Parità e non discriminazione [dir. lav.]

Diritto on line (2018)

Parità e non discriminazione [dir. lav.]

Maria Cristina Cimaglia

Abstract

Il contributo affronta il tema della tutela paritaria nel lavoro analizzando la normativa e la giurisprudenza a sostegno di questo principio, che si realizza nella dicotomia tra tutela antidiscriminatoria e promozione delle pari opportunità. Viene analizzato, in particolar modo, l’evolversi dei processi di concretizzazione del principio di eguaglianza per il tramite delle tecniche di diritto diseguale che, nel tempo, l’ordinamento ha previsto.

Premessa

Il tema della parità di trattamento è stato da sempre oggetto di un articolato dibattito dottrinale e giurisprudenziale, sia a livello nazionale che europeo. Un dibattito caratterizzato dalle diverse modalità con cui dare attuazione al principio di eguaglianza: tramite la parità di trattamento da un lato e il contrasto alla discriminazione dall’altro.

Sul fronte del contrasto alle discriminazioni l’ordinamento è evoluto. Sono stati ampliati i fattori di rischio protetti; sono state affinate le nozioni di discriminazione (diretta e indiretta e ulteriori fattispecie nel tempo coniate); i comportamenti vietati sono stati tipizzati con una sempre maggiore attenzione all’impatto   posti in essere negli ambienti di lavoro.

Più complesso è, invece, l’approccio che connota la tutela paritaria.

L’evoluzione del principio di parità di trattamento

In una prima fase, contrassegnata dalle norme dello statuto dei lavoratori e di quello che potremmo definire diritto antidiscriminatorio “delle origini” (cioè disciplinato dallo statuto stesso), il Legislatore nazionale ha perseguito l’obiettivo di dare concretezza a quell’immanenza della parità, che fino ad allora veniva vista come valore e principio che doveva informare l’intero ordinamento, ma non come regola normativa autonoma (Del Punta, P., Parità di trattamento nel rapporto di lavoro, in Enc. dir., Milano, 1998 agg., 707). Nel concretizzare il principio in regola normativa, pertanto, la tutela antidiscriminatoria diviene una «tecnica regolativa di carattere generale, tendenzialmente alternativa alla tradizionale tecnica di tutela costituita dalla norma inderogabile» (Barbera, M., L’eguaglianza come scudo e l’eguaglianza come spada, in Chieco, P., a cura di, Eguaglianza e libertà nel diritto del lavoro. Scritti in memoria di Luciano Ventura, Bari, 2004, 29 ss.).

Questa applicazione della regola di parità di trattamento ha fatto emergere, però, le tensioni fra il principio di eguaglianza e di libertà contrattuale (riprendendo l’espressione di Ghezzi, G., Luciano Ventura, l’attualità di una linea, in Chieco, P., a cura di, Eguaglianza, 21), risultando quest’ultima compressa dai meccanismi di valutazione dei comportamenti datoriali che si estendono oltre il singolo rapporto negoziale, per interessare la collettività dei lavoratori o gruppi di essi.

Il tema viene affrontato dalla Corte costituzionale con la nota sent. 9.3.1989, n. 103, ove si afferma che «in virtù del precetto costituzionale di cui all'art. 41 della Costituzione, il potere di iniziativa dell'imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell'ordinamento ed in ispecie non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana». A questa affermazione è seguito un intenso dibattito dottrinale sulle modalità atte a garantire il rispetto della dignità e della libertà individuale del lavoratore. Parte della dottrina ha individuato proprio nella regola di parità di trattamento, intesa come espressione del principio di uguaglianza, la modalità con cui dare piena attuazione all’enunciato dei giudici costituzionali. Di contro, invece, altri hanno negato l’introduzione di un vero e proprio principio di parità di trattamento nel nostro ordinamento e ciò non solo a strenua difesa del principio di libertà economica, quanto – sul versante opposto – per l’intrinseca debolezza della regola di parità di trattamento, rappresentata dall’incapacità di garantire realmente il pieno rispetto – per il suo tramite – del principio di eguaglianza sostanziale. La sua applicazione, infatti, non consentendo di tener conto delle differenze individuali, portava con sé il rischio di ingenerare forme di discriminazioni indirette fondate su stereotipi culturali.

Il dibattito dottrinale si è riversato anche sul contenzioso giurisprudenziale della Corte di cassazione, che ha trovato poi composizione nell’altrettanto nota sentenza delle Sezioni Unite del 1996 (Cass., S.U., 17.5.1996, n. 4570).

La pronuncia delle Sezioni Unite ha negato l’esistenza di un principio di parità di trattamento nel nostro ordinamento, in ragione del fatto che le clausole di correttezza e buona fede – sempre più utilizzate per filtrare nel rapporto fra privati i principi costituzionali di uguaglianza e tutela della dignità e consentire così un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia negoziale – possono operare solo all’interno del rapporto e non possono essere utilizzate in relazione a comportamenti adottati dal datore di lavoro nell’ambito di rapporti di lavoro diversi.

Il dibattito sulla non adeguatezza della regola paritaria a garantire l’effettività del principio di eguaglianza si è innervato in un momento cruciale dell’evoluzione del diritto antidiscriminatorio ove – anche per le elaborazioni ermeneutiche compiute dalla Corte di giustizia europea in materia di divieti di discriminazione e nel suo lavorio costante di evoluzione interpretativa delle fattispecie vietate – comincia ad emergere una reazione all’egualitarismo quale strumento di tutela, per il suo tradursi nella negazione della libertà individuale all’autodeterminazione o nel riconoscimento delle differenze collettive identitarie. Comincia così a farsi spazio un concetto di eguaglianza reso complesso dal valore della differenza, che assume un duplice rilievo. Il rilievo assunto dalla dignità dell’individuo porta ad una accezione dell’uguaglianza da intendere non più come mera regola di trattamento, ma come diritto fondamentale della persona.

Ma l’esigenza di limitare l’arbitrarietà dei comportamenti accorcia le distanze fra la regola di parità di trattamento e i divieti di discriminazione (Del Punta, R., Parità di trattamento, cit.). Con il nuovo diritto antidiscriminatorio (inaugurato con le dir. 2000/43/CE e dir. 2000/78/CE) che porterà all’ampliamento delle situazioni coperte dai divieti di discriminazione, determinate dall’aumento dei fattori di discriminazione e dall’allargamento dei termini di comparabilità a situazioni ipotetiche, si genererà una progressiva obiettivazione della politica aziendale del personale, facendo «quasi coincidere, sotto il profilo sostanziale, [questi divieti] con un vero e proprio diritto all’uguaglianza, giacché il divario tra non discriminazione e parità di trattamento, riconducibile a quella che è la diversità propria intercorrente tra eccezioni tipizzate e regola generale, tende ad annullarsi in ragione del progressivo ampliamento dei casi di non discriminabilità» (Chieco, P., Principi costituzionali, non discriminazione e parità di trattamento: recenti sviluppi nella giurisprudenza, in Riv. giur. lav., 1989, I, 447 ss.; sulle diverse conseguenze derivanti proprio dall’evoluzione del diritto antidiscriminatorio Bortone, R., Discriminazione (divieti di), in Dig. comm., 2008).

Ma è a questo punto che ogni dibattito a livello nazionale si innesta con quello che si sta svolgendo a livello europeo.

La parità di trattamento nell’ordinamento europeo

Nell’ordinamento europeo il passaggio da una nozione di eguaglianza in senso formale ad un principio di eguaglianza sostanziale, con l’introduzione del concetto di discriminazione indiretta e delle azioni positive (inizialmente a tutela delle donne, poi esteso agli altri fattori) è il risultato di un nutrito dibattito dottrinale, nonché come si è anticipato, di un corposo filone giurisprudenziale della Corte di giustizia europea che ha interpretato in senso evolutivo le norme dei Trattati, inducendone poi nel tempo le modifiche atte ad adeguarle al mutato contesto sociale.

Dall’interpretazione evolutiva dell’articolo dedicato alla parità retributiva di uomini e donne (art. 119, poi 141 ed oggi 157 nel TFUE) – la cui matrice come è noto è di tipo mercantilistica, essendo finalizzata ad evitare forme di concorrenza nel mercato fondate sulla sottoretribuzione del lavoro femminile – la Corte di giustizia ha enucleato le elaborazioni che connotano il diritto antidiscriminatorio odierno, in cui il principio di eguaglianza rappresenta «la lente di ingrandimento attraverso la quale ogni nuovo intervento legislativo interno deve essere riguardato per verificarne la cd. “compatibilità comunitaria”» (Piccone, V., Parità di trattamento e principio di non discriminazione nell’ordinamento integrato, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 127/2016, 7).

Oggi la fonte di diritto primario è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, che all’art. 21 ha sancito la non discriminazione fra i diritti fondamentali della persona e nell’ambito dei principi generali del diritto comunitario. Ma l’ulteriore declinazione del principio di eguaglianza è contenuta all’art. 23, che assume rilievo nel momento in cui, nel disporre che la parità tra uomini e donne dev’essere assicurata in tutti i campi, precisa che tale principio non osta al mantenimento od all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato. Le azioni positive assumono così – a suggello del lungo lavorio interpretativo compiuto dalla Corte di giustizia – la consacrazione a livello di fonte primaria, come tecnica di diritto diseguale atta a garantire la concretizzazione del principio di eguaglianza, a prevenire forme di discriminazione indiretta e – soprattutto – a rimuovere le cause dei fenomeni discriminatori.

Il Trattato sull’Unione europea, acquisite le modifiche in materia a cominciare dal Trattato di Amsterdam, dispone all’art. 8 che nelle sue azioni l'Unione mira ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne. Il titolo II è intitolato alla non discriminazione, connessa ai diritti di cittadinanza, mentre all’art. 19 si conferisce al Consiglio il potere di prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale. La norma, come è noto, è la trasposizione dell’art. 13 del TCE introdotto dal Trattato di Amsterdam, che ha costituito la base giuridica delle direttive del 2000 in materia di parità di trattamento. All’art. 10 del TFUE l’obiettivo del contrasto alle discriminazioni assurge a criterio di mainstreaming nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni dell'Unione.

Un principio – questo – trasfuso anche negli strumenti adottati per attuare le politiche europee, come i fondi strutturali. Con la programmazione 2014-2020 la promozione delle pari opportunità è divenuto un principio cardine nell’uso di tali Fondi. L’art. 7 del reg. 2013/1303/UE, recante le disposizioni comuni a tutti i Fondi, statuisce un principio generale di integrazione della politica antidiscriminatoria e di promozione delle pari opportunità nell’ambito delle politiche finanziate con i Fondi strutturali. Questo principio trova concreta attuazione nel reg. 2013/1304/UE relativo, questo secondo, al Fondo sociale europeo (FSE) e, quindi, diretto alle politiche del lavoro, dell’inclusione sociale e della formazione. L’art. 7 del regolamento statuisce il principio dell’integrazione della promozione della parità uomo-donna mediante la preparazione, l'esecuzione, la sorveglianza, la rendicontazione e la valutazione dei programmi operativi. Al FSE viene attribuita la finalità di sostenere azioni mirate specifiche per aumentare la partecipazione sostenibile e i progressi delle donne nel settore dell'occupazione, lottare contro la femminilizzazione della povertà, ridurre la segregazione di genere nel mercato del lavoro e lottare contro gli stereotipi di genere nel mercato del lavoro, nell'istruzione e nella formazione, promuovere la riconciliazione tra vita professionale e vita privata per tutti, nonché implementare una uguale suddivisione delle responsabilità di cura tra donne e uomini. L’art. 8 è, invece, dedicato alla promozione delle pari opportunità e al contrasto alle discriminazioni per tutti gli altri fattori di rischio individuate dall’ordinamento UE, con l’attribuzione al FSE della finalità di sostenere azioni specifiche volte a lottare contro tutte le forme di discriminazione nonché a migliorare l'accessibilità per le persone con disabilità al fine di accrescerne l'integrazione in tutti gli ambiti.

Appare opportuno evidenziare il rilievo di questo principi che, nella loro attuazione pratica, implicano una valutazione d’impatto discriminatorio di qualunque misura finanziata dai Fondi UE, anche per politiche non inerenti il contrasto alle discriminazioni, ma genericamente rivolte ad altre finalità, come ad esempio la promozione dell’occupazione dei percettori di ammortizzatori sociali (; ; ).

Le azioni positive

Le azioni positive nell’ordinamento europeo

La concretizzazione del principio di eguaglianza ha indotto gli ordinamenti nazionale ed europeo a sviluppare tecniche di diritto diseguale, finalizzate alla reale garanzia della promozione delle pari opportunità. Tali tecniche hanno trovato espressione nelle azioni positive, oggetto di un percorso evolutivo in cui un ruolo di assoluto rilievo l’ha avuto – come si è detto - la giurisprudenza della Corte di giustizia europea.

Nel diritto europeo le azioni positive traggono origine dall’esigenza di rimuovere le cause che ostano alla parità di trattamento tra uomini e donne, con una prima formalizzazione nella rac. CEE n. 84/235, cui viene attribuita la finalità di eliminare le disparità di fatto di cui sono oggetto le donne nella vita lavorativa e favorire il loro inserimento nel mercato del lavoro. Viene assunta (e confermata poi) una nozione teleologica, che svilupperà nel tempo due filoni di intervento: uno volto a eliminare o compensare gli svantaggi causati dalla divisione di ruoli, l’altro ad incoraggiare la partecipazione delle donne nei settori sottorappresentati. L’ampliarsi poi dei fattori di rischio e la complessa evoluzione delle tecniche di diritto diseguale porterà ad una complessità di approccio delle politiche di parificazione nelle opportunità, in particolar modo nel rapporto fra rimozione degli ostacoli e riparazione delle conseguenze sfavorevoli (sul tema v. Lazzeroni, L., Eguaglianza, lavoro, regole di parificazione, Torino, 2011).

Su questo aspetto si è sviluppata l’evoluzione interpretativa compiuta dalla Corte di giustizia europea che, partendo da un’interpretazione più restrittiva – che limitava l’efficacia delle azioni positive a garantire parità di chance di partenza – è giunta nel tempo ad una interpretazione più incisiva.

Come è noto i leading case della Corte di giustizia hanno avuto ad oggetto normative di paesi del Nord Europa che prevedevano il riconoscimento di diritti di priorità a favore delle donne nei casi di progressioni di carriera, al fine di rimuovere forme di segregazione orizzontale, che si sostanzia in una sottorappresentazione delle donne nell’organico aziendale ai livelli più alti. Dal caso Kalanke (C. Giust., 17.10.1995, C-450/93, Eckhard Kalanke c. Freie Hansestadt Bremen) in poi la Corte ha mutato orientamento, abbandonando il principio secondo cui la promozione delle pari opportunità non possa andare in deroga al principio di eguaglianza formale (sull’evoluzione si v. Scarponi, S.-Stenico, E., Le azioni positive: le disposizioni comunitarie, le luci e le ombre della legislazione italiana, in Barbera, M., a cura di, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Milano, 2007, 429 ss.). Questa interpretazione restrittiva è stata superata anche se, onde evitare forme di automatismo, sono stati enucleati nel tempo alcuni principi quali il bilanciamento con il principio di eguaglianza formale e la presenza di clausole di flessibilità che ammettono casi di deroga per motivi di ordine sociale (sui rischi di arbitrarietà v. Calafà, L., Azioni positive nel diritto comunitario, in Garofalo, M.G., a cura di, Lavoro delle donne e azioni positve, Bari, 341).

Con il Trattato di Amsterdam e il novellato art. 141 del Trattato l’ordinamento europeo, facendo propri i principi espressi dalla Corte di giustizia, l’UE ha ammesso i preferential treatements a favore del sesso sottorappresentato e, con il riformato art. 13, ha fornito la base giuridica per le direttive del 2000 che hanno ammesso le azioni positive affrancandole dal solo terreno della parità uomo-donna ed estendedole agli altri fattori di rischio.

L’art. 5 della dir. 2000/43/CE introduce l’istituto delle azioni positive, prevedendo la possibilità per uno Stato membro di mantenere o adottare misure specifiche dirette a evitare o compensare svantaggi connessi con una determinata razza o origine etnica, allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità. Questa norma, tuttavia, non ha trovato attuazione nell’ordinamento nazionale ad eccezione di un richiamo contenuto all’art. 7, lett. c), d.lgs. 9.7.2003, n. 215, che affida all’Unar la promozione dell'adozione, da parte di soggetti pubblici e privati, in particolar modo dell’associazionismo, di misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o compensare le situazioni di svantaggio connesse alla razza o all'origine etnica.

L’art. 7 della dir. 2000/78/CE prevede, parimenti, la possibilità per uno Stato membro di mantenere o adottare misure specifiche dirette a evitare o compensare svantaggi correlati a uno qualunque dei fattori di rischio, allo scopo di assicurare completa parità nella vita professionale. Quanto alle persone con disabilità, il principio della parità di trattamento non pregiudica il diritto degli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni in materia di tutela della né alle misure intese a creare o mantenere disposizioni o strumenti al fine di salvaguardare o promuovere il loro inserimento nel mondo del lavoro.

Le azioni positive nell’ordinamento italiano

Nell’ordinamento nazionale le azioni positive sono articolate in modo ampio con riferimento al genere, mentre non hanno trovato attuazione le norme delle dir. 2000/43/CE e dir. 2000/78/CE, salvo l’affidamento all’Unar di un compito promozionale, come si è detto in precedenza.

È il codice delle pari opportunità (d.lgs. 11.4.2006, n. 198) a dedicare il Capo IV alla promozione delle pari opportunità per il tramite di azioni positive nell’ambito del lavoro subordinato e autonomo, prevedendo organismi collettivi deputati alla loro promozione e fonti di finanziamento per il loro sostegno.

Le azioni positive sono qualificate (art. 42) come misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità, nell’ambito della competenza statale, dirette a favorire l'occupazione femminile e realizzare l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro. Le azioni positive sono volte a contrastare la segregazione professionale fin dalla formazione scolastica e professionale, nell'accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità e favorire la diversificazione delle scelte professionali, nonché la promozione dell'inserimento delle donne ove siano sottorappresentate, ivi compreso il lavoro autonomo e il superamento delle condizioni e dell’organizzazione del lavoro che possano avere effetti pregiudizievoli verso le donne.

La promozione delle azioni positive (art. 43) compete a una varietà di soggetti: il Comitato nazionale pari opportunità, le consigliere e i consiglieri di parità, i centri per la parità e le pari opportunità a livello nazionale, locale e aziendale, comunque denominati, i centri per l'impiego, i datori di lavoro pubblici e privati, i centri di formazione professionale, le organizzazioni sindacali nazionali e territoriali, anche su proposta delle degli organismi rappresentativi del personale.

Gli oneri connessi all’attuazione di progetti di azioni positive presentati dai datori di lavoro pubblici e privati, le associazioni e le organizzazioni sindacali nazionali e territoriali possono essere finanziati con bando annuale, con un diritto di prelazione per i progetti concordati con le oo.ss. (art. 44). Appositi finanziamenti sono previsti per le azioni positive realizzate mediante la formazione professionale a valere sul Fondo di rotazione del Fondo Sociale europeo (art. 45), mentre un fondo nazionale è dedicato all’imprenditoria femminile (art. 54). A queste norme si aggiungano poi le misure a sostegno della flessibilità di orario, finalizzate a promuovere e incentivare forme di articolazione della prestazione lavorativa volte a conciliare tempo di vita e di lavoro, disciplinate dall'art. 9 della l. 8.3.2000, n. 53.

Norme promozionali sono inoltre previste per l’imprenditoria femminile (art. 52), con misure inerenti la formazione, l’accesso al credito, la qualificazione imprenditoriale e la promozione della presenza delle imprese femminili nei comparti più innovativi. Beneficiari (art. 53) sono le società cooperative e di persone, di capitali (con significative partecipazioni femminili), le imprese, i loro consorzi, le associazioni, gli enti, le società di promozione imprenditoriale, i centri di formazione e gli ordini professionali.

Le azioni positive nelle pubbliche amministrazioni

Una disciplina specifica è dedicata alle pubbliche amministrazioni (), che rispetto al settore privato presenta tratti di cogenza, inserendo le azioni positive nel sistema gestionale e organizzativo con responsabilità in capo ai dirigenti. Il primo obbligo riguarda l’adozione – sentiti gli organismi di rappresentanza sindacale, il Comitato nazionale e la consigliera o il consigliere di parità – di piani di azioni positive di durata triennale tendenti ad assicurare la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne. Questi piani sono volti a contrastare la segregazione professionale e favoriscono il riequilibrio della presenza femminile nelle attività e nelle posizioni gerarchiche ove sussiste un divario fra generi non inferiore a due terzi.

A tale scopo, in occasione di assunzioni e promozioni, a fronte di analoga qualificazione e preparazione professionale tra candidati di sesso diverso, l'eventuale scelta del candidato di sesso maschile è accompagnata da un’esplicita ed adeguata motivazione. Nella composizione di commissioni di concorso almeno un terzo dei posti dei componenti deve essere riservato alle donne. Dello stesso tenore è la norma che impone la garanzia della partecipazione delle donne ai corsi di formazione e di aggiornamento professionale, in rapporto proporzionale alla loro presenza nella singola amministrazione, adottando tutte le misure organizzative atte a facilitarne la partecipazione e consentendo la conciliazione fra vita professionale e familiare.

Gli organismi di promozione delle pari opportunità

Comitato pari opportunità

L’art. 8 del d.lgs. n. 198/2006 disciplina il Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, composto dal Ministro del lavoro e membri designati dalle parti sociali, dall’associazionismo e dalla consigliera o consigliere nazionale di parità. Al Comitato compete la promozione della rimozione delle discriminazioni e di ogni altro ostacolo che limiti di fatto l'uguaglianza fra uomo e donna nell'accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché in relazione alle forme pensionistiche complementari collettive.

Consiglieri e consigliere di parità

I consiglieri e le consigliere di parità hanno un’articolazione a livello nazionale, regionale, di città metropolitane e enti di area vasta. Di nomina ministeriale, assolvono diversi compiti e intraprendono ogni utile iniziativa, nell'ambito delle competenze dello Stato, ai fini del rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità per lavoratori e lavoratrici. Tra i compiti assegnati vi è la rilevazione delle situazioni di squilibrio di genere, la promozione di progetti di azioni positive, e l’intervento in materia di programmazione delle politiche territoriali e promozione politiche di pari opportunità. Questi organismi sono organizzati nella Conferenza nazionale delle consigliere e dei consiglieri di parità.

L’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali

L'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali ha il compito di promuovere la parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull'origine etnica. Ha funzioni di controllo e garanzia delle parità di trattamento e dell’operatività degli strumenti di tutela, ed assume il compito di svolgere, in modo autonomo e imparziale, attività di promozione della parità e rimozione di qualsiasi forma di discriminazione.

Comitato unico e organismi della contrattazione collettiva

A livello aziendale la promozione di pari opportunità è affidata ad organismi paritetici che, nel settore privato, sono individuati dalla contrattazione collettiva. Nel settore pubblico l’art. 57 del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 ha, invece, sostituito i comitati per le pari opportunità e i comitati paritetici sul fenomeno del mobbing previsti dalla contrattazione collettiva con il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni, che assume compiti propositivi, consultivi e di verifica, operando anche in collaborazione con la consigliera o il consigliere nazionale di parità. La mancata costituzione del Comitato unico di garanzia comporta responsabilità dei dirigenti incaricati della gestione del personale, da valutare anche al fine del raggiungimento degli obiettivi.

Il collocamento mirato

In chiusura un cenno merita uno strumento di diritto diseguale finalizzato alla promozione dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità: il collocamento mirato disciplinato dalla l. 12.3.1999, n. 68 (; ). Fondato sulla previsione dell’art. 38, co. 3 della Costituzione, questa legge impone ai datori di lavoro con determinati requisiti l’assunzione di persone con disabilità iscritte presso apposite liste tenute dai Centri per l’impiego i quali, unitamente agli altri servizi presenti sul territorio, devono supportare il datore di lavoro compiendo analisi del posto di lavoro per l’ottimale inserimento della persona con disabilità.

Fonti normative

Art. 3 Cost.; art. 37 Cost.; art. 38 Cost., co. 3; artt. 15-16 l. 20.5.1970, n. 300; d.lgs. 25.7.1998, n. 286; d.lgs. 26.3.2001, n. 151; d.lgs. 30.3.2001, n. 165; d.lgs. 9.7.2003, n. 215; d.lgs. 9.7.2003, n. 216; d.lgs. 1.4.2006, n. 198; l. 3.3.2009, n. 18.

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