PARALLELE

Enciclopedia Italiana (1935)

PARALLELE

Luigi Campedelli

. Due rette si dicono parallele quando stanno in uno stesso piano e non s'incontrano. S'intende che le due rette debbono essere concepite come infinitamente estese, secondo i concetti della geometria. La necessità di considerare rette in tale posizione è certamente sorta con le prime operazioni di agrimensura alle quali si ricollega l'origine stessa della geometria. E fin dai primordî di questa scienza il concetto di parallelismo è stato razionalizzato e approfondito dal punto di vista speculativo.

Così è antichissima la conoscenza delle prime proprietà delle rette parallele che si riferiscono a certe coppie di angoli, che due parallele formano con una terza retta che le seghi (fig. 1): per poter affermare che due rette sono parallele, basta assicurarsi che uno degli angoli formati da una di esse con una trasversale, che le seghi entrambe, è eguale al suo alterno o al suo corrispondente, oppure è supplementare al suo coniugato; e, viceversa, se due rette sono parallele, ognuno degli angoli formati da una di esse con una trasversale è eguale al suo alterno e al suo corrispondente ed è supplementare al suo coniugato.

Dalla teoria delle parallele discende, tra l'altro, il teorema che in un triangolo qualunque la somma degli angoli è uguale a due angoli retti: proprietà che è una delle più significative della geometria elementare, e che sembra fosse già conosciuta da Pitagora, o almeno dalla sua scuola, secondo che riferisce Proclo, valendosi di una testimonianza del filosofo peripatetico Eudemo.

Però, la dimostrazione pitagorica - se anche non differisce sostanzialmente da quella che più tardi darà Euclide - non sembra trovasse le necessarie premesse nell'ancora imperfetto sviluppo che aveva raggiunto la teoria, alle cui deficienze si riferiscono varie allusioni di Aristotele. L'assetto logico completo - e, da un certo punto di vista, definitivo - si trova per la prima volta negli Elemenii di Euclide (circa 300 a. C.), il quale enuncia esplicitamente il postulato (noto col nome di V postulato d'Euclide) che sta alla base della teoria stessa, e, che, nella sua forma più espressiva, consiste nell'ammettere che per un punto passi una sola retta parallela a una retta data.

È insospettabile l'interesse di questa proposizione. Partendo dai rimanenti postulati, dagli assiomi e dalle definizioni, su cui si fonda l'edificio geometrico euclideo, si riesce facilmente a dimostrare che per un punto si può sempre condurre una retta parallela ad una retta data; ma quando si tratti di provare che questa parallela è unica - come vuole la nostra intuizione - si va incontro a difficoltà che vedremo essere insuperabili: di qui la necessità di un nuovo postulato se si voglia una geometria conforme a quello che sembra essere il nostro concetto fisico del mondo che ci circonda. Ma che cosa si chiede con ciò? Gli sviluppi del pensiero scientifico a cui questa domanda ha dato luogo toccano disparati campi dell'indagine moderna (v. geometria; relatività; spazio), e la loro importanza trascende ogni problema tecnico per raggiungere le più delicate concezioni e i fondamenti stessi della scienza. Non a torto il D'Alembert ebbe scherzosamente a chiamare le parallele "lo scandalo della geometria". E tutto lo scandalo è appunto dovuto alla innocente ammissione del V postulato di Euclide, il quale a noi appare del tutto evidente e validamente confermato dall'esperienza. Non bisogna però dimenticare che a questo nostro modo d'intendere non sono estranee influenze dovute all'abitudine e all'educazione: non per nulla gli Elementi di Euclide hanno avuto una diffusione che sembra superata solo dalla Bibbia e dalla Divina Commedia. Lo stesso Euclide mostra qualche diffidenza per questo suo postulato, tant'è vero che nei suoi Elementi evita di usarlo ogni qual volta gli sia possibile. Così egli dimostra solo in un secondo tempo il teorema relativo alla somma degli angoli di un triangolo, per il quale si richiede il V postulato, limitandosi da prima a dimostrare una proposizione che è invece indipendente da questo, ma molto meno significativa: e cioè che la somma degli angoli di un triangolo non può superare i due angoli retti.

A far sorgere dei dubbî sulla validità del V postulato contribuisce anche la forma sotto cui si trova esposto negli Elementi: "Se una retta, incontrandone altre due, forma gli angoli interni da una stessa parte min0ri di due retti, le due rette prolungate all'infinito s'incontrano dalla parte in cui sono i due angoli minori di due retti" (fig. 2). Ora, riferendoci al modo comune di concepire fisicamente gli enti geometrici, ognuno può immaginare di disegnare due rette che, pur formando con una terza due angoli come i suddetti, non s'incontrino nel foglio del disegno per quanto grande esso sia; e quindi può pensare che due siffatte rette si possano sempre ottenere anche se si passa al limite considerando il foglio infinitamente esteso: e ciò contro il nostro postulato. L'idea che a noi si presenta del tutto naturale - e che confermerebbe il postulato -, secondo la quale la somma degli angoli di cui si parla nell'enunciato di Euclide si concepisce come avvicinantesi indefinitamente al valore di due angoli retti, quando le due rette date variano in guisa da continuare a non incontrarsi sul foglio del disegno che va indefinitamente crescendo, è senza dubbio un'idea dovuta all'abito mentale generato in noi dall'educazione.

Le critiche intorno al V postulato sorsero subito, fin dai primi geometri posteriori ad Euclide, e si protrassero per oltre due millennî, sempre però senza penetrare l'intima natura del problema, ma disperdendosi in sterili tentativi di sostituire quel postulato con altro più soddisfacente, o addirittura di dimostrarlo mediante i rimanenti postulati che stanno alla base della geometria e che appaiono del tutto accettabili. Solo nel sec. XIX si farà piena luce sulla questione, che è ormai completamente risolta se anche in un senso ben lontano da quello cui aspiravano i suoi primi investigatori.

Ma insomma - si domanderà - il postulato di Euclide è vero o non è vero? Che cosa importa una tale domanda, e come si può dare ad essa un senso preciso? La risposta ci porterà molto lontano. Cominciamo con l'analizzare la struttura della geometria (e, in generale, di ogni scienza ipotetico-deduttiva. In essa si parte da alcuni concetti primitivi o enti fondamentali (punto, retta, piano, ecc.), che non si possono definire (perché per definirli bisognerebbe esprimere le loro relazioni con altri concetti, i quali a loro volta dovrebbero essere definiti o assunti come concetti primitivi), e che si caratterizzano (definizione per astrazione) assegnando alcune loro proprietà e mutue relazioni ("per due punti passa una ed una sola linea retta", e simili), le quali costituiscono i postulati a, b,..., h, da cui con procedimento logico si dedurranno le relazioni (teoremi) fra gli enti fondamentali, che nel loro insieme formano appunto la nostra scienza geometrica. Sia allora A una ulteriore proposizione relativa ad alcuni dei nostri enti fondamentali (per esempio, quella espressa dal V postulato). Possono presentarsi tre casi: o la A è incompatibile con i postulati a, b,..., h; o è una loro conseguenza; o è da essi indipendente. Nel primo caso la proposizione A si dovrà riguardare come falsa, mentre nel secondo risulterà vera ed appartenente alla nostra geometria. Nel terzo caso la A è estranea alla nostra scienza: allora si può aggiungere ai postulati a, b,..., h, il nuovo postulato A, e si ottiene così un ramo della nostra geometria costituito dall'insieme dei teoremi che derivano contemporaneamente dalle proposizioni a, b,..., h, ed A. Precisati questi concetti generali, si può dimostrare, come accenneremo tra breve, che il postulato d'Euclide è indipendente dai rimanenti postulati a, b,..., h, che stanno a base della geometria (postulati dell'ordine, dell'appartenenza e del movimento): pertanto, se a questi postulati si unisce la condizione che per un punto passi una sola retta parallela ad una retta data, si ha l'ordinaria geometria elementare o euclidea o parabolica; se invece si nega il V postulato, nasce la moderna geometria non euclidea, un tempo chiamata anche geometria astrale, o immaginaria, o pangeometria. Vediamo come si possa giungere a essa. Per un punto O del piano si conduca (fig. 3) una retta OP che incontri una retta data p in un punto P: se P si muove sulla p, la OP ruota intorno ad O, ed evidentemente quando P si allontanerà sulla p, nell'uno o nell'altro verso, la OP tenderà ad assumere una certa posizione limite. L'ipotesi euclidea porta che codesta posizione limite sia la stessa tanto se il punto P si muove sulla retta p verso sinistra che verso destra; invece, nel caso non euclideo si dovrà ritenere che si abbiano due rette limiti distinte, che saranno da riguardarsi come rette condotte da O parallelamente alla retta p. Si ottiene così la geometria di Lobačevskij-Bólyai, o geometria iperbolica: i risultati, a cui in essa si giunge, hanno assai spesso un aspetto paradossale per il nostro modo di concepire le cose, ma ciò non infirma il loro valore perfettamente logico. Tra i più interessanti limitiamoci a ricordare che la somma degli angoli di un triangolo risulta minore di due retti, e la differenza è proporzionale all'area del triangolo. Nella geometria iperbolica non esistono figure simili (salvo, naturalmente, quelle uguali), e due triangoli con le tre coppie di angoli uguali sono ugualil

Accanto alla geometria iperbolica conviene considerarne un'altra, dovuta a Bernardo Riemann (1826-1866), detta ellittica, alla quale si giunge rinunciando non solo al V postulato, ma anche a quello che negli Elementi di Euclide si trova enunciato come secondo, e che consiste nell'ammettere che ogni retta sia indefinitamente prolungabile (cioè sia una linea aperta). Se invece si riguardano le rette come (illimitate ma) finite (cioè come linee chiuse), si è portati a ritenere che due rette del piano s'incontrino sempre, e si costruisce una geometria nella quale non esiste il concetto di parallelismo, e in cui la somma degli angoli di un triangolo risulta maggiore di due retti.

A scanso di equivoci si avverta esplicitamente che le tre geometrie non possono sussistere nello stesso tempo sopra uno stesso piano: cioè se per un punto del piano si verifica il Postulato di Euclide, o quello di Lobačevskij-Bólyai, o quello di Riemann, ugualmente accade per tutti gli altri punti.

Tra i precursori della geometria non euclidea si deve ricordare il gesuita Girolamo Saccheri (1667-1733), professore all'università di Pavia, anche se egli non ha saputo vedere tutta la portata delle sue ricerche, e si è appagato di conclusioni erronee. Nell'intento di dimostrare il V postulato, si è proposto di scoprire un assurdo nelle conclusioni, a cui si giunge partendo dall'ipotesi non euclidea, e questo assurdo ha creduto di trovare effettivamente. In realtà però egli ha così aperto la via a un ordine d'idee che - dopo i risultati raggiunti da J. H. Lambert e da A. M. Legendre, i quali meglio lumeggiano e completano quelli del Saccheri - doveva affermarsi in pieno con C. F. Gauss (1777-1855), che fu il primo ad avere chiara la visione di una geometria indipendente dal postulato di Euclide. Poco più tardi le geniali scoperte del russo N. J. Lobačevskij (1793-1856) e dell'ungherese G. Bólyai (1802-1860) risolvevano nel modo più brillante l'annosa questione e aprivano allo spirito umano nuovi orizzonti.

Come si fa per provare l'indipendenza del V postulato dagli altri che stanno alla base della geometria euclidea, e quindi per confermare la validità logica delle geometrie non euclidee? È evidente che a ciò non basta il fatto che non si sia riscontrata nessuna contraddizione nello sviluppo fino ad ora avuto da queste geometrie. Conviene allora ricorrere ad un altro criterio, fornito dalla stessa struttura logica della nostra scienza. Si è visto che in essa gli enti fondamentali sono definiti soltanto dalle condizioni di soddisfare a certe proprietà espresse dai postulati. Salvo questo, nulla è detto circa la loro effettiva natura. Il comune modo di concepire e di rappresentare i concetti di punto, retta, piano, ecc., è soltanto dovuto alla nostra intuizione, sotto l'influenza che sui nostri sensi esercita il mondo che ci circonda. Pertanto a quei concetti potremo dare diverse interpretazioni, pervenendo così a realizzare in vario modo l'edificio che costituisce la nostra scienza ipotetico-deduttiva. Per esempio, un'interpretazione della geometria iperbolica piana si può ottenere come segue. Si chiami piano la regione interna ad una conica, magari addirittura ad un cerchio (fig. 4), e si prenda come retta di questo piano ogni corda del cerchio, esclusi gli estremi. Ci si rende facilmente conto - anche senza una minuta analisi che qui non può trovar luogo - come per una tale nozione di retta valgano i postulati dell'ordine, dell'appartenenza e dell'uguaglianza (convenientemente interpretata), mentre per ciò che riguarda il parallelismo siamo nelle ipotesi di Lobačevskij-Bólyai, dovendosi considerare come parallele due rette (corde) che s'incontrino sulla circonferenza. Allora la validità logica della nostra geometria risulta provata in modo del tutto rigoroso, dato che questa viene a ridursi così ad un semplice capitolo della geometria euclidea.

Per la geometria ellittica si ha un'interpretazione analoga sostituendo al cerchio o alla conica reale sopra considerata, una conica immaginaria. E se vogliamo passare dalla geometria piana a quella spaziale, ci dovremo riferire ad una quadrica immaginaria Q, rappresentata da un'equazione reale, la quale conterrà quindi due schiere di generatrici immaginarie di seconda specie (ogni generatrice avendo come coniugata una generatrice sghemba che appartiene alla stessa schiera). Nello spazio riemanniano così ottenuto, si può tornare a introdurre le rette parallele valendosi di una estensione del concetto di parallelismo dovuta a W. K. Clifford (1845-1879). Riferendoci all'ipotesi euclidea, si osservi che se s'immagina d'imprimere allo spazio un movimento di traslazione nel quale una certa retta p scorra sopra sé stessa, ogni punto descrive una retta parallela alla p: questa proprietà può anzi essere assunta come definizione di rette parallele, cosicché, da tale punto di vista, "sono rette parallele le traiettorie dei punti di un piano o dello spazio, in una traslazione di questo". Ora, secondo Clifford, si considereranno i movimenti dello spazio ellittico in cui le traiettorie percorse dai punti, pur non essendo più a due a due complanari, saranno sempre delle rette: e a queste rette sghembe si potrà dare in senso esteso il nome di parallele. Per realizzare codeste traslazioni di Clifford, basta riflettere che i movimenti dello spazio ellittico si traducono in omografie trasformanti in sé la quadrica Q, e che fra queste si hanno delle omografie biassiali, con gli assi appartenenti a Q, in cui le traiettorie dei punti sono precisamente delle rette sghembe appoggiate agli assi. Una retta p, incontrando Q in due punti, si può riguardare come traiettoria per due distinte omografie biassiali che trasformano Q in sé stessa. Così per un punto generico dello spazio ellittico passano due parallele alla retta p nel senso di Clifford.

Un'altra geniale e suggestiva interpretazione della geometria non euclidea, ci porterà - con H. Poincaré - a costruire un mondo non-euclideo, nel quale troveranno risposta i dubbî e le domande che ancora si possono presentare a chi investighi in questo ordine di questioni: così meglio apparirà l'importanza e l'interesse dei problemi che essi suscitano. Immaginiamo un mondo tutto racchiuso entro una sfera, nel quale la vita intellettuale si svolga in maniera analoga alla nostra, ma la vita fisica si presenti invece regolata da leggi diverse, per modo da dar luogo ai fenomeni che passiamo a descrivere. Tutti i corpi appartenenti al nostro mondo siano soggetti ad una stessa legge di dilatazione al variare della temperatura, cosicché questa si potrà misurare mediante la lunghezza di un corpo qualunque. Si supponga, inoltre, che nell'interno della nostra sfera la temperatura non sia costante, ma che, cominciando da un massimo al centro, decresca gradatamente fino a risultare nulla sulla superficie, in maniera però da avere lo stesso valore su tutti i punti di una qualunque sfera interna, concentrica con la data. Di più, i movimenti avvengano con grande lentezza, mentre i corpi siano molto sensibili ai cambiamenti di temperatura, cosicché nel passare da una posizione ad un'altra con diverso grado di calore, il corpo stesso assuma istantaneamente la lunghezza che è in armonia con la temperatura. In tali condizioni gli abitanti del nostro mondo non hanno nessun modo per rendersi conto delle differenze di temperatura, o, ciò che è lo stesso, del variare delle loro dimensioni e di quelle degli oggetti circostanti: essi hanno poi l'impressione che il loro mondo sia infinito, perché spostandosi verso la periferia, dove la temperatura è nulla, il loro corpo diviene sempre più piccolo, tendendo ad annullarsi, e quindi i loro spostamenti si fanno sempre più brevi. Quale è la linea che il nostro individuo dovrà percorrere se vuole recarsi da un punto A ad un punto B del suo ambiente, facendo il minor numero di passi possibile? cioè qual'è la linea che per lui gode del requisito di minima distanza tra due punti, come per noi la retta? Il calcolo delle variazioni consente di provare che codesta linea è un arco di circonferenza ortogonale alla superficie limite del mondo. Ora siffatte linee di minimo percorso soddisfano agli stessi postulati che per noi caratterizzano la retta (invero per due punti interni alla sfera passa un arco, e uno solo, ortogonale alla sfera stessa; ecc.): così per il geometra del mondo che stiamo descrivendo, esse risponderanno appunto al concetto primitivo a cui per noi rispondono le rette; e tale suo modo di vedere sarà per lui maggiormente confermato dall'intuizione, se si supponga che nell'interno del suo mondo la luce non si propaghi in linea retta, ma segua le stesse circonferenze già dette (ciò che si può immaginare di realizzare fisicamente per mezzo di un gas con indice di rifrazione variabile da punto a punto, in modo opportuno). Però, limitandoci per semplicità a considerare la geometria sopra un piano passante per il centro della sfera, il nostro geometra avrà idee ben diverse dalle nostre circa il concetto di parallelismo. Infatti per lui due linee di minimo percorso risulteranno parallele quando s'incontrano sulla sfera limite del suo mondo, e quindi per un punto P del piano considerato, si potranno condurre due linee di minimo percorso (formanti fra loro un certo angolo di parallelismo) parallele ad una linea di minimo percorso data, p. Vale cioè la geometria iperbolica!

La conoscenza che abbiamo fatto col mondo ideato dal Poincaré, porta a considerazioni di grande suggestività. Si osservi che l'angolo di parallelismo dianzi definito risulta tanto più piccolo quanto più grande è il raggio della sfera e più prossimi al centro di questa sono il punto P e la linea p. Immaginiamo allora di essere noi, con la nostra Terra, al centro della sfera in esame, e si supponga che il suo raggio sia tanto grande rispetto al raggio della Terra, che in tutto lo spazio a noi accessibile il suddetto angolo di parallelismo risulti così piccolo da non essere apprezzato dai nostri strumenti. Ebbene, le nostre osservazioni non differirebbero per nulla da quelle a cui siamo abituati, e a noi sembrerebbe che il mondo circostante seguisse le leggi della geometria euclidea. Nessuna esperienza fatta per penetrare la realtà delle cose ci autorizzerebbe a pensare diversamente, perché le differenze fra i dati sperimentali e i risultati prevedibili in base ai principî della geometria, apparirebbero sempre non superiori agli errori d'osservazione. Che cosa si deve concludere? quale è per noi, per il nostro mondo, la vera geometria? Non c'è una geometria vera ed una falsa: una distinzione di tal genere non ha senso. Ci sarà soltanto una geometria che con maggiore approssimazione risponderà a quelle che sembrano essere le leggi del mondo che ci circonda, e che sarà più semplice e più comoda per essere più rispondente alla nostra intuizione, sorta in noi sotto l'influenza dello stesso mondo. Nulla più. La nostra conoscenza intuitiva dello spazio, da cui ha certo origine il nostro bisogno e la nostra attitudine alla speculazione geometrica, non basta da sola a caratterizzare con precisione assoluta il significato delle concezioni fondamentali astratte della geometria, e le proprietà ad esse inerenti.

Per il parallelismo del Levi-Civita, v. differenziale assoluto, calcolo; geometria, nn. 40, 43.

Bibl.: Basterà ricordare alcune opere, prevalentemente di carattere generale, nelle quali si potranno trovare anche maggiori indicazioni bibliografiche: P. Stäckel e F. Engel, Die Theorie der Parallellinien, von Euklid bis Gauss, Lipsia 1895; H. Poincaré, La science et l'hypothèse, Parigi 1902; R. Bonola, La geometria non euclidea, Bologna 1906; id., Sulla teoria delle parallele e sulle geometrie non euclidee, in Questioni riguardanti le matematiche elementari, raccolte e coordinate da F. Enriques, II, 3ª ed., Bologna 1925, p. 1; F. Enriques, Conferenze sulla geometria non euclidea, raccolte da O. Fernandez, Bologna 1918; J. W. Young, I concetti fondamentali dell'algebra e della geometria, trad. D. Mercogliano, Napoli 1919; E. Rufini, La preistoria delle parallele e il postulato di Euclide, in Periodico di matematiche, 1923; F. Enriques e collaboratori, Gli elementi di Euclide e la critica antica e moderna, I, Bologna 1925; P. Barbarin, La géométrie non euclidienne, Parigi 1928; L. Godeaux, La géométrie, Liegi 1931; G. Fano, Geometria non euclidea, Bologna 1934.