Patrimonialismo

Enciclopedia delle scienze sociali (1996)

Patrimonialismo

Stefan Breuer

di Stefan Breuer

Patrimonialismo

Storia del concetto

Nelle scienze sociali il concetto di patrimonialismo deve il suo attuale significato alla sociologia del potere di Max Weber, ma le sue origini si possono far risalire almeno in parte al XVIII secolo. Il diritto territoriale prussiano del 1794 prevede la giurisdizione patrimoniale legata alla proprietà della terra (patrimonium); l'idea di una appropriazione privata di diritti in via di principio pubblici è anche alla base della dottrina dello Stato patrimoniale, quale viene sviluppata in alcune opere di giuspubblicistica del tardo Settecento presentandosi come una particolarità del diritto pubblico tedesco (v. Erler e Kaufmann, 1984, pp. 1547-1551).

Tale concezione viene ripresa da Carl Ludwig von Haller (v., 1816-1825), il quale sostiene che esistono storicamente tre tipi di Stati: quelli patriarcali, quelli militari e quelli spirituali. I primi, che sono i più diffusi, si sviluppano dal gruppo dei signori domestici-proprietari terrieri e derivano dalla proprietà originaria di un signore sulla terra. Attraverso un'estensione della loro indipendenza, tali signorie private si trasformerebbero poi in patriarcati e in Stati patrimoniali, i quali si differenziano dalla signoria fondiaria di tipo patriarcale solo per l'estensione, non per una specifica qualità giuridica (v. Haller, 1816-1825, vol. II, pp. 12 ss.; vol. III, p. 157).

Questa dottrina ebbe ampia risonanza nella giuspubblicistica tedesca del XIX secolo. Se autori come Eichorn e Stahl rifiutarono di definire lo Stato medievale come Stato patrimoniale, a molti altri tale concetto sembrò particolarmente appropriato per caratterizzare la natura dello Stato premoderno. Heinrich Leo, dapprima critico e poi ammiratore di Haller, applicò la teoria dello Stato patriarcale alle età preistoriche e la modificò interpretando lo Stato patriarcale come uno Stato privo di articolazioni interne. Nella sua Enzyklopädie der Staatswissenschaften (1859) Robert von Mohl formulò la distinzione tra Stato patriarcale, Stato patrimoniale, teocrazia, Stato classico, Stato di diritto e dispotismo, suddividendo poi lo Stato patrimoniale nei tipi dello Stato feudale, della monarchia militare feudale e della città-Stato dominante: una concezione, questa, che anticipava - non solo sul piano metodologico ma anche, in parte, nei contenuti - i tipi ideali successivamente elaborati da Weber. In forma limitata o modificata tali concetti si ritrovano nelle opere di Maurenbrecher (1837), di Waitz (1862) e di Gierke (1868), e furono altresì ripresi all'epoca di Weber, ad esempio da Hermann Rehm (1899) e da Otto Hintze (1907), il quale interpretò l'assolutismo prussiano di Federico Guglielmo I come un caso tipico di patrimonialismo (v. Below, 1925², pp. 17, 29, 31 ss., 208 ss.).

Nel frattempo, al principio del Novecento, si moltiplicarono le voci critiche. Nella sua Allgemeine Staatslehre Georg Jellinek (v., 1914³, pp. 197 ss.) sostenne che la dottrina che pone il fondamento dello Stato nei 'diritti reali' - la cosiddetta 'teoria patrimoniale' - è altrettanto inadeguata quanto quelle che individuavano tale fondamento nella famiglia o nel contratto (rispettivamente la teoria patriarcale e la teoria contrattualistica). Georg von Below (v., 1925², pp. 174, 312 ss.) rimproverò alla teoria di Haller di aver risolto lo Stato tedesco medievale in una somma di rapporti privati, riducendolo in questo modo a una semplice forma della società. Il dibattito trovò una conclusione provvisoria nel libro di Otto Brunner Land und Herrschaft (v., 1939, pp. 146 ss.), che respinse sia la dottrina dello Stato patrimoniale sostenuta da Haller, sia le tesi di Below basate sulla distinzione moderna tra diritto pubblico e privato in quanto interpretazioni anacronistiche rispetto al Medioevo, e prive di effettivi riscontri nelle fonti.

Il patrimonialismo nella sociologia del potere di Max Weber

Nell'opera di Max Weber il concetto di patrimonialismo fa la sua prima comparsa verso il 1910, in connessione con la stesura della Wirtschaftsethik der Weltreligionen e del Grundriss der Sozialökonomik. Qui Weber, analogamente a Haller, interpreta il patrimonialismo come un'evoluzione del patriarcalismo, il quale a sua volta viene definito come il tipo di potere di gran lunga più importante tra quelli che si fondano sulla 'autorità tradizionale' (v. Weber, 1916; tr. it., vol. I, pp. 255 ss.). Il potere patrimoniale sorge da una decentralizzazione della comunità domestica, quando il capofamiglia distribuisce tra i membri della sua casa terre e beni in amministrazione propria. Questo rapporto genetico viene sottolineato con particolare energia da Weber. Il capitolo sul patrimonialismo, del resto, si ricollega esplicitamente alle considerazioni sviluppate nella prima stesura di Wirtschaft und Gesellschaft sulla "evoluzione della comunità domestica", che sfocia in una articolazione interna di quest'ultima, nella sua trasformazione in oikos. "Lo sviluppo del dominio fondiario, con il suo apparato di uffici, sorge naturalmente dalla comunità domestica che si va organizzando come apparato di dominio sotto un padre che è il signore della casa - e procede quindi ovunque dal potere paterno" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 377). Se l'apparato sorto in tal modo è sufficientemente potente da assicurare la sottomissione di altri capifamiglia, allora il potere patrimoniale può diventare il fondamento di una formazione politica, di uno Stato patrimoniale (ibid., vol. II, p. 312).

La stretta relazione che Weber istituisce ancora in questa fase del suo pensiero tra patrimonialismo e patriarcalismo è dimostrata anche dal fatto che quest'ultimo concetto viene impiegato non soltanto per definire il potere domestico in senso stretto, ma anche per distinguere due diverse forme dello Stato patrimoniale: il 'patrimonialismo patriarcale', nel quale il principe esercita su altri capifamiglia lo stesso tipo di potere che esercita sulla propria comunità domestica, e il 'patrimonialismo di ceto', nel quale coloro che sono soggetti al dominio del signore dispongono di una più ampia autonomia, sono dominati solo 'politicamente', e non secondo gli schemi propri di un rapporto di signoria fondiaria (ibid., pp. 392, 410 ss.; v. Weber, 1973⁴, pp. 479 ss.).

Nella prima stesura di Wirtschaft und Gesellschaft, così come negli studi sulla Cina e sull'India, Weber presenta la relazione tra questi due poli come un'oscillazione ciclica. Il patrimonialismo tende verso il polo patriarcale ogni volta che il signore - come accade in quasi tutti gli Stati orientali frutto di conquiste - dispone di un apparato coercitivo legato alla sua persona e composto da schiavi, mercenari o beneficiari militari e quindi, forte di questa base di potere, impone ai sudditi una copertura 'liturgica' del fabbisogno, assicurandosi i tributi e i servizi che gli sono dovuti affidandone la riscossione a gruppi appositamente creati a tale scopo (v. Weber, 1922, tr. it., vol. II, pp. 311 ss., 322; v. Rösel, 1986).

Il patrimonialismo gravita invece intorno al potere cetuale in parte per la sua intrinseca tendenza entropica, in parte per una serie di limiti esterni. Ogni ampliamento del potere originario del signore si traduce immediatamente in un suo indebolimento. Per far valere le sue pretese all'obbedienza, il signore deve dotarsi di un apparato amministrativo. Egli deve insediare 'servitori' reclutati in modo patrimoniale o extrapatrimoniale come amministratori dei territori di nuova acquisizione, e al tempo stesso provvedere al loro sostentamento, di regola mediante la concessione di benefici di assegnazione, di benefici di emolumento o di benefici territoriali. Se già la separazione dei funzionari dalla comunità domestica implica un allentamento delle possibilità di controllo da parte del signore, tali possibilità si riducono ulteriormente quando i funzionari possono disporre di proprie fonti di approvvigionamento. L'apparato sviluppa allora un interesse all'appropriazione durevole e possibilmente ereditaria dei benefici e tenta di limitare il potere discrezionale esercitato dal signore. Questa tendenza alla 'stereotipizzazione' si rafforza ulteriormente quando una parte degli uffici pubblici viene conferita, per ragioni di opportunità politica, a proprietari terrieri membri del notabilato locale, i quali sono difficilmente controllabili dal potere centrale. In queste condizioni, la burocrazia patrimoniale assume rapidamente i caratteri di un'amministrazione satrapale, in cui lo Stato viene a configurarsi come un conglomerato di formazioni politiche particolari di fatto indipendenti e solo nominalmente unificate sotto un medesimo centro di potere (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, pp. 357 ss.).

Dopo la prima guerra mondiale Weber modificò questa concezione, non da ultimo per influsso dell'opera di Below sullo Stato tedesco del Medioevo. La critica di Below a Haller, diretta principalmente contro l'equiparazione tra patriarcalismo e Stato patrimoniale, indusse Weber a prendere a sua volta le distanze da tale equiparazione e a sottolineare in modo più deciso "l'assoluta separazione tra dominio domestico, personale e fondiario da un lato, e potere politico dall'altro" (lettera a Below del 21 giugno 1914, in Below, 1925², p. XXIV). Di conseguenza, nella versione finale della sociologia del potere (capitolo III di Wirtschaft und Gesellschaft) non si parla più di una variante patriarcale del patrimonialismo ma del 'patriarcalismo originario', quale principio strutturale connesso al gruppo domestico, e del 'patrimonialismo', quale forma di potere politico nella quale "la signoria giudiziaria e altri diritti di origine puramente politica vengono considerati come diritti privati" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 232). Il patrimonialismo, inoltre, si distingue dal patriarcalismo originario per la presenza di un apparato amministrativo gestito in modo puramente personale dal detentore del potere, caratterizzato dalla mancanza di una divisione delle competenze, di una gerarchia stabile, di un reclutamento regolato, di un sistema di avanzamenti di carriera, di una qualificazione professionale e di uno stipendio (ibid., p. 223).

Per quanto riguarda l'articolazione interna del tipo ideale, rispetto alla prima versione Weber apporta solo modificazioni terminologiche di scarso rilievo. Di regola il patrimonialismo rientra nell'ambito dei sistemi di dominio fondati sulla tradizione - vale a dire su un ordinamento simbolico definito sulla base di una credenza religiosa o di una concezione del mondo - e sui suoi portatori sociali. Quando tuttavia il signore riesce a costruire un apparato amministrativo particolarmente esteso e a legarlo saldamente alla propria persona, la sfera del suo arbitrio personale svincolato dalla tradizione tende ad ampliarsi. In questo caso il 'patrimonialismo puro' (Arnold Zingerle) si tramuta in una forma estrema, il 'sultanismo'. Quando invece l'apparato amministrativo riesce a sottrarsi al controllo del signore, si produce quello che Weber chiama 'patrimonialismo di ceto'. La sua forma estrema è il sistema beneficiario o il 'feudalesimo basato sui benefici', nel quale i mezzi dell'amministrazione passano interamente nelle mani dei membri dell'apparato, senza che tuttavia l'organizzazione statale del gruppo nel suo complesso venga sacrificata (ibid., pp. 226 ss.; v. Zingerle, 1972, pp. 46 ss.).

L'impiego attuale del concetto

Mentre Weber, sia nella prima che nella seconda stesura della sociologia del potere, applica il concetto di patrimonialismo a una gamma assai ampia di fenomeni storici (dall'Egitto dei faraoni all'assolutismo francese), oggi si è affermata la tendenza a delimitare il campo di applicazione di tale concetto. Rifacendosi a Haller, alcuni autori sono inclini ad avvicinare il patrimonialismo al patriarcalismo, definendo patrimoniali quei sistemi con un basso livello di articolazione interna, che rispondono tipicamente a un modello di 'mutamento non coordinato'. Dal punto di vista empirico rientrerebbero in questa categoria formazioni statali come quelle dell'antico Egitto, dell'Assiria e della Babilonia, l'Impero sassanide e quello carolingio, che gravitano attorno ad un oikos patriarcale (v. Eisenstadt, 1963, p. 10, e 1978). Sulla medesima linea si collocano le tesi di Pipes (v., 1974), secondo il quale la Russia tra il XII e il XVII secolo rientrerebbe a pieno titolo nella categoria dei sistemi patrimoniali. Al contrario, Stati come la Cina imperiale o gli Imperi induisti, che Weber ha classificato come formazioni politiche di tipo patrimoniale, non vengono più definiti in questo modo ma come "società storiche burocratiche" (Eisenstadt).

Un'altra delimitazione del concetto di patrimonialismo deriva dalla constatazione che i criteri definiti nella stesura finale della sociologia del potere sono applicabili solo a contesti sociali ed economici caratterizzati da un livello avanzato di sviluppo (v. Breuer, 1991, pp. 97 ss.). La possibilità di disporre di poteri di signoria intesi come "possibilità economiche appropriate a titolo privato" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 232) e l'ampliamento da parte del signore, per mezzo di un apparato amministrativo di tipo personale, della sfera del proprio arbitrio svincolato dalla tradizione, presuppongono infatti un allentamento di quei vincoli parentali, genealogici e rituali che costituiscono il fondamento delle società tribali e arcaiche e che derivano dal pensiero magico-mitico con i suoi principî strutturali dell'omologia e del continuum ontologico. Rispetto alle società tribali e arcaiche tale allentamento presuppone a sua volta un considerevole incremento della popolazione, un modello di insediamento più complesso, con nuovi sistemi di gravitazione attorno a un centro in cui lo scambio è organizzato in forma di mercato; ciò consente la sostituzione delle forme di appropriazione collettive o comunali con forme esclusive e 'private' di sfruttamento.

A ciò si accompagna una crescente concorrenza per risorse strategiche e di importanza vitale, che determina ulteriori trasformazioni sociali: la formazione di élites di proprietari terrieri, lo sradicamento di ampi strati della popolazione, la differenziazione della società in liberi e non liberi e l'aumento delle possibilità di accumulazione attraverso lo scambio di merci, l'economia monetaria, il prelievo fiscale e le conquiste militari. Soltanto questa decomposizione strutturale derivante dalla dissoluzione della 'società di rango' (Morton Fried) crea i presupposti per un regime patrimoniale: la proprietà privata dei mezzi di produzione, di amministrazione e militari da un lato, e un "livello relativamente basso di accesso autonomo alle principali risorse" (v. Eisenstadt e Roniger, 1980) dall'altro. In tal modo diventano possibili relazioni patrono-cliente le quali, a loro volta, costituiscono la premessa della formazione di apparati coercitivi personali che dipendono dal signore per il loro sostentamento. Nella recente antropologia politica il concetto generale con cui si designano tali processi è quello di 'stratificazione' (v. Fried, 1967, pp. 185 ss.).

L'affermazione del principio di stratificazione, peraltro, non produce soltanto gli elementi che costituiscono il fondamento 'esterno' del patrimonialismo, vale a dire l'organizzazione. Essa crea al tempo stesso i presupposti del suo fondamento 'interno', ossia la legittimità tradizionale. Mentre nelle società tribali e arcaiche la comunicazione si basa in ampia misura sulla 'empraxie' - vale a dire sulla funzione linguistica e comunicativa di azioni ed eventi - nei sistemi stratificati invece, in connessione con le esigenze dell'amministrazione politica e dello scambio di mercato, si affermano nuovi metodi di trasmissione delle informazioni e di formazione della memoria collettiva, basati sulla parola scritta. Il baricentro culturale si sposta da riti, monumenti e immagini a testi in cui dominano discorsi generalizzati. Di essi sono depositari i ceti sacerdotali, la cui esistenza implica a sua volta un certo grado di articolazione sociale. Solo quando in questo passaggio da forme di integrazione mediate dal rito a forme di integrazione mediate da testi scritti si formano istituzioni preposte al controllo dei testi e del loro significato, e che al tempo stesso ne assicurano la trasmissione alle generazioni future, si può parlare di una 'grande tradizione', intesa come una struttura di senso autonoma svincolata da situazioni ed eventi particolari (v. Assmann, 1992, pp. 269 ss.). Soltanto in questo contesto, inoltre, si può parlare con un certo fondamento anche di 'potere tradizionale', che unisce il detentore del potere e i sudditi in una fede comune nella sacralità dell'ordinamento di volta in volta canonizzato, e che fissa i confini entro i quali il signore può estendere la sfera del proprio arbitrio senza suscitare rivolte di tipo tradizionalistico.

Dal punto di vista storico-empirico tali presupposti si sono prodotti solo di rado. Per la grande maggioranza delle società il riferimento a un capo ha costituito il 'punto d'arrivo naturale' dello sviluppo generale (v. Mann, 1986, p. 39). Ciò non esclude ovviamente la possibilità di una considerevole accumulazione di potere nelle mani dei singoli capi i quali, in circostanze eccezionali, come nelle Hawaii, hanno potuto creare un proprio apparato coercitivo e assicurarsi il controllo delle risorse strategiche. Tuttavia, anche in questi casi estremi la coesione del sistema resta affidata a strutture parentali e rituali (v. Kirch, 1984, pp. 257 ss.). Poche società sono riuscite a fondare Stati come quelli arcaici sulla base di una monopolizzazione del carisma. Di regola, tuttavia, anche in essi mancava sia l'apparato coercitivo personale, sia una 'grande tradizione' fissata per iscritto. Anche in una formazione territoriale così estesa come il Regno inca il sovrano, sulla base di una prassi della divisione ereditaria che poneva tutti i beni materiali del suo predecessore al servizio del culto dei morti, doveva procurarsi di volta in volta una propria base di potere adeguata alla dignità regale (v. Conrad e Demarest, 1984, pp. 113 ss.).

Contrariamente all'opinione di Weber, dunque, sembra legittimo escludere gli stessi Stati arcaici - come il Regno inca o l'Egitto dei faraoni - dalla categoria degli Stati patrimoniali, a causa del loro carattere prevalentemente rituale. Anche in Mesoamerica, perlomeno sull'altopiano durante l'epoca post-classica, si possono individuare accenni di uno sviluppo verso il patrimonialismo, che rimasero però solo accenni, in quanto l'appropriazione privata era limitata alla nobiltà.

In questo modo si restringe in maniera considerevole il numero degli Stati patrimoniali. I primi esempi si possono ritrovare in Mesopotamia, dove già alla fine del III millennio si registra una dissoluzione dei gruppi parentali e una considerevole mobilità nel possesso della terra, che nel II millennio conduce all'istituzionalizzazione della proprietà privata. Abbastanza presto, di conseguenza, compaiono signori che impiegano manodopera dipendente per coltivare le loro grandi proprietà fondiarie e che finanziano con le rendite e con i bottini di guerra un seguito personale obbligato a prestare servizi sia civili che militari. Un analogo sviluppo parallelo di stratificazione e potere patrimoniale ha inizio in Cina sotto la dinastia degli Zhou orientali e conduce, alla fine del III secolo a.C., alla fondazione dello Stato unitario imperiale. In India, dopo il crollo dell'arcaica civiltà dell'Indo, nella regione del Gange-Yamuna si produce uno sviluppo analogo che culmina anch'esso, nel III secolo, nella formazione di un impero patrimoniale. Non tutti gli imperi hanno origine da Stati patrimoniali, come dimostra l'esempio dell'Impero greco-romano o di quello islamico. I grandi Stati premoderni, tuttavia, poterono affermarsi in modo durevole solo quando si diedero forme di organizzazione di tipo patrimoniale: è questo il caso delle monarchie ellenistiche, di Roma sotto il principato, del califfato abbaside e degli imperi turchi. Anche nell'Occidente medievale sorsero Stati patrimoniali, ma nessuno di essi riuscì a eliminare i propri concorrenti e a costituire un impero universale. Nella competizione tra Stati che ne risultò, Weber ha individuato un'importante forza propulsiva per la razionalizzazione specificamente occidentale del potere politico.

Patrimonialismo e neopatrimonialismo nel mondo moderno

Nel corso degli anni settanta, in parte sotto l'influenza di un fortunatissimo saggio di Günther Roth, nelle scienze sociali occidentali si affermò la tendenza a impiegare il concetto di patrimonialismo per analizzare Stati contemporanei di recente formazione (v. Roth, 1968; v. Eisenstadt, 1973). Ne derivò una serie di studi sui sistemi patrimoniali in Thailandia, in Indonesia, nell'Africa Nera, in America Latina e nel Vicino Oriente (v. Theobald, 1982; v. Clapham, 1982; v. Mansilla, 1990). A essi si accompagnano varie ricerche sul patrimonialismo e sul neotradizionalismo nei sistemi comunisti; apparati di tipo neopatrimoniale vennero individuati infine nello stesso sistema politico degli Stati Uniti (v. Jowitt, 1983; v. Walder, 1986; v. McCormick, 1990; v. Roth, 1987). Una interpretazione 'revisionistica' della sociologia weberiana del potere giunse alla conclusione che il patrimonialismo sarebbe un fenomeno riscontrabile in tutte le burocrazie e indispensabile al loro funzionamento, in quanto costituirebbe un necessario contrappeso di tipo personalistico rispetto agli orientamenti puramente oggettivi con i loro effetti potenzialmente alienanti (v. Rudolph e Rudolph, 1979).

Inteso in questa accezione così ampia, tuttavia, il concetto di patrimonialismo finisce per perdere la specificità storica che ancora possedeva in Weber. "Il patrimonialismo - sintetizza polemicamente Robin Theobald (v., 1982, p. 555) - viene impiegato per spiegare la coesione politica pressoché in ogni tipo di società; esso è diventato una sorta di concetto pigliatutto e rischia così di perdere la sua utilità analitica". Un tale pericolo può essere evitato solo se si riferisce il concetto di patrimonialismo al fondamento non soltanto 'esterno', ma anche 'interno' del potere patrimoniale, vale a dire all'organizzazione e alla legittimità. Se si definisce il patrimonialismo esclusivamente dal punto di vista dell'organizzazione, si arriva a strutture di tipo personalistico - in particolare relazioni patrono-cliente - che si ritrovano negli stadi più diversi dello sviluppo storico, e che non sono estranee neanche alle moderne burocrazie. Se invece si considera la legittimità quale ulteriore variabile, ne deriva quale criterio di delimitazione la 'sacralità', o come anche si potrebbe dire, l'immodificabilità delle norme fondamentali. Le tradizioni si definiscono innalzando barriere alla riflessione che fanno apparire un ordinamento come non modificabile. Certo, tali barriere ammettono un certo grado di contingenza nel dettaglio - il 'campo della discrezionalità e della grazia del signore' - e tuttavia non ammettono nessuna nuova creazione o trasformazione radicale.

Gli elementi di interpretazione e di 'invenzione' che intervengono sempre nella costruzione di un ordinamento tradizionale - e che non sono affatto pochi, come dimostrano  studi recenti (v. Hobsbawm e Ranger, 1983) - non possono manifestarsi come tali, ma devono riallacciarsi al patrimonio di norme preesistenti ed essere compatibili con esse. Ovunque infatti, come scrive Max Weber (v., 1922; tr. it., vol. II, p. 45), "in origine è completamente assente l'idea che possano venir create di proposito come norme delle regole fornite del carattere di 'diritto', cioè garantite dalla 'coercizione giuridica"'. Questa "coscienza-di-potere" (Christian Meier) si è affermata storicamente soltanto nell'antichità greca e quindi in Occidente agli inizi dell'età moderna, e da allora, perlomeno nei centri del moderno sistema-mondo, essa ha prodotto una razionalizzazione globale della religione, del diritto, dell'economia e, non da ultimo, anche del potere. Sulla base di questa razionalizzazione è ancora possibile il clientelismo, ma non un potere patrimoniale. È assai significativo che questa "coscienza-di-potere" sia penetrata in misura notevole anche nelle varie dittature postcoloniali finalizzate allo sviluppo e alla mobilitazione, sicché anche qui viene a mancare una caratteristica essenziale del patrimonialismo. Non è un caso, del resto, che alcune recenti ricerche sugli Stati dell'Africa Nera parlino ancora di clientelismo, di patronato e di sistemi politici di tipo beneficiario, ma al tempo stesso prendano sempre più le distanze dal concetto di patrimonialismo (v. Joseph, 1987, pp. 55 ss.; v. Crook, 1989).

(V. anche Feudalesimo; Stato).

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