Partito socialista italiano

Dizionario di Storia (2011)

Partito socialista italiano (PSI)


Partito socialista italiano

(PSI) Partito politico italiano, fondato nel 1892 e sciolto nel 1994. Già all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento il movimento operaio italiano cominciò a dotarsi di organizzazioni politiche, dal Partito socialista rivoluzionario di Romagna di A. Costa al Partito operaio italiano di C. Lazzari. Sulla base di quest’ultima esperienza, e più ancora della Lega socialista milanese di F. Turati, a Genova, nell’ag. 1892, venne fondato il Partito dei lavoratori italiani, che l’anno successivo inglobò anche il Partito socialista rivoluzionario, assumendo prima il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani, e poi (1895) quello di Partito socialista italiano.

Il PSI dalla fondazione alla Resistenza

Fin dalla nascita, dunque, il PSI riunì al suo interno diverse componenti politico-culturali, da quella riformista con agganci al marxismo di Turati al rivoluzionarismo di A. Costa, ai prosecutori delle tradizioni anarchiche e repubblicane, dalle quali ultime ereditò una certa venatura anticlericale; l’adesione al marxismo e l’attenzione al dibattito teorico, peraltro, furono piuttosto superficiali, nonostante il lavoro svolto in tal senso da Antonio Labriola. Il partito si sviluppò rapidamente, radicandosi in particolare nel Centro-Nord e conquistando le posizioni più forti non tanto nelle grandi città o nel proletariato industriale, quanto in provincia, nella Pianura padana e tra le masse contadine che andavano organizzandosi in leghe e cooperative. Sul piano politico generale, sotto la guida della corrente riformista di Turati (1900-12), il PSI si ritrovò spesso alleato delle altre forze della sinistra «estrema» sul piano parlamentare, ossia radicali e repubblicani, diventando anche un interlocutore del governo Giolitti (1902-04), nel quadro del tentativo dello statista liberale di integrare il movimento operaio. Contro questa tendenza si aggregarono le correnti di sinistra interne al partito, quella intransigente di Lazzari ed E. Ferri e quella sindacalista-rivoluzionaria di Arturo Labriola, le quali col Congresso di Bologna del 1904 assunsero la direzione del partito, rendendolo parte attiva nel primo sciopero generale della storia italiana (sett. 1904). Poco dopo, mentre il movimento sindacale si organizzava nella Confederazione generale del lavoro (CGDL), i riformisti riconquistavano la guida del partito, determinando la fuoriuscita dei sindacalisti rivoluzionari dal PSI (1907), mentre avanzava la corrente di I. Bonomi e L. Bissolati, mirante alla trasformazione del partito in una forza di tipo laburista. Tuttavia la guerra di Libia, dal chiaro impianto colonialista, alla quale Bonomi e Bissolati guardavano con favore, mentre la sinistra di A. Bordiga sviluppava un’intensa propaganda antimilitarista, determinò l’espulsione dal PSI dei primi (che fondarono il Partito socialista riformista italiano) e la vittoria della corrente massimalista, nella quale emergeva B. Mussolini, mentre nuovo segretario del partito divenne lo stesso Lazzari (Congresso di Reggio Emilia, 1912). Lo scoppio della Prima guerra mondiale rimescolò ancora le carte: Mussolini passò nelle file del cosiddetto «interventismo rivoluzionario», e pertanto fu dimissionato da direttore dell’Avanti! e poi espulso dal partito; Bonomi e Bissolati, ma anche personalità come C. Battisti e G. Salvemini, si schierarono con l’«interventismo democratico»; mentre il PSI prese una posizione pacifista e neutralista, attestandosi sulla linea del «non aderire né sabotare». Tale linea si rivelò tuttavia inadeguata, poiché da un lato non frenò le accuse del fronte nazionalista che vedeva i socialisti come «disertori» e «sabotatori» dello sforzo bellico, dall’altro non consentì al partito di porsi alla testa dei moti rivoluzionari che la stessa guerra favorì (insurrezione di Torino, ag. 1917). Nelle elezioni del 1919, col nuovo sistema elettorale proporzionale, il PSI balzò al 32,3%, diventando la maggiore forza ;politica italiana e superando ben presto (1920) i 200.000 iscritti. Il Congresso di Bologna (1919) vedeva intanto la vittoria dei massimalisti di G.M. Serrati e l’adesione del partito alla terza Internazionale. Tuttavia anche nel corso del «biennio rosso» e dell’occupazione delle fabbriche torinesi – in cui pure un ruolo centrale ebbero la sezione torinese del partito e il gruppo dell’Ordine nuovo, promotore del movimento dei Consigli di fabbrica – il PSI non riuscì a guidare il movimento verso uno sbocco rivoluzionario, giocando anzi, assieme alla CGDL, un ruolo frenante nello sviluppo delle lotte. Tale esperienza, assieme alla spinta dell’esempio della Rivoluzione d’ottobre in Russia e al rifiuto del gruppo dirigente del partito di espellere i riformisti come chiedeva il Comintern, determinò al Congresso di Livorno (genn. 1921) la fuoriuscita della frazione comunista, che diede vita al Partito comunista d’Italia (➔ Partito comunista italiano). Frattanto lo squadrismo fascista colpiva in modo sempre più diffuso sedi e uomini del partito, che pure si illuse di poter siglare un «patto di pacificazione» (ag. 1921) di cui però i fascisti non tennero alcun conto; lo stesso sciopero generale legalitario (ag. 1922) si trasformò in un boomerang, e di lì a poco la marcia su Roma portava i fascisti al potere, guidati da quello stesso Mussolini che nel PSI aveva mosso i primi passi. Nello stesso ott. 1922 intanto l’ala riformista veniva espulsa dal partito e costituiva il Partito socialista unitario (PSU); il tentativo di avviare un processo di fusione coi comunisti, promosso da Serrati, veniva intanto contrastato dalla maggioranza del PSI, che infine espelleva la corrente terzinternazionalista, che di lì a poco confluì nel PCD’I. Il delitto Matteotti apriva intanto una grave crisi per il fascismo, ma ancora una volta le esitazioni delle forze antifasciste e dello stesso PSI, riunite nell’anti-Parlamento sull’Aventino, determinarono un’ondata di riflusso, cui seguì il consolidarsi del regime fascista. Anche il PSI venne dunque sciolto, e nonostante significativi segnali di resistenza come l’esperienza della rivista Quarto stato (fondata da P. Nenni e C. Rosselli), una buona parte dei suoi militanti e l’intero gruppo dirigente scelsero la via dell’esilio. A Parigi i socialisti diedero vita con altre forze alla Concentrazione antifascista (1927), e nel 1930 PSI e PSU, sotto la spinta di Nenni e Saragat, si unificarono, mentre un’ala guidata da Angelica Balabanoff costituiva il Partito socialista massimalista. In Italia, intanto, emergevano esperienze interessanti come quella del Centro interno socialista, promosso da R. Morandi. Un accordo col movimento di Giustizia e libertà, siglato nel 1931, delegò tuttavia a GL l’iniziativa socialista in Italia, ma l’intesa durò appena tre anni. Nel 1934 il PSI riapriva il dialogo coi comunisti, e in agosto siglava quel patto d’unità d’azione che anticipò la svolta dei . L’impegno comune nella guerra civile spagnola rafforzò l’istanza unitaria, sebbene il Patto Molotov-Ribbentrop (1939) riaprisse il conflitto tra le forze operaie. L’attacco nazista all’URSS riunificò infine il fronte antifascista. Nel genn. 1943 il gruppo milanese di L. Basso dava vita al Movimento di unità proletaria (MUP), che in agosto confluì nel Partito socialista di Nenni, il quale assunse transitoriamente il nome di Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP). I socialisti intanto partecipavano alla Resistenza in primo luogo attraverso le Brigate Matteotti; al tempo stesso furono tra i promotori del Comitato di liberazione nazionale, sorto all’indomani dell’8 settembre 1943. Benché meno forte del Partito comunista, il PSI riuscì comunque a porsi fin dalla sua nascita come uno dei tre partiti di massa del Paese. Nell’aprile 1944 aveva circa 30.000 iscritti, ma nell’estate del 1945, all’indomani della Liberazione, era già giunto a 500.000.

Il PSI nell’Italia repubblicana

Nel 1946 il PSIUP contava 860.000 iscritti, e alle elezioni per l’Assemblea costituente risultò il primo partito della sinistra, ottenendo il 20,7% dei voti. Tuttavia, nel genn. 1947, al Congresso di Roma, esso subì la scissione della componente socialdemocratica di Saragat, ostile alla politica unitaria coi comunisti, la quale diede vita al Partito socialista dei lavoratori italiani, poi Partito socialista democratico italiano, mentre la parte maggioritaria dei socialisti, guidata da Nenni, ridava al partito il nome di PSI, aggregando peraltro settori e uomini significativi del Partito d’azione, ormai disciolto, da E. Lussu a F. De Martino, da R. Lombardi a V. Foa. Il PSI si presentò da subito molto meno omogeneo rispetto al PCI, sia in termini sociali (accanto ai lavoratori salariati comprendeva ampi settori di ceto medio impiegatizio), sia sul piano politico, avendo ereditato la tradizionale divisione in correnti. Nenni aveva comunque una sostanziale leadership, mantenendo una posizione centrista, unitaria verso il PCI ma non favorevole alla fusione; «fusionisti» erano invece esponenti come Morandi e Luzzatto, mentre un’altra componente di sinistra (di ascendenza libertaria e luxemburghiana) faceva capo a Basso; infine, anche dopo la scissione di Palazzo Barberini, rimaneva nel partito un’ala destra di impostazione socialdemocratica, guidata da G. Romita, parte della quale uscì dal PSI nel 1949. L’alleanza col PCI nel Fronte democratico popolare alle elezioni del 1948 aveva intanto ottenuto solo il 31% dei voti. Iniziava dunque anche per il PSI un periodo di opposizione rispetto ai governi centristi fondati sulla DC. Nello stesso 1949 Nenni tornava segretario, avendo come suo vice Morandi e giovandosi della collaborazione di quest’ultimo soprattutto nel lavoro di organizzazione del partito come forza di massa, radicata nei territori e nei luoghi di lavoro. Dopo che già il Congresso di Torino (1955) aveva posto il tema del dialogo coi cattolici, gli eventi del 1956 (20° Congresso del PCUS, intervento militare sovietico a Budapest) accelerarono il processo. L’incontro di Pralognan (ag. 1956) tra Nenni e Saragat segnò il riavvicinamento alla socialdemocrazia, mentre il PSI rompeva il patto d’unità d’azione col PCI che durava dal 1934. Il Congresso di Venezia (1957) pose quindi le basi per una collaborazione con la DC, mentre lo stesso Nenni assumeva la guida della corrente «autonomista» (1958). I fatti del luglio 1960 resero intanto evidente la necessità della «apertura a sinistra». Nel febbr. 1962 il PSI dava quindi il suo appoggio al governo Fanfani, forte di un programma che prevedeva la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’istituzione della scuola media unica. Iniziava così la stagione del centrosinistra, che divenne «centrosinistra organico» nel 1963 con l’entrata dei socialisti nel governo Moro, di cui lo stesso Nenni fu vicepresidente. Tale scelta costò però al PSI una nuova scissione, quella della sinistra di Basso, Foa, Vecchietti e Valori, la quale diede vita al Partito socialista italiano di unità proletaria, schierandosi all’opposizione col PCI. La stretta creditizia del 1963 e i fatti del luglio 1964 (durante i quali Nenni denunciò il «rumore di sciabole» che giungeva da settori delle forze armate), peraltro, frenarono la spinta riformatrice del centrosinistra, costringendo il PSI sulla difensiva. Anche per aumentare la sua forza contrattuale, il partito avviò dunque un processo di riunificazione col PSDI di Saragat, che sfociò nella nascita del Partito socialista unificato (PSU) nell’ott. 1966, con De Martino e Tanassi cosegretari. Le perduranti divisioni interne e la sconfitta elettorale del 1968 determinarono però la crisi di tale progetto, cosicché nell’ott. 1968 il partito riprese il nome PSI e nel 1969 la componente socialdemocratica ne uscì per fondare il Partito socialista unitario (poi di nuovo PSDI). I grandi movimenti di massa del 1968-69 e la crescita anche elettorale del PCI aprivano intanto la crisi del centrosinistra e inducevano De Martino ad aprire ai comunisti, lanciando la prospettiva di «equilibri più avanzati». La stessa crescita del PCI e la strategia belingueriana del compromesso storico, pur rivolta a socialisti e cattolici, aprirono però una fase di difficoltà per il PSI, all’interno del quale la tradizione autonomista riprese vigore, ravvivata dal timore di rimanere schiacciati nel dialogo tra i due maggiori partiti (DC e PCI), cosicché nel 40° Congresso (1976) De Martino risultò sconfitto di misura e, dopo le elezioni politiche del giugno 1976, gli successe B. Craxi. Quest’ultimo avviò una radicale ridefinizione dell’identità del partito, prendendo le distanze dal marxismo e avviando una sorta di competizione a sinistra col PCI, al quale pure rilanciava la proposta di «alternativa di sinistra» in contrapposizione al compromesso storico. Nel 1980 la politica di Craxi virò apertamente verso una nuova alleanza di governo che escludesse i comunisti, ossia la formula del «pentapartito», che portò lo stesso leader socialista alla presidenza del Consiglio (1983-87), carica che egli gestì con piglio decisionista e senza rinunciare a un duro scontro con la CGIL a seguito del taglio dei punti di contingenza nel 1984-85. Intanto il PSI eliminava dal proprio simbolo la falce e il martello, ossia i riferimenti simbolici tradizionali del movimento operaio (1985), giungendo poco dopo al 14,3% dei voti (1987). Le inchieste di tangentopoli, tuttavia, coinvolgendo esponenti socialisti locali e nazionali, aprirono una grave crisi nel partito; lo stesso Craxi ricevette un primo avviso di garanzia nel dic. 1992, dimettendosi da segretario nel febbr. 1993, sostituito da G. Benvenuto e poi da O. Del Turco. Nel 1994 il PSI, colpito da una pesante crisi finanziaria effetto della crisi politica, dovette abbandonare la sede di via del Corso e sospendere le pubblicazioni dell’Avanti!. Il 47° Congresso (nov. 1994) decise infine lo scioglimento del partito. Nacquero quindi due diversi soggetti politici volti a raccogliere l’eredità del PSI, i Socialisti italiani e il Partito socialista riformista, cui si aggiunse la Federazione dei laburisti di V. Spini. Intanto, a seguito della trasformazione del sistema politico in senso bipolare, la diaspora socialista si divideva tra i due schieramenti, e diversi ex dirigenti del PSI approdavano a Forza Italia (nello schieramento di centrodestra) o al Partito democratico della sinistra. Nel 1998 gli spezzoni del vecchio partito rimasti a sinistra diedero vita allo SDI (Socialisti e democratici italiani), con segretario E. Boselli, mentre la parte schierata col centrodestra, guidata da G. De Michelis, fondava il Nuovo PSI (2001-09). Dopo l’esperienza della Rosa nel pugno, nel 2007 lo SDI di Boselli avviò un percorso di ricostituzione di un Partito socialista unitario che raccogliesse la gran parte della diaspora; il congresso costitutivo si tenne nel luglio 2008, e nel 2009 il nuovo partito, con segretario R. Nencini, ha recuperato la denominazione di PSI.

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