignea a scomparti dove ciascuna ‘tessera’ (digitus) esprime una quantità numerica, non sarebbe riuscito a mettere ordine nella furia negativa della leggenda; con l’abaco Gerberto tentò di mettere ordine nei calcoli delle cose umane, ma non riuscì a evitare le allucinanti sommatorie dei suoi detrattori. Intanto, sul modello del mito di Gerberto, il Medioevo si apprestava a fabbricare il mito di Virgilio mago, esemplato sulla parabola di vita di un individuo dispari al mondo suo: acutissimo, partecipe, appassionato, amato e odiato, esaltato da molti, infilzato da altri; intorno al sapiente d’Aurillac sorsero storie straordinarie che appartengono alla cultura e all’immaginario dell’uomo del Mille e del Duemila, che trasmettono dal Medioevo del Mille un irripetuto, disperato ma altissimo progetto d’armonia.

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