Per una geografia dei cattolici in politica

Cristiani d'Italia (2011)

Per una geografia dei cattolici in politica

Maria Serena Piretti

Secondo un’inchiesta Eurispes condotta nel 2006, l’87,8% degli italiani si è dichiarato, ancora all’inizio del secolo XXI, cattolico. Il dato, si può dire, non fa notizia. L’Italia, infatti, è un paese di tradizione cattolica, ma il filo rosso che lega l’Italia alla Chiesa di Roma ha da sempre una valenza particolare.

La presenza dello Stato pontificio all’interno del territorio nazionale, la negata presenza dei cattolici in politica all’indomani dell’unificazione, la contrapposizione Stato-Chiesa e il difficile percorso che li ha portati col tempo a essere artefici della politica del paese sono tutti fattori che fanno dell’Italia un case study del tutto particolare tra le nazioni che vantano una tradizione cattolica.

Risuona bene, questa specificità, nelle parole che il governatore delle Romagne ancora nel lontano novembre 1859, durante le concitate fasi che precedettero l’unificazione, rivolse ai già sudditi dello Stato pontificio:

«Cattolici, voi appartenete alla Chiesa come i cattolici di tutte le altre nazioni, ma [...] come italiani, volete appartenere alla vostra Nazione. Voi volete appartenere all’Italia, volete amarla, difenderla e prosperarla con entusiasmo di sacrificio, e con carità di figliuoli. Questi nobili affetti sono posti da Dio stesso nell’anima nostra, come in quella di tutti i popoli, né può dirsi custode della morale e dell’ordine pubblico quel Governo che condannando l’amor di Patria e contrastando l’esercizio delle virtù pubbliche, riesce a distruggere anche le virtù private»1.

L’appello di Farini non fu vano. Al plebiscito, che si svolse nelle province dell’Emilia l’11 e il 12 marzo del 1860, di buon grado i cattolici, pressoché all’unanimità, lasciavano la signoria del pontefice optando per l’annessione al Piemonte sotto l’egida della casa sabauda2.

È qui che comincia, per i cattolici italiani, una strada che segue l’andamento di una parabola col vertice rivolto verso l’alto: essa parte cioè in salita, con la nota formula «né eletti né elettori»3, coniata fin dal 1861 da don Giacomo Margotti, continua con il non expedit, con cui si vietava ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche, trova il suo punto più alto il 18 aprile 1948, quando la Dc si afferma alle elezioni con una percentuale di voti che sfiora quasi la maggioranza assoluta4 e prende poi a scendere, fino a toccare il suo punto più basso con la diaspora della Dc, consumatasi il 18 gennaio 1994 con la formazione, sulle ceneri di quello che era stato il partito di maggioranza della Repubblica, di due nuove formazioni: il Partito popolare italiano e il Centro cristiano democratico5.

In questo saggio ci proponiamo di ripercorrere a grandi tappe questo cammino, scegliendo, come punto d’osservazione privilegiato, la metamorfosi geografica di quel movimento, sorto all’ombra del campanile che, alla ricerca di un suo spazio politico, si batté in alcuni casi anche all’interno dell’ambiente ecclesiale perché, senza fratture con la gerarchia, fosse possibile mettersi in gioco.

L’interrogativo dell’Italia liberale: ma i cattolici votano?

Fin dalle elezioni per l’ottava legislatura, in realtà la prima del regno, il sacerdote torinese don Giacomo Margotti aveva pubblicato sulle colonne del quotidiano «L’Armonia» l’invito, rivolto ai cattolici, a non andare a votare e a non farsi eleggere6. Tra le motivazioni, la volontà di non essere parte di una camera che, correva voce, volesse «compiere la spogliazione del S. Padre e dar opera a levargli anche la sua Roma». L’attacco era diretto sia ai democratici garibaldini che ai fedeli di Camillo Benso di Cavour, che contestavano il potere temporale del papato, con la tesi della separazione dei due poteri.

«Noi riteniamo che l’indipendenza del pontefice [sosteneva in particolare Cavour] la sua dignità e l’indipendenza della Chiesa, possano tutelarsi mercé la separazione dei due poteri, mercé la proclamazione del primato di libertà applicato lealmente, largamente ai rapporti della società civile colla religiosa. Egli è evidente, o signori, che, ove questa separazione sia operata in modo chiaro, definito e indistruttibile, quando questa libertà della Chiesa sia stabilita, l’indipendenza del papato sarà su terreno ben più solido che non lo sia al presente. Né solo la sua indipendenza verrà meglio assicurata, ma la sua autorità diverrà più efficace, poiché non sarà più vincolata dai molteplici concordati, da tutti quei patti che erano e sono una necessità finché il pontefice riunisce nelle sue mani, oltre al potere spirituale, l’autorità temporale»7.

La Chiesa, invece, si rifiutava di riconoscere quello Stato che era arrivato alla sua formazione, non ultimo, attraverso l’occupazione dei territori già appartenuti alla Chiesa medesima. Era questo il motivo che aveva spinto, prima nel 1868, la Sacra penitenzieria, poi, a partire dal 1874, in più occasioni lo stesso pontefice, a prender posizione contro la partecipazione dei cattolici alla vita politica di quello Stato, di cui ne veniva contestata la formazione e quindi la stessa esistenza8.

Ciò nonostante, che i cattolici si astenessero davvero nelle competizioni politiche è tutto da dimostrare. Valgano alcuni esempi. Giovanni Bortolucci, espressione tipica del cattolicesimo liberale, fu deputato eletto nel collegio di Pavullo, in provincia di Modena, ininterrottamente dal 1865 al 1880. La sua fedeltà alla Chiesa di Roma la si evince dal voto contrario, unico in tutta la regione, dato alla liquidazione dell’asse ecclesiastico nelle votazioni del 18 e 28 luglio 1867, e ancora dal suo non schierarsi con la destra quando Romualdo Bonfadini, uno dei leader moderati, presentò un ordine del giorno per l’approvazione della condotta del governo Menabrea, circa il raggiungimento, nella legalità, del programma politico di Roma capitale. Bortolucci continuò a candidarsi e a esser eletto anche dopo il 1870. Non è un caso che non registrasse particolare successo, proprio nel modenese, l’iniziativa lanciata dall’Opera dei congressi nel 1876, affinché tutti gli elettori cattolici inviassero a «L’Unità cattolica» di Torino i loro certificati elettorali per raccoglierli in un album da donare al pontefice al momento dell’apertura della legislatura9, a dimostrazione del loro ossequio alle direttive vaticane. Ma la percezione che i cattolici e in alcuni casi anche i loro pastori, in realtà, non avessero mai cessato di prendere parte alle elezioni emerge anche dalla corrispondenza, conservata presso l’Archivio segreto vaticano, tra Roma e le diocesi e relativa agli anni in cui, fattosi – almeno così sembrava – meno cogente il non expedit, con più insistenza si chiedeva ufficialmente da parte dei vescovi il placet vaticano per accedere alle urne. L’arcivescovo di Brindisi, per esempio, nel 1909 comunicava che, sebbene la sua scelta fosse per l’astensione, difficilmente i cattolici lo avrebbero seguito perché

«tanti sono impegnati e potrebbero compromettersi; tanti non si sono mai fatta coscienza di ciò [non expedit, N.d.A]; tanti sono legati o per parentela o per benefici ricevuti al Deputato uscente, il quale è un onesto cattolico, benché liberale»10.

A Bologna il vescovo, lo stesso anno, comunicava alla Segreteria di Stato che la situazione era di difficile gestione, dal momento che a lui risultava che nelle passate elezioni, quando il non expedit era pienamente in vigore, «non l’osservavano nemmeno tutti i preti»11.

Al di là del legittimo dubbio che l’astensionismo fosse prassi consolidata all’interno del mondo cattolico, resta il fatto che è con le prime elezioni dopo il passaggio del secolo che si incominciò, sulla stampa nazionale, a considerare, nella declinazione delle variegate appartenenze dei deputati, anche la definizione di ‘cattolico’. Ciò avvenne in concomitanza con le elezioni del 1904, quelle volute da Giolitti dopo il primo sciopero generale che aveva una chiara valenza politica, e fu proprio questa la competizione elettorale in cui la partecipazione di cattolici all’elettorato attivo e passivo ebbe quasi una veste ufficiale, dal momento che furono le frange più organizzate del movimento cattolico lombardo a far pressione su Roma per avere un placet alla discesa in campo nella competizione. Il placet in realtà non arrivò12, ma dall’ottobre di quell’anno circolò con insistenza la voce che «la materia del concorso alle urne politiche è rimessa alla discrezione dell’autorità ecclesiale locale»13. Fu così che, con le tre candidature vincenti nel quarto collegio di Milano e in quelli di Bergamo e Treviglio, s’incrinò per la prima volta il non expedit.

Nel quarto collegio di Milano, a fronte di una partecipazione elettorale pari al 58% degli aventi diritto, Carlo Medici Cornaggia ottenne il 51% dei voti validi; a Bergamo prese parte alla votazione il 60% degli aventi diritto, e votò per Giuseppe Piccinelli il 57%; a Treviglio i voti validi furono l’89% e Agostino Cameroni ne ottenne il 50%.

Nel febbraio 1905 il rimando ai vescovi, rispetto alle scelte in materia di partecipazione elettorale, sembrò assumere una veste di ufficialità. Al quesito posto dal vescovo di Brescia, volto a poter autorizzare i suoi fedeli a prender parte al voto, dal momento che ciò avveniva già nelle diocesi vicine, la Segreteria di Stato rispose:

«mi affretto a significarle che Sua Santità mantiene il divieto ai cattolici di accedere alle urne politiche: nondimeno, trattandosi di legge disciplinare, è ovvio comprendere che in qualche caso ne può essere sospesa l’applicazione. Spetta perciò ai cattolici di esaminare, sotto la scorta dei Vescovi, se si tratta di un caso eccezionale in cui la legge generale possa considerarsi sospesa in virtù delle norme generali che regolano la disciplina»14.

Si apriva così la strada per far uscire dall’ambiguità la posizione dei cattolici. Con le elezioni del 1909 si moltiplicarono le diocesi che aprirono a una partecipazione elettorale e la cartina geografica del radicamento politico dei cattolici, benché si presentasse ancora a piccole e rade chiazze di leopardo, era già indice che si stava allargando la presenza di un elettorato cattolico determinato a presentare propri candidati15.

Com’è possibile vedere dalla cartina, gli insediamenti del voto cattolico erano particolarmente concentrati nell’area del lombardo-veneto, ma risultati apprezzabili incominciavano a registrarsi in Emilia Romagna e un’affermazione di bandiera la si ebbe anche in Campania e in Sicilia.

Già da queste prime elezioni è possibile, in base alla presentazione politica delle candidature fatta dalla stampa del tempo16, mettere in evidenza come, al di là della conquista dei seggi, i cattolici entrassero nella competizione elettorale in diversi altri collegi del Nord e in alcune aree del Centro e del Sud17.

La loro lotta appariva più che mai diretta a fermare l’avanzata dei partiti dell’estrema sinistra ovvero radicali, repubblicani e socialisti. Non è senza significato che nel 68% dei collegi dove ottenne la maggioranza un candidato di estrazione cattolica la battaglia fosse stata avviata per sconfiggere proprio i partiti considerati ‘antisistema’. Per certi aspetti, già osservando l’andamento delle elezioni dove il candidato cattolico non era riuscito a conquistare il seggio, si può prefigurare l’asse che il futuro presidente dell’Unione elettorale cattolica18 avrebbe di lì a poco avviato: nel 63% dei casi in cui il cattolico risultò sconfitto, l’affermazione andò infatti a vantaggio d’un candidato dell’area di governo. Del resto, che fosse già in uso la pratica di accordi volti a far confluire sui candidati moderati i voti dei cattolici lo testimonia la dichiarazione rilasciata da Domenico Valenzani il 18 febbraio di quell’anno, a distanza di circa un mese dallo svolgimento delle elezioni.

«A seguito del colloquio che la Vostra Eminenza si è benignato oggi accordarmi ho l’onore di confermare che, se sarò eletto Deputato al Parlamento Nazionale, manterrò quello che nei discorsi da me tenuti nei vari paesi del Collegio di Albano Laziale ho sempre affermato: il rispetto più assoluto al sentimento religioso delle popolazioni laziali. Per conseguenza, voterò contro la legge del divorzio e contro qualsiasi legge restrittiva della libertà della Chiesa, del Culto pubblico e delle Congregazioni religiose, e propugnerò l’insegnamento religioso nelle scuole elementari. In generale non darò il mio voto a progetti di legge che offendano la coscienza e il sentimento dei miei elettori cattolici. Particolarmente grato all’Eminenza Vostra della benevolenza dimostratami ho l’onore di professarmi dell’Eminenza Vostra devotissimo»19.

Sgabello dei liberali

La nomina del conte Vincenzo Ottorino Gentiloni al vertice dell’Unione elettorale cattolica doveva servire a ridirezionare la presenza dei deputati cattolici in parlamento. Da Roma si temeva infatti che l’allargarsi di una deputazione cattolica alla camera potesse alimentare il disegno di costituire, sul modello tedesco del Zentrum, un partito cattolico che avrebbe rappresentato il tacito superamento della ‘questione romana’20 e implicitamente cancellato ciò che rimaneva del potere temporale. In questa logica era dunque necessario prima di tutto emarginare quel movimento che, cresciuto nell’astensione, riteneva tuttavia questa una fase transitoria che avrebbe dovuto essere superata per preparare i cattolici a entrare in politica in nome proprio e non per sostenere il programma dei moderati. Per fare questo era necessario mettere in piedi una struttura dell’Unione, capace di esercitare un controllo del voto cattolico sull’intero territorio nazionale. Infine, ma non per importanza, si dovevano trovare punti di convergenza con il governo e con i prefetti al fine di condurre una comune battaglia contro l’avanzata, sempre più preoccupante sia per la Chiesa che per il ministero, delle forze radicali e socialiste.

Il lavoro di Gentiloni ebbe inizio quasi in concomitanza con l’avvio del dibattito intorno alla riforma del suffragio che si era aperto in Parlamento, promotore Giovanni Giolitti, nel 1909. Ebbe un’accelerazione quando quest’ultimo prese la piega dell’allargamento e da più parti s’incominciò a parlare di suffragio universale maschile21. Il timore dell’immissione nel corpo elettorale di quelle aree che erano politicamente al seguito dei partiti antisistema diede tuttavia contemporaneamente fiato alla contrapposizione tra chi si batteva per la presenza di una deputazione cattolica in Parlamento e chi invece vedeva nelle alleanze a supporto delle candidature liberali la soluzione del problema22.

Gentiloni, fautore, con il sostegno vaticano, di questa seconda linea, cercò di perseguirla sgombrando il campo dagli oppositori nel consiglio dell’Unione23 e allontanando da lui quella piccola deputazione cattolica alla ricerca, invece, di una strategia comune con l’Unione. Non è un caso che, quando fu evidente che la camera sarebbe stata sciolta, alla richiesta di diversi cattolici-deputati di conferire con lui, la risposta di Gentiloni fu sempre volta a sottolineare le due posizioni assolutamente diverse e senza possibilità d’incontro tra l’Unione e i cattolici-deputati uscenti.

«Io risposi categoricamente [ricorda Gentiloni] che intendevo che l’Un. Elett. Cattolica si mantenesse affatto estranea a quello che i cattolici deputati intendevano fare di fronte alla situazione dei loro collegi, che io non avevo né consigli né lumi da dare, e che proseguivo l’opera mia silenziosa e pratica fin’ora espletata»24.

L’opera di Gentiloni si mantenne dunque tutta centrata verso la costruzione di un blocco clerico-moderato che doveva lasciare la guida del sistema nelle mani di quei liberali che avessero accettato di scendere a patti con l’Unione. Punto centrale di questa strategia fu il noto eptalogo25, ovvero l’elenco di quei punti d’interesse della Chiesa che diversi liberali, bisognosi dei voti dei cattolici, per non correre rischi nella loro elezione, accettarono in modo più o meno formale di garantire.

La dimensione della rete costruita da Gentiloni apparve chiara all’indomani delle elezioni del 1913. Secondo le stesse dichiarazioni rilasciate dal presidente dell’Unione al «Giornale d’Italia», su 330 collegi era stato tolto il non expedit; il voto cattolico aveva contribuito in 230 collegi all’affermazione del candidato sostenuto, mentre in 100 i voti cattolici non erano stati sufficienti per la vittoria26. Era la dimostrazione tangibile che i cattolici erano una forza, e che da questo momento il loro peso in politica non avrebbe più potuto essere ignorato.

Se la deputazione dei cattolici-deputati tornava in Parlamento rafforzata rispetto al 190927, il voto dei cattolici aveva pesato ben di più. Era stata infatti la rete costruita da Gentiloni in accordo con i liberali, come mostra la cartina dei collegi ‘gentilonizzati’, che aveva permesso alla deputazione liberale di passare le forche caudine del suffragio quasi universale senza che questo producesse mutamenti profondi nella composizione della deputazione nazionale. Il tanto temuto salto nel buio non c’era stato, come mostra il livello di turn over (32,9%) sostanzialmente nella media con le elezioni precedenti28. Si trattava ora di capire che cosa avrebbero fatto i cattolici-deputati, consapevoli che si era ormai di fronte a un bivio: o seguire pedissequamente la nuova versione, messa in atto da Gentiloni, dell’intransigentismo cattolico, o uscire allo scoperto e puntare sulla costruzione di un partito accettando, dove ci si trovava a operare, il nuovo contesto della democrazia di massa29.

Solo Gentiloni e la vecchia guardia negavano il problema sottolineando che non solo non esisteva un gruppo cattolico alla camera30, ma consideravano la stessa affermazione un’assurdità31; sul versante opposto la giovane generazione, maturata intorno alle istanze del cattolicesimo sociale, vide invece nelle elezioni del 1913 una profonda ambiguità e in quanto tale auspicò che si arrivasse a una svolta. In modo cauto Filippo Meda, uno dei primi cattolici-deputati, proprio intervenendo nel dibattito, avviato dalle dichiarazioni di Gentiloni, sottolineò:

«Io credo oggi più che mai ciò che ho sempre creduto; che cioè in Italia la esistenza di una organizzazione dei cattolici non sia solo necessità per la difesa religiosa, ma anche per la normale e progressiva evoluzione della vita nazionale»32.

Più determinata la reazione di Luigi Sturzo che, già di fronte alle amministrative del 1914, invitò i cattolici a uscire allo scoperto:

«È meglio essere che non essere; contarsi una buona volta, anziché rimanere un numero incerto ed equivoco […]. Se i nomi non sono forti […] son sempre gli attuali esponenti del nostro partito. Coraggio ci vuole, e col coraggio si superano le difficoltà. Questo è il mio parere […]. I socialisti hanno cominciato la loro vita politica con le semplici e minuscole affermazioni»33.

A tutti gli uomini liberi e forti

Il 18 gennaio 1919 Sturzo lanciò il programma politico del Partito popolare italiano34, chiamando a raccolta tutti coloro che «liberi e socialmente evoluti», uniti «nell’amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo», tutti coloro che «apprezzano e rispettano le virtù morali del nostro popolo»35. A tutti costoro Sturzo chiese l’adesione al nuovo partito: l’intento dunque non era tanto quello di costituire il partito dei cattolici, ma di dar forma politica a coloro che si riconoscevano in un programma che vedeva in posizione centrale anche gli interessi dei cattolici e della Chiesa36. Era questo, per Sturzo, il modo più lineare per uscire dall’ambiguità del clerico-moderatismo. E contestualmente alla costruzione del partito, la prima battaglia in cui impegnò i suoi compagni di strada fu quella a favore dell’introduzione del sistema proporzionale nelle elezioni politiche, l’unico sistema che poteva davvero, a suo avviso, fotografare e pesare la forza dei cattolici37 in politica.

Le elezioni del 16 novembre 1919, si svolsero dunque, grazie anche ai popolari, con il nuovo sistema e videro il riconoscimento dell’accesso alle urne per tutto l’elettorato maschile38 che avesse compiuto i 21 anni. Per la prima volta la traduzione dei voti in seggi si fece attraverso lo scrutinio dei voti di lista. Assumendo il Partito popolare come rappresentativo di coloro che si riconoscevano in quel programma che, come abbiamo ricordato, poneva al suo centro la libertà per la Chiesa e per «l’esplicazione della sua missione spirituale nel mondo», è possibile definire da un punto di vista geografico un primo dato sul radicamento territoriale del cattolicesimo politico39.

Avvalendosi dell’appoggio delle parrocchie, le liste del Ppi vennero presentate in tutti i collegi tranne tre: Chieti e Teramo negli Abruzzi e Potenza in Basilicata. L’affermazione fu imponente: i popolari mandarono alla Camera 100 loro rappresentanti. Risultarono il primo partito negli storici feudi del movimento cattolico in Lombardia nei collegi di Bergamo e Brescia, nel Veneto in quelli di Padova, Treviso e Vicenza; ancora, si aggiudicarono il primo posto nel collegio di Cuneo in Piemonte, in quello di Lucca e Massa Carrara in Toscana ed in quello di Roma nel Lazio. Le aree dove storicamente si era consolidato l’associazionismo cattolico, dove le Leghe bianche avevano le loro radici si dimostrarono le più sensibili alla proposta politica dei popolari40. Più faticosa fu invece la loro affermazione nelle regioni centrali e meridionali.

Quella del 1919 non fu tuttavia una vittoria isolata. Quando, appena a distanza di 18 mesi, nel maggio del 1921, Giolitti volle si ritornasse a votare con l’auspicio di far ritornare in auge la leadership liberale, il Partito popolare, come si può vedere, migliorò quasi ovunque il proprio consenso41.

Fu invece l’avvento del fascismo tra il 1921 e il 1922 e la strenua battaglia che Mussolini diede in Parlamento per modificare la legge elettorale e assicurare, attraverso un iniquo premio di maggioranza, che un partito, ancorché minoritario, potesse guidare il paese, a fiaccare la forza del popolarismo sturziano.

Durante il dibattito sulla legge Acerbo, quella legge che doveva assicurare, se approvata, che il partito di maggioranza relativa, che avesse raggiunto, a livello nazionale, almeno il 25% dei voti, si aggiudicasse i due terzi dei seggi della camera, i popolari si divisero. Il primo a sfilarsi fu Filippo Meda, che in una lettera fatta circolare nel luglio 1923, prima della votazione della legge, sostenne «in forza della contingenza del momento, di ritenere opportuno non ostacolare il passaggio all’esame degli articoli di legge»42. I secondi furono Ernesto Vassallo e Stefano Cavazzoni. Quest’ultimo nella sua dichiarazione di voto fece la sua professione di fede nei confronti del governo in carica: le sue parole diedero il senso della frattura che si stava consumando all’interno del partito e aprivano la strada a quel clerico-fascismo che avrebbe affiancato il Partito nazionale fascista lungo tutto il ventennio.

La fine dell’unità del partito e la venuta meno della leadership di Sturzo, portato alle dimissioni dalle pressioni vaticane43, incisero sulla capacità di tenuta del popolari44.

Nonostante le violenze fasciste che condizionarono lo svolgimento delle elezioni, i popolari, pur perdendo poco più dell’11% dei voti, rispetto alle elezioni del 1921, si riconfermavano come secondo partito: nel 1919 li avevano battuti i socialisti, ora dominavano i fascisti. Al di là della deriva che si apriva davanti al paese, i popolari confermavano una buona affermazione nelle storiche aree del Veneto e della Lombardia, il che significava che là dove il cattolicesimo politico aveva radici lontane nel tempo, il partito aveva retto anche di fronte al passaggio alla Lista nazionale, guidata da Mussolini, di alcune sue figure di riferimento, quali il già ricordato Cavazzoni, Tovini, Mattei Gentili, Boncompagni-Lodovisi, Martire, Vassallo e Padulli.

I cattolici primo partito della Repubblica

Al momento del crollo del fascismo, il 25 luglio 1943, i partiti, usciti dalla scena politica con le leggi fascistissime, travolti dall’avvio della dittatura, si riproposero alla guida di quella transizione che avrebbe dovuto traghettare il paese verso il ritorno alla democrazia.

Entrati in clandestinità negli anni del regime, i popolari, non dimentichi del loro programma politico, furono pronti a riprenderlo quando il paese avesse nuovamente trovato la via della legalità. Erano, tuttavia, alcune aree del mondo ecclesiale, soprattutto quello che gravitava attorno all’Università cattolica, che avevano lavorato, negli anni Trenta, per preparare una nuova classe dirigente in grado, quando se ne fosse presentata l’opportunità, di proporsi alla guida dello Stato. Fu, non a caso, dall’incontro dell’area del vecchio popolarismo con i ‘professorini’ dell’Università cattolica, che De Gasperi, il leader che era succeduto a Sturzo alla guida del Ppi, arrivò alla stesura di un documento, Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana, che servì come strumento di aggregazione e di avvio della costruzione di un nuovo partito che assunse la stessa denominazione che aveva avuto, nei primi anni del Novecento, il gruppo della «Cultura sociale» di Romolo Murri. Le idee ricostruttive furono elaborate tra il 1942 e il 1943. Il programma che era stato delineato45 aveva un impianto riformista, con una profonda attenzione al sociale. Ancora una volta la scelta fu di scendere in campo senza costituire un partito confessionale, ma un partito che comunque ponesse al centro del suo progetto i valori cristiani.

«Consapevoli che un libero regime sarà saldo solo se fondato sui valori morali, lo Stato democratico tutelerà la moralità, proteggerà l’integrità della famiglia e coadiuverà i genitori nella loro missione di educare cristianamente le nuove generazioni. Questa stessa nostra tremenda esperienza conferma che solo lo spirito di fraternità portato e alimentato dal Vangelo può salvare i popoli dalla catastrofe a cui li conducono i miti totalitari. È quindi particolare interesse della democrazia che tale lievito cristiano fermenti in tutta la sua vita sociale, che la missione spirituale della Chiesa Cattolica si svolga in piena libertà, e che la voce del Romano Pontefice, levatasi così spesso in difesa della dignità umana, possa risuonare liberamente in Italia e nel mondo. Contro ogni intolleranza di razza e di religione, il regime democratico serberà il più riguardoso rispetto per la libertà delle coscienze. È in nome di essa, oltreché per le tradizioni del popolo italiano, che lo Stato riconosce efficacia giuridica al matrimonio religioso e assicura la libertà della scuola che può essere mortificante strumento di partito»46.

Che la Democrazia cristiana avrebbe giocato un ruolo centrale nella politica del paese apparve in modo chiaro fin dai dibattiti per definire la leadership del governo all’indomani del 25 aprile 1945. I cattolici avevano avuto un ruolo attivo non solo nella resistenza al nazifascismo che aveva insanguinato l’Italia del centro-nord nel 1944 e nel lungo inverno del 1945, ma forte era stata la loro presenza anche all’interno dei governi del Comitato di liberazione nazionale, guidati da Ivanoe Bonomi. All’indomani della fine della guerra, dopo il primo convergere su una figura storica della Resistenza, il partigiano Maurizio ovvero Ferruccio Parri, del Partito d’azione, la guida del governo passò, nel dicembre, nelle mani di Alcide De Gasperi.

Fu sotto la guida del primo governo retto da un democristiano che il paese riassunse la forma di un paese democratico e la convocazione dei comizi elettorali per la definizione della composizione dell’Assemblea costituente fu il segnale che la strada della ricostruzione era stata intrapresa anche sul versante delle istituzioni.

La campagna elettorale, centrata in larga parte sulla scelta istituzionale che sarebbe stata espressa dal referendum popolare, mise in evidenza l’impegno delle forze politiche che si erano messe alla guida del paese e i loro disegni rispetto al progetto di costruzione del nuovo Stato47. La Democrazia cristiana pur avendo nel suo gruppo dirigente una posizione decisamente favorevole alla repubblica, preferì non dare indicazioni di voto al proprio elettorato lasciandolo libero di votare sia per la monarchia che per la repubblica, nella convinzione che sarebbe stato il contenuto della nuova Carta costituzionale a definire se il paese avrebbe scelto la via di una democrazia progressista o quella invece di una democrazia conservatrice.

Com’è noto i comizi elettorali furono convocati per il 2 giugno 1946. L’affluenza alle urne fu altissima, l’89% degli elettori prese parte alla votazione, la regione che si distinse per aver toccato la punta massima della partecipazione fu l’Emilia Romagna con il 92,5% di elettori. Mentre il referendum istituzionale rimandava l’immagine di una nazione drasticamente divisa in due parti, l’elezione per l’Assemblea costituente poneva alla guida della ricostruzione tre partiti: la Dc, lo Psiup e il Pci48.

Contro ogni previsione, l’affermazione della Dc all’interno del tripartito fu netta: la Democrazia cristiana superava di 14,5 punti percentuali i socialisti e di 16,3 i comunisti, aveva la maggioranza in 26 circoscrizioni su 31 anche se diversa era la legittimazione su cui poteva contare al loro interno. Guardando la distribuzione dei voti era possibile intravedere come l’antico radicamento del movimento cattolico nel lombardo veneto avesse, nonostante tutto, resistito alle temperie del fascismo49.

Complessivamente, i tre partiti con un seguito davvero di massa godevano del consenso del 75% dell’elettorato e questo portò all’indomani dell’insediamento dell’Assemblea costituente alla fine dei governi ciellenisti e alla formazione, nel breve periodo, di un governo fondato su Dc, Psiup e Pci50.

Lo scenario internazionale di un mondo diviso in due blocchi, prima ancora del disegno di ‘democrazia progressiva’ sostenuto dalle sinistre, generò tuttavia, nel maggio 1947, quella crisi che vide la politica italiana piegare verso il disegno degasperiano del centrismo. Più la politica del governo piegava verso il centro, più ci si allontanava da quell’alleanza costruita sul ‘fascismo come nemico’ che era stata il comune denominatore degli anni del Cln. La profonda contrapposizione Est-Ovest, il clima della guerra fredda fecero il resto: il nemico di fronte al quale andavano serrate le fila diventò nel giro di breve tempo il Pci, la cosiddetta quinta colonna del potere sovietico.

Le prime elezioni dopo la proclamazione della Repubblica, messe in calendario per il 18 aprile 1948, furono preparate con il contributo decisivo dei ‘comitati civici’ di Luigi Gedda, tra un turbinio di manifesti e un’ironica satira che gli avanzati studi americani sulla psicologia elettorale contribuirono a costruire51. La paura del ‘rosso’, l’incognita che un avanzamento delle sinistre avrebbe potuto rappresentare, fu l’antidoto più efficace. Il noto slogan «nella cabina Dio ti vede Stalin no» produsse il risultato sperato. Aperte le urne, il dato che emerse in modo netto fu la conferma che, al di là del quadro pluripartitico che emergeva dalla scheda, due sole erano in realtà le forze politiche antagoniste in grado di competere tra loro: Dc e Fronte del popolo52, ma mentre la prima migliorava i suoi risultati di ben 13 punti percentuali, comunisti e socialisti, che nel 1946 avevano registrato un consenso complessivo del 39,6%, ora, nella nuova veste unitaria, dovevano accontentarsi di un 31% e in larga parte il risultato era il frutto della pesante emorragia dei voti socialisti53.

Il riconoscimento tributato alla Dc come unico partito in grado di alzare la barriera contro l’avanzata del comunismo aveva portato ottimi risultati in tutte le circoscrizioni54.

Dalla distribuzione dei voti sul territorio nazionale emergeva in modo netto come la politica volta a individuare nelle sinistre il comune nemico aveva di fatto azzerato tutte le altre potenziali opposizioni55, la Dc confermava il suo insediamento nell’area del Nord-Est, ma si affermava con larghi margini anche nel Centro-Sud, in aree dove mai nell’Ottocento e nei primi anni dopo la fine della Grande guerra, aveva goduto di margini apprezzabili di seguito politico.

La crisi degli anni Cinquanta

Gli anni Cinquanta si aprirono sotto il segno di una profonda crisi tra Est e Ovest generata dalla guerra sul fronte coreano56 che dilatò, oltre ogni misura, la percezione del pericolo rappresentato da quelle che, nel clima teso di quegli anni, venivano ritenute mire espansionistiche dell’Unione Sovietica57. Gli effetti si fecero immediatamente sentire anche sul fronte occidentale dove, nei paesi a più alta densità delle forze comuniste furono promossi interventi volti a ‘blindare’ la democrazia58. In Italia, dove le elezioni amministrative svolte nel 1951 e nel 1952 avevano evidenziato un netto calo dell’elettorato democristiano a favore di una riemersione delle forze di destra rappresentate dal Partito monarchico e dal Movimento sociale italiano59, venne promossa dalla Democrazia cristiana una modifica in senso maggioritario della legge elettorale che portò il paese, nel giro di pochi mesi, sull’orlo di una guerra civile. La ‘legge truffa’, come fu immediatamente battezzata dalle sinistre, doveva dare al partito o ai partiti apparentati, che avessero raggiunto con i loro voti una legittimazione pari al 50% più uno dell’elettorato, il 65% dei seggi all’interno della camera. Questo avrebbe permesso al o ai partiti dell’alleanza di governare senza il timore di incursioni da parte delle opposizioni. La battaglia, che culminò nel giorno dell’approvazione della legge in uno scontro, non solo verbale, all’interno dell’aula del Senato60, continuò poi nella campagna elettorale che precedette le elezioni del 7 giugno. Mentre le sinistre accusavano i partiti di governo e in particolare la Dc di malgoverno e di corruzione coniando, per definirli, l’appellativo di ‘forchettoni’, la Dc per contro richiamava il collegamento dei comunisti italiani con Mosca agitando le ‘forche’ che, all’inizio degli anni Cinquanta, avevano insanguinato il regime sovietico e i paesi suoi satelliti nell’assurda battaglia intrapresa da Stalin contro un’immaginaria congiura ebraica.

Nonostante il clima di profonda tensione, le elezioni si svolsero senza particolari incidenti: l’affluenza crebbe di 1,6 punti percentuali passando dal 92,2% del 1948 al 93,8%61.

Al momento dell’apertura delle urne, la battaglia riprese ponendo l’un contro l’altro scrutatori e rappresentanti di lista dei diversi partiti: altissima, pari cioè a 4,6 punti (34.000 in termini reali), fu la percentuale di schede annullate. I partiti apparentati furono votati dal 49,2% dell’elettorato. A impedire il raggiungimento della maggioranza assoluta contribuirono, oltre all’alto numero di voti nulli, anche la formazione di due gruppi secessionisti, Alleanza democratica nazionale e Unità popolare, rispettivamente dell’area liberale e dell’area repubblicana, che non avevano approvato l’apparentamento dei loro partiti con la Dc62. La Dc recuperava rispetto al calo registrato nelle amministrative, ma ugualmente perdeva 8,4 punti percentuali63. Non migliori le sorti dei partiti apparentati che tornavano alla Camera con una rappresentanza a ranghi ridotti64. La prospettiva di ‘blindare la democrazia’ era fallita, ma ora anche il centrismo degasperiano era a rischio. Nonostante questo la Dc, pur continuando a essere capofila in tutte le circoscrizioni, eccetto quelle dell’Emilia Romagna e quelle toscane di Firenze-Pistoia e Siena-Arezzo-Grosseto, registrava grandi perdite che in alcuni casi andavano oltre i 15 punti percentuali: solo nelle circoscrizioni, tradizionalmente controllate dal Partito comunista, l’elettorato democristiano era rimasto davvero fedele, evidenziando un calo che non superava la soglia dei 3 punti percentuali65.

L’operazione, che era stata condotta per proteggere la democrazia, restituiva così, invece, un paese a più alto rischio, con un quadro politico tripolarizzato, in cui le opposizioni erano da un lato ritenute quinte colonne del sistema sovietico, dall’altro fuori dall’arco dei partiti costituzionali. De Gasperi, che era stato il regista, pagò per tutti e il suo tentativo di ricostituire un governo mantenendo ferma la barra al centro si vide negare la fiducia con un voto contrario espresso, prima di tutto, proprio dai partiti già appartenenti all’area di governo. Nel 1954, a un anno di distanza dagli eventi, la sua morte improvvisa portò alla guida della Dc Amintore Fanfani, che promosse, nella volontà di rendere più solido il partito, una sua riorganizzazione.

La seconda metà degli anni Cinquanta si protrasse nella ricerca di una formula di governo che permettesse al paese di andare oltre l’ormai logora formula del centrismo. Tuttavia mentre Nenni, il leader dei socialisti continuava a suonare le sirene di un’apertura a sinistra che agganciasse al centro il Psi, la Dc continuava a vedere come suoi partner privilegiati i partiti miniori dell’area laica.

Molti erano i segnali di mutamento che provenivano dal quadro internazionale: Stalin era morto nel 1953, il nuovo leader Nikita Chruščëv al XX congresso del Pcus, nel 1956, aveva condannato i metodi staliniani. La nuova linea politica che sembrava emergere nei rapporti Est-Ovest non era più quella della ‘guerra inevitabile’, ma quella della ‘coesistenza pacifica’. Nonostante questo, in Italia la prospettiva di un vero spostamento al centro dei socialisti divenne credibile solo dopo che apparve chiara la scelta autonomista di Pietro Nenni fatta al congresso del 1956, a cui fece seguito la denuncia del patto di unità d’azione socialisti-comunisti.

In questo quadro, che vedeva avvicinarsi la fine della seconda legislatura, Fanfani cercò di richiamare a raccolta l’elettorato democristiano assicurando che il partito non avrebbe intrapreso pericolose avventure a sinistra e, contro le istanze degli aperturisti, lanciò una campagna elettorale che pose al suo centro lo slogan: «Non ci sono alternative democratiche»66. Le elezioni del 1958 furono dunque di fatto elezioni di transizione, con la Dc impegnata a recuperare il terreno perso il 7 giugno 1953 e le sinistre impegnate a continuare il lento cammino di erosione delle forze di governo.

I risultati delle elezioni non premiarono né gli uni né gli altri67 con una Dc che guadagnava 2,3 punti percentuali e il Pci che avanzava solo di 0,1 punti.

Il centro-sinistra costa

Il risultato neutro delle elezioni del 1958 fece sì che la III legislatura repubblicana prendesse avvio all’insegna delle formule usuali che si alternavano tra monocolori e alleanze con i partiti minori. Fu solo la crisi generata dalle alterne vicende del governo Tambroni68, nel 1960, ad accelerare quella necessità di cambiamento che era da tempo nell’aria. Ancora una volta fu però il mutato quadro internazionale a favorire l’avvio del cambiamento: se da un lato la leadership sovietica di Chruščëv aveva continuato a muoversi lungo la strada intrapresa della distensione, l’avvicendamento tra Dwight D. Eisenhower e John Fitzgerald Kennedy, che mandava un democratico alla Casa Bianca, fece sì che anche negli Stati Uniti fosse accantonata la tesi che vedeva, nell’allargamento a sinistra del governo italiano, i socialisti nelle vesti del fantomatico ‘cavallo di Troia’ che avrebbe, in un futuro imprecisato, aperto le porte del governo alle forze comuniste69. A dar avvio all’operazione fu il nuovo leader della Dc, Aldo Moro, succeduto a Fanfani nel 1959 alla guida del partito. Fu Moro a condurre a piccoli passi, nonostante la ferma opposizione della Chiesa70, le trattative per uno spostamento dell’asse del governo a sinistra che avrebbe dovuto preludere all’inserimento, a pieno titolo, dei socialisti nella compagine governativa. Nel corso del 1960 il Psi, alla presentazione del III governo Fanfani, non votò contro, ma si astenne71: era il segnale che preludeva alla formazione delle prime giunte di centro-sinistra nelle amministrazioni locali72. Nel marzo del 1962, il IV governo Fanfani, formato dall’alleanza tra Dc, Psdi e Pri si formò grazie alla sola astensione socialista. Fu da qui che prese avvio, in una formula di centro-sinistra ancora ‘inorganico’, il programma riformista che avrebbe dovuto caratterizzare l’apertura ai socialisti. I segnali non si fecero attendere. Nel corso dell’anno vennero approvate la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma della scuola media inferiore con l’introduzione di quella unificata, ma fu la Nota aggiuntiva al bilancio del 1962, presentata da Ugo La Malfa, a far suonare i campanelli d’allarme. Dalla nota, infatti, veniva un chiaro segnale: il governo si sarebbe dovuto avviare lungo una strada di profonde riforme, prima di tutto in campo economico, che avrebbero dovuto coniugare insieme sviluppo e interventi sociali. Anche nella Chiesa, intanto, il vento stava cambiando. Nell’aprile 1963, quando già era in corso il concilio Vaticano II voluto da Giovanni XXIII, proprio dal Pontefice arrivarono parole in cui era possibile leggere un sostegno alla strada intrapresa da Moro. Nell’enciclica Pacem in terris si affrontava infatti anche il tema dei rapporti tra cattolici e non in campo economico-sociale e politico e si sottolineava come la ricerca della verità potesse scaturire anche dagli incontri «nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credono» e proseguiva affermando che andavano distinti ideologie e movimenti «che si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana» e in cui, in conclusione, ci si chiedeva perché non fosse possibile riconoscere anche in questi, «elementi positivi e meritevoli di approvazione»73.

Nonostante queste parole, dalle elezioni che si svolsero nell’aprile del 1963 non giunsero segnali positivi: era chiaro che gli elettori dei partiti fautori del centro-sinistra non erano tendenzialmente ‘aperturisti’. Premiate furono invece le forze politiche sia di destra che di sinistra, estranee alla progettata alleanza: particolarmente significativo fu il risultato dei liberali che ottennero in queste elezioni la loro migliore affermazione arrivando a raccogliere il consenso del 7% dell’elettorato74.

Per la Democrazia cristiana il calo di 4 punti percentuali, registrato a livello nazionale, era il frutto della media tra consistenti perdite soprattutto nel Nord-Ovest (eccezion fatta per la Valle d’Aosta) e nelle aree a prevalenza comunista dove l’elettorato democristiano si era mantenuto in passato fedele al partito, mentre ancora una volta nel Nord-Est, con un decremento al di sotto della media nazionale, si evidenziavano buoni margini di tenuta. Nell’Italia meridionale il calo del voto democristiano non era stato invece uniforme: solo in alcune regioni (Lazio, Basilicata, Sardegna e Sicilia) le perdite avevano superato i 4 punti percentuali75.

I risultati non si fecero attendere. Alla crisi del primo governo di centro-sinistra, avviata a causa di un voto parlamentare contrario al finanziamento alle scuole private, il Presidente della Repubblica, Antonio Segni e la Dc, nelle persone di Mariano Rumor, il nuovo segretario succeduto a Moro nel gennaio del 1964, e di Emilio Colombo, il ministro del Tesoro del governo uscente, lavorarono ai fianchi Moro portandolo a ritenere imprescindibile una politica ‘dei due tempi’ in cui alle riforme fosse anteposta la stabilizzazione dell’economia, il che significava nei fatti accantonamento dei principali obiettivi che il centro-sinistra avrebbe dovuto perseguire, primo tra tutte la riforma urbanistica76. Commentando i giorni della crisi, Nenni sulle colonne de «L’Avanti» sottolineò come il governo che era uscito dalla crisi, di centro-sinistra nella forma dell’alleanza, ma centrista nel programma, fosse in realtà il solo possibile poiché se non ci si fosse piegati a quella scelta, l’alternativa avrebbe posto il paese di fronte a una strada al «cui confronto il ricordo del luglio 1960 sarebbe impallidito»77.

Il 1976: sorpasso… anzi no!

Tra le elezioni del 1963 e quelle del 1976 si erano succedute due legislature durante le quali governi monocolori Dc o di centro si erano alternati alla ormai logora formula del centro-sinistra che aveva perso del tutto il suo tratto innovatore. I risultati delle elezioni che si erano svolte nel 1968 e nel 1972 avevano indicato a loro volta una certa fissità nell’elettorato: una Dc stabile, con variazioni al di sotto di un punto percentuale in entrambe le votazioni78 e un Pci in lenta crescita79. La seconda metà degli anni Sessanta, sul versante della società civile era stato invece un periodo di profondo fermento80. La contestazione degli studenti, partita in Europa dalla Francia, aveva assunto in Italia una valenza politica profonda: l’attacco era rivolto contro il sistema capitalistico, contro gli Stati Uniti per il loro impegno nella guerra del Vietnam, contro il sistema sovietico che aveva soffocato la rivolta di Praga e contro tutti i partiti dell’arco costituzionale e non, compreso il Pci a cui veniva imputato, a partire dalla costruzione del ‘partito nuovo’ di Togliatti, il tradimento della Resistenza e dello sviluppo in senso socialista dell’impianto repubblicano. La crisi dell’autunno caldo nel 1969 aveva poi allargato alla classe operaia i sintomi di rivolta in atto e aveva indicato come, a fatica, solo i settori più avanzati dei sindacati, quelli metalmeccanici, fossero in grado di contrapporsi allo spontaneismo che aveva attecchito anche nelle fabbriche81. I segni di un possibile spostamento verso una sinistra di cui ancora non si riuscivano a definire i confini, ma che aveva avuto un primo chiaro segnale nell’espulsione dal Pci nel novembre 1969 di Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Aldo Natoli82, aveva fatto crescere nel paese il clima di incertezza. La bomba esplosa alla Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre del 1969, aveva poi chiuso il decennio nel segno del più completo smarrimento e aveva dato l’avvio al nuovo decennio con quella che, ancora non si sapeva, sarebbe stata la sanguinosa stagione della strategia della tensione e del terrorismo.

Anche se tutto questo non si tradusse nell’immediato in flussi elettorali83, si ebbero segnali di cambiamento tuttavia nella prima metà degli anni Settanta con la campagna avviata per l’abrogazione della legge che, promossa dai socialisti, aveva introdotto in Italia il divorzio. La campagna pro e contro il divorzio, condotta su fronti opposti dalla Dc e dal Psi, alleati in sede di governo, vide per la prima volta una parte dell’elettorato democristiano ‘tradire’, di fatto, il suo partito. Se si mettono a confronto i risultati elettorali del 1972 con quelli dello schieramento favorevole all’abrogazione della legge sul divorzio che vedeva uniti la Dc, il Svp, il Msi-Dn ed il Pdum84 si evidenzia come le maggiori perdite, oltre 10 punti percentuali e nel Trentino oltre 20, fossero da imputarsi a tutto il Nord85 e nel Lazio.

L’effetto di questa sconfitta non si fece attendere: era ormai evidente che, anche a livello formale, la formula del centro-sinistra non era più sostenibile e la crisi di governo del novembre 1974 ne fu il segno tangibile.

Le elezioni regionali del 197586 confermarono il profondo mutamento che era in atto nel rapporto tra elettori e partiti: pur considerando la natura diversa di elezioni amministrative e politiche, mettendo a confronto i dati, raggruppati per regione, delle politiche del 1972 con quelli delle regionali del 1975 appariva in tutta evidenza che la variazione dei consensi nei due partiti antagonisti si attestava in media attorno a 4 punti percentuali, la differenza tuttavia era che mentre per la Dc la variazione aveva segno negativo, per il Pci indicava un significativo balzo in avanti. Del resto, volendo paragonare il dato del 1975 con le precedenti regionali, l’andamento della variazione era ancora più eclatante: la Dc perdeva, infatti, rispetto alle regionali del 1970, 2,6 punti percentuali, mentre il Pci ne guadagnava 5,687.

Fu in questo nuovo contesto, di una Dc che per la prima volta doveva confrontarsi con una potenziale volatilità del suo elettorato, che Aldo Moro, intervenendo al Consiglio nazionale della Dc, parlò di una terza fase:

«L’avvenire [disse Moro] non è più nelle nostre mani [...]. Ma almeno dobbiamo dire che, se è cominciata una terza difficile fase della nostra esperienza, in condizioni interne ed internazionali così diverse da quali erano all’origine [...]. Per quanto difficile sia la situazione, c’è spazio anche per noi»88.

Era la dichiarazione politica di una progettualità che doveva e, per il leader democristiano, poteva ricominciare a partire dal partito stesso, alla cui segreteria Moro propose la candidatura di un uomo nuovo: Benigno Zaccagnini. La crisi che stava attraversando il paese, stretto tra la minaccia delle bombe che colpivano inermi cittadini nella loro quotidianità89 e i primi cruenti attentati del terrorismo rosso, aveva bisogno di una risposta. Con strade diverse, ma passibili di un incontro, Aldo Moro, con la lenta ma progressiva costruzione di una ‘terza fase’ diretta verso un programma di ‘solidarietà nazionale’, ed Enrico Berlinguer, con la strategia del ‘compromesso storico’90, cercarono di dare questa risposta che ebbe nelle elezioni del 1976 il suo guado. La legislatura, per la seconda volta, dal 1948, si era chiusa anticipatamente e la crisi, di fatto risalente al dicembre 1975 quando i socialisti avevano definitivamente ritirato il sostegno esterno al governo di Moro retto sul bicolore Dc-Pri, aveva avuto, dopo un vano tentativo di costituire un governo monocolore da parte della Dc, il suo naturale sbocco nel ricorso alle elezioni.

Tutta la campagna elettorale fu segnata dall’incertezza di un possibile sorpasso, tra la Dc ed il Pci, che trovava nel risultato delle regionali del 1975 il suo segno premonitore. Proprio da questi timori presero avvio i richiami alla compattezza di un fronte anti-comunista, che ebbero il loro culmine nella nota affermazione di Indro Montanelli che invitava a votare Dc ‘turandosi il naso’.

I risultati elettorali misero chiaramente in evidenza che il temuto sorpasso non era avvenuto, ma restituirono l’immagine, per la prima volta in modo netto, di un sistema politico bipolare, al di là del pluripartitismo imperante.

La maggioranza democristiana aveva la stessa forza delle elezioni precedenti: la percentuale di legittimazione che otteneva nel paese si attestava infatti al 38,7%, la stessa che si era registrata nelle elezioni del 1972. Anche a livello circoscrizionale non si registravano grandi variazioni con le circoscrizioni storiche del lombardo-veneto al di sopra del 50% e le tradizionali regioni rosse con i livelli più bassi di consenso91.

Chi aveva pagato il temuto sorpasso erano stati i partiti minori, soprattutto liberali e socialdemocratici e non ultimo la destra del Movimento sociale: tutti vedevano sensibilmente ridotto il loro consenso. Il dato tuttavia eclatante di queste elezioni, anche se il tanto temuto sorpasso non era avvenuto, era il grande balzo in avanti del Pci che passava dal 27,2% del 1972 al 34,4%: le distanze tra maggioranza e opposizione erano ora sostanzialmente ridotte e questo non poteva non produrre effetti in linea con la politica promossa da Moro dentro e fuori dal partito.

Inizia la crisi della ‘balena bianca’

L’inizio della settima legislatura92 fu segnata dalla costruzione del governo Andreotti che ottenne la fiducia alla camera grazie al voto, ovviamente favorevole della Dc, ma soprattutto grazie all’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale dal Pci al Pli: era l’inizio della ‘solidarietà nazionale’, voluta da Moro e condivisa da Berlinguer. La nuova formula riuscì a reggere il governo del paese per circa tre anni, ma non sopravvisse alla morte di Moro, ucciso nel maggio 1978 dalle Brigate rosse, dopo cinquantacinque giorni di reclusione in una prigione di un sedicente popolo93.

Le elezioni del giugno 1979 furono il segno tangibile che si era chiusa non solo quella che Moro aveva definito una ‘terza fase’, ma che di fatto si stava chiudendo un intero periodo della storia della Repubblica e l’avvenire appariva ora più che mai incerto.

Il ricorso, ancora una volta, alla chiusura anticipata della Legislatura, prodotta dalla crisi evidente della coalizione di governo, causata non da ultimo dalla richiesta del Pci di entrare a tutti gli effetti nella maggioranza e non più come mero appoggio esterno, paradossalmente restituiva, nei suoi risultati nazionali, l’immagine di un elettorato abbastanza stabile: solo il Pci faceva un passo indietro riallargando la forbice tra la sua forza e quella della Dc.

Con un calo pari a 0,4 punti percentuali a livello nazionale l’elettorato democristiano sembrava in effetti essere il più fedele. In realtà, andando a vedere i risultati a livello circoscrizionale emergeva, invece, un primo segnale di cambiamento: la sostanziale stabilità nazionale era infatti il frutto di una compensazione tra le pur lievi perdite nell’elettorato del Centro-Nord e l’aumento in quello del Centro-Sud94.

Era proprio nell’area di maggior radicamento, quella del Nord-Est che si registravano riduzioni che in alcuni casi andavano al di sopra dei due punti percentuali; allarmante il risultato di Trieste dove la presentazione di una lista civica, ‘Lista per Trieste’, sottraeva all’elettorato Dc di questa città oltre 13 punti percentuali di consenso: era il segnale premonitore che liste di formazioni politiche non tradizionali, con un progetto rivolto al territorio, potevano modificare completamente i rapporti di forza all’interno anche di aree tradizionalmente controllate dai partiti storici95.

Nonostante il risultato elettorale riportasse dunque ancora una volta la Dc alla guida della Repubblica, diversi erano i fattori che indicavano come si fosse ormai di fronte a un punto di non ritorno: il Pci nuovamente all’opposizione, la necessità della Dc di far conto sul Partito socialista, definito nel congresso democristiano del 1980 il partner di governo ideale, uniti alla crisi avviata nel paese con la scoperta dei progetti deviati della loggia segreta P2, a cui risultavano essere iscritti personaggi di primo piano a livello istituzionale e non della politica, dell’esercito, dell’economia e della cultura. La crisi del governo retto da Arnaldo Forlani, uomo di punta della Dc, chiuse la lunga sequenza dei governi democristiani che avevano retto il paese dal dicembre 1945 in avanti. Alle sue dimissioni, il Presidente della repubblica, Sandro Pertini, diede l’incarico di formare il governo a Giovanni Spadolini, leader repubblicano che, nel giugno del 1981 varò il secondo governo retto da un leader laico dopo quello della breve esperienza post-bellica di Ferruccio Parri.

Il canto del cigno

Furono tuttavia le elezioni del 198396, fermamente volute da Bettino Craxi97, leader del Partito socialista, a dare il segnale del profondo mutamento in atto: la Dc otteneva in questa competizione elettorale il suo risultato peggiore con un calo, in termini percentuali, di oltre 5 punti. Per la prima volta la crisi sembrava difficile e irta di pericoli perché, come avevano messo in evidenza i risultati di Trieste del 1979, le perdite più complesse da affrontare erano quelle collocate nelle aree di storico radicamento del partito, dove neppure le più gravi crisi politiche avevano, in passato, evidenziato segnali di cedimento98.

La Dc retrocedeva di fatto in quasi tutte le circoscrizioni, le uniche due dove si registrava un piccolo avanzamento erano Basilicata e Molise, unica regione, quest’ultima, dove il partito riusciva a mantenere la maggioranza assoluta dei consensi.

Ma al di là delle ingenti perdite generalizzate, il dato che metteva in allarme era quello degli insediamenti del Nord-Est dove, fin dal secondo Ottocento il movimento cattolico prima, il Partito popolare poi e la Dc avevano sempre rappresentato la forza di riferimento a livello economico, sociale, politico e culturale. La Liga veneta nelle tre circoscrizioni di Verona-Padova-Vicenza-Rovigo, Venezia-Treviso e Udine-Belluno-Goriza e Pordenone arrivò a toccare il 4,5% dei consensi: non erano risultati così consistenti come la Lista per Trieste, che anche in queste elezioni conquistava oltre 19 punti percentuali dell’elettorato della città, ma era il segnale di una crisi in atto, proprio perché andava a collocarsi in aree scarsamente segnate da una volatilità elettorale99.

Furono le successive elezioni del 1987 e del 1992, le ultime con il sistema proporzionale a confermare il processo in atto. Le leghe100 emergevano davvero come il nuovo soggetto politico capace di catalizzare il consenso. Dopo i successi della Liga veneta, ora era la Lega lombarda a erodere larga parte dell’insediamento democristiano e non solo, come era chiaramente visibile mettendo a confronto perdite e guadagni101.

La strada per la Dc era ormai segnata: la crisi nell’elettorato era in realtà il segno di una crisi ben più profonda e interna al partito, che avrebbe avuto nella diaspora il suo epilogo.

Note

1 La citazione è tratta da A. Drei, L’Assemblea delle Romagne, «Storia e Futuro», 29 novembre 2009.

2 Pubblichiamo di seguito i risultati del plebiscito: popolazione: 2.127.105; elettori iscritti: 526.218; votanti: 427.512; a favore dell’annessione: 426.006; per il Regno separato: 756; Voti nulli: 750. Cfr. G. Maioli, Il plebiscito dell’Emilia e delle Romagne, in Deputazione di Storia Patria per l’Emilia e la Romagna, Atti e memorie, Bologna 1943, III, p. 101.

3 G. Margotti, Né eletti, né elettori, «L’Armonia», 14, 7, 8 gennaio 1861.

4 Nelle elezioni del 18 aprile, la Dc ottiene il 48,5% dei voti validi, percentuale che, per effetto della legge elettorale, le permetterà di ottenere all’interno della Camera la maggioranza assoluta dei seggi, cfr. P.G. Corbetta, M.S. Piretti, Atlante storico elettorale d’Italia 1861-2008, Bologna 2009, p. 111.

5 Guidato il primo da Mino Martinazzoli e il secondo da Pierferdinando Casini, Francesco D’Onofrio e Clemente Mastella.

6 Cfr. Il teologo Sacerdote Giacomo Margotti. Note biografiche, IV articoli riguardanti il “Né eletti né elettori” ed il “non expedit” pubblicati nei giornali “L’Armonia” e “L’unità cattolica” dallanno 1857 all’anno 1886, Sanremo 1907.

7 Dal discorso su Roma Capitale pronunciato dal conte Camillo Benso di Cavour il 25 marzo 1861, in Discorsi parlamentari del conte Camillo di Cavour: raccolti e pubblicati per ordine della Camera dei deputati, a cura di G. Massari, Torino-Roma 1863-1872, p. XI.

8 Cfr. Ultime notizie, «L’Osservatore romano», 21 giugno 1874, ma si veda anche all’interno della stessa testata, in data 14 ottobre 1874, il discorso pronunciato da Pio IX alle donne cattoliche romane.

9 Cfr. Come gli elettori cattolici domenica possono eleggere Pio IX, «Il Diritto cattolico», 5 novembre 1876.

10 ASV, Segreteria di Stato, Rub. 80, anno 1909, Fasc. II, Doc. n. 35627, p.463.

11 Ibidem, Doc. n. 35682, p. 502.

12 Alla richiesta del Comitato diocesano di Bergamo, scritta da Medolago Albani, la Segreteria di Stato rispose in fatti che «Sua Santità mantiene, in tutta la loro pienezza ed estensione le disposizioni dei Suoi augusti Predecessori, confermando l’autorevole interpretazione che alla parola “non expedit” è stata data dal Sacro Tribunale che l’ha spiegata per “non licet”», in ASV, Segreteria di Stato, Rub. 80, anni 1904-1908, Doc. 5580, p. 4.

13 Ibidem, Doc. n. 8264, p. 7.

14 Ibidem, Doc. n. 10428, p. 44.

15 P.G. Corbetta, M.S. Piretti, Atlante storico, cit., pp. 74-75

16 Vedi sezione Tabelle, nr. 1.

17 Sono stati consultati per la verifica della deputazione cattolica le seguenti testate: «La Tribuna», 8 marzo 1909; «Corriere della Sera», 8, 9 ,10 marzo 1909; «Avanti!», 9 marzo 1909; «Il Giornale d’Italia» 5, 8, 9, 10, 16 marzo 1909.

18 Il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni venne chiamato da Pio X a presiedere l’Unione elettorale cattolica nel luglio del 1909. Le elezioni si svolgono il 7 ed il 14 marzo dello stesso anno.

19 ASV, Segreteria di Stato, Rub. 80, anno 1909, Fasc. I, Doc. 35600, pp. 410-411. Valenzani scriverà una seconda volta in data 27 febbraio, sollecitando l’appoggio, dal momento che afferma la sua candidatura essere osteggiata dall’Unione interdiocesana, Ibidem, pp. 412-413. Domenico Valenzani corre nel 1909 sul collegio di Albano Laziale e sconfigge il radicale Scipione Borghese, ma l’elezione viene una prima volta annullata. Si torna a votare nel luglio e questa volta è Borghese ad avere la meglio. L’elezione però è nuovamente annullata e nelle nuove elezioni che si svolgono nell’aprile dell’anno successivo, Valenzani arriva primo seguito da Gaetano Salvemini ed Edoardo Soderini. Nelle elezioni di ballottaggio che seguono, Salvemini non mantiene la candidatura.

20 Mi permetto di rimandare su questo punto a M.S. Piretti, Una vittoria di Pirro: la strategia politica di Gentiloni e il fallimento dell’intransigentismo cattolico, «Ricerche di storia politica», 9, 1994, 3, pp. 5-40.

21 Sulle vicende che portarono all’introduzione nella legislazione italiana del suffragio quasi universale maschile si rimanda a M.S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 ad oggi, Roma-Bari 19962, pp. 151-182.

22 Già nel programma dell’Unione del 1911 la linea gentiloniana era chiara: i cattolici erano chiamati al voto solo là dove ce ne fosse stata effettiva la necessità ed era quindi evidente la possibile affermazione di un ‘nemico’ e anche in questo caso era opportuno che l’Unione si accordasse con candidati di altri partiti i quali dovevano farsi garanti dei desiderata dei cattolici, cfr. ASV, Segreteria di Stato, Rub. 80, anno 1911, Doc. 48723, p. 78.

23 Nelle elezioni del consiglio del 1912, Gentiloni si prodigò affinché tra gli eletti vi fossero tutti uomini ossequienti alle direttive pontificie e le prime teste a cadere furono quelle di Sturzo, Miglioli, Boggiano, Mauri, Rezzara, Zucchini, Grosoli, Tolli, Soderini, Pecoraro, Colombo, De Simone, Boccaccini e Rossi Ceccati, cfr. ASV, Segreteria di Stato, Rub. 80, anno 1912, Doc. 55133, p. 2. Risultarono invece eletti: Filippo Sassoli De’ Bianchi, Filippo Crispolti, Pio Fochi, Augusto Grossi Gondi, Stefano Cavazzoni, Giovan Battista Bosco Lucarelli, Giulio Rodinò e Lorenzo Ricci.

24 Ibidem, Doc. 56423, p. 271.

25 Dell’eptalogo circolarono diverse versioni, riportiamo di seguito quella conservata nell’Archivio Segreto Vaticano. «1. Difesa delle istituzioni statutarie e svolgimento delle garanzie date dagli ordinamenti costituzionali alle libertà di coscienza e di associazione e quindi opposizione anche ad ogni proposta di legge in odio alle congregazioni religiose e che comunque tenda a turbare la pace religiosa della nazione. 2. Svolgimento della legislazione scolastica secondo il criterio che, col maggior incremento della scuola pubblica, non sieno fatte condizioni che intralcino e screditino l’opera dell’insegnamento privato, fattore desiderabile di diffusione e di elevazione della cultura nazionale. 3. Sottrarre ad ogni incertezza ed arbitrio e munire di forme giuridiche sincere e di garanzie pratiche ed efficaci, il diritto dei padri di famiglia di avere per i propri figli una seria istruzione religiosa nelle scuole comunali. 4. Resistere ad ogni tentativo di indebolire l’unità della famiglia e quindi assoluta opposizione al divorzio. 5. Riconoscere, agli effetti della rappresentanza nei Consigli di Stato, il diritto di parità alle organizzazioni economiche e sociali, indipendentemente dai principi sociali o religiosi ai quali esse si ispirano. 6. Riforma graduale e continua degli ordinamenti tributari e degli istituti giuridici nel senso di una sempre migliore applicazione dei principi di giustizia nei rapporti sociali. 7. Appoggiare una politica che tenda a conservare e rinvigorire le forze economiche e morali del Paese, volgendole a un progressivo incremento dell’influenza italiana nello sviluppo della civiltà europea internazionale. N.B. Queste sono, in massima, le condizioni da porre da noi ad ogni candidato liberale per ottenere i nostri voti; condizioni che debbono venire accettate dal candidato in una sua dichiarazione da rilasciarsi ai nostri Comitati elettorali con facoltà di eventualmente pubblicarla, oppure poste esplicitamente nel programma pubblico del candidato stesso», in ASV, Segreteria di Stato, Rub. 80, anno 1913, Fasc. 1, Doc. 61549, p. 20.

26 Cfr. A. Benedetti, Intervista coll’altro… Presidente del Consiglio, il Conte Gentiloni, «Il Giornale d’Italia», 8 novembre 1913.

27 Vedi sezione Tabelle, nr. 2.

28 A rafforzare la tesi che sia proprio il patto Gentiloni a garantire la continuità ai liberali sta l’anomalia di questo basso livello di turn over a fronte di quello che invece si registra in due momenti di particolare cambiamento della legislazione elettorale: il 1882 (con un turn over del 43,5%) ed il 1919 (con un turn over del 65,3%). Per questi dati mi permetto di rimandare al mio Le leggi elettorali e la loro incidenza sulla Camera dei deputati, in A.G. Manca, W. Brauneder, L’istituzione parlamentare nel XIX secolo. Una prospettiva comparata, Bologna 2000, pp. 237-265.

29 Vedi sezione Mappe, nr. VI.

30 Si veda l’affermazione di Gentiloni nell’intervista rilasciata ad Arrigo Benedetti: «Non esiste un gruppo cattolico alla Camera. Esistono solo deputati costituzionali che tuteleranno più o meno efficacemente gli interessi religiosi della maggioranza del popolo italiano secondo quello che la loro coscienza ed il proprio spirito religioso detteranno loro», in A. Benedetti, Intervista con l’altro… Presidente del consiglio, cit.

31 Queste le parole di Cornaggia, cattolico deputato eletto nel 1904 e confermato nel 1909 che verrà poi nominato senatore nel 1917: «I [cattolici] non costituiranno un partito politico, che sarebbe cosa assurda in un paese essenzialmente cattolico, dove un socialismo specula sulla croce nella scheda elettorale, per acquistare voti, ma debbono spiegare un programma di libertà per tutti e di rispetto alla religione, che troverà larghe adesioni», in C.O. Cornaggia, Liberali e cattolici, «Nuova antologia», 49, 1914, 253, p. 143.

32 F. Meda, I cattolici e le ultime elezioni politiche, «Nuova antologia», 49, 1914, 253, p. 309.

33 Dalla lettera di Luigi Sturzo a Alessandro Jacini, datata 26 giugno 1914. Il testo della lettera è citato in G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, Firenze 1959, e da me ripresa in M.S. Piretti, La giustizia dei numeri, Bologna 1990.

34 Il programma era firmato oltre che da Sturzo da: Giovanni Bertini, Giovanni Bertone, Stefano Cavazzoni, Achille Grandi, Giovanni Grosoli, Giovanni Longinotti, Angelo Mauri, Umberto Merlin, Giulio Rodinò, Carlo Santucci.

35 Per il testo dell’appello di Sturzo si rimanda a http://www.democraticicristiani.it/documenti/sturzo2.html (26 ott. 2010).

36 Ibidem. Dal testo dell’appello: «Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell’Istituto Parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto delle donne, e il Senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali: vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione, invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi, l’autonomia comunale, la riforma degli Enti Provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali. Ma sarebbero queste vane riforme senza il contenuto se non reclamassimo, come anima della nuova Società, il vero senso di libertà, rispondente alla maturità civile del nostro popolo e al più alto sviluppo delle sue energie: libertà religiosa, non solo agl’individui ma anche alla Chiesa, per la esplicazione della sua missione spirituale nel mondo; libertà di insegnamento, senza monopoli statali; libertà alle organizzazioni di classe, senza preferenze e privilegi di parte; libertà comunale e locale secondo le gloriose tradizioni italiche. Questo ideale di libertà non tende a disorganizzare lo Stato ma è essenzialmente organico nel rinnovamento delle energie e delle attività, che debbono trovare al centro la coordinazione, la valorizzazione, la difesa e lo sviluppo progressivo. Energie, che debbono comporsi a nuclei vitali che potranno fermare o modificare le correnti disgregatrici, le agitazioni promosse in nome di una sistematica lotta di classe e della rivoluzione anarchica e attingere dall’anima popolare gli elementi di conservazione e di progresso, dando valore all’autorità come forza ed esponente insieme della sovranità popolare e della collaborazione sociale»,ibidem.

37 Si veda su questo punto N. Antonetti, Sturzo, i popolari e le riforme istituzionali del primo dopoguerra, Brescia 1988.

38 Per queste elezioni fu cambiata sia la composizione del corpo elettorale (l’accesso al voto fu riconosciuto, cioè, a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni di età, indipendentemente dal livello di alfabetizzazione; eccezionalmente fu riconosciuto poi il diritto di voto anche ai diciottenni che avessero preso parte a operazioni militari al fronte); sia la tecnica di traduzione dei voti in seggi: si passò infatti dal sistema maggioritario uninominale al sistema proporzionale su collegi plurinominali con tecnica D’Hondt.

39 Vedi sezione Mappe, nr. VII.

40 Alcuni dati forniti dalla Direzione generale di statistica del 1911 mettono in evidenza che ancora nel 1905 le Unioni professionali cattoliche erano 130 nell’Italia settentrionale contro le 2 in Calabria ed in Campania e le 32 in Sicilia; nel 1911 le organizzazioni di resistenza nell’industria erano 213 nell’Italia settentrionale e 21 in quella meridionale; le organizzazioni di resistenza nell’agricoltura erano 117 nell’Italia centro-settentrionale e 23 in quella meridionale; le cooperative di lavoro erano 45 al Centro-Nord e 12 al Sud; le cooperative di consumo erano 227 al Centro-Nord e 18 al Sud; le cooperative agricole erano 470 al Centro-Nord e 17 al Sud; infine le società di mutuo soccorso erano 755 al Centro-Nord contro le 44 del Sud, cfr. M.S. Piretti, La giustizia dei numeri, cit., pp. 289-290, 189n.

41 Vedi sezione Tabelle, nr. 3.

42 Ibidem, p. 280.

43 Per la ricostruzione delle dimissioni di Sturzo si rimanda a G. De Rosa, Il partito popolare, Roma-Bari 1988, pp. 187-213.

44 Vedi sezione Tabelle, nr. 4.

45 Contribuirono alla redazione del documento Alcide De Gasperi, Paolo Bonomi, Piero Campilli, Camillo Corsanego, Guido Gonella, Achille Grandi, Giovanni Gronchi, Stefano Riccio, Pasquale Saraceno, Mario Scelba, Giuseppe Spataro.

46 Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana, Roma 1943, http://www.storiadc.it/doc/1943_idee_ricostr.html (26 ott. 2010).

47 Su questo punto rimando a R. Ruffilli, Costituente e lotta politica, Firenze 1978.

48 Vedi sezione Tabelle, nrr. 5-6.

49 Vedi sezione Mappe, nr. VIII.

50 Il 15 luglio 1946 si formò il secondo governo De Gasperi, costruito sull’alleanza tra Dc, Psiup, Pci e Pri. Questo governo durò fino al 20 febbraio 1947, quando dalla crisi maturò la scelta del governo tripartito, retto solo sulle forze dei tre partiti di massa. La crisi di quest’ultimo in data 31 maggio 1947 portò alla svolta radicale: le sinistre uscivano per sempre dall’esecutivo e De Gasperi metteva in atto la sua strategia centrista che segnerà la politica italiana fino all’apertura verso il centro-sinistra. Per un inquadramento rapido delle vicende di questi anni, cfr. R. Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992, Roma 2006.

51 Per un inquadramento delle operazioni di intelligence messe a punto dagli Usa per controllare e condizionare lo svolgimento delle elezioni italiane nei primi anni della Repubblica si veda: M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli Usa e la Dc negli anni del centrismo (1948-1955), Roma 2001.

52 La sigla con la quale si presentarono uniti alle elezioni comunisti e socialisti.

53 Vedi sezione Mappe, nr. VIII.

54 Vedi sezione Tabelle, nr. 7.

55 Solo i socialisti che non si erano allineati con Nenni e che in queste elezioni si erano coalizzati sotto la bandiera di Unità socialista, espressione dell’aggregazione tra il Partito socialista dei lavoratori italiani, l’Unione dei socialisti e il Movimento di unità socialista, superarono la soglia del 7%, tutte le altre formazioni si attestarono al di sotto del 5%.

56 Lo scontro fu provocato dalla discesa dei nordcoreani verso sud nella volontà di riunificare il paese sotto il governo comunista di Kim Il Sung e abbattere il regime filoamericano di Syngman Rhee.

57 Per quanto riguarda le nuove analisi storiografiche sulla guerra di Corea si vedano i documenti pubblicati dal Cold War World History Project. http://www.wilsoncenter.org/index.cfm? topic_id=1409&fuseaction=va2.browse&sort=Collection&item=The%20Korean%20War (26 ott. 2010).

58 Si vedano i cambi dei sistemi elettorali, tesi a deprimere l’affermazione parlamentare dei partiti di sinistra, che si registrarono in Grecia, Francia e Italia.

59 Il Movimento sociale italiano era sorto nel dicembre del 1946, promosso da uomini già appartenuti alla Repubblica sociale italiana o al Partito nazionale fascista. Per un inquadramento storico del partito cfr. P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, Bologna 1989.

60 Si veda a questo proposito M.S. Piretti, La legge truffa. Il fallimento dell’ingegneria politica, Bologna 2003.

61 «La Democrazia cristiana è in calo in tutta la penisola. Le maggiori perdite, con un campo di variazione che va dai -15,5 punti percentuali di Napoli-Caserta ai -10,1 punti percentuali di Campobasso-Isernia, si hanno nel Sud. Solo due circoscrizioni, in quest’area, registrano un calo a una sola cifra: Lecce-Brindisi-Taranto, con -9,2 punti percentuali e Potenza-Matera con -7,1 punti. Più contenute le perdite in Sardegna e nella circoscrizione ovest della Sicilia. Al Centro-Nord, le due circoscrizioni del Piemonte sono quelle che registrano il maggior calo di consensi democristiani, con perdite che superano gli 8 punti percentuali. Le circoscrizioni, invece, dove la Dc riesce a contenere le perdite sono quelle che già nel ’48 avevano registrato il minor consenso, e cioè Parma-Modena-Reggio Emilia-Piacenza, Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì e Siena-Arezzo-Grosseto. In queste la diminuzione si attesta intorno ai 2,2 e 2,5 punti percentuali», P.G. Corbetta, M.S. Piretti, Atlante storico elettorale, cit., p. 118.

62 I due gruppi guidati rispettivamente Adn da Epicarmo Corbino e Up da Ferruccio Parri ottennero solo lo 0,4 e lo 0,6%, non ebbero dunque loro rappresentanti alla camera.

63 Tutti i dati sono presi da P.G. Corbetta, M.S. Piretti, Atlante storico elettorale, cit., pp. 116-117.

64 I repubblicani ottenevano solo l’1,6% dei consensi dell’elettorato; i liberali un 3% e i socialdemocratici che nel 1948 sotto la sigla di Unità socialista avevano avuto 7,1 punti percentuali, tornavano ora con solo il 4,5%.

65 Vedi sezione Tabelle, nr. 8.

66 Per un inquadramento generale della campagna elettorale del 1958 si veda M.S. Piretti, Occidente Vs Comunismo: le campagne elettorali del ’58 in Italia e Francia e gli Stati Uniti, in L’Occidente come forma di costruzione del consenso politico, a cura di S. Cavazza, Soveria Mannelli 2006, pp. 49-56.

67 Per un inquadramento completo dei guadagni e delle perdite Dc nelle elezioni del 1958 rispetto al 1963, si veda la sezione Tabelle, nr. 9.

68 Per un inquadramento delle vicende del governo Tambroni si rimanda a G. Crainz, Storia del miracolo italiano: culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma 2005, pp. 173 segg.

69 Sulle posizioni americane rispetto all’apertura a sinistra si veda L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, Roma-Bari 1999.

70 È del 18 maggio 1960 l’articolo pubblicato sulle colonne de «L’Osservatore romano», Punti fermi, in cui si condanna il progetto di apertura a sinistra. Ma fin dal gennaio di quell’anno il cardinal Ottaviani, segretario della Congregazione del Sant’Uffizio, e il cardinal Siri, presidente della Conferenza episcopale italiana, si pronunciarono contro tale prospettiva.

71 Il terzo governo Fanfani, detto anche delle convergenze parallele, per la duplice astensione dei socialisti e dei monarchici, venne votato nell’agosto del 1960.

72 Tra le più note quella di Firenze con Giorgio La Pira (democristiano) sindaco e E. Enriques Agnoletti (socialista) vicesindaco.

73 Si veda il testo della Pacem in terris, alla sezione Rapporti fra cattolici e non cattolici in campo economico-sociale-politico.

74 «La Democrazia cristiana è in netta flessione su tutto il territorio nazionale con -4,2 punti percentuali. Solo nella Valle d’Aosta migliora il risultato del ’58 con un aumento di 1,6 punti. In tutte le altre circoscrizioni il calo varia dai 7,6 punti percentuali della Liguria ai -0,5 punti di Lecce-Brindisi-Taranto. Nelle circoscrizioni di Como-Sondrio-Varese, Udine-Belluno-Gorizia-Pordenone e Venezia-Treviso, dove registra cali rispettivamente di 5,2, 4 e 3,8 punti percentuali, perde la maggioranza assoluta. Nelle aree del radicamento storico dei cattolici la Dc viene pesantemente sconfitta: nelle quattro circoscrizioni della Lombardia perde dai 3 ai 6 punti, conservando la maggioranza assoluta solo nella circoscrizione di Brescia-Bergamo; nel Nord-Est riesce a contenere i danni con tassi di perdita non superiori al 4%», P.G. Corbetta, M.S. Piretti, Atlante storico elettorale, cit., p. 130.

75 Vedi sezione Tabelle, nr. 10.

76 Non fu estraneo alle pressioni, come mise in evidenza la Commissione parlamentare nominata nel 1969, la minaccia di un intervento in senso autoritario da parte dell’arma dei carabinieri, alla cui direzione era arrivato nel 1962 il generale Giovanni De Lorenzo, cfr. Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964, 2 voll., Roma 1971. Per un inquadramento generale di queste vicende cfr. P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Torino 1995, pp. 172-181.

77 Si veda l’articolo di fondo, a firma di Nenni, pubblicato da «L’Avanti!» in data 26 luglio 1964.

78 Complessivamente, alle elezioni del 1968 la Dc era cresciuta di 0,8 punti percentuali, mentre a quelle del 1972 ne aveva persi lo 0,4.

79 Complessivamente, il Pci aveva guadagnato 1,6 punti percentuali nelle elezioni del 1968 e 0,3 in quelle del 1972.

80 Per un inquadramento sui mutamenti all’interno della società civile cfr. Genere, generazione, consumi. L’Italia negli anni Sessanta, a cura di P. Capuzzo, Roma 2003.

81 Per un inquadramento dell’autunno caldo, cfr. Storia dell’Italia repubblicana, a cura di F. Barbagallo, II, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, I, Politica economica e società. Torino 1995.

82 Dopo la prima espulsione, non verrà rinnovata la tessera a Lucio Magri, Massimo Caprara, Valentino Parlato e Luciana Castellina. Furono costoro gli iniziatori de «Il Manifesto».

83 Nelle elezioni politiche del 1972 la sinistra extraparlamentare presentò diverse liste dal Manifesto, al Movimento politico dei lavoratori al Partito comunista-marxista leninista, ma nessuna di queste ottenne risultati apprezzabili.

84 Le sigle Svp e Pdum stanno rispettivamente per Südtiroler Volkspartei e Partito democratico di unità monarchica.

85 Fa eccezione il Veneto con un calo che si avvicina ai 7 punti percentuali.

86 Le elezioni riguardarono solo le regioni a statuto ordinario.

87 Tutti i dati sono ricavati dall’Archivio dell’Istituto Cattaneo, cfr. http://www.cattaneo.org/index.asp?l1=archivi&l2= adele&l3=regionali (26 ott. 2010). Va ricordato inoltre che le elezioni del 1975 sono le prime in cui hanno accesso al voto i diciottenni.

88 A. Moro, La situazione politica dopo le elezioni regionali e amministrative, in id., Scritti e discorsi (1974-1978), a cura di G. Rossini, Roma 1990, p. 3345. Il testo riporta l’intervento presentato da Moro al consiglio nazionale della Dc che si svolse a Roma dal 20 al 25 luglio 1975.

89 Va ricordato che, dopo piazza Fontana, nel maggio 1973 una bomba era esplosa durante una celebrazione in onore di Calabresi alla questura di Milano; nel maggio 1974 venne fatta esplodere una bomba in piazza della Loggia a Brescia durante una manifestazione sindacale e, nell’agosto dello stesso anno, una bomba scoppiò sul treno Italicus diretto verso Bologna.

90 L’idea berlingueriana del ‘compromesso storico’ era stata affrontata dal leader comunista all’interno del partito all’inizio degli anni Settanta, ma si era tradotta in una proposta politica concreta rivolta agli altri partiti dell’arco costituzionale ed in particolare alla Dc con tre articoli pubblicati sulla rivista del Pci «Rinascita» nell’autunno del 1973, non casualmente dopo il golpe cileno che aveva abbattuto il governo democraticamente eletto di Salvador Allende.

91 «La Dc ottiene la stessa identica percentuale di voto dell’elezione precedente. Questa staticità del dato nazionale si riflette in linea di massima anche nei dati circoscrizionali, con alcune eccezioni negative (Trentino-Alto Adige, Abruzzo, Molise, Basilicata) che sono compensate da piccoli incrementi diffusi. In questa consultazione la Dc raggiunge il massimo livello di consensi dagli anni Cinquanta, e si tratta di un record che non verrà più raggiunto. La distribuzione territoriale del voto democrisiano resta quella nota: massimi livelli (superiori al 50%) nelle circoscrizioni di Verona-Padova-Vicenza-Rovigo, Brescia-Bergamo e Campobasso-Isernia, minimi nelle “regioni rosse”», P.G. Corbetta, M.S. Piretti, Atlante storico elettorale, cit., p. 148.

92 Sugli anni Settanta si veda L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, 4 voll., Soveria Mannelli 2003: II, Partiti e organizzazioni di massa, a cura di F. Lussana, G. Marramao; IV, Sistema politico e istituzioni, a cura di G. De Rosa, G. Monina.

93 Sul caso Moro cfr. A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Bologna 2005.

94 Vedi sezione Tabelle, nr. 11.

95 La Dc si ritrova dopo queste elezioni su valori medi nazionali quasi identici a quelli precedenti. Ma tale esito è la risultante di perdite in tutto il Centro-Nord (con l’anomalo calo di ben 13 punti percentuali nella circoscrizione di Trieste), compensate da avanzamenti in Meridione, i più rilevanti dei quali si trovano in Molise, Campania e Calabria. A elezione conclusa i punti di massimo insediamento del partito sono rappresentati, in ordine decrescente, dalle circoscrizioni di Campobasso-Isernia, Verona-Padova-Vicenza-Rovigo, Brescia-Bergamo (tutti superiori al 50%), seguiti da Benevento-Avellino-Salerno, L’Aquila-Pescara-Chieti-Teramo, Palermo-Trapani-Agrigento-Caltanissetta, Venezia-Treviso. Come si può vedere da questi dati, al tradizionale radicamento democristiano nelle “regioni bianche”, fortemente legato alla cultura cattolica, si sta sempre più affiancando il consolidamento nel Meridione, maggiormente legato a interessi di carattere economico e clientelare», P.G. Corbetta, M.S. Piretti, Atlante storico elettorale, cit., p. 154.

96 Per un inquadramento degli anni Ottanta si rimanda a Gli anni Ottanta come storia, a cura di S. Colarizi, P. Craveri, S. Pons, et al., Soveria Mannelli 2004.

97 Sulla figura di Bettino Craxi e sulla sua strategia politica si veda S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della repubblica, Roma-Bari 2005.

98 Vedi sezione Tabelle, nr. 12.

99 «La Dc subisce una pesante sconfitta in queste elezioni, con una perdita di 5,4 punti percentuali. Il calo elettorale si realizza in tutte le aree del paese, senza differenziazioni. Le circoscrizioni con le diminuzioni maggiori sono quelle di Torino-Novara-Vercelli, Como-Sondrio-Varese, Venezia-Treviso, Firenze-Pistoia, Bari-Foggia. Come si vede, sono collocate in tutte le aree geo-politiche. La distribuzione territoriale del voto democristiano  rimane quindi sostanzialmente sempre la stessa: insediamenti più forti nelle circoscrizioni di Brescia-Bergamo, Veneto orientale, Molise, ma la maggioranza assoluta è acquisita solo in quest’ultima. Le circoscrizioni nelle quali la Dc ha oltre il 40% dei voti sono ora sei, mentre soltanto quattro anni prima erano 15», P.G. Corbetta, M.S. Piretti, Atlante storico elettorale, cit., p. 160.

100 Cfr. I. Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Roma 1993.

101 Vedi sezione Tabelle, nr. 13. Cfr. I. Diamanti, Mappe dell’Italia politica, Bologna 2009.

CATEGORIE