PERSIA

Enciclopedia Italiana (1935)

PERSIA

Giuseppe CARACI
Fabrizio CORTESI
Mario SALFI
Ettore ROSSI
Luigi CHATRIAN
Carlo DE ANGELIS
Anna Maria RATTI
Antonino PAGLIARO
Ernst KUHNEL
*
F. G.

(A. T. 73-74, 91-94)

Sommario. - L'impero persiano. - Geografia: Nome (p. 806); Generalità (p. 806); Storia dell'esplorazione (p. 807); Rilievo e morfologia (p. 807); Clima (p. 809); Idrografia (p. 810); Flora (p. 810); Fauna (p. 810); Popolazione (p. 811); Etnografia (p. 813); Agricoltura (p. 814); Ricchezze minerarie (p. 815); Industrie (p. 815); Comunicazioni (p. 817); Commercio (p. 817). - Ordinamento dello stato: Ordinamento politico (p. 819); Forze armate (p. 819); Finanze (p. 819). - Religioni: Zoroastrismo e islamismo (p. 819); Cristianesimo (p. 820). - Lingua (p. 820).

La Persia preislamica. - Storia (p. 822). - Letteratura (p. 832). - Arte (p. 834).

La Persia musulmana. - Storia (p. 839). - Letteratura neopersiana (p. 843). - Arte (p. 850).

L'IMPERO PERSIANO

Geografia.

Il nome ufficiale è Īrān, introdotto dal governo persiano, a partire dal 22 marzo 1935, anche nei suoi rapporti diplomatici in lingue europee con l'estero. Ma nelle lingue europee si conserva ancora il classico Persia (ant. pers. Pārsa, greco ἡ Περσίς). Da questa forma dipende l'arabo Fārs e il moderno Farsistān, la cui accezione è oggi ristretta a una sola provincia della monarchia persiana.

Generalità. - È, dopo la Cina, il più esteso fra gli stati sovrani dell'Asia (l'area ne è valutata da 1.644.000 a 1.647.000 kmq.), della quale rappresenta il 3,8% in superficie, ma appena lo o,8% in popolazione. Occupa la parte maggiore (l'occidentale) della regione iranica, tra i limiti estremi 24°53′ (Gwatar, sul Mare Arabico, presso il confine col Belūcistān) - 39°37′ N. (ai piedi dell'Ararat, sulla frontiera turco-russo-persiana) e 44°2′ (Kilīsa Kendī, a S. di Bāyazīt) - 63°24′ E. (Askan, sul confine belucistano), e disegna una figura poliedrica molto irregolare, il cui perimetro si può calcolare all'ingrosso di circa 6700 km., dei quali poco più di 1/3 rappresentati da coste (Caspio, Golfo Persico, Mar Arabico). La massima lunghezza, da NO. a SE., misura circa 2200 km., la massima larghezza, da SO. a N., circa 1300. I confini terrestri la separano a N. dall'Asia russa (Armenia, Azerbaigian, Turkmenistan), a E. dall'Afghānistān e dal Belūcistān, e a O. dall'‛Irāq e dalla Turchia.

Storia dell'esplorazione. - Sebbene Fenici e Greci avessero fin dalla più remota antichità qualche notizia della regione iranica (ad Ecateo, per es., sono note l'esistenza e la postura del Golfo Persico), solo dopo le imprese di Alessandro Magno (331-29 a. C.) penetrano in Occidente idee precise e notizie dirette su questa parte dell'Asia, che già molto tempo innanzi la nascita di Cristo veniva regolarmente attraversata dai mercanti di seta provenienti dalla Cina e diretti all'Oriente vicino. Tuttavia gli stessi Romani ebbero in complesso una conoscenza piuttosto lacunosa dei territorî dell'odierna Persia, al cui limite occidentale le loro legioni avevano dovuto interrompere le marce vittoriose. Un po' più estesa, ma sempre vaga e insufficiente, fu la nozione che ebbe della Persia l'Impero bizantino. Ma soltanto dopo le crociate le popolazioni iraniche entrarono in più o meno regolari rapporti di commercio con l'Europa occidentale. Il viaggio di Marco Polo, che percorse da O. a E. la regione, spingendosi a S. fino a Hormūz, apre, anche in questo caso, un nuovo periodo: sulle sue orme, ambasciatori (G. Barbaro, A. Contarini), mercanti (L. de Varthema) ed esploratori (P. della Valle) italiani rivelano per primi, tra il sec. XIII e il XVII, non solo l'esistenza e i caratteri della contemporanea civiltà persiana, ma le tracce che in varie parti dell'ampio paese hanno lasciato quelle di cui è pur eco negli scrittori dell'antichità classica. Fra i motivi che più attivamente cooperarono a questi ravvicinamenti va posta la minacciosa espansione turca, contro la quale lo stato persiano rappresentava un aiuto, che Venezia prima, e le potenze europee più tardi, cercarono di valorizzare ai proprî fini. Alla migliore conoscenza della Persia contribuirono pure, dagli ultimi del Cinquecento a tutto il sec. XVII, viaggiatori di più nazioni (T. Herbert, J. A. de Mandelslo, A. Olearius, J. B. Tavernier, J. de Thevenot, J. Chardin), ma la vera esplorazione scientifica del paese s'inizia solo nella seconda metà del secolo scorso. In questo senso segnano una pietra miliare i lavori di confinazione compiuti da Russi e Inglesi, che resero necessarie precise ricognizioni di territorî fino allora rimasti del tutto ignorati o mal noti agli Europei. Per ciò che riguarda la Persia settentrionale, molto si deve alle ricerche di J.-J. Morier, J. B. Fraser, G. P. K. Radde, A. M. Konšin, N. Chanikov, K. Bogdanović ed E. Tietze, dei quali i due ultimi portarono largo contributo alla conoscenza geologica della zona di confine fra il Turkmenistan, l'Afghānistān e il Khorāsān. Dei molti Inglesi che percorsero soprattutto la Persia meridionale vanno ricordati almeno C. Clarke, F. J. Goldsmid, E. Smith, M. L. Bell, A. C. Yale, D. B. St. John e B. Lovett; al Lovett si debbono del pari pregevoli studî sulla regione dell'Elburz, mentre H. B. Lynch esplorava minutamente, oltre le zone prossime all'Armenia, l'aspro paese dei Luri. Nel venticinquennio precedente lo scoppio della guerra mondiale i progressi delle conoscenze geografiche sull'Īrān divennero anche più considerevoli per la sempre più larga partecipazione degli studiosi; basti qui ricordare la grande missione scientifica francese diretta da J. de Morgan (1889-90), che, quantunque non specificatamente geografica, molto di nuovo ha raccolto intorno ai territorî della Persia settentrionale, dal Kurdistān al Caspio; i preziosi contributi che dobbiamo al tedesco A. F. Stahl (Persia centrale e settentrionale, massime regione dell'Elburz); e i viaggi compiuti da P. M. Sykes, che in vent'anni e più (dal 1893 in poi) percorse si può dire in ogni senso la Persia e i paesi finitimi, lasciando forse il complesso più organico di notizie geografiche che si debba a un solo studioso. Anche le regioni interne, che furono le ultime ad essere esplorate, diedero luogo, in questo periodo, a buon numero di studî, specialmente il Seistān, alla cui conoscenza contribuirono molto E. Huntington, H. Mac Mahon, G. P. Tate e S. Hedin.

Dopo la parentesi bellica, l'esplorazione scientifica ha ripreso con fervore anche più intenso, favorita dalle condizioni di maggior sicurezza di cui gode ormai larga parte dell'Īrān, e diretta non solo a restringere le lacune che ancora rimangono nella conoscenza dei suoi tratti geografici (solo per spazî molto ristretti si hanno in Persia buone carte topografiche), ma anche a precisare quelli finora noti, mediante ricognizioni intensive, condotte secondo lo spirito e le esigenze dell'indagine moderna. Sotto tale aspetto A. T. Wilson, M. C. Cooper, J. W. Harrison e H. Norden han portato di recente luce nuova sulle zone montuose della Persia occidentale, così come han fatto per le regioni del S. (Mäkrān, Kirmān, Seistān, Balūcistān persiano) G. Gabriel, G. E. Pilgrim, E. G. Černjakovskaja, C. P. Skrine; i territorî prossimi al confine russo sono anch'essi divenuti meta di nuove indagini, fra le quali ricordiamo quelle di V. Ivanov (etnografia del Khorāsān) e di A. F. Sosedko (geografia e geologia della Persia di NE.). Va infine notato come, mentre in passato - sino cioè a tutto il secolo scorso almeno - l'esplorazione era soprattutto determinata da scopi politici commerciali o archeologici, nel periodo postbellico le ricognizioni prettamente geografiche si sono andate facendo sempre più numerose, ciò che ha permesso di precisare e definire assai meglio molti concetti, specialmente morfologici, che si erano affermati attraverso le vecchie descrizioni.

Rilievo e morfologia. - Il territorio persiano riassume in sé i diversi e contrastanti caratteri della regione iranica, anche se ne restano esclusi i territorî che saldano questa al grande plesso montuoso dell'Asia centrale.

Delle due fasce rilevate che delimitano l'altipiano verso le depressioni marginali (Caspio, pianura turanica, Oceano Indiano, Mesopotamia), la parte più cospicua rientra entro i confini dello stato persiano. A N. è l'arco corrugato dell'Elburz (calcari giurassici, arenarie e scisti liassici, poggianti sopra uno zoccolo cristallino, con intruse masse vulcaniche), che continua le coeve formazioni armene: stretta, ma elevata muraglia che isola verso l'esterno un'angusta cimosa costiera, da cui dilata verso E. il bassopiano del Turkmenistan. Al sommo dell'arco si estolle il cono trachitico del Demāvend (5761 m.), dai due lati del quale le altezze degradano rapidamente (Kūh-i Darfakh 2270 m., Qyz-yurdi 2448 m. a O.), fino a scendere sotto i 2000 m. nel bacino dell'Atrek. A O. e SO. la barriera anche più larga e continua dello Zagros, a cui fan seguito, verso S., i monti del Fārs e, oltre la strozzatura corrispondente allo stretto di Hormūz, quelli del Takrār: barriera, questa, costituita da più fasci di rilievi pressoché paralleli (che oltrepassano in varî punti i 3500 m.: Kūh-i Zard 4100 m., Kūh-i Qal‛ah 3885 m.), racchiudenti una serie di depressioni allineate nello stesso senso, e in cui l'altezza, l'ampiezza e l'esposizione variano da regione a regione. In contrasto con l'Azerbaigian - dove ciò che imprime carattere al paesaggio è l'alternarsi di più o meno ampie depressioni (Ūrmiyah Khōi, Ardabīl, Mianeh [Miyāneh], ecc.) nel confuso labirinto di masse vulcaniche (Sahend 3545 m., Sawalan 4280 m.) che s'intercala tra le pur elevate propaggini dei corrugamenti paleogenici (Kharazan 3370 m.; Susuz 2050 m.) - lo Zagros risulta da una zona assiale (calcari cristallini e giurassici) fiancheggiata verso l'esterno (cioè a O.), da formazioni nummulitiche, marne, arenarie e gessi miocenici, che assumono tanto maggior sviluppo quanto più si procede verso SE., al limite con la bassa Mesopotamia. L'erosione regressiva, che di qui ha attaccato l'uno dopo l'altro i successivi diaframmi montuosi, ne ha riunite le depressioni interne per mezzo di strette forre trasversali (teng), che le comunicazioni evitano più che non utilizzino: il paese è perciò suddiviso in un gran numero di piccoli compartimenti isolati, la cui diversa economia (pastorizia, agricoltura estensiva) si completa nella transumanza delle popolazioni nomadi che vi penetrano dalle due regioni pedemontane. Il calcare (eocenico) domina anche nel rilievo del Farsistān, limitato all'esterno dal litorale del Golfo Persico, ma le depressioni chiuse fra le fasce interne più elevate (il cosiddetto sardsir, o paese freddo, che resta di regola un po' al di sotto della corrispondente zona nello Zagros: Kūh-i Bul 3967 m., Kūh-i-Khabr 3862 m., Kūh Khataun 3501 m.) e le infocate bassure marine (garmsir, o paese caldo, caratterizzato da clima torrido e umido) sono per largo tratto coperte dagli affioramenti del gesso, che rendono impossibile la vegetazione e convertono questa zona intermedia (tenghistān, caratteristica specialmente a SO di Shīrāz, dove passa la carovaniera che da questa città mette capo a Būshīr) in un deserto sassoso. Al di là dello stretto di Hormūz il paesaggio cambia di nuovo; oltre la striscia costiera, meglio adatta alla creazione di rade che non lungo il sabbioso, arido contorno del golfo, i diaframmi montuosi (arenarie e scisti argillosi), qui ancor meno elevati (Kūh Ahuran 1867 m., Gav Kūh 1896 m.), fanno posto a valli longitudinali in cui l'irrigazione, tutt'altro che difficile, consente larga varietà di colture.

Esternamente ai due festoni rilevati si stendono: a N. la stretta cimosa litoranea (alluvionale) caspica - che insieme col pendio settentrionale dell'Elburz è la regione più umida di tutta la Persia e perciò quella in cui la vegetazione assume il massimo sviluppo - e il molto più ampio piano inclinato con cui le assise terziarie che orlano da occidente lo Zagros s'immergono sotto le alluvioni della bassura mesopotamica. I corsi del Kerkhā e del Kārūn dànno unità idrografica e beneficio d'acque - se pure solo con opere di correzione e di sbarramento, perché incassati nel piano che solcano - a questa regione, che ha trovato nuova fonte di vita nei giacimenti di petrolio scoperti nell'immediato dopoguerra.

Né minore è la varietà di paesaggio che presenta il territorio chiuso entro questi cercini montuosi (i 3/4, all'incirca, del territorio persiano mancano di sbocco al mare), anche se, per il carattere comune della scarsezza e della deficienza delle precipitazioni - l'erta muraglia dell'Elburz e i rinterzati baluardi dello Zagros arrestano quasi tutta l'umidità delle correnti atmosferiche che li investono, riversandola sulle pendici volte alle depressioni esterne - si tratti in realtà di zona a morfologia abnorme, per la sempre meno attiva parte dovuta alle acque di dilavamento, man mano che da quei cercini si proceda verso l'interno. Varietà che è in rapporto essenzialmente col fatto che l'altipiano, anziché presentarsi continuo su ampie superficie, è interrotto e frazionato in unità distinte dall'emergere di rilievi che lo attraversano in tutta la sua lunghezza. D'altronde le due stesse grandi barriere marginali lasciano filtrare sul loro orlo interno quel tanto di umidità che basta a creare qui condizioni alquanto diverse da quelle che caratterizzano l'altipiano vero e proprio, soprattutto a. N., dove, sul rovescio dell'Elburz e delle montagne del Khorāsān, una lunga fila di oasi si distende da Zengiān a Meshhed per Teherān e Dāmghān, in netto contrasto con la regione desertica che s'inizia immediatamente più a S.

Dei due bastioni montuosi che s'estollono sull'altipiano, il più cospicuo, che s'inizia nell'Azerbaigian a fianco dell'Elburz, disegna un decorso pressoché parallelo allo Zagros e a poca distanza da questo; il secondo invece s'allunga con direzione quasi meridiana dall'alto Atrek al Belūcistān, dove si salda insieme col primo al fascio marginale del Mäkrān nel nodo di Quetta. L'uno e l'altro constano essenzialmente di scisti paleozoici, calcari e arenarie mesozoici poggianti sopra base cristallina: l'intenso, recente piegamento di ambedue le fasce montuose è rivelato dalla frequenza e dall'ampiezza delle masse neovulcaniche che vi compaiono con apparati non sempre quiescenti (sebbene l'attività si riduca, a quel che pare, a manifestazioni secondarie, com'è delle fumarole del Basman). In corrispondenza a questi ultimi sono, nell'una e nell'altra fila di rilievi, le emergenze maggiori (Kūh-i Hazār 4250 m.; Kūh-i Taftan 3973 m.): ma l'altezza media si mantiene in genere considerevole, superando i 3000 m. nella catena occidentale (Shīr Kūh 4075 m., Kūh-i Giamal Bariz 3795 m., Kūh-i Saghe 3700 m.), e almeno i 2000 in quella orientale (Kūh-i Birg 2750 m., Kūh-i Shāh di Faizābād 2706 m., Kūh-i Shāh nel Seistān 2527 m., ecc.), che è però ancora piuttosto mal conosciuta. Dato il clima aridissimo dell'altipiano, le forme del rilievo non ricordano per nulla, qui, le regioni marginali d'alta montagna: imponente e caratteristica è infatti, quasi dovunque, l'ampiezza assunta dai detriti di falda (damān) e dagli accumuli degli sfasciumi dovuti alla disgregazione meccanica nelle zone più elevate (däsht), mentre il reticolo idrografico non arriva a disegnare se non maglie del tutto embrionali.

Accostandosi verso S., i due cimali si raccordano per mezzo di più serie di colline e di montagne (Kūh-i Parwīz, Kūh-i Shutūri; il Kūhi Naibänd tocca i 3600 m.), che sezionano a mo' di sbarre l'ampia distesa dell'altopiano, la cui altezza varia, in media, dai 700 (Khorāsān) ai 300 m. (Namaksar), alternandosi con evidente irregolarità in ogni direzione. Anche per questo, dunque, meglio che d'una regione sola, a caratteri uniformi, si deve parlare d'un complesso di più o meno vasti bacini chiusi, ognuno dei quali presenta, almeno fino a un certo punto, aspetti suoi proprî. D'altronde, la varietà delle forme è rispecchiata nella stessa toponomastica, che definisce più termini di passaggio dai bacini ancora occupati, sia pure temporaneamente, da lagune (hāmūn, come nel Seistān) al deserto pietroso (däsht) o coperto da incrostazioni saline (lūṭ). Data la disposizione del rilievo, l'altipiano va restringendosi in larghezza - da O. a E. - man mano si scende verso S.; per contro, con l'accentuarsi dei caratteri di aridità del clima, si accentuano, almeno come regola, verso S. le forme desertiche. Delle quali, i termini tipici possono considerarsi il Kawīr, che si distende da Teherān al Khorāsān, e il Däsht-i Lūṭ, che occupa la maggior parte del Kirmān. Il primo è costituito da superficie piatte o appena mosse, in cui ampie pianure di alluvioni minute alternano con strisce di incrostazioni saline: solo durante il breve periodo delle piogge un sottile velo d'acqua si stende qua e là nelle zone più depresse, dove improvvisi torrenti vanno ad abbandonare il loro carico fangoso. Il secondo rappresenta uno stadio ancora più avanzato nel progressivo disseccamento a cui tutti questi bacini sembrano destinati: il vero deserto pietroso e ciottoloso, dunque, nel quale la stessa maggior potenza dei depositi salini tradisce la quasi totale scomparsa dell'acqua. L'una e l'altra regione costituiscono aree in cui la vita, pur non del tutto assente (come prova l'esistenza delle oasi marginali di Tabas, Tun, Giandaq, ecc., e il passaggio periodico delle carovane che vi fan capo da tempo immemorabile), subisce un tale arresto, da farne un baluardo anche più difficile a superarsi, nei movimenti di masse, che non le stesse fasce rilevate sui margini.

Notevole il fatto che le coste della Persia, per lo più alte e con retroterra montuoso, siano del pari ostili all'accesso dall'esterno e quasi dovunque poco adatte agli approdi. Anche le isole scarseggiano e sono tutte di fronte al litorale del Golfo Persico (Quais, Bū Shu‛aib, Larak): la maggiore è quella di Ṭawīlah o Kishm (1333 q.).

Clima. - Data l'estrema scarsezza di osservazioni regolari, le condizioni climatiche della Persia sono conosciute solo nelle grandi linee, imperfettamente e non di rado indirettamente, dalle conseguenze che hanno sulla morfologia e sulla idrografia delle singole zone. Caratteri comuni alla maggior parte del paese sono la prevalenza di basse pressioni, la forte insolazione, l'aridità o la scarsezza delle precipitazioni, la mancanza o la breve durata delle stagioni intermedie. I contrasti più forti sono poi, anche per il clima, fra le zone periferiche e l'interno: la continentalità va infatti accentuandosi bruscamente da quelle verso questo, perché le montagne limitano ai margini i benefici influssi del mare, spogliando della loro umidità le correnti aeree che le vengono a battere. È da aggiungere che l'altipiano iranico rimane quasi per intero nel dominio dei venti che spirano dalle aride steppe del N., mentre umidità e precipitazioni sono, sul litorale del Golfo Persico, in rapporto con quelli provenienti dal Mediterraneo: l'influenza dei monsoni appare pressoché trascurabile.

Nonostante le diversità locali - forse più notevoli che non si creda - le stagioni si riducono in sostanza a due: la calda o asciutta, che è di regola la più lunga (nelle zone centrali da aprile a ottobre), e la fredda o piovosa, che dura tanto più, quanto più si procede verso NO. e NE.; stagioni separate da brevi periodi di trapasso, che nell'interno del paese finiscono con non essere talora neppure avvertiti. Un posto a sé è da fare alle due zone litoranee: a clima umido, subtropicale, quella sul Caspio; assai più caldo, per l'influsso delle vicine aree continentali, quella sul Golfo Persico, dove gli eccessi estivi riescono, per la stessa umidità, anche più insopportabili ai Bianchi. Le temperature medie annue ridotte al livello del mare oscillano, grosso modo, da 15° a 25°; quelle del gennaio da 0° a 20°; quelle del luglio da 15° a 32°; ci sono però di fatto differenze assai forti da luogo a luogo, sia per l'altezza, sia ancor più per la distanza dal mare e dalle fasce montuose che circondano e attraversano il paese. L'escursione diurna tocca e supera spesso i 30°: di contro a massimi che possono giungere fino a 500, il termometro segna d'inverno, e frequentemente, minimi fra −15° e −30°, non solo nelle regioni interne, ma a poca distanza dal mare (lungo il basso Kārūn).

Le piogge sono copiose solo lungo il litorale caspico - dove (Lenkorān) superano i 1200 mm. medî l'anno - nell'Azerbaigian, in parte del Kurdistān e in alcune delle più elevate aree montuose. In tutto il resto del paese si è probabilmente intorno o al disotto dei 500 mm.; ma nei deserti, nelle regioni meridionali e nelle pianure del ‛Arabistān non si raggiunge forse neppure la metà di questa cifra. Di più le precipitazioni si concentrano di regola nei mesi invernali, e, per il loro carattere temporalesco, in pochi giorni soltanto (al dire del contadino persiano non più di tre volte in un mese), senza che vi sia un qualche compenso nell'umidità atmosferica (quasi dovunque, salvo cioè sui due cercini montuosi marginali, ridottissima). Per contro, la neve cade d'inverno su gran parte dell'altipiano, dove si conserva anche a lungo, permettendo così il rifornimento delle sorgenti, a cui è legata la possibilità di vita delle oasi non solo periferiche, ma pure interne, in quanto alimentate dai bastioni rilevati che interrompono l'altipiano.

Fra i venti - nei quali prevale, come regola, la componente N. - meritano speciale menzione, per la loro frequenza e violenza, quelli che soffiano nelle regioni dell'E. (il cosiddetto "vento dei 120 giorni", sulla frontiera afghana): la forte evaporazione che essi determinano da aprile a ottobre dissecca più o meno completamente le superficie liquide dei bacini chiusi, impedendo a questi di convertirsi in laghi salati e, pur in tal modo, creando condizioni di vita meno ostili all'insediamento umano.

Idrografia. - Quanto s'è accennato del clima spiega perché la Persia, nonostante la sua grande estensione, sia povera di fiumi e perché il più di questi abbia carattere torrentizio, con acque, cioè, solo nei periodi delle piogge e dopo lo scioglimento delle nevi, ma col letto asciutto, o quasi, durante il lungo periodo estivo. Inoltre, di contro al ristretto dominio dei mari periferici - il Caspio e l'Indiano - sta l'ampiezza dei bacini chiusi, che formano, come s'è visto, i 3/4 del territorio persiano: i fiumi che sfociano nei primi penetrano ben poco nell'interno delle terre, mentre i secondi mettono capo a specchi d'acqua che, per le condizioni del clima, hanno carattere anch'essi di periodicità, con oscillazioni sensibili da anno ad anno, e da regione a regione.

I più importanti fiumi del Caspio sono l'Arasse (1000 km.) e l'Atrek (550 km.), che segnano ambedue un tratto di frontiera; degli altri, nessuno ha importanza più che locale, dato il loro regime (corso breve, impetuoso, con letto non sistemato e forte carico alluvionale), salvo il Sefīd Rūd, la cui erosione regressiva, tagliando l'asse dell'Elburz, ha catturato Shāh Rūd e Qizil Ūzun, e ha spinto così i suoi rami sorgentiferi nel cuore dell'Azerbaigian. Catture ed epigenesi caratterizzano anche i corsi d'acqua defluenti sul margine esterno dello Zagros; una linea che da Hamadān per Iṣfahān e Shīrāz giunga a Lār segna all'ingrosso il limite raggiunto, su questo lato, dalle rapine dei fiumi che finiscono al Golfo Persico. Dei quali il Kārūn, oltre che il più lungo (700 km.) - e in pari tempo il più lungo fiume interamente persiano - è il solo navigabile, nei 180 km. che disegna fra Ahwāz e il suo sbocco nello Shaṭṭ. Tanto il Kārūn, quanto il Karkhā, e in genere i fiumi tutti di questa zona, risultano da tratti longitudinali talora volti in direzione opposta, e raccordati da forre (teng), con profilo longitudinale assai irregolare, e perciò di scarsa o nessuna utilità come vie d'accesso e di comunicazione, mentre hanno, e più potranno avere in futuro, notevole importanza, data la loro copia d'acqua, per l'irrigazione artificiale.

Un posto a sé è da fare, tra i bacini interni, a quello del Lago Urmia (oggi Däryača-i Riẓā'iyyeh), alimentato essenzialmente dal Agi Ciāi, che scende dal rovescio dell'Elburz, e dal Giagatu (Djagat), le cui sorgenti sono invece nel Kurdistān. Sebbene le oscillazioni del suo livello siano certo cospicue (la superficie varia da 4500 a circa 7000 kmq. nelle piene primaverili), non si possono certo paragonare con quelle che si verificano nelle regioni interne, specie nel Seistān, dove le lagune (hāmūn) scompaiono affatto durante la stagione asciutta, e anche nell'epoca delle piogge la profondità non raggiunge, o supera di poco, il metro (mentre è di 6 m., in media, nel Lago d'Urmia). L'esistenza di questi specchi d'acqua è condizionata da afflussi liquidi provenienti talora d'oltre frontiera (così, p. es., per lo Hilmend, il Nilo dell'Afghānistān sud-occidentale), talora dal rovescio delle barriere montuose marginali, com'è il caso dello Havz-i Sulṭān e del Däryā-i Namak, a S. di Teherān, alimentati dal Qara Ciāi, dal Rūd Qum e dal Rūd-i Shūr. Essenzialmente per la loro importanza storica possono meritare un cenno il piccolo Zindeh Rūd, che finisce nel Gav Khāneh a S. di Iṣfahān, e il Bänd-i Amīr, a cui si deve il piatto allargamento del Niriz (Däryacha-i Tasht e Däryacha-i Niriz) a E. di Shīrāz.

Flora e Vegetazione. - Data la sua posizione geografica la flora di questa regione rappresenta un collegamento fra la flora del Caucaso, dell'Asia Minore e della Mesopotamia da una parte e quella delle steppe asiatiche dall'altra. Caratteristica del deserto persiano salato, a constatazione di tutti i viaggiatori, è l'assoluta mancanza di vegetazione per la grande salinità del suolo; vi sono solo tre oasi e, di queste, due posseggono acqua dolce. Questo deserto è chiamato dai Persiani con il nome di Lūṭ. Sui margini meridionali di esso e precisamente sui monti e sulle colline circostanti si trova una vegetazione alofitica di Salsolee e di Calligonee, alle quali si aggiungono alcune Graminacee, mentre sulle rocce nude dei monti crescono una Pistacia e alcuni cespugli spinosi (Amygdalus scoparia, Gymnocarpus, ecc.).

Col nome persiano di garmsir (paese caldissimo) si designa quella regione ove si coltivano i datteri e che coincide col limite settentrionale del dattero e del giuggiolo (Zizyphus spina Christi): qui vi è una vegetazione effimera di piante, che compiono tutto il loro ciclo biologico prima della caldissima estate e i loro fiori dai vivaci colori abbelliscono il paesaggio durante il periodo primaverile. Qui cresce la gigantesca ombrellifera Dicyclophora persica insieme con Pentanema divaricatum, Linum spicatum, Diarthron vesiculosum, ecc. Intorno ai centri abitati, in masse più o meno considerevoli a seconda della disponibilità d'acqua, crescono le palme dattilifere e si coltiva anche il Gossypium herbaceum. Col nome di giängal si designa l'insieme delle formazioni legnose e con quello di sardsir le terre fredde, dove nell'estate i nomadi conducono a pascolare le loro greggi. Però le formazioni legnose si possono mantenere solo là dove la temperatura è abbastanza mite e l'umidità sufficiente per il loro sviluppo: precisamente sul versante rivolto verso il Caspio, ove il Fagus silvatica trova il suo estremo limite orientale, esse sono più sviluppate. Vi sono boschi di Parrotia persica associata a Albizzia julbissin, Gleditschia caspica e Pterocarya caucasica. Non mancano poi Platanus orientalis, Quercus persica (che si spinge fin verso i 2000 m.), Carpinus orientalis (che raggiunge i 2500 m.), Fraxinus, Zelkova crenata, Acer, Populus.

La regione alpina comincia ad un'altezza variabile fra i 1950 e i 2500 metri, a seconda delle zone montuose, e qui si trova nei monti del Kūh Daena una fascia di formazioni frutescenti dovute alla Lonicera persica, e non mancano ovunque nella zona montana alpina cespugli di Astragalus che non vanno oltre i 2700 m. Le famiglie che sono rappresentate da maggior numero di specie nella flora persiana, disposte in ordine decrescente, sono: Leguminose (riccamente rappresentato il gen. Astragalus), Composte, Crucifere, Cariofillacee, Labiate, Borraginacee, Ombrellifere, Scrofulariacee, Graminacee, Gigliacee.

Fauna. - Fauna molto ricca e interessante, specie per la presenza di larghe zone a carattere desertico, le cui particolari condizioni climatiche influenzano la costituzione di peculiari tipi di faune. Da un punto di vista generale citeremo varie forme animali della fauna persiana. Ben rappresentati i Chirotteri con numerose forme di pipistrelli, tra i quali il pipistrello del deserto; gl'Insettivori annoverano alcune specie di ricci tra le quali il caratteristico riccio dai grandi aculei; tra i Carnivori ricordiamo la iena striata, varie specie di puzzole, donnole, la mangosta dorata, la volpe persiana, varie specie di gatti. Numerosi i Rosicanti, tra i quali il castoro, il ghiro persiano, il topo persiano, varie specie di ratti, arvicole, il gerbillo afgano, la lepre persiana, il caratteristico spalace con gli occhi ridotti come la talpa e, tra i topi saltatori, l'alactaga. L'onagro, rappresentante dei Perissodattili e tra gli artiodattili varie gazzelle, il muflone di Gmelin, simile al muflone di Sardegna, varie capre tra le quali la capra del Benzoar, il capriolo, il daino persiano, il cervo, limitato alla zona dei confini occidentali.

Ricca di forme è anche l'avifauna persiana, così come numerose sono le specie di Rettili, di Anfibî e di Pesci d'acqua dolce. Gl'invertebrati annoverano una rima e interessante fauna entomologica, specialmente per quanto si riferisce alle specie delle regioni desertiche.

Popolazione. - Le stime, che fino a poco tempo fa erano l'unica fonte sulla consistenza numerica della popolazione persiana, oscillavano tra estremi assai lontani (da 4 a 12 milioni di ab. nel periodo postbellico); il censimento eseguito nel 1933 ha segnato 15.055.155 anime, ciò che corrisponde a una densità media di poco più che 9 ab. per kmq. La Persia è così al quarto posto fra gli stati asiatici indipendenti per popolazione assoluta (dopo la Cina, il Giappone e la Manciuria), ma all'ultimo per densità (quando si prescinda dagli stati arabi), con lo stesso indice dei paesi europei meno popolati, quali la Norvegia e la Finlandia. Al pari di quanto avviene in queste regioni, i valori medî della densità variano assai da zona a zona; da spazî pressoché spopolati (quali gli ampî deserti orientali del Lūt e del Käwīr) si passa infatti a plaghe in cui si hanno addensamenti paragonabili a quelli dei paesi più fittamente abitati dell'Asia anteriore, com'è certo del litorale sul Caspio, dove si calcola che viva all'incirca un terzo dell'intera popolazione persiana. La densità è del pari notevole - relativamente - nell'Azerbaigian, nel basso Kārūn e intomo ai centri maggiori; in genere va diminuendo con una certa regolarità da NO. a SE., in evidente armonia con le condizioni del rilievo, ma dei due margini montuosi solo quello settentrionale segna cifre considerevoli, mentre a S., lungo le rive dell'Indiano, i valori si allontanano poco dalla media.

Della popolazione persiana, da 1/7 a 1/4 secondo le varie stime (in ogni caso non meno di 2 1/2 a 3 milioni d'individui) è rappresentato da nomadi, ma va tenuto presente che non v'è un distacco netto tra questi e i veri e proprî sedentarî; al contrario, le condizioni ambientali creano una gamma assai varia di stadî intermedî. Di regola il nomadismo si fa tanto meno assoluto, quanto più ristretto è il territorio sul quale si compiono gli spostamenti; perciò esso si conserva tanto più tenacemente, quanto più si procede da NO. verso SE., passando per contro a forme seminomadi nella Persia settentrionale e scomparendo quasi del tutto nell'Azerbaigian.

Il contrasto cui s'è accennato fra nomadi e sedentarî si riflette visibilmente anche nelle condizioni del popolamento, come mostra già il fatto generale che gl'insediamenti si vanno facendo più numerosi e cospicui procedendo da S. a N. e da SE. a NO. Sempre come regola, le forme dominanti in Persia sono le accentrate, sia perché determinate essenzialmente dalla presenza, quasi dovunque rara e occasionale, dell'acqua, sia per le necessità della difesa contro i nomadi razziatori: la maggiore o minore grandezza dei centri è poi in rapporto con varî fattori, di cui il più importante è senza dubbio la favorevole posizione rispetto alle vie carovaniere. Così si spiega perché le città, pur cambiando talora di postura, rimangano in sostanza press'a poco nelle stesse zone; perché la loro ubicazione coincida per lo più coi margini o il rovescio delle regioni montuose; e anche perché la percentuale della popolazione urbana - ossia di quella che vive in centri superiori ai 10 mila abitanti - tocchi, in un paese a economia ancora così arretrata, una cifra relativamente tanto alta (oltre 2 milioni di ab., cioè 1/5 del totale). Di fatto, però, questi centri sono bene lontani dal rassomigliare alle nostre città, formati come sono quasi tutti (salvo cioè i più popolosi, e quelli in cui è evidente l'influsso della civiltà occidentale) da un confuso dedalo di vicoli e di viuzze polverose e contorte, che mette capo a un'unica più o meno ampia piazza centrale - il bazar - dove si concentra il traffico e si conducono le quotidiane contrattazioni. Molte città dell'interno sono circondate da mura di fango secco, oltre le quali si stendono giardini, orti e campi, anch'essi recinti nella stessa guisa. Secondo il censimento del 1933 solo quattro città, oltre la capitale (che novera 360 mila ab.), superano i 100 mila ab. (Tabrīz, Meshhed, Shīrāz e Iṣfahān); sette i 50 mila (Hamadān, Resht, Kirmānshāh, Qazvīn, Kirmān, Yezd e Sulṭānābād), dieci i 25 mila, e nove i 10 mila.

Mancando cifre attendibili sulla popolazione persiana in un passato anche non remoto, è difficile dire qualche cosa sul suo movimento naturale. Pare certo che l'accrescimento - se davvero v'è stato nell'ultimo secolo - deve aver avuto luogo con molta lentezza, non tanto per la bassa natalità, quanto per l'alta mortalità (specie dei bambini), determinata sia dalle deficienti e talora pessime condizioni igieniche (paludismo, epidemie), sia dalle continue ostilità che hanno afflitto il paese innanzi l'affermarsi dell'attuale regime. L'aumento post-bellico della popolazione è in gran parte dovuto alle migliorate condizioni di sicurezza e di ordine pubblico: ne è un sintomo anche la chiara tendenza all'urbanismo, conseguente più alla diminuzione e, per alcune plaghe, alla definitiva scomparsa del nomadismo, che allo sviluppo dell'attività industriale, ancora bambina.

Etnografia. - Dal punto di vista etnico, la popolazione della Persia risulta di elementi diversi, venuti a contatto e confusi l'uno con l'altro a più riprese, da epoca antichissima. Anche senza tener conto delle immistioni verificatesi avanti l'arrivo degli Arabi (sec. VII), basta ricordare il lungo flusso di popolazioni turche e mongole che ebbe luogo tra il secolo X e il sec. XIII; gli spostamenti voluti, per ragioni di difesa e di sicurezza, dai sovrani della Persia, d'interi gruppi di tribù sui confini del paese, specialmente sulle regioni marginali del NO. e del NE.; la relativa facilità di accesso a queste regioni dai territorî finitimi, attraverso i quali appunto passarono le orde di pastori e di guerrieri, destinate ad affermare il proprio dominio sopra tutta o la maggior parte della Persia.

Alla difficoltà di discernere, oggi, i diversi elementi che entrano a far parte della popolazione, si aggiunge la deficienza e la scarsa attendibilità delle statistiche, mentre un altro motivo di confusione sta in ciò, che non poche delle popolazioni allogene, anziché conservare i proprî idiomi, hanno finito col preferire quale lingua d'uso il persiano, che le migliorate condizioni di stabilità politica tendono ad affermare più largamente, ma che ebbe sempre una maggior forza di assimilazione e di espansione, non foss'altro perché rimasto veicolo tradizionale di cultura e mezzo di governo. Si può tuttavia calcolare all'ingrosso che un terzo degli abitanti appartenga a gruppi etnici più o meno nettamente distinti dai Persiani, ma avvertendo subito che questi sono ben lungi dal rappresentare una massa omogenea e immune da incroci. Meglio conservati, in ogni caso, appaiono i caratteri dell'originaria popolazione presso i Parsi dell'interno, dove questo è meno facilmente accessibile per le condizioni del rilievo e lo schermo che le larghe distese desertiche gli fanno verso le regioni periferiche. Oggi i nuclei più compatti si localizzano lungo il litorale caspico, nel Khorāsān settentrionale, fra Astarābād e Meshhed, e nella zona centrale che da Qazvīn e Teherān va a Shirāz ed a Kirmān per Yezd.

In opposizione a questo nucleo di sedentarî, per lo più dediti all'agricoltura, stanno Curdi e Luri, etnicamente i più vicini fra gli allogeni ai Persiani, e dopo questi i più numerosi (680 mila Curdi, 250 mila Luri), ma nella quasi totalità nomadi o seminomadi, e comunque ben individuati anche per l'uso di lingue proprie, tenacemente conservate. I Curdi occupano le regioni montuose sui due versanti dello Zagros, spingendosi oltre frontiera nell'‛Irāq e in Armenia; qualche migliaio di essi si mantiene ancora nel Khorāsān settentrionale e rappresenta un avanzo delle colonie militari colà trapiantate per volere sovrano nel secolo XVII. Oltre che la provincia omonima, i Luri occupano buon tratto delle zone finitime verso Kirmānshāh ed Isfahān, spingendosi fino a Shīrāz: emerge, fra i molti gruppi e le molte tribù in cui si riconoscono divisi, la fiera popolazione dei Bakhtiyāri, che ebbero in passato gran fama come i più terribili predoni del SO., e alla cui organizzazione militare si deve il trionfo della rivoluzione del 1906. Curdi e Luri solo in questi ultimi anni sono stati ridotti a un'effettiva obbedienza al potere centrale.

Poco inferiori di numero a queste sono le popolazioni turaniche o turco-mongole, che abitano in prevalenza a N., ma si ritrovano come nomadi nelle regioni del centro e in nuclei sparsi anche nelle provincie meridionali (Fārs, Kirmān). Si possono calcolare intorno ai 730-750 mila individui. I nuclei più compatti sono nell'Azerbaigian, nelle provincie caspiche, e lungo la frontiera del Turkmenistan, dove vivono dediti all'agricoltura e alla pastorizia. Dai turcomanni della regione di Astarābād è uscita la dinastia dei Qāgiāri (v. sotto: Storia). Nel bacino del Kārūn, lungo le rive del Golfo Persico, nella provincia di Shīrāz, e qua e là anche nelle zone steppose e desertiche orientali, vivono in complesso circa 250 mila Arabi, solo in piccola parte fissati al suolo, e per lo più occupati nel commercio carovaniero, o nomadi e predoni essi stessi (Fārs).

Nessuna delle altre minoranze (Beluci e Zingari in numero di 20 mila, Ebrei, Caldei, nonché Negri lungo le coste del Golfo Persico) assume importanza più che locale, compresi i 45 mila Armeni stabiliti in villaggi compatti nelle regioni del NO. e anche presso Teherān ed Iṣfahān. Gli europei si calcolano intorno ai 6 mila, e vivono tutti nei maggiori centri urbani, massime del N.

Agricoltura e allevamimo. - Si può calcolare all'ingrosso che poco meno dei 2/3 del territorio persiano non si prestino alle colture, essenzialmente per la mancanza o la deficienza di acque; quanto al resto, appena i 2/5 sono disponibili davvero per l'agricoltura, poiché il rimanente viene lasciato al pascolo o è coperto da foreste. Anche per questo s'intende facilmente che l'allevamento debba rappresentare, nell'economia del paese, un'attività per lo meno altrettanto notevole, e forse più, che la stessa agricoltura, la quale del resto, date le condizioni speciali del clima, il carattere prevalentemente stepposo delle zone produttive e l'attuale stadio d'evoluzione industriale della Persia, non riesce in sostanza a sollevarsi da forme largamente estensive. Inoltre la deficienza di comunicazioni da zona a zona del vasto territorio, e il conseguente alto costo dei trasporti, fanno sì che molte delle colture meno remunerative - come, p. es., quelle dei cereali - mirino essenzialmente a coprire fabbisogni locali, tanto più che le eccedenze di alcune zone non sembra riescano a trovare esito, non che oltre confine, nell'interno del paese. Infine, agricoltura e allevamento non si completano, perché la prima è occupazione di sedentarî, il secondo quasi tutto in mano dei nomadi, non tenendo i contadini se non il numero di capi strettamente necessario ai bisogni delle proprie aziende. Inutile aggiungere che a perpetuare queste condizioni, a parte la tecnica ancora antiquata e rudimentale, concorrono la cattiva distribuzione della proprietà terriera e i metodi di conduzione, che gravano eccessivamente sul contadino, disamorandolo dalla terra che lavora. L'agricoltura è meglio sviluppata e volta a maggiore varietà di prodotti nelle provincie più umide e più fertili della Persia settentrionale e occidentale, dove ha caratteri simili, in fondo, a quelli dei paesi mediterranei, appunto perché è possibile senza l'irrigazione artificiale; nel resto della Persia, invece, e soprattutto nelle regioni interne, il terreno agricolo si restringe alle oasi, separate l'una dall'altra da vaste strisce d'improduttivo e destinate - per mezzo di canalizzazioni - essenzialmente a colture arboree (frutteto) o a giardinaggio.

Quando si tenga d'occhio soprattutto l'economia interna, il primo posto è da fare ai cereali, dei quali il grano, il mais, il miglio e l'orzo provvedono al fabbisogno del paese, mentre il riso alimenta una discreta esportazione. Provincie cerealicole sono l'Azerbaigian, il Khorāsān, lo ‛Arabistān e il litorale caspico (quest'ultimo specialmente per il riso).

Largo contributo al commercio con l'estero dà il cotone, la cui coltura, pure già diffusa (Khorāsān, Astarābād, Māzanderān, Kāshān, Iṣfahān, Kirmān, ecc.), tende a soppiantarne altre meno remunerative (piante coloranti), soprattutto nelle provincie dell'interno. L'esportazione è più che raddoppiata nell'ultimo quinquennio. Diminuita invece in apparenza, l'esportazione dell'oppio, che formava una delle basi del commercio estero della Persia (da 1/4 a 1/5 del totale di questo commercio, in valore), ma il largo contrabbando che se ne continua a fare prova che la sua coltura rimane, come è sempre stata, una delle più importanti; e difatti si pratica quasi dovunque, massime nel Kurdistān, Kirmānshāh, Hamadān, Iṣfahān, Fārs, Kirmān e Khorāsān. Sebbene il governo abbia sottoposto la coltura dell'oppio a un severo controllo, la sua riduzione comprometterebbe economicamente una larga parte della popolazione agricola, soprattutto per la difficoltà di sostituire questa pianta con una o con più altre capaci di assumere un'importanza ugualmente grande nella vita del paese. L'oppio si adatta infatti bene alle condizioni del clima asciutto dell'interno, perché bisognoso di poca acqua; non è attaccato da parassiti o da cavallette (il grano invece soffre grandemente per gli assalti di queste, per la ruggine, e, negli ultimi anni, per l'apparizione su vaste aree dell'eurygaster integriceps) e presenta il vantaggio di unire grande valore economico a piccolo volume, ciò che gli permette il sostenere bene le spese di trasporto. Diffuso è anche il tabacco (le qualità migliori sono prodotte sul litorale caspico e nel Khorāsān), ma il suo peso nell'economia nazionale è quasi trascurabile, ciò che si può ripetere di varie piante, quali l'indaco (‛Arabistān, Luristān, Mäkrān), lo zafferano (Azerbaigian, Fārs, Kirmān), lo henné (Kirmān), il ricino, la manna, il te (che durante la guerra, per la crisi della bachicoltura, si era diffuso a spese di questa, nelle provincie caspiche), ecc.

Dopo un breve periodo di crisi, corrispondente in sostanza alla grande guerra, la produzione degli alberi da frutta, che nelle provincie settentrionali aveva preso al principio del nostro secolo un grande sviluppo, ha seguitato ad affermarsi e ad estendersi sempre più fino al 1926, entrando con forti quantitativi nelle esportazioni; questi ultimi anni sembrano invece accennare a una certa contrazione. Oltre gli agrumi (litorale caspico) e i datteri (regioni meridionali), le provincie persiane raccolgono largamente pesche, albicocche, pere, mele, prugne, fichi, mandorle, noci, pistacchi, melograni, meloni, ecc., massime nelle oasi dell'interno, mentre i distretti occidentali, dal Kurdistān al Fārs, dànno ottimi vini e quelli settentrionali, dal Gīlān allo Astarabād, olive e gelsi. Finalmente meritano ricordo, fra le colture arboree, le piante da gomma (adragante), i cui prodotti entrano anch'essi tra gli articoli esportati. La canna da zucchero (litorale caspico, Kirmān) ha ceduto a poco a poco di fronte alla barbabietola. Non mancano foreste alla Persia (litorale caspico, Zagros), ma non si può dire che siano razionalmente sfruttate. D'altronde, non si hanno dati sicuri sulla loro effettiva consistenza e sul loro attuale rendimento: legname da opera si trae comunque quasi soltanto dal versante settentrionale dell'Elburz.

L'allevamento rappresenta se non l'unica, certo l'occupazione di gran lunga prevalente dei nomadi, ma anche in questo caso poco o nulla che meriti il nome di zootecnia.

Il primo posto è occupato dagli ovini, diffusi in tutto il paese, soprattutto nelle alte steppe delle regioni marginali e nel Khorāsān: si allevano per ricavarne alimento (carne e latte), ma specialmente materia prima (lana e pelli) per le industrie domestiche in gran parte esercitate dagli stessi nomadi. Meno numerose le capre (in queste medesime zone); meno ancora i bovini, che stentano nelle aride plaghe dell'interno: lungo il litorale caspico s'impiegano quasi soltanto bufali. Meglio selezionate le specie destinate ai trasporti, massime il cavallo, del quale si hanno ottime razze presso le popolazioni arabe del SO. e le turcomanne del Khorāsān: come animali da soma, oltre al dromedario, vengono usati il mulo e, per i piccoli carichi, l'asino, molto comune sul litorale caspico.

Sempre sul litorale caspico è in fiore da antico tempo la bachicoltura, che si estende pure nell'Azerbaigian e in alcune delle provincie interne. Anche in questo caso la crisi determinata dalla guerra mondiale aveva portato un fiero colpo agli allevatori; la produzione ha ripreso nel periodo postbellico, nonostante che, data la sua distribuzione geografica, il collocamento venga in sostanza controllato dalla U. R. S. S., attraverso i cui territorî passa del pari l'esportazione destinata ai paesi europei.

Ricchezze minerarie. - Sebbene ancora molto imperfettamente conosciute, non v'è dubbio che debbano essere considerevoli. L'altipiano possiede riserve cospicue di minerali diversi, ma il loro sfruttamento è ancora condotto secondo metodi primitivi e riesce costoso per la difficoltà e la deficienza delle comunicazioni.

Un posto a sé, tuttavia, è da fare al petrolio, che rappresenta oggi la principale risorsa dell'economia nazionale. I depositi si concentrano essenzialmente in due distretti: il primo, lungo il litorale caspico (dal Qara Dag per Ardabīl, Pehlevī e Sämnān fino nel Khorāsān settentrionale), in prosecuzione dei filoni petroliferi neogenici del settore caucasico; il secondo, sul pendio esterno dello Zagros, che rientra nella grande fascia dei depositi mesopotamici e si spinge a comprendere anche una parte del Fārs (Būshir). La presenza del prezioso liquido è accertata anche per altre provincie però la produzione odierna è ricavata quasi tutta dai pozzi del Khūzistān (Maidān-i Nafṭūn, Shushter, Dizfūl). I primi sondaggi in territorio persiano risalgono all'inizio del nostro secolo, ma solo durante la guerra mondiale lo sfruttamento cominciò ad assumere proporzioni considerevoli; dopo d'allora la produzione non ha cessato di aumentare di anno in anno, fino ad assegnare alla Persia il primo posto in Asia e il quinto nel mondo (dopo gli Stati Uniti, la U. R. S. S., il Venezuela e la Romania).

Alla Persia non mancano risorse di carbon fossile (di diversi orizzonti, ma per lo più del Giurassico), ed anche largamente distribuite dall'Elburz (Shāh Rūd) al Kirmān (Qazvīn, Iṣfahān, Bafq, Kirmān), all'Azerbaigian e al Lāristān (Bender ‛Abbās), mentre ligniti terziarie sono coltivate nella regione di Tabrīz, ma in complesso la produzione è ancora piuttosto scarsa. Scarso è anche il ferro: v'è tuttavia ematite presso Kāshān, a O. e a E. di Teherān, a Samnān e soprattutto non lungi da Bafq, e magnetite a Bafq e Natanz. Rame e piombo abbondano, l'uno e l'altro estratti da numerose miniere (Tabrīz, Kuhrud a S. di Kāshān, Anarak, Kirmān, Bandan per il primo; Anarak, Bafq e Natanz per il secondo); né mancano in varî luoghi stagno (Tabrīz), zinco (Anarak), mercurio (Zangiān, Iṣfahān), zolfo (Elburz, Kemālabād), ecc. L'oro si trova in piccole quantità anch'esso in diverse regioni (Dāmghān, Meshhed, Hamadān, Iṣfahān, Zengiān, ecc.), l'argento nel bacino del Kārun, il platino a SE. dell'Elburz. Accertata è poi la presenza di molti altri minerali come il nichelio, il cobalto, l'antimonio, il manganese, il borace, la potassa, ecc.; e ricchissimi sono i depositi di gesso e di salgemma (specie in corrispondenza ai sedimenti miocenici, molto diffusi nella Persia settentrionale). Poca importanza hanno invece, oggi, le pietre preziose (turchesi, rubini e smeraldi), che pure ebbero fama presso le popolazioni occidentali fino dall'alto Medioevo.

Industrie. - Quando si prescinda dalla raffineria dei petrolî, non si può ancora parlare d'industria moderna per la Persia. Combustibili liquidi e solidi non difettano, come s'è visto, e anche l'energia idroelettrica, se pur limitata ad alcune zone della Persia settentrionale, è, potenzialmente, tutt'altro che scarsa. Ma le condizioni della viabilità, l'alto costo dei trasporti, il livello di vita tradizionalmente basso delle masse (specie dei nomadi) e perciò lo scarso potere d'assorbimento del mercato interno ritardano, e ritarderanno ancora per un pezzo, l'evoluzione industriale del paese, nonostante la spinta impressale dalle misure protettive del governo, che tendono a emancipare la Persia dalla troppo lunga soggezione economica all'estero.

L'estrazione del petrolio, sebbene controllata dal capitale straniero (l'Anglo-Persian Oil Company Ltd., abbrev.: A. P. O. C., costituita a Londra nel 1909), dà vita al gruppo d'industrie più importanti del paese, le sole, anzi, che posseggano l'attrezzatura propria della grande industria nel senso a noi abituale. Nella zona di SO. i pozzi superano i 350, e assorbono una popolazione operaia di oltre 30 mila persone (di queste 25 mila Persiani). Il petrolio estratto dalla regione di Shūstar-Ahwrāz è portato per mezzo d'un oleodotto ad ‛Abbādān, dove sono depositi e raffinerie: anche l'esportazione è organizzata dalla A. P. O. C. La produzione è passata da 81 mila a 897 mila tonn. fra il 1913 e il 1918, superando nel 1919 un milione di tonn. L'aumento è continuato senza interruzione nel periodo postbellico, e tutto fa prevedere che proseguirà con ritmo inalterato ancora per qualche tempo, nonostante la piccola contrazione verificatasi nel 1931.

Larga rinomanza godono, anche in Occidente, i tappeti persiani: ma si tratta d'industria per la quasi totalità a carattere domestico, esercitata un po' dappertutto, ma principalmente presso i nomadi delle provincie occidentali (‛Arabistān, Iṣfahān) e del Khorāsān. La materia prima abbonda, ma la produzione è in ristagno, per la crisi di saturazione dei principali mercati (Europa, America Settentrionale); d'altronde solo da poco si sono introdotti qua e là (Teherān, Tabrīz, Yezd, Iṣfahān) metodi moderni di fabbricazione. Anche la tintura della lana è fatta generalmente per mezzo di colori vegetali, che la tradizione insegna a estrarre da piante indigene.

Carattere domestico ha, in sostanza, anche l'industria della seta, che mantiene il suo centro nel Gīlān (Resht), ma ha propaggini, oltre che nelle provincie caspiche, in quelle di Yezd, Kāshān e Kirmān. I tessuti di seta entrano nelle esportazioni con quantità tutt'altro che trascurabili.

Varie altre industrie provvedono, poi, essenzialmente al consumo interno; di queste, godono buona notorietà, anche fuori dei confini dell'Īrān, le industrie dei lavori in cuoio e delle armi damascate, che continuano a prosperare soprattutto nelle regioni dell'interno, la preparazione dei feltri e dell'indaco (concentrate quasi tutte nel bacino del Kārūn), la filatura e la tessitura delle lane (anch'essa prevalente a Iṣfahān, Qazvīn e Kāshān), la concia delle pelli (Tabrīz, Meshhed, Shīrāz), ecc.

Agli sforzi del nuovo governo si debbono i tentativi, non sempre riusciti, d'impiantare le industrie meccaniche, le cementizie e lo zuccherificio. Quest'ultimo comincia a lavorare la barbabietola prodotta nel paese (Teherān).

Comunicazioni. - Il territorio persiano appartiene a una regione che ebbe fino dalla più vetusta antichità grande importanza per gli scambî fra l'Asia orientale, l'India e il mondo mediterraneo. Ma col regolare intensificarsi delle navigazioni transoceaniche, al principio dell'evo moderno, questa funzione di transito cominciò a venir meno, finché, con l'apertura del canale di Suez e l'estendersi delle ferrovie (dal Caucaso e dal Turkmenistan), quelle che ancora nel Medioevo erano state le vie maestre del commercio internazionale, si ridussero ad avere importanza poco più che locale. E proprio allo spostamento così avvenuto nei traffici che avevano fatto la fortuna dell'Irān, è dovuta la decadenza di molti, anzi di quasi tutti i maggiori centri abitati persiani, che solo da una ripresa della loro tradizionale attività possono sperare il ritorno all'antico splendore. Nell'ultimo secolo la rivalità anglo-russa, premendo da opposte parti sui confini dello stato, ha avuto per effetto di rianimare questi scambî, che l'uno e l'altro contendente cerca di richiamare sempre più verso la propria rete di comunicazioni e di interessi.

L'asse del sistema di vie che dall'antichità al Medioevo provvedeva a smaltire il commercio di transito attraverso l'Irān corrisponde alla grande strada congiungente l'Armenia alla Bactria, per Tabrīz, Teherān, Dāmghān, Meshhed, Herāt, vale a dire al decorso segnato dal rovescio dell'Elburs e dai monti del Khorāsān settentrionale. Su questa via s'inserivano quelle provenienti dal litorale caspico (Astarābād-Ardabīl-Tabrīz; Pehlevī-Resht-Qazvīn; Bārfurūsh-Teherān, Sari-Astarabād) e dal Turkmenistan (Ashkhabad-Meshhed), dalla Mesopotamia (Baghdād-Kirmānshāh-Qazvīn; Bassora-Dizfūl-Qumm-Teherān) e dal Golfo Persico (Būshir-Shīrāz-Iṣfahān-Qumm-Teherān; Bender ‛Abbas-Kirmān-Yezd-Kāshān-Qumm) e infine dall'India (da Quetta per Bam a Kirmān) e dall'Afghānistān (per il Seistān a Bīrgiand), con tracciati che corrispondono a linee segnate dalle condizioni naturali, come prova il fatto che, nonostante le mutevoli vicende della millenaria storia persiana, questi si mantengono tuttora gli stessi. È però da osservare come alla prevalente direzione E.-O., che caratterizza il commercio persiano dall'antichità al Medioevo, si contrappone oggi la tendenza del traffico a orientarsi in senso longitudinale, perché a N. e a S. sono le zone in cui il confine politico viene toccato o attraversato da ferrovie che permettono gli scambî con le regioni finitime, o coincide con la linea di costa.

La Persia è quasi priva di ferrovie; i 750 km. attualmente in attività sono, oltre che male distribuiti (quasi tutti nelle provincie di confine), destinati a traffici locali, eccezione fatta per le due estremità (da Bender-i Shāh a ‛Alīābād Shāhī: 128 km., a N.; da Benderi Shahpūr a Dizfūl: 251 km., a S.; in esercizio dal 1929-30) della futura Transpersiana, che congiungerà il Caspio al Golfo Persico. La linea che da Džul'fa a Tabrīz (136 km.), con diramazione da Süfian a Sharafkhāne (costruita dai Russi durante la guerra mondiale), lega l'Azerbaigian alle provincie caucasiche, ha tuttavia una certa importanza anche per gli scambî con l'estero, molto più che quella, inglese, condotta dal Balūcistān per Mirgiava a Zāhidān (167 km.) nel Seistān. Nel 1930 la rete stradale misurava 13.950 km., dei quali appena 2195 km. di vie di grande comunicazione (9556 km. di seconda e 2199 di terza classe); vie che per il modo come sono tenute si differenziano di poco dalle piste e dalle carovaniere. Queste, d'altronde, smaltiscono la maggior parte del traffico interno, esercitato per mezzo di muli, dromedarî, cavalli e asini (in ordine di frequenza d'impiego). Per il trasporto della posta (280 uffici nel 1931; 3700 stazioni telefoniche; la rete telegrafica è lunga circa 15 mila km.) e dei passeggeri sono cominciati a entrare in servizio, nel periodo postbellico, gli autoveicoli, che superano in totale (compresivi cioè anche i privati) i 10 mila, di cui la metà autocarri, e rispondono assai meglio ai bisogni e alle caratteristiche topografiche del paese (da notare che molte delle strade sono nella Persia settentrionale ostruite anche per più settimane dalla neve). L'inoltro delle corrispondenze si giova pure dei servizî aerei che toccano località persiane (Būshīr e Giāsk sulle rotte: Amsterdam-Bandoeng, della compagnia olandese K. L. M.; Marsiglia-Saigon, dell'Air France; e Londra-Singapore dell'Imperial Airways).

L'aviazione civile della Persia dipende dal Ministero delle poste e telegrafi. La Junkers Luftverkehr Persien, l'unica società che funzionava nell'interno della Persia, ha sospeso, nel mese di marzo 1932, la sua attività. La concessione di transito accordata all'Imperial Airways, scaduta alla fine di marzo 1932, è stata rinnovata sino al 31 maggio dello stesso anno e prorogata fino al 1° ottobre, dopo di che la rotta è stata deviata lungo la costa arabica del Golfo Persico. Il governo persiano ha concesso alla società olandese K. L. M. di usufruire, a partire dal 1° ottobre 1932, della stessa rotta usata dagl'Inglesi. Nel territorio persiano esistono una quindicina di aeroporti.

Oltre la capitale, Tabrīz, Meshhed, Kirmānshāh, Shīrāz, Kirmān e Ahwāz possiedono stazioni marconigrafiche.

La navigazione marittima è totalmente in mani straniere (russe sul Caspio), e si concentra quasi tutta nei porti di ‛Abbādān, el-Moḥammarah, Būshīr, Lingheh e Bender ‛Abbās. Pehlevī è il porto principale sul Caspio. Nel 1932-33 il traffico marittimo segna 15 mila fra velieri, vapori e barche a motore entrati nei porti persiani, per un tonnellaggio globale di 7 milioni di tonn., delle quali poco meno di 1/2 milione spettano ai porti del Caspio. Scarsa importanza hanno i servizî di navigazione lacuale (sul Lago di Urmia) e fluviale (sul Kārūn da el-Moḥammarah a Shushter).

Commercio. - Perduto, come s'è visto, il grande commercio di transito fra l'Asia orientale e il Mediterraneo, che l'aveva arricchita fino al chiudersi del Medioevo, la Persia conta essenzialmente, per i suoi scambî con l'estero, sulle regioni marginali (N. e SO.), dove sono i maggiori centri di produzione e di raccolta: nelle provincie interne v'è stata finora, e continua in fondo a prevalere pur oggi, la tendenza a forme d'economia chiusa, determinate sopra tutto dalla difficoltà e dal forte costo dei trasporti, nonché dalla scarsa produttività delle regioni stesse. Quando si prescinda però dai petrolî e dalle industrie che vi sono connesse, è evidente che la proporzione di gran lunga maggiore di questo traffico spetta alle regioni del N., per le quali i mercati di sbocco non possono essere naturalmente che a N., vale a dire in territorio russo (e in piccola parte armeno). Questo spiega perché la Russia avesse potuto nell'anteguerra - quando l'estrazione del petrolio dal Khūzistān era ancora ai suoi inizî - non solo conquistare una posizione di privilegio nel commercio persiano, ma riuscire a estendere anche la sua penetrazione, sotto questo rispetto, oltre la stessa sfera d'interessi che le era stata riconosciuta dall'accordo anglo-russo del 1907. Già nel 1904-5 la sua partecipazione al commercio d'importazione persiano superava di molto quella inglese (48,6 contro 34,2%), ma con la guerra mondiale, e soprattutto dopo il collasso del 1917, le posizioni cambiavano totalmente, sì che, pochi anni dopo la conclusione della pace, la quota dell'U. R. S. S. si riduceva quasi al livello di quella della Turchia (nel 1932-33 le importazioni russe costituivano appena l'11,8%, in confronto al 76,6% che spettava all'Inghilterra). Mentre prima della guerra la quasi totalità degli scambî aveva luogo verso il N., dopo il 1920 i porti del Golfo Persico hanno assorbito dal 73 al 90%, e anche più del traffico marittimo; né quello terrestre riesce a colmare il distacco. Sarebbe tuttavia erroneo trarre, da queste premesse, conclusioni di carattere generale: le vicende del commercio persiano sono infatti in stretta dipendenza dai mutevoli rapporti che le contingenze politiche suggeriscono con i due potenti vicini. Si può solo registrare come elemento nuovo, certo non effimero, la rivoluzione operata nel commercio estero persiano dal sempre maggior peso che vi hanno assunto l'estrazione del petrolio e le industrie che ne derivano.

Quando si prenda come base il quinquennio 1928-32 - oltre che più regolare per la maggiore stabilità economica e politica instaurata dal nuovo governo, anche più attendibile per i dati statistici che se ne possiedono - sono evidenti gli sforzi compiuti per ricondurre al pareggio, anzi a un eccedente attivo, la bilancia commerciale, compromessa da forti disavanzi (432 milioni di qrān nel 1929-30; 357 nel 1930-31, ma avanzo di 33 milioni di riyāl nel 1931-32, pur detraendo dal valore delle esportazioni quello degli olî minerali, monopolio dell'A. P. O. C.). A questo risultato ha contribuito notevolmente il rigido sistema di contingentamento stabilito dalla legge (febbraio 1931), con la quale il governo persiano decretava il monopolio sul commercio estero (il contingentamento fissa le importazioni a un livello che deve rimanere inferiore di almeno il 50% in valore all'esportazione).

Le importazioni constano per oltre i 3/5 (in valore) di prodotti fabbricati (62,7% nel 1930-31), e per poco meno di 1/4 (24,2% nello stesso anno) di generi alimentari e di bevande; le esportazioni per i 4/5 di materie prime o semilavorate (82,5% nel 1929-30) e per 1/10 circa di manufatti (l'11,7% nel 1928-29). Poco meno della metà delle importazioni è rappresentata da tessuti e filati (da 1/5 a 1/3, secondo gli anni, dai soli tessuti di cotone); seguono, a grande distanza, lo zucchero, gli olî minerali, il tè, i metalli grezzi e lavorati (massime ferro e acciaio), i veicoli (soprattutto automobili), le macchine, ecc., come risulta dalla seguente tabella:

Le percentuali spettanti alle varie categorie di prodotti hanno subito variazioni non sostanziali dal 1900 in poi; ben diversamente, invece, quelle relative ai paesi fornitori, anche limitatamente al quinquennio 1928-1932:

Sebbene non si possano trarre conclusioni da un così breve periodo di tempo, sono notevoli le contrazioni verificatesi nella quota dei paesi appartenenti all'Impero Britannico, nonché in quelle del Belgio e della Francia, cui fa contrasto la cresciuta partecipazione sovietica e nipponica, mentre scarsissimo continua a essere il contributo degli altri paesi finitimi e soprattutto dell'Afghānistān.

Dai 3/5 ai 2/3 del valore delle esportazioni è rappresentato dagli olî minerali e dai prodotti che ne derivano (la benzina entra con 1/3 nel complesso di questa voce; il petrolio raffinato appena con 1/8): la percentuale, che non toccava ancora il 40% intorno al 1922, sembra ormai stabilizzata. I tappeti costituiscono poco più di 1/10 del totale delle esportazioni; poiché la proporzione si mantiene pressoché immutata in confronto con l'anteguerra (11% nel 1904-5), l'importanza di questo prodotto è andata evidentemente aumentando. Diminuita è invece quella dell'oppio (12% nel 1904-5), sebbene, come s'è accennato, una parte forse considerevole dell'esportazione sfugga alle statistiche per il contrabbando. Discreto il quantitativo di frutta fresca e di cotone grezzo, cui seguono varî altri prodotti di minore importanza, come dalla tabella qui appresso:

Il principale cliente della Persia è la Gran Bretagna, la quale assorbe da sola da 1/3 a 1/2, in valore, delle esportazioni (il Dominion indiano però entra in questo commercio con appena il 10%); certamente più modesta, ma tuttavia in aumento, la quota spettante all'U. R. S. S. e notevole la partecipazione dell'Egitto, cui segue a non molta distanza la Francia. Mentre Afghānistān e Turchia acquistano assai poco in Persia, l'‛Irāq ne è diventato invece un assai buon cliente (petrolio); anche la quota italiana è cresciuta nel quinquennio 1928-32.

L'Italia esporta in Persia soprattutto tessuti di cotone, di lana e di rayon (che formano da soli i 4/5 in valore di questo commercio), nonché autocarri, automobili, pneumatici, macchine e attrezzi; ne importa olî minerali (massime petrolio e benzina; quest'ultima per oltre 1/3 dell'importazione totale italiana nel 1931), tappeti e gomma, i primi per oltre un centinaio di milioni e più all'anno.

Bibl.: Per un primo orientamento nella vasta letteratura, anche in stretto senso geografico, sulla Persia è da vedere A. T. Wilson, Bibliography of Persia, Oxford 1929, che tuttavia è ben lontana dall'essere completa. Le relazioni dei molti viaggiatori, anche non recenti, che hanno percorso il paese, conservano ancora in gran parte il loro valore; così è, p. es., per quelle, veramente classiche del Della Valle e dello Chardin. Tuttavia si ricordano qui solo opere che hanno attinenza con ciò che è detto nel testo e aiutano a illustrare meglio gli argomenti che vi sono toccati.

Sulla Persia in generale, cfr. J. E. Pola, Persien, das Land und seine Bewohner, Lipsia 1863; H. Brugsch, Reise der preuss. Gesandschaft nach Persien, 1860-1, ivi 1863; F. Spiegel, Eran, das Land zwischen Indus und Tigris, ivi 1863; S. G. W. Benjamin, Persia and Persians, Londra 1884; H. Brunnhofer, Iran und Turan, Lipsia 1889; G. H. Curzon, Persia and the Persian Question, Londra 1892; J. De Morgan, Mission scientifique en Perse, Parigi 1894-1905; E. Lorini, La Persia economica contemporanea, ecc., Roma 1900; E. Aubin, La Perse d'aujourd'hui: Iran, Mésopotamie, Parigi 1901; G. P. M. Sykes, Then thousand miles in Persia, or eight years in Iran, Londra 1902; Le Strange, The Lands of the eastern Caliphate, Cambridge 1905; A. V. W. Jackson, Persia past and present. A Book of Travel and Research, New York 1906; E. C. Sykes, Persia and its People, Londra 1910; V. Berard, Révolutions de la Perse. Les provinces, les peuples et le gouvernement du Roi des Rois, Parigi 1910; H. Grote, Zur Natur und Wirtschaft von Vorderasien, I, Persien, Francoforte 1911; A. F. Stahl, Persien, Heidelberg 1911; L. Fraser, The Problem of Persia, Edimburgo 1912; W. M. Shuster, The Strangling of Persia, New York 1912; W. P. Cresson, Persia, the Awakening East, Filadelfia 1918; F. Rosen, Persien in Wort und Bild, Berlino 1925; O. von Niedermayer, Uneter der Glutsonne Irans, Dachaus 1925; V. Sheean, The New Persia, New York-Londra 1927; A. Gabriel, Im weltfernen Orient, Monaco-Berlino 1929; G. P. M. Sykes, A Hist. of Persia, Londra 1929; F. Hesse, Persien, Entwicklung und Gegenwart, Berlino 1932, A. T. Wilson, Persia, Londra 1932. Fra le relazioni di viaggio moderne possono essere consultate ancora con profitto: P. Coste ed E. Flandin, Voyage en Perse, Parigi 1841; F. De Vecchi e G. Osculati, Giornale di carovana o viaggio nell'Armenia, persia ed Arabia, ecc., Milano 1847; T. P. Ferrier, Voyage en Perse, ecc., Parigi 1860; A. Vambery, Meine Wanderungen und Erlebnisse in Persien, Lipsia 1867; Houtum-Schindler, Reisen im südwestlichen und nördlichen Persien, Berlino 1879; J. Dieulafoy, La Perse, Parigi 1881; G. Radde, Wissenschaftliche Ergebnisse der Expedition nach Transkapien und Nordchorasan, Lipsia 1899; H. Grote, Wanderungen in Persien. Erlebtes und Erschautes, Berlino 1910; Sven Hedin, Zu Land nach Indien durch Persien, Seistan, Beluchistan, Lipsia 1910 (trad. it., Milano 1912); F. Hale, From Persian Uplands, Londra 1920. Sulle diverse regioni della Persia e sui temi accennati nel testo, cfr. E. Duhousset, Études sur les populations de la Perse, Parigi 1863; Eastern Persia, voll. 2, Londra 1876; O. Stapf, Vegetationsbilder aus dem südlichen und mittleren Persien, Cassel 1886; G. Radde, Die Fauna und Flora des südwestlichen Kaspiengebietes, Lipsia 1886; F. Hossey, Les races humaines de la Perse, Lione 1887; F. Houssay, La structure du sol et son influence sur la vie des habitants. Études sur la Perse méridionale, in Annales de Géogr., III (1894), pagine 278-95; G. Radde, Transkaspien und Nord Khorasan, in Peterm. Mitteil., supplem., 126, Gotha 1898; C.E. Yate, Khurasan and Sistan, Edimburgo 1900; E. Huntington, Explorations in Turkestan, with an Account of the Basin of Eastern Persia and Sistan, Washington 1905; G. P. Tate, Seistan, Londra 1910; H. H. Beuck, Die Bodenkultur in Persien und ihre Ausfuhrzerzeugnisse, Amburgo 1919; O. von Niedermayer, Das Binnenbecken des iranischen Hochlandes, Monaco 1920; W. E. R. Dickson, East Persia, a backwater of the great war, Londra 1923; J. März, Geopolitische Probleme am Persischen Golf, in Drygalski Festschrift, Monaco 1925; J. W. Williamson, In a Persian Oil Field. A study in scientific and industrial development, Londra 1927; C. P. Nicolesco, Gisements pétrolifères de la Perse, Parigi 1928; A. F. von Stahl, Persien und seine wirtschaftlichen Hilfsquellen, in Geograph. Zeitschr., 1928, pp. 227-35; B. Nikitine, La structure économique de la Perse, in Rev. économ. intern., XXIII (1931), pp. 591-625; H. Doevel, Persiens auswärtige Wirtschaftsbeziehungen, Amburgo 1933.

La cartografia della Persia è ancora in uno stadio d'infanzia, e per la quasi totalità del paese - salvo cioè le regioni marginali, su cui si hanno levate inglesi e russe - affidata ai risultati delle esplorazioni compiutevi da viaggiatori europei. Le migliori carte sono: quella al milione, dovuta alla Geographical Section of the General Staff, e la Map of Southern Asia (al 2 milioni) dell'Indian Service. Buona anche la Holdich Map of Persia al milione (Simla 1897-99).

Ordinamento dello stato.

Ordinamento politico. - La Persia è uno stato monarchico costituzionale; il diritto di successione al trono spetta ai figli maschi dello scià nati da madre persiana, secondo l'ordine di primogenitura; in mancanza di figli maschi, l'erede è designato dallo scià con l'approvazione del Maǵlis; è stabilita l'esclusione per gli appartenenti alla deposta dinastia dei Qāgiār.

La legge fondamentale del 30 dicembre 1906, integrata con il complemento del 7 ottobre 1907, fu modificata mediante la legge del 12 dicembre 1925 in occasione del mutamento dinastico. Il potere legislativo è esercitato da un'Assemblea consultiva nazionale detta in persiano Maǵlis-i shūrà-i millī, brevemente Maǵlis, a composta di 135 membri fra i 30 e i 70 anni, eletti per due anni con suffragio diretto. Il Senato previsto dalla costituzione non è mai stato convocato. La religione ufficiale è l'Islām secondo la credenza sciita duodecimana; gli altri culti sono tollerati. Un comitato di dotti sciiti ha l'incarico di decidere se le leggi proposte non siano contrarie alle norme religiose.

Lo scià governa per mezzo d'un consiglio dei ministri responsabili davanti al Maǵlis; i ministri devono essere persiani d'origine e di cittadinanza e musulmani di religione.

L'ordinamento giudiziario è in via di riforma; i tribunali ordinarî giudicano in materia civile e penale con procedura e codici d'ispirazione occidentale; speciali tribunali della Sceria (legge religiosa, maḥākim-i shar‛) giudicano in materia di statuto personale.

Amministrativamente il paese è diviso in 58 provincie; esiste tuttora una differenziazione tra alcune provincie maggiori rette da vālī e minori rette da ḥākim; le suddivisioni amministrative comprendono bulūk "circondarî" e nāḥiyeh "distretti".

Forze armate. - Esercito. - La Persia possiede un esercito, tuttora in corso di riordinamento, del tipo "permanente di leva", composto (forza bilanciata) di circa 2100 ufficiali e 62.000 sottufficiali e militari di truppa. Ne fanno parte integrante le forze militarmente organizzate dell'aria (circa 100 ufficiali e 550 sottufficiali e militari di truppa). Capo supremo dell'esercito è lo scià, che, in tempo di pace, ne delega il comando al ministro per la Guerra assistito da uno Stato maggiore generale.

Il territorio dello stato è suddiviso in 6 circoscrizioni militari (Teherān, Tabrīz, Kirmān, Shīrāz, Meshhed, Resht), ognuna delle quali comprende una divisione, ovvero una o due brigate autonome.

Le truppe comprendono attualmente: 4 divisioni miste, 2 brigate autonome di fanteria, una brigata autonoma di cavalleria, una brigata autonoma d'artiglieria, una brigata autonoma mista, un battaglione del genio, alcune sezioni di autoblindate e di carri d'assalto. La divisione è composta di 2 a 3 brigate; la brigata, di 2 a 3 reggimenti; il reggimento, di 2 a 3 battaglioni o gruppi di squadroni; il battaglione di fanteria, di 4 compagnie, di cui una mitraglieri.

Il servizio militare è obbligatorio per tutti i cittadini, dal 21° al 45° anno d'età: 6 anni nell'esercito attivo, di cui 2 alle armi e 4 nella riserva dell'esercito attivo stesso; 13 anni nella riserva, 6 anni nell'esercito territoriale.

Marina militare. - La marina militare persiana si può dire sia sul nascere, insieme con tutta una serie di organizzazioni moderne.

La Persia ha per ora soltanto alcune piccole unità acquistate in Italia, Francia e Germania, e i suoi ufficiali sono stati istruiti all'Accademia navale di Livorno. Le unità in questione sono: 2 motocannoniere Babr e Palang costruite a Palermo, da 950 tonn., armate con 2/102, 2/76 antiaerei e 2 mitragliere da 6,5; 4 motocannoniere Shāhrukh, Sīmorgh, Karkas, Shāhbāz, costruite a Napoli, da 330 tonn., armate con 2/76 e 2 mitragliere da 6,5.

Aviazione militare. - Nel 1932 il governo persiano decise di costituire un'aviazione militare, e incaricò varî esperti dell'aviazione militare svedese di organizzare la nuova arma. In quello stesso anno il governo persiano acquistò 18 apparecchi "Tiger Moth" della fabbrica De Havilland, del tipo convertibile e per varî impieghi, con completo equipaggiamento militare. Vennero in seguito comprati degli "Audax" e dei "Fury", muniti tutti di motori Pratt e Whitney Hornet.

Finanze. - Bilanci e debito pubblico. - Le entrate principali sono date dai dazî doganali, dall'Anglo Persian Oil Co., dal monopolio dello zucchero e del tè e dall'imposta fondiaria.

Il debito contratto con la Gran Bretagna durante e immediatamente dopo la guerra mondiale per 2 milioni di lire sterline non è stato ancora consolidato. Al 14 agosto 1933 il debito pubblico estero riconosciuto dalla Persia (prestito 1911) ammontava a 1.069.397 lire sterline. Il totale del debito fluttuante alla stessa data era di 6,7 milioni di riyāl.

Moneta e credito. - Un complesso di circostanze, e soprattutto l'abbandono della base aurea da parte della Gran Bretagna (settembre 1931), hanno indotto la Persia, che nel marzo 1930 aveva adottato come unità monetaria il riyāl oro (contenente 0,3661191 gr. d'oro fino) a ridurne il contenuto aureo a gr. 0,07322382 e a sospendere (13 marzo 1932) l'obbligo dei pagamenti in oro, tornando in sostanza alla circolazione a base argentea da cui aveva voluto staccarsi. L'unità monetaria di fatto è quindi attualmente il riyāl argento (contenente 4,4 gr. d'argento) equivalente all'antico qrān, non ancora ritirato dalla circolazione e stabilizzato nell'autunno del 1931 sulla base del franco francese (100 fr. = 72,90 qrān). La Banca imperiale di Persia, fondata nel 1889, ottenne nel maggio 1930 il privilegio dell'emissione per 30 anni. Dal marzo al settembre 1932 la Banca nazionale di Persia provvide però a emettere biglietti proprî, ritirando dalla circolazione quelli della Banca imperiale, che a tale data ammontavano a 127,6 milioni di qrān. La Banca nazionale ha l'obbligo di coprire i suoi biglietti in circolazione, con una riserva, per il 40% in oro e divise convertibili in oro e per il 60% in argento. Importanti poi la Banca russo-persiana, la Banca ottomana e la Banca Pahlevi.

Religioni.

Zoroastrismo e islamismo. - La religione zoroastriana fu uno dei fattori più importanti, se non il più importante, che determinarono la fisionomia storica del popolo iranico e gli conferirono un primato civile e politico sui popoli dell'Asia anteriore. La concezione originariamente monoteistica di Zarathustra (Zoroastro), il fondamento profondamente etico della dottrina del Bene e del Male, l'importanza sociale di alcuni aspetti del culto, come il divieto dei sacrifici cruenti e il rispetto del bestiame, elemento indispensabile per la pratica dell'agricoltura, costituirono un grande progresso di fronte all'antica religione aria a carattere naturistico, e di fronte all'intollerante feticismo babilonese. Questa superiorità spirituale dello zoroastrismo doveva inevitabilmente portare il popolo iranico, che, a differenza dell'indiano, conservava l'originario carattere guerriero, a una grande e duratura supremazia politica.

L'immagine che Erodoto ci ha lasciato della più antica religione persiana è quella d'una religione a carattere prevalentemente naturistico. La ragione di ciò è forse da ricercare nel fatto che le conoscenze dello storico si riferiscono soprattutto al culto che ad opera dei Magi aveva profondamente modificato lo spirito originario della religione quale si riflette nelle Gāthā. Difatti la dottrina del profeta, sorta in origine in netta antitesi col mondo religioso indoiranico, nel diffondersi verso le zone nord-occidentali dell'altipiano iranico, si era trasformata sostanzialmente incorporandosi alcuni elementi fondamentali della vecchia religione naturistica respinta dal riformatore. In Media nelle alte montagne dell'Azerbaigian la tribù dei Magi aveva conservato tenacemente una grande quantità di credenze e di tradizioni che, per la loro parentela con quelle dei Veda, riportano al periodo della comunità indoiranica. La dottrina di Zarathustra trapiantata su questo terreno si trasformò in religione rituale: la Media diventò il centro religioso dell'impero iranico, i Magi ne costituirono il clero. Spettò appunto ai Magi, la tribù sacerdotale della Media, il compito di creare alla religione di Zarathustra un complesso di manifestazioni esterne, per mezzo delle quali essa poté far presa sugli strati più bassi del popolo, meno propensi alla speculazione, e ampliare e organizzare il patrimonio di credenze che l'accompagnava.

Ciò dovette avvenire dopo l'affermarsi dell'impero achemenide. Il mondo zoroastriano elaboratosi attraverso l'opera dei Magi è ancora estraneo ai primi re achemenidi. Se già nelle iscrizioni di Dario I, Ahura Mazdā appare come il più grande di tutti gli dei, colui che ha creato il cielo e la terra e conferisce il potere ai regnanti, è solo nelle iscrizioni di Artaserse II e III che al nome di Ahura Mazdā si aggiungono i nomi di Mithra e di Anāhitā, il primo derivato dal pantheon indoiranico, la seconda da quello babilonese. La stessa tolleranza religiosa, e più che tolleranza, eclettismo che i re achemenidi mostrano di fronte alle divinità e alle religioni degli altri popoli, sta a mostrare che i Magi non erano riusciti ad imporsi ad essi. ll dissidio politico, esistente fra Medi ed Achemenidi, conferma l'esistenza di queste differenze nel campo religioso. La ribellione di Gaumāta il Mago, la cui repressione portò sul trono Dario I, mostra chiaramente come male si adattassero i Magi al dominio persiano e quanto vivo fosse in essi il desiderio d'instaurare un governo teocratico, dove la loro casta avesse un migliore riconoscimento. E la festa, la Magofonia, istituita a ricordare la strage in cui ebbe fine misera e sanguinosa l'audace impostura di Gaumāta, non poteva certo non rinfocolare nel cuore di quei superbi sacerdoti sentimenti di odio e di vendetta contro i re persiani. Ciò basta a spiegare come negli ampî elenchi di fedeli che sono nell'Avestā recente, ad esempio in quello dello Yasht 13, non appare il nome di nessun Achemenide. Se è vero che il Vistāspa, fautore di Zarathustra e della sua religione, è da identificare con Istaspe, padre di Dario, bisogna dunque ammettere che i primi Achemenidi avessero accolto la dottrina zarathustriana nella sua forma originaria e abbiano fatto propria soprattutto la concezione monoteista che è alla sua base.

Sotto i re parti la religione iranica si trasformò per l'influsso del naturismo scitico da una parte e del politeismo ellenico dall'altra, e gli stessi Magi, che sotto i primi re parti furono tenuti in molto onore e considerazione, tanto da avere anche il potere di controllare il re nella sua azione politica, si estraniarono dalla loro ortodossia e finirono con il cadere in discredito. Sino a che punto essi abbiano tenuto vivo il culto delle tradizioni antiche non ci è dato sapere, perché i loro annali andarono distrutti nella distruzione dei templi e dei monumenti arsacidici fatta dai Sassanidi. Tuttavia nella tradizione religiosa si racconta che Valāsh Ashkāniān (Vologese l'Arsacide) ordinò la raccolta e la conservazione dei testi canonici (Avestā) e dei testi esegetici (Zand), superstiti alle distruzioni avvenute nell'invasione di Alessandro Magno.

Il politeismo ellenico e l'ellenismo in generale non avevano fatto presa nella Perside e, mentre nella Partiana, in Armenia, in Siria, in Asia Minore lo zoroastrismo degenerava impregnandosi di altre concezioni e di altri culti, ivi esso conservava la sua purezza primitiva; quasi a tenere integre le energie che dovevano portare a una meravigliosa riscossa la nazione iranica. È naturale che gli Arsacidi, i quali in un primo tempo erano apparsi come difensori e salvatori dell'Īrān dall'ellenismo, abbiano con la loro tolleranza. verso le altrui religioni e il disprezzo verso gli elementi sacri dell'acqua e del fuoco, disgustato i seguaci dell'antica fede, e, al risorgere del vero nazionalismo, siano stati considerati come usurpatori inseritisi violentemente fra le dinastie legittime degli Achemenidi e dei Sassanidi.

Con i Sassanidi lo zoroastrismo diventa religione di stato. La nuova dinastia, sia perché riconobbe il valore dell'appoggio politico della casta sacerdotale, sia perché si rese conto dell'importanza del fatto religioso nella formazione d'una coscienza nazionale iranica, impose lo zoroastrismo così come si era venuto elaborando nel corso dei secoli, e diede ai Magi un posto preminente nell'organizzazione dello stato. In conseguenza di ciò venne meno quello spirito di tolleranza che aveva ispirato la saggia politica religiosa degli Achemenidi, e, per istigazione della classe sacerdotale, si ebbero anche in Persia persecuzioni contro i seguaci delle altre religioni. Nel sec. III si ebbe la repressione del movimento creato da Mānī (v. manicheismo) con il supplizio di Mānī stesso e la persecuzione dei suoi seguaci. Al tempo stesso s'iniziò la persecuzione dei cristiani che, a seguito del nuovo atteggiamento di Costantino, venivano ad apparire come solidali con il nemico tradizionale della Persia. Solo quando la chiesa di Persia cominciò a rendersi indipendente da Bisanzio, prima con la proclamazione dell'autonomia della chiesa siriaca orientale (concilio di Dādīshō‛a Markabtā, 424-25), poi con l'adesione alla formula nestoriana, si ebbe una maggiore tolleranza da parte del clero della religione ufficiale. A ciò contribuì il fatto che sia il cristianesimo, sia il mazdeismo si trovarono nella necessità di far causa comune nella lotta contro il pericolo costituito dalla riforma religiosa e sociale di Mazdak (v.).

La conquista musulmana riuscì ad avere ragione dell'antica religione persiana. Il popolo fu conquistato all'islamismo che soddisfaceva meglio le sue aspirazioni sociali che già nel tentativo di Mazdak avevano avuto un'importante manifestazione. La classe sacerdotale continuò a esplicare per qualche secolo una notevole attività di carattere teologico. Alla fine i superstiti ortodossi zoroastriani furono costretti, dopo la conversione della monarchia mongolica all'islamismo, a trovare scampo nell'India dove ora sono in numero di circa 100.000 (v. parsi). Quelli rimasti in patria, forse i seguaci delle antiche sette e particolarmente dello zervānismo la cui dottrina si era imposta anche alla considerazione dei filosofi musulmani, perseguitati e tenuti in condizioni d'inferiorità, si ridussero sempre più di numero: non ne restano in Persia che 50.000, la maggior parte nei distretti di Yazd e di Kirmān.

Cristianesimo. - Per la storia del cristianesimo in Persia sotto le dinastie arsacidica e sassanidica, come pure durante il Medioevo, e per i tentativi d'unione dei nestoriani con Roma, come per le missioni cattoliche fino a tutto il sec. XVII, v. nestorio e nestoriani. Una nuova epoca nella storia delle missioni cattoliche incomincia con il 1838, allorché fu inviato in Persia, a scopi scientifici, E. Boré, il quale ottenne da Propaganda Fide che nel 1840 vi fosse mandato, come prefetto apostolico, il lazzarista Fourier, presto seguito da suoi confratelli e da suore di carità, tutti francesi. La nuova missione, pure tra le difficoltà di varia natura, non ultime quelle frapposte dall'azione diplomatica della Russia, poté tuttavia, grazie anche all'appoggio francese, svilupparsi abbastanza rapidamente; e nel 1872 la S. Sede istituiva la delegazione apostolica della Persia. La guerra mondiale danneggiò gravemente persone e cose, ma dopo la conclusione della pace l'opera poté essere ripresa con alacrità.

I nuovi missionarî cattolici erano stati tuttavia preceduti dai protestanti. Le prime missioni, che tentavano di convertire i musulmani (come quelle del cappellano militare anglicano H. Martin che nel 1812, a Shīrāz, tradusse il Nuovo Testamento; di C. G. Pfander, 1829; di F. Haas, 1833; di W. Glen che dal 1838 al 1842, in Teherān, tradusse l'Antico Testamento) fallirono rapidamente. Invece tentarono di agire sui nestoriani la missione congregazionalista americana, iniziata da J. Perkins e A. Grant nel 1834-35. Nel 1870 essa passò alla chiesa presbiteriana americana e si divise in due: della Persia orientale, e della Persia occidentale. Anche presso i nestoriani svolge la sua opera la missione anglicana, inviata nel 1884 con lo scopo di adoperarsi per l'unione tra i nestoriani e gli anglicani. E presso i nestoriani, e anch'essa non senza mire politiche, fu inviata una missione russa nel 1898.

Attualmente, della popolazione circa il 75% è di musulmani sciiti; circa l'8,5% di sunniti. Esistono poi gruppi minori di parsi, cristiani nestoriani, armeni, Ebrei, oltre a seguaci del bahaismo.

I cattolici, che dipendono dalla delegazione apostolica della Persia, hanno il vescovato di Iṣfahān (1850), degli armeni; l'arcivescovato di Urmia (1890) e i vescovati di Salmas (1847) e di Sena (1853), dei caldei; l'arcivescovato di Iṣfahān (1629, archidiocesi 1910), dei Latini, immediatamente soggetto alla S. Sede. Secondo statistiche delle congregazioni di Propaganda Fide e della Chiesa orientale, i cattolici di rito latino erano 4830 nel 1932; gli armeni uniti, circa 1000 e i caldei nell'archidiocesi di Urmia 2500 e nella diocesi di Sena 894, nel 1929.

Vi sono vescovi armeni a Tabrīz e Iṣfahān, anglicani a Giulfāṣfahān e a Teherān.

Lingua.

La lingua delle zone sud-occidentali dell'Īrān che corrispondono all'odierno Fārs, ha avuto una sua particolare fortuna nella storia delle lingue iraniche (v. iran: Le lingue iraniche), strettamente collegata con la sorte del territorio che ha costituito a due riprese il principale nucleo della grande unità statale persiana. Mentre, difatti, nell'età antica la riforma religiosa di Zarathustra trovava espressione in una lingua alla cui base è un dialetto settentrionale, al dialetto del Fārs spettava l'onore, insieme col babilonese e con l'elamita, di tramandare ai posteri le imprese gloriose dei Re dei Re. E nel Medioevo, dopo la lunga parentesi partica, quando con la dinastia dei Sassanidi si ebbe un impero nuovamente nazionale, ecco che il pārsīk si aggiunge al pahlavīk, cioè all'idioma settentrionale consacrato all'uso dal lungo predominio arsacidico, nel fissare nelle iscrizioni e nei poemi le imprese della nuova dinastia, e diventare, col rinverdire dell'antica religione nazionale, la lingua d'una tradizione religiosa e culturale assai cospicua. Questa doppia fortuna storica e religiosa ha fatto sì che il persiano alla soglia dei tempi moderni apparisse come l'idioma iranico di più alto prestigio e, consacrato da una grande fortuna letteraria e culturale, divenisse la lingua comune dell'iranismo.

Certamente non si può affermare l'esistenza di un'assoluta continuità di sviluppo nella formazione d'una lingua comune che dal persiano delle iscrizioni cuneiformi sbocchi attraverso il pahlavī nel persiano moderno; vi sono difatti influenze diverse e deviazioni assai notevoli. Pure non v'è dubbio, che il patrimonio linguistico elaboratosi nelle varie epoche ha un fondo genetico comune: nel pārsīk delle iscrizioni, nei testi di Tūrfān, nel pahlavī della tradizione zarathustriana ritornano i caratteri più essenziali dell'antico persiano delle iscrizioni; a sua volta il patrimonio linguistico dell'età sassanidica forma con le sue caratteristiche più notevoli il fondamento del persiano moderno. La salda tradizione linguistica, legata a un mondo culturale fra i più progrediti, ha fatto sì che la Persia, anche dopo l'invasione musulmana a causa della quale ha perduto con la religione mazdaica il fattore più potente della sua fisionomia storica, si è mantenuta fedele alla propria lingua; giacché, pur facendo largo posto nel lessico all'elemento arabo, com'era inevitabile poiché in sostanza fu una nuova civiltà che venne a giustapporsi su quella iranica, ne conservava intatta la struttura morfologica e sintattica, il che è quanto dire che si manteneva fedele all'impostazione ario-europea del suo pensiero.

L'antico persiano. - La lingua che noi conosciamo attraverso le iscrizioni cuneiformi, se non fu una lingua di cancelleria, fu certamente la lingua di quella cerchia di ufficiali e funzionarî originarî della Perside che durante il regno achemenide costituirono i quadri dell'organizzazione dell'impero. Il suo carattere di lingua colta si rivela soprattutto negli accatti da altre lingue che vi appaiono in gran numero: nei due periodi, difatti, in cui il Sud assume una funzione storica, esso non respinge la cultura elaborata nelle provincie settentrionali e, pertanto, il persiano degli Achemenidi documenta con i suoi imprestiti la dipendenza persiana dalla cultura formatasi durante il regno dei Medi, alla stessa maniera che in seguito il pahlavī e il persiano moderno documenteranno la forte influenza esercitata sulla Perside dalle provincie settentrionali durante l'età degli Arsacidi. Ma il persiano delle iscrizioni chiaramente mostra la sua natura di lingua parlata, sia nella maggiore semplicità di struttura morfologica conseguita nei confronti della lingua della tradizione religiosa fissata nell'Avestā, sia nell'incertezza della morfologia che ricorda quella del latino nelle sue più antiche manifestazioni. Evidentemente un processo, sia pure breve, di elaborazione e di raffinamento ha preceduto le più antiche manifestazioni scritte del persiano, ma le iscrizioni degli Achemenidi non sono in realtà che il primo tentativo d'usare per scritto un dialetto, cui l'uso da parte della famiglia reale e della corte aveva conferito un più alto prestigio.

La scrittura cuneiforme del persiano è, in sostanza, una grafia aramaica eseguita con elementi cuneiformi presi dall'accadico. Nonostante l'ambiguità che deriva soprattutto dal fatto che i segni delle consonanti valgono ora per l'insieme della consonante e della vocale che segue, ora per la consonante soltanto, l'immagine linguistica che possiamo ritrarne è sufficientemente perspicua.

Nella fonetica la lingua si rivela appartenente a un tipo dialettale iranico ben determinato con caratteri notevolmente arcaici. Il vocalismo era pressoché intatto e conservava ancora vocale (krt = kṛta- "fatto" a. ind. kṛtá- av. kərəta-); anche le vocali finali erano conservate, come si rileva dalle trascrizioni aramaiche. Nel consonantismo vi appaiono regolarmente le innovazioni iraniche delle spiranti sorde χ, ϑ, f continuatrici delle cons. arie kh, th, ph; le consonanti sorde in tutte le posizioni in cui ricorrono, esclusi cioè l'interno di parola avanti ad altra consonante e dopo vocale, e la fine di parola, sono intatte; le consonanti sonore b, d, g, per quanto graficamente non differenziate, in posizione intervocalica debbono avere valore di spiranti come nell'Avestā recente e nei dialetti medievali. La differenziazione più importante dall'avestico è costituita dal passaggio della velare palatale che in avestico è rappresentata da s, in ϑ : ϑātiy "egli parla" av. saphaiti a. ind. śaṃsati, ϑard- "anno" av. sarəδ- a. ind. śarád "autunno", ecc.; ed è questa indubbiamente una particolarità dialettale d'una ristrettissima zona, forse quella di Persepoli (come si rileva da tanzīdan "pesare" che appare a Shīrāz) soverchiata dal prevalere dell'esito s (pers. m. sanjīdan). La corrispondente sonora che nell'Avestā dinnanzi a sonante in posizione iniziale e dopo sonante ha dato z, è rappresentata da d: dasta- "mano" e av. zasta- a. ind. asta-, drayah- "mare" av. zrayaḥ a. ind. jrayas-, continuata regolarmente in medio-persiano (m.-p.) e in pers. moderno (pers. m.). Pure caratteristico del persiano delle iscrizioni è l'esito ç (forse s rattratto) del gruppo ir. ϑr (puça- "figlio" av. puϑra a. ind. putra-, χšaça- "regno" av. χšaϑra- a. ind. kṣatra-) e quello del gruppo sv da come s (asa- "cavallo" av. aspa- a. ind. aśva-).

Nel campo morfologico il persiano delle iscrizioni presenta una notevole modificazione di struttura di fronte all'avestico. Nella flessione del nome gen. e dat. si sono confusi (gen. dat. kārahyā) e nei temi in -ā c'è una forma unica per il gen.-dat.-abl. che è venuta a confondersi anche col loc.: tauhmāyā gen. e abl. (B. I, 9, e 61-62), ragāyā loc.; lo strumentale e l'abl. nei temi in -o si sono pure confusi: kārā "con il popolo" draugā "dalla menzogna" (così pure aniyanā-, Dar. Pers. d 11, abl. con desinenza di strumentale derivata dal pron. dimostrativo); l'abl. e il loc. sing. nei nomi di provincia in -u appaiono a volte distinti solo dalla preposizione hačā che precede l'abl. (bābairauv "in Babilonia", hačā bābairauv "da Babilonia"); l'indebolimento dei casi è provato dal prevalere delle preposizioni per cui l'abl. è retto da hačā "da" (hačā baχtriyā "dalla Battriana"), e da yātā "sino a" (yātā bābairauv "sino a Babilonia"), salvo che nei nomi proprî al sing. il loc. è rafforzato dalla posposizione ā (ϑav ā "sul luogo", drayahy ā "nel mare").

Nel verbo è ancora abbastanza bene conservato il sistema del presente, mentre gli altri temi sono pressoché scomparsi. Prevalgono i temi in aya-. Le desinenze personali sono mantenute, salvo quella del perfetto. L'aggettivo verbale, senza copula, viene adibito ad esprimere la nozione del passato: ima tya manā kótam "questo è quel che da me è stato fatto". In complesso si manifestano già nella fase antica del persiano alcune delle tendenze che si affermeranno nella fase medievale. Anche la tendenza alla semplicità della frase che diventerà caratteristica dei dialetti medievali e del persiano moderno ha i suoi inizî nella fase documentata dalle iscrizioni.

Il persiano medievale o medio-persiano. - La documentazione del persiano medievale è data dal pārsīk delle iscrizioni sassanidiche, dal pahlavī dei libri zoroastriani, dalla lingua dei testi tūrfānici in dialetto sud-occidentale. La continuità in esso del persiano delle iscrizioni è evidente.

È evidente in alcuni fatti fra i più caratteristici del fonetismo come m.-p. S. d, a. pers. d di contro a m.-p. N. z av. z, m.-p. S. h, a. pers. ϑ di contro a m.-p. N. s av. s, m.-p. S. s a. pers. ç, m. p. N hr av. ϑr. (pu???s "figlio" di contro a settentr. puhr). Altri caratteri sono stati acquisiti nela fase m.-e., ad es. il passaggio del gruppo rd in l(r) di contro a m-p. N. che ha rd (m.-p. S. dil "cuore" av. zərəd- m-p. N. zîrd), m.-p. S. l da ir. rz di contro a m.-p. N. rz (m.-p. S. hil- "lasciare" av. harəz-, m.-p. N. hîrz-); ir. ϑ continuato con f in m.-p. N., è continuato con h in m.-p. S. (çahār "quattro" av. čaϑwar-, m.-p. N. čafār); come continuatore del gruppo du̯ si ha d in m.-p. T. S. di contro a b di m.-p. T. N. (a. pers. duvara- "porta", m.-p. S. dar, m.-p. N. bar), ecc. Altri chiari elementi di differenziazione si hanno nel lessico: p. es., il m.-p. S. ha pat- "cadere" rispetto a m.-p. N. kap-, ha kun- "fare" (da kərənav-) rispetto a m.-p. N. kar, darrak "roccia" (iscr.) rispetto a m.-p. N. vēm, av. vaēma-, il tema āy- "venire" rispetto a m.-p. N. āvar-, ecc. Notevole è il fatto che l'uso della congiunzione nominale (iḍāfat) mediante i continuatore del pronome relativo ya- appare nel dialetto meridionale: il pahlavīk delle iscrizioni ha invece čē.

Nell'ambito della morfologia, nel persiano medievale si sono avute quelle modificazioni fondamentali che hanno investito tutto il dominio iranico trasformando le lingue iraniche da un tipo sintetico a un tipo analitico e in particolare la perdita delle categorie di flessione nominale legata con il fatto che, l'accento di parola avendo fortemente prevalso, gli elementi postonici sono caduti. Questo rafforzamento dell'accento espiratorio che ha avuto notevoli conseguenze nel dominio fonetico ha portato nel dialetto sud-occidentale prima alla riduzione della flessione nominale a due casi (nom. sing. asp da *aspah obl. sing. aspē da *aspahya, nom. pl. asp da *aspāh obl. pl. aspān da *aspānām), poi a un unico caso per il sing. (asp) e a unico caso per il plurale (aspān). Nel verbo in cui si è affermata, esclusivamente nell'indicativo, la flessione di tipo -aya-, il suffisso -aya- contratto in ē è venuto ad essere sentito come elemento della desinenza: barēm, barēh, barēt, barēm, barēt, barēnd (il processo è -áyati, -ēi???ti, -ēi???t, -ēt). Nel cong. si afferma la flessione del tipo ā (*barān) e lo stesso nell'imperativo di 2 pers. (bar). Ad esprimere il passato viene adibito il part. continuando una tendenza che già si è affermata in a. pers. (v. sopra) generalmente senza la copula. Kārnāmak (ed. Nosherwan), 28: pāpak ka-š namak dīt handōhkēn būt u-š pasoχv ō artaχšēr kart u nipišt ku "Pāpak quando vide (quando da lui fu vista) la lettera, si preoccupò e fece risposta ad A. e scrisse...".

Nell'ambito della fase medievale sono da distinguere due periodi: uno più arcaico a cui appartengono il medio-persiano delle iscrizioni in pārsīk e il pahlavī dei libri, l'altro meno arcaico, che è quello dei testi meridionali di Tūrfān.

Notevoli sono i mutamenti che si sono verificati dalla prima alla seconda fase: le esplosive intervocaliche sono divenute spiranti sonore: βistān "estate", kuδām "quale", čašmaγān "sorgenti" rispetto a pahlavī tapistān, kutām, čašmakān; ž da ir. j che nella fase pahlavica perdura, žīnandak "vivo", žamān "tempo", aržān "del valore di" ed è conservato nel dialetto settentrionale, passa in z nel m.-p. recente zīvandag, zamān, arzān; di contro al mantenimento di y iniziale nella fase più antica yut "separato", yāvēt "eterno", si ha nella fase più recente ǰ m.-p. di Tūrfān zāyēdān, žûdī (con ž per ǰ); δ intervocalico è mantenuto nella fase arcaica moδēnd "si lamentano", roδišn "crescita", mentre passa in y nella fase più recente mōyēnd, rōyišn; analogamente, g intervocalico che in fase più recente appare ridotto ad aspirazione e dopo i e finale anche mutato in y. Un'altra caratteristica differenziale si ha nell'uso degl'ideogrammi aramaici che nella fase più recente tendono a scomparire. Invece nella fase più arcaica vi è un sistema così ricco di ideogrammi che la metà delle parole dei testi pahlavici sono rese con tali mezzi. Tale sistema grafico, per il numero degl'ideogrammi, così caratteristico del pahlavī dei libri, è dovuto al fatto che la scrittura fu lungamente monopolio di scribi aramei che principalmente al servizio di corte e nell'amministrazione corrispondevano fra loro in aramaico e leggevano quindi le lettere riducendole in persiano (uzvārišn "traduzione"); quando poi venne affermandosi la consuetudine di scrivere direttamente in persiano, le grafie delle parole più usuali rimasero attaccate al sistema grafico (v. pahlavī).

Uno sviluppo a sé come lingua letteraria ha avuto il pahlavī dei libri zarathustriani. La sua natura di lingua letteraria è resa manifesta da varî fatti, fra cui sono da ricordare l'arcaicità della fissazione grafica e il presupposto d'una tradizione linguistica zarathustriana in dialetto settentrionale che si è riflessa nella forma meridionale.

Nel periodo medievale molte parole, soprattutto riguardanti la religione, usi di corte e termini di amministrazione, sono passati dal dialetto settentrionale per influenza della cultura arsacidica nel dialetto meridionale e quindi nel persiano moderno. Le differenze fonetiche caratterizzano tali imprestiti. Attraverso mediazione arsacidica sono passate pure alcune parole greche (ad es., kālput "modello, immagine", gr. καλοπόδιον; almās "diamante" gr. ἀδάμας; e sul greco è stato rifatto qualche calco linguistico, come χvatāv, χvatāy "signore" pers. mod. χuδā "dio" da χua-tā̆vya, gr. αὐτοκράτωρ).

Persiano moderno. - Dal punto di vista strettamente linguistico il persiano moderno si trova nella stessa fase di evoluzione del tardo sassanidico, con una tendenza abbastanza notevole a ricreare le categorie di flessione. Ma la conquista musulmana, che ha portato un rivolgimento così profondo nella vita materiale e spirituale iranica, ha avuto, pur senza intaccarla nella sua struttura fondamentale, riflessi notevoli nella lingua. Si indica pertanto con persiano moderno la lingua persiana in caratteri arabi divenuta lingua comune delle genti iraniche al disopra della numerosa varietà degl'idiomi dialettali (v. iran: Le lingue iraniche). Esso è la lingua della letteratura classica neopersiana, il cui più antico documento si dice costituito da un breve frammento poetico di ‛Abbās di Merv dell'anno 809 d. C.; come lingua di cultura, si è diffusa oltre i confini e soprattutto in Afghānistān e in India dove venne introdotta al tempo del dominio mongolico. Come al tempo della dinastia arsacide e anche al tempo dei Sassanidi il persiano fornì ricco materiale lessicale all'armeno, così il persiano moderno ha fornito molti vocaboli all'arabo, all'armeno, al turco, all'indostano, e alcune sue parole sono pervenute, attraverso mediazione araba generalmente, nelle lingue occidentali. D'altra parte, esso ha accolto nel suo lessico parole indiane, turche, armene e negli ultimi tempi anche dalle lingue occidentali; ma il carattere peculiare gli è conferito dall'elemento arabo che occupa più della metà del suo lessico, per cui il persiano moderno appare in realtà come una lingua mista.

Già in Daqīqī, predecessore di Firdusi, su mille versi vi sono circa quaranta parole arabe. Nello stesso Firdusi (morto nel 1020), che rappresenta una vigorosa reazione dello spirito nazionale e che perciò tende fortemente al purismo, la lingua contiene una certa quantità di parole arabe. L'influenza del Corano e la tendenza, divenuta moda nelle classi più elevate, a considerare come segno di eleganza e di distinzione l'uso di termini arabi hanno fatto sì che sia nell'uso letterario, sia in quello colto non esistesse alcun limite nella pratica di tali imprestiti; oltre a ciò, numerosi altri termini di carattere più popolaresco, concernenti cioè gli aspetti più elementari della vita, sono passati dall'arabo in persiano e sono divenuti parte stabile e duratura della lingua comune e dei dialetti.

Nonostante ciò, la lingua persiana ha conservato il suo carattere originario nella struttura morfologica e sintattica e non ha subito profonde influenze nel fonetismo.

Le principali modificazioni rispetto al medio-persiano tardo sono: il passaggio delle spiranti sonore (da sorde intervocaliche) nelle esplosive medie, quindi: tābistān, kudām, časmagān; il passaggio di č dopo vocale e r in z: pazad "egli cuoce" m.-p. pačēt; il passaggio di v iniziale in b: barz "coltivazione", m.-p. varz; caduta di g da γ (k) finale dopo vocale lunga: sipāhī "soldato" da spāhīγ; risoluzione di gruppi consonantici mediante: anaptissi: uštur "cammello" da uštr, safīd "bianco" da spēt, sipāh "esercito" da spāh; aggiunta sporadica di h protetico: hēč "alcuno" accanto a ēc; passaggio sporadico in h di consonanti spirantiche: kōh "monte" da kōf; perdita sporadica di sillabe iniziali: dar da andar, ecc.

Nel dominio della morfologia è da ricordare l'estensione della desinenza di plurale in - accanto alla desinenza -ān, asphā "cavalli", khānhā "case", mentre tale desinenza in m.-p. (-īhā) è poco vitale; la formazione di una desinenza di caso obliquo in - da a. pers. rādiy "a motivo di" (a. pers. iscr. avahya rādiy "a motivo di ciò"), m.-p. rād (già quasi con la stessa funzione Abyātkār-i Zarērān, 73: man rāδ asp zēn sačēt "sellate a me un cavallo"); passaggio dell'espressione preteritale da passiva in attiva e conseguente formazione di un perfetto attivo che è il risultato della giustapposizione del part. perf. pass. e dell'ausiliare "essere": kardam "ho fatto" (punto di partenza fra il preterito intransitivo formato con il part. e l'ausiliare; cfr. Abyātkār-i Zarērān, 8: u andar šut hand u ō vistāspšāh namāč burt hand u fravartak bēdāt hand "e quelli entrarono, resero omaggio al re Vistāsp e gli consegnarono la lettera"); la formazione di locuzioni perifrastiche per esprimere varie nozioni temporali, ad es. l'imperfetto mediante l'aggiunta del prefisso (da hamē "sempre"), mīkardam "io faceva", il piuccheperfetto con ausiliare būdan e il part. karda būt "aveva fatto", il futuro semplice mediante il presente di khvāstan "desiderare" e l'infinito abbreviato, khvāhad kart "egli farà", il futuro anteriore con l'ausiliario bāshad, quindi "avrà fatto" o "avrebbe fatto"; il passivo viene formato pure perifrasticamente con l'unione del verbo shudan con il part. pert. pass. karda shavad "viene fatto".

Le modificazioni che il pers. mod. ha subito nel corso dei secoli, da quando ebbe nello Šhāhnāmeh (Libro dei re) di Firdusi la sua più alta consacrazione letteraria, non sono di molto rilievo per il lato fonetico e morfologico. Si può ricordare qui soltanto: l'estendersi della desinenza di plurale -, la perdita di mar per indicare il caso obliquo, l'estendersi del prefisso verbale , l'estensione della desinenza -a a tutti i participî; nel dominio fonetico basterà ricordare l'indebolimento del senso della quantità per cui vocali lunghe appaiono abbreviate, il passaggio di ē, ō in ī, ū, la scomparsa di n finali dopo vocali lunghe. Naturalmente la grande quantità delle parole e delle espressioni arabe introdotte nella lingua ha conservato la sua struttura morfologica e in parte la sua struttura fonetica. Nella morfologia è da rilevare l'estensione delle formazioni di plurale arabo anche a parole schiettamente persiane.

Con il risorgere d'una nuova coscienza nazionale in Persia, si tende oggi a un rinvigorimento del patrimonio linguistico propriamente persiano. Un esempio notevole in questo senso fu dato a suo tempo dallo scià Nāṣir ed-dīn nel diario dei suoi viaggi nell'Asia Anteriore e in Europa.

Bibl.: Per la lingua delle iscrizioni cuneiformi è fondamentale: A. Meillet, Grammaire du vieux-perse, 2ª ed. interamente corretta e aumentata a cura di E. Benveniste, Parigi 1931.

Per la fase medievale: C. Salemann, Mittelpersisch, in Grundriss. d. iran. Philol., I, p. 249 segg.; J. Darmesteter, Études iraniennes, I, Parigi 1883; H. Hübschmann, Persische Studien, Strasburgo 1895; S. Nyberg, Hilfsbuch des Pehlevi, I-II, Upsala 1928-31. Per la posizione del pahlavī dei libri, v. P. Tedesco, Dialektologie der westiranischen Turfantexte, in Le Monde Oriental, XIV (1923), p. 184 segg.; Lentz, Die nordiranischen Elemente in der neupersischen Literatursprache bei Firdosi, in Zeitschr. f. Indologie u. Iranistik, IV (1926), p. 251 segg.; A. Pagliaro, in Atti del Congresso di Linguistica tenuto in Roma, Firenze 1935, p. 93 segg.

Per il persiano moderno: P. Horn, Neupersische Schriftsprache, in Grundriss der iranischen Philol., I, b, p. i segg.; C. Salemann e V. Shukovski, Persische Grammatik, ristampa, Berlino 1925; I. Pizzi, Manuale della lingua persiana, grammatica, antologia, vocabolario, Lipsia 1883; e con particolare riguardo all'uso vivo: S. Beck, Neupersische Konversations-Grammatik, Heidelberg 1914; A. Wahrmund, Prakt. Handbuch der neupersischen Sprache, 2ª ed., Giessen 1898; F. Rosen, Modern Persian colloquial Grammar, Londra 1898; Phillott, Higher Persian Grammar, Calcutta 1919. Utile per la buona trattazione della sintassi e per i riferimenti allo sviluppo storico, H. Jensen, Neupersische Grammatik, Heidelberg 1931. Fra i dizionarî ricorderemo: J. A. Vullers, Lexicon Persico-latinum etymologicum, I-II, Bonn 1855-1864; F. Johnson, A dictionary Persian, Arabic and English, Londra 1852; J. Th. Zenker, Dictionnaire turco-arabe persan, Lipsia 1876; F. Steingass, Persian-English Dictionary, Londra 1892 (ristamp. 1930); J. J. P. Desmaison, Dictionnaire Persan-Français, Roma 1908-1914, voll. 4; Said Naficy, Dictionnaire français-persan, Teherān 1930-31.

LA PERSIA PREISLAMICA

Storia.

L'impero achemenide. - L'impero persiano, affermatosi come la maggiore potenza del mondo antico in margine all'ellenismo e in contrasto con esso, sorse sulle rovine di tre grandi regni, quello di Media, quello di Babilonia e quello di Lidia e ne assommò le esperienze in un'organizzazione statale mirabile per vastit5 e per saldezza. I Persiani si debbono in particolare considerare come successori dei Medi con i quali erano strettamente legati per affinità di stirpe e di civiltà; di fronte a costoro essi ebbero, per effetto della riforma religiosa di Zarathustra, il vantaggio d'una vita sociale più alta e d'un orizzonte d'umanità più vasto che si tradusse in un'organizzazione più sagace e sicura delle varie genti dell'impero.

Medi e Persiani appartengono al gruppo delle genti iraniche che nell'epoca delle grandi migrazioni degl'Indoeuropei si stanziarono sul vasto altipiano che da esse prese il nome. Quando ciò con precisione sia avvenuto non è chiaro. Un cenno, peraltro assai dubbio, dei Medi risale all'epoca di Narām-Sin (2768-2712), altri cenni se ne hanno nei testi babilonesi intorno al 2000. Poi il nome di Matai, Amadai o Madai ricorre nei documenti assiri di Salmanassar III che entrò in conflitto con essi durante una spedizione nella regione del lago di Van nell'anno 837. In seguito i documenti menzionano frequenti operazioni di guerra dei re assiri contro questi loro vicini che avrebbero costituito una comunità assai numerosa, se è vero che Tiglatpileser III ne trasse cinquantamila prigionieri.

Mentre i Medi rimasero nella zona settentrionale dell'altipiano a sud del Demāvend e dell'Elburz, i Persiani che in documenti assiri del sec. IX sono nominati insieme con i Medi, si spostarono forse un secolo prima dell'avvento di Ciro verso la parte sud-occidentale dell'altipiano, la Perside propriamente detta, costituita dalla zona che verso il Nord dal Golfo Persico si eleva in altipiano interrotto da catene di montagne e da valli. Quivi si stanziarono, ma sino al momento in cui la famiglia degli Achemenidi non li portò alla luce della storia, essi non uscirono dall'ombra della loro vita di rozzi pastori. Unica menzione se ne ha forse in Ezechiele, XXVII, 10, XXXVIII, 5, secondo la quale i Persiani, già al principio del sec. VI, in veste di soldati avrebbero partecipato a vicende guerresche di altri popoli.

Più esposti alle aggressioni degli altri popoli e particolarmente degli Assiri, i Medi sentirono il bisogno alla fine del sec. VIII di organizzarsi sotto la guida d'un re, e questi fu Deioce II figlio di Fraorte che, secondo quanto racconta Erodoto, regnò cinquantatré anni (708-655). Scelto, secondo la tradizione erodotea, per la sua saggezza, egli da re operò saggiamente, assolvendo i suoi obblighi di vassallo del re di Assiria, ma evitando le contese e le razzie che avevano sino allora richiesto l'intervento delle armi assire. Fissò la sua capitale a Ecbatana e diede valore e lustro all'autorità reale circondandosi d'una forte guardia del corpo e introducendo nella corte il cerimoniale della corte di Babilonia, che sottraeva il re alla vista dei sudditi. Il figlio Fraorte, succedutogli, continuò all'inizio l'opera del padre e si preoccupò di estendere il suo dominio sulle genti iraniche, riuscendo verso il 635 a sottomettere i Persiani. Fu forse in quest'epoca che la famiglia degli Achemenidi si trasferì nell'Elam dove riuscì a costituirsi un regno sostituendosi alla dinastia anzanita. Fraorte ebbe poi l'audacia di portare le armi contro gli Assiri, ma fu battuto e ucciso dopo un regno di 22 anni (633). L'abile generale che gli succedette nel trono, Ciassare, organizzato un esercito regolare, le cui truppe migliori furono già i cavalieri armati di arco che tanta parte dovevano avere nelle fortune militari della Persia, affrontò nuovamente gli Assiri ed ebbe ragione dei generali d'Assurbanipal. Aveva posto assedio a Ninive, quando fu costretto a ritirarsi per fronteggiare un'invasione di Sciti. Battuto da costoro (628), riuscì solo nel 615 a ricacciarli; e allora, fatta alleanza con Nabopolassar che da governatore aveva preso il titolo di re di Babilonia, aggredì gli Assiri e nel 612 riuscì a impadronirsi di Ninive e la distrusse. Crollato il regno di Assiria, Ciassare riaffermò i legami di alleanza con i re babilonesi, e spinse le sue armi verso il nord raggiungendo l'Armenia, le sorgenti del Tigri, la Cappadocia e arrestandosi solo sulle rive dell'Halis dove il forte regno lidico si oppose con fortuna all'invasore. Ciassare morì nel 584 e gli succedette Astiage, durante il cui regno pacifico il fasto assiro ebbe la prevalenza sulle virtù militari, così che debole e insufficiente fu la difesa dei Medi contro la minaccia che veniva dai loro congiunti del Sud.

Mentre dai Medi era stato creato un regno che aveva una portata storica limitata all'Oriente, con i Persiani il popolo iranico diventa potenza mondiale. Al pari dei Medi, i Persiani erano divisi in tribù e a una di tali tribù, quella dei Pasargadi, apparteneva la famiglia degli Achemenidi che dopo l'annessione della Perside alla Media per opera di Fraorte si era creato un regno nell'Elam. Il titolo di "re di Anzan" (Anzan è un antico nome di regione e di città sempre in connessione con Elam e Susa) fu portato da Ciro, fondatore dell'impero persiano, sino al sesto anno del regno di Nabonedo, re di Babilonia, 550 a. C. La conquista del regno elamita dovette essere opera del suo avo Teispe e a questo erano già succeduti Ciro I e Cambise che sono ricordati nei cilindri di Nabonedo. Forse a capo del piccolo regno originario nella zona abitata dai Pasargadi Teispe lasciò che gli succedesse il figlio cadetto Ariaramne e a questo ramo si sostituì Ciro quando assunse anche il trono di Persia. Poiché nelle brevi iscrizioni di Ciro di Pasargade mancano sia i titoli babilonesi, sia quelli di Media, è probabile che il dominio di Ciro sulla Perside sia anteriore non solo alla conquista di Babilonia, ma anche alla vittoria su Astiage.

Ciro II, divenuto re nel 558 a. C., se è vero che il suo regno è durato 29 anni come vuole Erodoto (I, 214), era imparentato, secondo la tradizione conservata negli scrittori greci, con Astiage; secondo Erodoto, era figlio di Mandane, figlia di Astiage. Ciò non gl'impedì di prendere le armi contro Astiage, approfittando del malumore che correva nell'esercito dei Medi contro il sovrano, ma da principio senza fortuna. Astiage, a sua volta, prese le armi contro di lui, per prevenire altre aggressioni, ma la spedizione si risolse a suo danno ed egli perdette il regno e fu preso prigioniero. Così narra la contemporanea cronaca babilonese: "(Astiage) riunì le sue truppe e marciò contro Ciro, re di Anzan, per sottometterlo; ma le truppe di Astiage si ammutinarono ed egli fu fatto prigioniero e consegnato a Ciro, che gli lasciò la vita". Quindi Ciro si impadronì di Ecbatana (550) e ne trasportò il tesoro nella sua capitale di Anzan; Ecbatana non fu distrutta, fu bensì eletta da Ciro a propria residenza d'estate.

Nel 546 Ciro appare nella cronaca babilonese col titolo di "re di Persia"; è probabile che con la conquista della Media, dovendo egli porre in rilievo il suo dominio sulle genti iraniche, abbia preferito prendere il nome dallo stato ereditario della sua famiglia.

Secondo la cronaca babilonese, nel 547 Ciro aveva portato le sue armi nella Mesopotamia settentrionale. Si tratta certamente della spedizione che lo condusse alla conquista della Lidia. Qui Creso, che era succeduto ad Aliatte, sentendosi minacciato dal crescere della potenza persiana e presentendo che il confine con la Media già fissato all'Halis dal 585 non sarebbe stato rispettato dai Persiani, prese le sue misure assicurandosi l'alleanza dell'Egitto, di Babilonia e di Sparta; quindi varcò l'Halis e s'impadronì di Pteria. Accorso Ciro a Pteria si combatté un'aspra battaglia le cui sorti rimasero indecise; e Creso si ritirò a Sardi nell'intento di riprendere a primavera le operazioni militari con il concorso dei suoi alleati. Ciro lo prevenne e avanzò sino a Sardi; dopo una battaglia coronata da successo, assediò la città e se ne impadronì. Creso fu preso prigioniero e trasportato a Ecbatana.

Il crollo del regno di Lidia (546 a. C.) pose l'Asia Minore sotto il dominio di Ciro e portò la Persia in contatto con le fiorenti colonie greche dell'Asia Minore. I generali di Ciro, e in particolare Arpage, il generale medo che aveva concorso alla vittoria di Ciro su Astiage, s'impadronirono delle città ioniche di terra ferma e sottomisero anche quelle delle isole.

In seguito, per alcuni anni, Ciro guerreggiò (545-539) contro le popolazioni delle zone orientali del Caspio, s'impadronì della Margiana e della Sogdiana, e si spinse sino al Jaxarte fondando ivi una fortezza. Più a est estese il suo dominio alle sorgenti dell'Oxo e nel Sakastān (odierno Seistān), sottomettendo le tribù sace che vi erano emigrate dalle zone nord-occidentali. Si spinse infine sino nella vallata di Kābul sottomettendo le tribù arie che vi erano stanziate.

Nel 540 a. C. rivolse le sue armi contro il regno di Babilonia. Qui regnava Nabonedo; salito al trono in seguito a una cospirazione vi si manteneva da 18 anni, senza tuttavia darsi cura dell'unità e della potenza del suo stato. Ciro, dopo essersi impadronito di Opis sul Tigri a nord di Babilonia, divise il suo esercito in due armate. Mentre alla testa d'una di esse egli s'impadroniva di Sippar nei pressi dell'Eufrate, il suo generale Gobria (Ugbaru) con l'altra armata penetrò in Babilonia e vi fece prigioniero Nabonedo. Poche settimane dopo Ciro fece il suo ingresso nella capitale, mentre Gobria soffocava le ultime resistenze uccidendo il figlio del re. Ciro assunse la dignità di re dei Babilonesi, come dono del loro dio Marduk, onde apparve fondatore d'una nuova dinastia con il consenso del popolo e non come un conquistatore. In opposizione alla politica religiosa di Nabonedo egli si preoccupò vivamente dei varî nazionalismi religiosi e fece restituire alle diverse città le immagini delle divinità che Nabonedo sotto il pretesto di sottrarle a eventuali invasioni aveva fatto trasportare a Babilonia. Agli Ebrei egli non solo restituì i vasi d'oro e d'argento che erano stati asportati dal tempio di Gerusalemme, ma consentì pure che rientrassero in Palestina e ricostruissero il tempio di Jahvè a Gerusalemme.

La conquista di Babilonia apriva a Ciro la via delle contrade che davano sul Mediterraneo giù sino all'Egitto. Ma di altre conquiste egli non si occupò negli ultimi anni della sua vita, preso dalla necessità di dare un'organizzazione stabile al vasto impero riunito sotto il suo scettro. Tuttavia morì combattendo, in una spedizione contro i Massageti, genti iraniche dimoranti a est del Caspio, secondo Erodoto, contro i Derbici secondo Ctesia; morì nel 529 e la sua salma fu trasportata a Pasargade e situata nella tomba che egli si era fatta costruire nella sua capitale dinastica e che tuttora, a distanza di duemila e cinquecento anni, si erge nella piana vallata del Pulvar.

Ciro fondò su salde basi uno dei più vasti imperi che la storia ricordi. Il suo successo fu dovuto non soltanto alla migliore organizzazione e al migliore armamento del suo esercito e all'abilità guerresca sua e dei suoi generali, ma anche, e soprattutto, al nuovo senso di umanità che ispirò la sua azione politica. Egli non seguì il costume babilonese e assiro di distruggere le città conquistate e di trasportarne altrove gli abitanti, ma al contrario consentì che gli esiliati ritornassero nelle loro sedi; non impose ai paesi vinti la propria religione, ma cercò anzi, come si vede in Babilonia, l'investitura delle divinità locali, in maniera da apparire come un re nazionale. Questo equilibrio e questa comprensione nei riguardi dei popoli soggetti gli permisero di governare le regioni del suo vasto impero attraverso governatori, senza che l'autorità del suo comando ne soffrisse e gli consentirono di perfezionare un'organizzazione amministrativa che è il primo più importante esempio di organizzazione di un grande stato.

Mancano documenti circa l'attività spiegata dal successore Cambise nei primi anni del suo regno. È probabile che li abbia dedicati a reprimere ribellioni locali e a impadronirsi del congegno dello stato. Nel 525 egli iniziò la spedizione per la conquista dell'Egitto, alla quale si sentiva impegnato come erede dei regni di Babilonia e di Assiria. L'Egitto aveva attraversato un periodo di prosperità sotto il regno di Amasi, durato quarantaquattro anni, durante il quale fu notevole l'influenza straniera e particolarmente greca, nonostante qualche limitazione nei rapporti commerciali: quelli con i Greci, concentrati all'emporio di Naucrati sul delta, continuarono a prosperare. Amasi, che aveva stretto alleanza con Creso, con Nabonedo e con Policrate di Samo, quando sotto i colpi persiani caddero i regni di Lidia e di Babilonia, comprese che la minaccia persiana già incombeva sull'Egitto e si apprestò a difesa. Ma alla prima avvisaglia, Policrate abbandonò Amasi e passò con la sua flotta a Cambise, il quale già disponeva della flotta fenicia. Inoltre uno dei capi dei mercenarî greci su cui si appoggiava Amasi, Fane, fuggito dall'Egitto, si pose a servizio di Cambise. Secondo quanto racconta Erodoto, fu per suggerimento di quest'ultimo che Cambise strinse accordi con gli Arabi i quali facilitarono all'esercito il passaggio attraverso il deserto fra la Palestina e l'Egitto provvedendolo di acqua mediante migliaia di cammelli scaglionati lungo le varie tappe. Intanto prima che si sviluppasse l'azione persiana, Amasi moriva e gli succedeva sul trono il figlio Psammetico III. Cambise, alla testa del suo esercito lungo la strada costiera si spinse da Gaza al confine dell'Egitto; qui presso Pelusio s'impegnò una fiera battaglia fra i Persiani e l'esercito egiziano, composto in parte di mercenarî greci e carî. Gli Egiziani furono battuti e Psammetico si salvò con la fuga. Cambise avanzò su Menfi e s'impadronì della città. Fatto prigioniero Psammetico e vinta la resistenza opposta da Eliopoli, Cambise nel maggio 525 si proclamò re d'Egitto.

La condotta di Cambise nei riguardi degli Egiziani non fu coerente. Subito dopo la caduta di Menfi, egli si spinse a Sais e fece bruciare la mummia di Amasi; dopo il ritorno dalla spedizione di Nubia, uccise di sua mano il bue Apis, irrise agli usi religiosi egiziani, maltrattò i sacerdoti, distrusse immagini. D'altra parte, seguendo la politica paterna, egli fece dare nel tempio di Neith sanzione religiosa alla sua conquista, e assunse come re d'Egitto il nome di Re-mesuti; fece offerte a Neith e alle altre divinità di Sais, secondo l'uso dei re egiziani; fece sgombrare il gran tempio di Neith a Sais dalle truppe mercenarie che vi si erano installate e fece riparare i danni. In complesso, salvo la violazione della salma di Amasi, dovuta forse a risentimento personale, l'azione di Cambise in un primo tempo fu conforme alla politica instaurata dal padre e solo dopo il ritorno dalla spedizione di Nubia egli mutò atteggiamento nei riguardi della religione egiziana e della classe sacerdotale. Assai probabile è la spiegazione di tale mutamento già avanzata da Erodoto, secondo la quale Cambise al ritorno dalla spedizione di Nubia sarebbe stato colpito da squilibrio mentale.

Non pago della conquista dell'Egitto e della Libia e di Cirene che si erano sottomesse senza resistere, Cambise volle estendere il suo dominio verso ovest e verso sud. Non potendo muovere per mare contro Cartagine che già si era affermata come la maggiore potenza del Mediterraneo orientale, poiché i Fenici rifiutarono il loro concorso a una spedizione contro la loro antica colonia, egli inviò un corpo di spedizione di cinquantamila uomini. Intanto egli stesso, alla testa d'un esercito, mosse seguendo il corso del Nilo verso il sud per sottomettere gli Etiopi. Il corpo di spedizione nella sua marcia verso l'oasi d'Ammone fu distrutto da una tempesta di sabbia. La spedizione d'Etiopia non raggiunse gli obiettivi previsti, poiché nel deserto fecero difetto gli approvvigionamenti e Cambise fu costretto alla ritirata con gravi perdite nelle truppe. Sembrerebbe tuttavia dal nome di Καμβύσου ταμιεῖον "posto di rifornimento di Cambise", dato dai Greci ad un luogo nei pressi della terza cateratta, che egli avesse predisposto i servizî lungo buon tratto del cammino fra Tebe e Napata, città sacra e capitale degli Etiopi. Comunque, parte del paese fu certo sottomessa, dato che sotto Dario I truppe etiopiche appaiono far parte dell'esercito persiano.

Prima di partire per l'Egitto, Cambise aveva fatto uccidere il fratello Bardiya, negli scrittori greci Smerdi, che all'epoca del suo avvento al trono era governatore delle provincie orientali, nel timore che durante la sua assenza potesse impadronirsi del trono. L'iscrizione di Dario a Bīsutūn così racconta gli avvenimenti che seguirono (B. 10): "Quando Cambise ebbe ucciso Smerdi, il popolo non venne a conoscenza che Smerdi era stato ucciso. Quindi Cambise partì per l'Egitto. Allorché Cambise fu andato in Egitto, il popolo diventò ostile e la Menzogna crebbe nel regno, sia in Persia, sia in Media e nelle altre terre... Ci fu un uomo, un mago di nome Gaumāta, che si ribellò... Il popolo egli così trasse in inganno: ‛Io sono Smerdi, figlio di Ciro, fratello di Cambise. Allora tutto il popolo si distaccò da Cambise e passò dalla parte di quello, sia la Persia, sia la Media, sia le altre terre. Costui si impadronì del potere". La usurpazione di Gaumāta ebbe luogo secondo l'iscrizione nel marzo del 522 a. C., lo stesso anno in cui Cambise morì. Egli era sulla via del ritorno dall'Egitto quando gli giunse notizia della grave ribellione. Nell'iscrizione di Bīsutūn si dice che egli si diede morte di propria mano; Erodoto riferisce invece la leggenda, certo formatasi in Egitto, che Cambise nel salire a cavallo si ferì col pugnale alla coscia, allo stesso punto in cui egli aveva colpito il bue Apis e morì a Ecbatana di Siria (primavera del 522 a. C.).

Sulle vicende che seguirono e che portarono sul trono Dario, figlio d'Istaspe, del ramo cadetto degli Achemenidi, siamo con precisione informati dall'iscrizione di Bīsutūn. Ivi Dario racconta che Gaumāta, il mago, impadronitosi per frode del regno che da tempo antico apparteneva alla famiglia achemenide, si era proclamato re e che nessuno né persiano, né medo né della famiglia achemenide aveva osato ergersi contro di lui, sino a che lo stesso Dario con un piccolo gruppo di congiurati non assalì l'usurpatore in un castello della Media e lo uccise insieme con i più cospicui dei suoi aderenti. In seguito a ciò, con l'aiuto d'Ahura mazdā, Dario salì sul trono.

Dalle iscrizioni di Dario e da quanto narra Erodoto, l'usurpatore, che era un medo e non un persiano, si era proposta una politica per varî rispetti opposta a quella sino allora seguita dalla dinastia legittima. Secondo Erodoto (III, 67) egli si affrettò ad annunziare che liberava per tre anni tutti i popoli dall'obbligo del servizio militare e dal pagamento dei tributi. Secondo l'iscrizione di Bīsutūn Gaumāta aveva fatto distruggere varî templi che poi furono riedificati da Dario. Il primo provvedimento, preso evidentemente allo scopo di accattivarsi l'animo dei sudditi, importava da parte dell'usurpatore la rinunzia non solo alla politica di conquista perseguita dal regno persiano, bensì anche al mantenimento dell'autorità reale sui paesi conquistati. Difficile è poi stabilire lo scopo della distruzione dei templi poiché non è detto a quale religione essi appartenessero. Ma è probabile che si trattasse proprio dei templi persiani, poiché in contrapposizione ai Medi che avevano solo luoghi di culto all'aperto, i Persiani seguaci come i Medi della religione mazdaica ebbero, almeno all'inizio, dei templi veri e proprî - è rimasta traccia degli edifici a Pasargade e a Persepoli - forse per influenza di culti stranieri. Comunque, fossero questi templi dei Persiani o degli altri popoli sottomessi, è certo che questo provvedimento era ispirato a sentimenti d'intolleranza religiosa che erano estranei alla tradizione di governo degli Achemenidi. Dario ritornò alla politica guerriera e religiosa dei suoi predecessori. Una leggenda raccolta da Erodoto, secondo la quale egli sarebbe stato scelto fra i congiurati per salire al trono di Persia in seguito a una designazione ottenuta per mezzo dell'ippomanzia, potrebbe far sorgere dubbî intorno alla sua legittimità nei confronti della dinastia persiana, da lui così esplicitamente dichiarata. Può essere, difatti, che tra il popolo corressero voci, propalate certo dai Magi, che ponevano in dubbio la legittimità di Dario; tuttavia i particolari genealogici dati da lui nelle sue iscrizioni, sono così sicuri da non dare adito a dubbî circa la sua appartenenza al ramo collaterale della famiglia reale.

I primi anni di regno, come narra l'iscrizione di Bīsutūn, furono da Dario dedicati a soffocare le rivolte scoppiate in numerose provincie dell'impero e perfino nella stessa Persia: in Susiana, in Babilonia, in Armenia, in Ircania, nella Partiana attraverso una serie di battaglie vittoriose fu ristabilita l'autorità reale. Il satrapo di Lidia, che aveva mostrato velleità d'indipendenza, fu soppresso da un emissario di Dario. Il governatore d'Egitto in sospetto di ribellione, perché faceva battere monete d'argento di un titolo superiore a quello delle monete reali, fu messo a morte, durante una visita dello stesso Dario in Egitto (517). Ristabilita l'unità dell'impero, Dario si preoccupò soprattutto di dare ad esso un'organizzazione salda e duratura. Le operazioni militari che egli in seguito intraprese furono ispirate all'intento di dare sicurezza ai confini.

Il vasto territorio dell'impero che a nord e a ovest giungeva al Caucaso, al Mar Nero, al Mediterraneo e al Mar Rosso, comprendendo la Mesopotamia, l'Asia Minore, la Siria e l'Egitto, a est allo Iaxarte comprendendo tutte le stirpi iraniche, a sud al Golfo Persico, a sud-est all'Indo, al tempo di Dario era diviso in venti satrapie. L'Asia Minore comprendeva quattro satrapie: una satrapia riuniva la Siria, la Fenicia, la Palestina e Cipro; quella d'Egitto comprendeva la Libia e la Cirenaica; la settima satrapia comprendeva alcuni popoli fra l'India e la Battriana, Sattagidi, Gandari, Dadici e Apariti; l'ottava era costituita dalla Susiana; la nona dall'Assiria con Babilonia; la Media era divisa in due satrapie, una settentrionale e una meridionale; la dodicesima satrapia era costituita dalla Battriana; la tredicesima dall'Armenia; la quattordicesima riuniva alcuni popoli delle zone centrali, Sagarti, Sarangi e altri; la quindicesima comprendeva la zona nord-orientale occupata dai Saci; la sedicesima il territorio della Khorasmia fra il Mar Caspio e l'Osso; la diciassettesima comprendeva la Gedrosia, all'incirca il territorio del moderno Belūcistān, allora abitato da Paricani e da "Etiopi"; la zona circostante il lago di Urmia costituiva la diciottesima; la diciannovesima era costituita dal territorio compreso fra l'Armenia e la sponda sud-est del Mar Nero; la ventesima infine comprendeva il bacino settentrionale dell'Indo.

Il satrapo, in generale uomo di alta nascita e a volte appartenente alla stessa famiglia reale, o anche alle vecchie famiglie regnanti, come in Cilicia, ha prerogative reali. Egli rappresenta il Gran Re: amministra la giustizia, esige le imposte, mantiene l'ordine. A volte è anche comandante delle truppe reclutate nel paese; ma in generale le truppe hanno un proprio comandante che dipende direttamente dal Gran Re; i luoghi fortificati hanno inoltre un governatore, pur esso indipendente dal satrapo. In tale maniera veniva evitato il pericolo di concentrare troppa forza nelle mani del satrapo, risvegliandone le velleità d'indipendenza e, d'altra parte, le varie autorità venivano a sorvegliarsi a vicenda. Inoltre alla corte del satrapo vi era un segretario la cui funzione precipua era quella di tenere costantemente informata la corte. Infine, funzionarî di assoluta fiducia, chiamati "occhi del re", "orecchi del re", visitavano le provincie e sui loro rapporti insindacati il re prendeva anche i più gravi provvedimenti nei riguardi del satrapo.

Tutta l'autorità di governo era nelle mani del Gran Re, o Re dei Re, che era tale per diritto divino. "Per grazia di Ahura Mazda io sono re, Ahura Mazda mi diede il regno" dice Dario nell'iscrizione di Bīsutūn e lo stesso affermeranno nelle loro iscrizioni Serse e Artaserse. Mediante l'investitura religiosa in nome delle divinità nazionali dei paesi sottomessi, il Gran Re assumeva carattere di monarca nazionale. Ciro si era proclamato re per volontà di Marduk in Babilonia; Cambise e Dario in Egitto, attraverso i nomi assunti, affermarono la loro dipendenza dal dio egiziano Re. Ma dal punto di vista strettamente persiano, l'autorità regale era strettamente collegata con la legittimità dinastica. Lo χvarenah- "splendore regale" si accompagna solo ai sovrani legittimi, mentre in caso di usurpazione o comunque d'interruzione nella successione legittima, esso si rifugia negli abissi del Caspio, secondo la tradizione che appare nell'Avestā. Pertanto, le discussioni sui meriti della democrazia, dell'oligarchia e della monarchia che Erodoto pone in bocca ai congiurati dopo la soppressione di Gaumāta, sono un puro riflesso del pensiero politico greco, completamente estraneo allo spirito persiano. Il potere del re era assoluto; ciò non impediva che egli nei provvedimenti più importanti sentisse il parere di consiglieri e che in generale seguisse nei varî casi le norme della consuetudine. Particolari privilegi avevano nella corte i membri delle famiglie dei sei nobili congiurati che aiutarono Dario a salire sul trono. Il re sceglieva la propria moglie solo fra queste famiglie e solo i membri di esse avevano accesso presso il re senza essere annunziati.

Il carattere di re nazionale nei varî paesi dell'impero veniva al monarca anche dal fatto che egli nel corso dell'anno alternava la sua residenza a Susa, a Ecbatana, a Babilonia, a Pasargade e a Persepoli. In queste due ultime città, per quanto i periodi di permanenza fossero più rari e brevi, i re achemenidi ebbero le capitali propriamente dinastiche; a Pasargade costruita da Ciro essi prendevano l'investitura regale indossando una veste di Ciro che vi era conservata, e quivi il fondatore dell'impero ebbe la sua tomba; nelle vicinanze di Persepoli e a Persepoli stessa, la superba reggia fondata da Dario e accresciuta da Serse, ebbero le loro tombe Dario e i suoi discendenti. Ma mentre la Perside rimaneva il centro della vita dell'impero, in quanto spiriti e costumanze propriamente persiane prevalevano nella vita dell'impero, e persiani, oltre i re, erano nella maggior parte i generali, i funzionarî e i cortigiani, le necessità di governo fecero sì che Susa fosse invece la vera capitale dell'impero. Tale fu forse creata da Dario, che vi fece costruire il palazzo reale traendo profitto dei materiali e delle varie specialità artigiane dei paesi del suo impero, come si rileva da iscrizioni trovate di recente. Susa, trovandosi quasi a metà strada fra i punti estremi dell'impero a oriente e occidente e ad una distanza non molto diversa da Ecbatana e da Babilonia, presentava anche il vantaggio d'una relativa vicinanza con la Perside. Inoltre Dario aveva fatto costruire una via reale fra Susa e Sardi lunga circa 2400 km. e vi aveva stabilito un servizio di posta, con cambio di cavalli alle varie stazioni, che permetteva di far arrivare da Susa a Sardi la corrispondenza reale in una settimana. Altre vie analoghe furono create per le comunicazioni con le altre parti dell'impero. Ctesia dà notizia di una che attraverso la Battriana giungeva sino all'Indo. Lungo queste vie, secondo narra Erodoto, ogni quattro parasanghe, vi erano posti di cambio per i cavalli e alberghi confortevoli, e nei punti d'importanza strategica vi erano fortezze occupate da truppa. Tale sistema di vie non soltanto rendeva più rapide le comunicazioni fra la corte e i varî governatori, ma consentiva anche un più stretto collegamento fra le varie popolazioni. Inoltre di esse si avvantaggiava grandemente lo scambio delle merci.

Dario si preoccupò di facilitare gli scambî commerciali nei paesi del suo impero. Va a lui il merito d'avere intensificato l'uso della moneta d'oro e d'argento, secondo l'esempio che già aveva dato a suo tempo Creso, e di aver dato un corso regolare alla moneta d'oro da lui coniata e che perciò prese il nome di "darico", e di avere fissato un rapporto fra loro e l'argento (i a 13). Il darico d'oro godette sempre di buona reputazione sul mercato greco.

Il grande gettito dei tributi che ogni satrapia doveva pagare in una misura stabilita e le grandi risorse di uomini, data la vastità dell'impero, fecero della Persia una potenza militare di prim'ordine. L'esercito permanente era costituito dai "diecimila immortali" che erano la guardia del corpo del re - chiamati "immortali", secondo la tradizione, perché chi veniva a mancare era immediatamente sostituito, sicché il numero era sempre lo stesso - e dalle truppe delle guarnigioni delle varie città e delle fortezze; queste truppe erano reclutate esclusivamente nella Persia, nella Media e nella Susiana. In occasione di azioni locali il satrapo provvedeva con le truppe delle guarnigioni o con reclutamenti fatti sul luogo; in caso di grandi spedizioni l'esercito si arricchiva dei contingenti forniti dai varî paesi e, agli ordini del re, era ripartito in grandi unità di diecimila uomini divise in dieci reggimenti di mille uomini e in reparti di cento e di dieci uomini, con i rispettivi ufficiali. Il nucleo dell'esercito era costituito sempre dalle truppe di stirpe iranica, e persiani erano per la maggior parte i generali e gli alti ufficiali.

Dell'attività militare svolta da Dario nei primi tempi, dopo che ebbe soffocate le rivolte scoppiate nei varî paesi dell'impero, non si hanno notizie. Nelle iscrizioni di Persepoli, fra le provincie sottomesse e rese tributarie si parla dell'India, e in Erodoto si fa un cenno fugace circa una sottomissione degl'Indiani da parte di Dario. È probabile che questa conquista, che comprendeva naturalmente solo una parte del territorio dell'India, probabilmente solo a ovest dell'Indo, sia stata portata a termine, dopo che fu soffocata la rivolta in Aracosia, dal satrapo di quella provincia.

Ben diversamente informati siamo sulle imprese militari che Dario e suoi successori condussero contro l'Occidente. I Greci, che ebbero il merito d'arginare l'avanzata dell'impero persiano verso ovest, ci hanno lasciato nella loro storiografia un'ampia e precisa documentazione intorno alle alterne vicende di tale lotta, che riempie di sé il periodo più ricco e vitale della storia delle città greche. Rimandando alla trattazione che se ne è fatta (grecia: Storia), qui accenneremo rapidamente allo sviluppo degli avvenimenti, considerati più particolarmente in rapporto alla storia dell'impero persiano.

L'inizio di questa lotta secolare si ebbe con la cosiddetta "spedizione scitica", intrapresa da Dario intorno al 516 a. C. Lo scopo di tale spedizione diretta contro gli Sciti d'Europa, genti iraniche dimoranti nelle steppe della Russia meridionale, non è chiaro. Può essere che egli volesse porre fine alle molestie e alle minacce che da tali orde nomadi venivano alle terre dei confini settentrionali; può essere che egli, avendo in mente una spedizione contro la Grecia, volesse garantirsi da eventuali attacchi sul fianco. Dopo una ricognizione a nord del Mar Nero fatta dal satrapo di Cappadocia, un esercito abbastanza numeroso (certo non tanto quanto vuole la tradizione che lo fa ammontare a 600 navi e a 700.000 uomini) passò in Europa per un ponte sul Bosforo costruito dal greco Mandrocle di Samo. Attraversata la Tracia, dove solo la tribù dei Geti oppose resistenza, la spedizione raggiunse il delta del Danubio, varcò il fiume sopra un ponte di barche e s'inoltrò nella pianura moldava. Ma gli Sciti si ritiravano dinnanzi all'invasore, sicché sia per la natura desertica del paese, sia perché gli Sciti ritirandosi distruggevano ogni risorsa, vennero a mancare i rifornimenti per le truppe e Dario fu costretto, non senza perdite, a ritirarsi. I Greci non avevano aderito agl'inviti degli Sciti di distruggere il ponte sul Danubio e quindi Dario poté indisturbato rientrare a Sardi. Truppe persiane, rimaste in Europa al comando di Megabazo, sottomisero Perinto e altre città greche della Tracia. Il tentativo di ottenere la sottomissione di Aminta, re di Macedonia, non fu invece coronato da successo. Otane, successore di Megabazo, conquistò Bisanzio e altre città e le isole di Lemno e Imbro.

La cosiddetta rivolta ionica istigata da Istieo, tiranno di Mileto, deposto e internato a Susa, determinò un conflitto aperto fra Atene e la Persia, poiché Atene aveva portato aiuto di navi ai ribelli, quando questi riuscirono a impadronirsi della città di Sardi (498), ferendo gravemente l'orgoglio del Gran Re. Quattro anni dopo la flotta persiana, composta di navi fenicie e cipriote, sconfiggeva una flotta greca, davanti all'isola di Lade; Mileto, centro della ribellione, cadde in mano dei Persiani, la popolazione maschile fu massacrata e le donne e i bambini furono trasportati ad Ampe sul Tigri. Una successiva spedizione di Dario per riconquistare la Tracia resasi indipendente, agli ordini di Mardonio, nipote del re, ebbe successo; una seconda spedizione, al comando del medo Dati e del persiano Artaferne, si concluse invece con la completa disfatta delle forze persiane a Maratona (490).

In Egitto Dario aveva cercato rimedio ai danni della politica di Cambise ed era riuscito ad accattivarsi l'appoggio della classe sacerdotale, soprattutto facendo rientrare dalla Susiana il gran Sacerdote di Sais e interessandosi e partecipando durante la sua visita del 517 alle manifestazioni religiose. Sotto il suo regno l'Egitto ebbe un periodo di floridezza. Per volere di Dario fu riaperto il canale fra il Mar Rosso e il Nilo, per cui le navi poterono raggiungere il Mediterraneo, e fu costruito un tempio di Giove Ammone nell'oasi di Tebe. Ma i tributi pagati erano eccessivi e il 486, anno in cui Dario morì (o abdicò, come si è di recente congetturato), l'Egitto era in rivolta.

Il figlio Serse, che per sua designazione, in seguito alle pressioni di Atossa figlia di Ciro e sua seconda moglie, succedette a Dario sul trono, riuscì subito a soffocare la rivolta d'Egitto e a rinsaldarvi l'autorità persiana ponendovi come satrapo il fratello Achemene (484). L'anno successivo venne pure annientata una ribellione scoppiata a Babilonia; dopo breve assedio, la città fu presa e saccheggiata e la popolazione fu fatta schiava. Nell'autunno 481, dopo vasti preparativi, Serse, alla testa d'un immenso esercito, mosse contro la Grecia. La spedizione finì con la completa disfatta delle armi persiane a Salamina (480) e a Platea (479). La Grecia fu libera dalla minaccia persiana e Atene divenne padrona del mare. Nel 465 Serse fu ucciso insieme con il primogenito in una congiura ordita dal prefetto di palazzo, l'eunuco Aspamitra, e dal comandante delle guardie del corpo Artabano. Il figlio minore Artaserse riuscì a liberarsi di Artabano e dei suoi complici e salì sul trono persiano (465).

Gl'inizî del regno di Artaserse I furono pieni di turbamenti. Anzitutto con l'aiuto dei Battriani un altro figlio di Serse prese le armi per impadronirsi del trono, ma fu battuto (462). In Egitto il principe libico Inaro aveva sconfitto e ucciso il satrapo Achemene, zio del re, e aveva costretto, pare con l'aiuto di navi ateniesi, la guarnigione persiana a rinchiudersi nella rocca bianca di Menfi. Megabizo, satrapo di Siria, alla testa d'un forte esercito e con l'aiuto di navi fenicie, soffocò la rivolta e fece prigioniero Inaro. La cosiddetta pace di Callia (449), conclusa con Atene dopo qualche avvisaglia guerresca, mediante la quale la rada di Faselide in Licia fu posta come limite all'attività delle due flotte, e poi la guerra del Peloponneso, diedero tregua alla lotta fra Greci e Persiani. Un grave sintomo dell'indebolimento del potere reale si ebbe nella ribellione di Megabizo, che riuscì a battere due volte le truppe del Gran Re e gl'impose la pace.

Dopo la morte di Artaserse I (marzo 424), che aveva regnato per quarantuno anni in una calma relativa, si manifestò nella corte persiana quella tendenza all'intrigo che fu causa non ultima dell'indebolimento e del crollo dell'impero. Il figlio, Serse II, che gli succedette, fu ucciso dopo quarantacinque giorni di regno dal fratello Sogdiano, figlio d'una concubina; ma a sua volta costui, che si era impadronito del trono, fu scacciato e fatto giustiziare da un altro fratello, Oco (Ωχος, Vahuka), satrapo d'Ircania, che salì sul trono col nome di Dario II. Durante il suo regno (424-404) si ebbero a corte intrighi e delitti ispirati dalla regina Parisatide, e nelle provincie si ebbero numerose ribellioni che furono soffocate nel sangue. All'esterno si ebbe un periodo di tranquillità, poiché la Grecia era impegnata nelle sue lotte interne. L'alleanza stretta da Sparta con i Persiani non portò a nessun risultato, perché il Gran Re non aveva alcun interesse all'annientamento d'Atene, convenendogli piuttosto che le forze greche rimanessero in equilibrio e in contrasto. Una ribellione del satrapo della Lidia Pissutne, cugino del re, venne soffocata da Tissaferne, che ne corruppe il capo delle truppe, l'ateniese Licone; Pissutne fu costretto ad arrendersi e fu ucciso (414). Alla morte di Dario II (404) i contrasti per la successione assunsero forma di guerra civile. Ciro il giovane, figlio cadetto di Dario, che era al comando delle truppe dell'Asia Minore, aveva lasciato il comando delle truppe allo spartiate Lisandro e si era affrettato a recarsi a Babilonia, dove sperava con l'aiuto della madre Parisatide di soppiantare nella successione il fratello maggiore Arsace; ma, quando giunse, Dario era morto e Arsace era salito al trono col nome di Artaserse II (dai Greci ebbe l'appellativo di Mnemone per la sua forte memoria). Le sue intenzioni trapelarono e sarebbe stato ucciso senza l'intervento della madre. Ritornato in Asia Minore, Ciro, approfittando della fine della guerra del Peloponneso, mise insieme rapidamente un esercito di mercenarî greci e alla testa di esso giunse senza trovare resistenza sino nei pressi di Babilonia. Quivi a Cunassa (401) s'impegnò una violenta battaglia con le truppe di Artaserse. I mercenarî greci ebbero ragione delle masse avversarie per quanto assai superiori di numero; e Ciro, caricando con i suoi cavalieri, ferì di sua mano lo stesso re. Ma i corazzieri di Tissaferne respinsero la cavalleria di Ciro ed egli stesso fu colpito a morte. Così la vittoria rimase ad Artaserse, il quale fece tagliare al cadavere di Ciro la testa, e la mano che lo aveva ferito. Venuto meno lo scopo della campagna, i Greci rimasti senza capi in seguito ad un tranello teso loro da Tissaferne, risalirono, com'è noto, sotto la guida di Senofonte, il corso del Tigri, poi il fiume Bitlis e, attraversate le montagne, giunsero a Trebisonda sul Mar Nero.

Il regno di Artaserse II fu pieno di travaglio, all'esterno e all'interno. Nei rapporti con la Grecia Artaserse seppe approfittare della rivalità fra le città greche. La flotta ateniese si unì a quella persiana e, sotto il comando nominale di Farnabazo e quello effettivo di Conone, fu da esse battuto l'ammiraglio spartano Pisandro (394); le mura che congiungevano Atene al Pireo furono ricostruite con concorso persiano. In Asia Minore fu necessario reprimere la ribellione delle popolazioni indigene; quivi anche le colonie greche, in seguito alla cosiddetta pace di Antalcida (387), caddero nuovamente in potere dei Persiani. A Cipro, Evagora, che si era impadronito dell'isola e aveva resistito agli attacchi persiani, fu assediato da Tiribazo e Oronte nella capitale Salamina, e costretto a dichiarazioni di vassallaggio e a pagamento di tributi. Una grave ribellione di satrapi dell'Asia Minore, capitanati da Ariobarzane fu domata in parte con la forza, in parte col tradimento. In Egitto invece un nipote di Amirteo, di nome pure Amirteo, era riuscito a respingere le guarnigioni persiane (405); sei anni più tardi l'Egitto si proclamò indipendente.

Intanto, gravi drammi familiari sconvolgevano la corte. Parisatide fece avvelenare la regina Statira e fu esiliata a Babilonia. Dei figli di Statira il maggiore, Dario, credendo d'essere privato dal padre del diritto di succedergli, si preparava ad assassinarlo, ma fu scoperto e giustiziato. Il secondogenito Ariaspe, per ispirazione del terzo fratello, Oco, temendo di fare la stessa fine, si uccise; Arsame, figlio d'una concubina e prediletto del padre, fu pure assassinato; Artaserse ne morì, si dice, di cordoglio (358).

Oco, salito sul trono col nome di Artaserse III, mostrò durante il suo regno lo stesso animo spietato che gli era valso la successione. Soppressi tutti i principi della famiglia reale per evitare il sorgere di pretendenti, si preoccupò di soffocare le ribellioni scoppiate nei varî paesi dell'impero. In Asia Minore, riuscì ad avere il sopravvento su Artabazo che, alleato con Oronte, aveva battuto le truppe del Gran Re (356); Artabazo, abbandonato dagli Ateniesi, fu costretto a fuggire e a rifugiarsi presso Filippo di Macedonia. L'Egitto, che aveva mano in tutte le ribellioni contro il Gran Re, fu riconquistato con l'aiuto dei mercenarî che al comando di Mentore di Rodi passarono dal soldo egiziano a quello persiano (345); e, pure con aiuto greco, fu riconquistata l'Asia Minore. Intanto, il re Filippo di Macedonia volgeva la sua attenzione all'Asia Minore, dove la condizione di vassallaggio delle città greche ripugnava alla coscienza nazionale greca, ormai saldamente formatasi. Egli fece una prima puntata verso l'Asia, svelando ai Persiani quali fossero le sue intenzioni; sicché non è escluso che all'assassinio di lui abbiano concorso intrighi persiani (336). Già l'anno prima, avvelenato dall'eunuco Bagoa che aveva in mano la politica dell'impero e si sentiva minacciato da un forte partito di corte, era morto Artaserse III (336). Dopo pochi mesi di regno di Arsete, figlio minore di Artaserse, assassinato a sua volta da Bagoa, insieme con i figli, fu da Bagoa posto sul trono (335) un bisnipote di Dario II, Dario III Codomano. Questi venne pure a urtarsi contro l'ambizione di Bagoa, ma riuscì a prevenire le intenzioni del terribile eunuco, facendogli bere il veleno a lui destinato.

Dario III fu l'ultimo re achemenide. Invano egli tentò di arrestare l'avanzata vittoriosa di Alessandro Magno verso l'Oriente. A Isso le sue truppe subirono una completa disfatta (333) e il Gran Re vide sdegnosamente respinte dal Macedone le sue proposte di pace e di alleanza. Impotente ad arginare la marcia di Alessandro, che strappava all'impero la Siria, la Fenicia e l'Egitto, Dario tentò nuovamente a Gaugamela la fortuna delle armi (331). Né il suo valore disperato, né quello delle truppe persiane valsero ad avere ragione del genio militare del Macedone. Mentre Alessandro, impadronitosi di Babilonia e di Susa, avanzava su Persepoli e l'abbandonava alle fiamme, al Gran Re non rimaneva che fuggire verso le provincie orientali dell'altipiano nella speranza di potere raccogliere nuove truppe per opporsi all'invasore. La sua speranza non arrivò a compimento, poiché i due satrapi Besso e Barsaente, nel disegno di succedergli, lo assassinarono (luglio del 330). Besso, della famiglia achemenide, prese difatti il titolo di Artaserse IV, ma fu travolto dall'avanzata di Tolomeo. Alessandro avanzò a nord oltre la Battriana e quindi nel 327, dopo il matrimonio con Rossana, riprese la sua marcia vittoriosa discendendo verso la valle dell'Indo. L'impero achemenide non esisteva ormai più, e i varî paesi che esso aveva tenuto uniti per più di due secoli in una salda compagine amministrativa intorno al nucleo propriamente persiano, divennero provincie dell'impero macedone e furono investiti dallo sipirito d'una civiltà ben più ricca e potente. la civiltà ellenica.

Gli Arsacidi. - La morte prematura impedì ad Alessandro di realizzare il suo sogno d'un impero che superasse le barriere culturali fra Oriente e Occidente e riunisse in un'organizzazione statale avente il suo centro a Babilonia tutti i popoli dall'Indo al Mediterraneo. Le lotte dei diadochi che seguirono favorirono le aspirazioni all'indipendenza degli antichi imperi d'Oriente; e solo dopo la battaglia d'Ipso in Frigia (301) un'unità relativa dei varî stati asiatici si venne ad avere sotto lo scettro di Seleuco e dei suoi successori. Nel periodo dei Seleucidi, come l'Egitto sotto i Tolemei, l'Asia occidentale entrò sotto l'influenza della cultura greca, apportando per suo conto in essa spiriti e forme delle sue millenarie civiltà. Durante il regno di Antioco II Teo (261-246), nipote di Seleuco I, s'iniziarono i movimenti nazionali che dovevano portare l'Īrān alla costituzione d'un nuovo regno indipendente. Nella Battriana l'influenza greca era stata assai più forte che altrove, sicché da essa mosse quella corrente di cultura ellenistica che doveva penetrare sin nell'India. Ivi si maturò la formazione d'un regno greco-battriano indipendente, poiché la debolezza dei Seleucidi incoraggiò il re Diodoto II a sottrarsi alla loro sovranità. Lo stesso avvenne nella Partiana dove, secondo la tradizione, un Arsace, della tribù nomade degli Aparni, ucciso il satrapo seleucide, assunse il titolo di re (250) e si rese indipendente. Non sembra tuttavia che egli riuscisse a impadronirsi di tutta la Partiana. Il fratello di lui Tiridate, divenuto re (247), con l'aiuto della sua tribù allargò il suo dominio sul territorio dell'antica satrapia Ircania-Partiana. Pose la sua capitale dapprima nella fortezza di Dara, vicino Abivard nell'Apavarktikene e fu incoronato in una città nei pressi di Kushan nell'Astavene, la quale prese appunto il nome di Asaak (Arsacia). L'era arsacide, che continuò a essere usata a lungo in Mesopotamia, ha inizio dalla sua incoronazione (248-47 a. C.). Durante i turbamenti del regno di Seleuco II, Tiridate poté consolidare il proprio regno; dopo un fortunato ritorno offensivo di Seleuco durante il quale egli si era rifugiato fra le tribù settentrionali dei Massageti, riuscì, con l'aiuto di Diodoto, non solo a rioccupare il suo dominio, ma ad estenderlo in seguito anche sull'Ircania. La conquista completa dell'Ircania e della Comisene e il trasferimento della capitale nella città seleucidica di Ecatompilo avvennero dopo la sconfitta che Antioco III subì a Rafia in Siria. Artabano, successore di Tiridate (214), conquistò la provincia di Coarene e tenne per qualche tempo anche Ecbatana. Respinto in seguito da Antioco III, Artabano perdette anche la Comisene e l'Ircania e dovette riconoscere la sovranità del re seleucide. Dopo la sconfitta di Antioco III presso Magnesia (189) ad opera dei Romani, i Parti ricuperarono il territorio già conquistato. Probabilmente in questo periodo essi furono attaccati dai Greco-Battriani e perdettero durante il regno di Arsace la provincia di Astavene; ma in compenso, approfittando della debolezza del regno seleucide, sotto Fraate I essi portarono i loro confini a Carace, a ovest delle Porte Caspiche che aprivano il passaggio dal Khorāsān nella Media. Successore di Fraate I fu il fratello Mitridate che durante il suo lungo regno (174-136) fece del regno partico quel potente stato, che tenne fieramente fronte alle armi romane.

Nel periodo che va dalla sconfitta di Antioco III a Magnesia sino al 160 a. C., in cui Mitridate diede inizio alla sua opera di conquista, il dominio dei Seleucidi si era sempre più indebolito e si erano create nuove forze indipendenti. Mitridate per prima cosa s'impadronì della Media, che si era resa indipendente sotto il satrapo Timarco alla morte di Antioco Eupatore, e vi mise a capo un proprio satrapo. Quindi si rivolse contro Eucratide di Battriana e gli tolse le provincie già partiche di Tapuria e Traxania. Poi conquistò l'Elimaide che già si era rivoltata contro i Seleucidi sotto la guida di un Camnaschire. Spingendosi verso sud, sottomise la Perside. Dall'Elimaide gli riuscì facile portare i cavalieri parti verso Babilonia, cui Antioco Epifane aveva dato il carattere d'una città greca, e se ne impadronì (marzo-aprile 141). Dopo una spedizione che gli procurò l'annessione dell'Adiabene (Assiria), nel luglio dello stesso anno entrò in Seleucia, e nell'anno successivo appare il primo documento babilonese in cui il re partico riprende il titolo persiano di "Re dei Re". Demetrio II che, forte della simpatia dell'elemento greco, aveva tentato la riscossa investendo e riconquistando Babilonia, fu alla fine battuto e fatto prigioniero da Mitridate (fine del 140 a. C.). In tale maniera, per l'accorta e fortunata opera del re partico, un nuovo impero iranico si stendeva fra il Mar Caspio e il Golfo Persico.

Il figlio di Mitridate, Fraate II (138), sostenne vittoriosamente l'ultimo urto delle forze seleucidiche. Antioco Sidete, fratello di Demetrio II, era riuscito, pare durante la permanenza di Fraate in Ircania, a battere i generali di lui e a impadronirsi prima di Babilonia e poi della Media. Ma, mentre egli svernava ad Ecbatana e le truppe erano alquanto disperse, Fraate l'attaccò all'improvviso, sconfiggendolo (130). Antioco morì in combattimento, il figlio di lui Seleuco fu condotto prigioniero in Ircania e la figlia di Demetrio che si trovava presso Antioco fu presa in moglie da Fraate. In una spedizione contro i Saci che, a Oriente, avevano invaso i territorî del regno, Fraate commise l'imprudenza di servirsi dei mercenarî greci di Antioco; ma questi gli si rivoltarono contro ed egli cadde combattendo contro i nomadi.

La pressione dei Saci sui confini nord-orientali era il risultato di grandi movimenti di popoli nell'Asia centrale. Dopo avere distrutto il regno greco-battriano essi si divisero; una corrente continuò verso ovest, l'altra mosse verso sud ai margini del deserto. La prima dalla Partiana, spintasi verso l'Ircania e la Comisene, non procedette oltre, arrestata probabilmente dalla riscossa di Artabano II, zio e successore di Fraate. La seconda, diretta verso il sud, occupò il territorio che prese il nome dagl'invasori (odierno Seistān da Sakastāna) spingendosi verso l'India. Artabano intorno al 124 cadde combattendo contro gl'invasori e gli succedette il figlio Mitridate II.

Mitridate II dovette per prima cosa ristabilire il predominio partico nelle zone occidentali. Fraate II, quando fece la spedizione contro i Saci, aveva lasciato in Babilonia come governatore un Imero d'Ircania, con autorità anche sulla Media. Nel 127 e nel 126 appare nelle monete come re di Babilonia un Ispaosine di Caracene. Comunque è però certo che Mitridate II nel 122 ha in suo potere Babilonia e ha sottomesso anche la Caracene.

Voltosi quindi alle provincie d'Oriente, Mitridate riconquista la Partiana sino alla pianura di Merv e sottomette il paese occupato dai Saci (Seistān). La pressione degli Yueh-chi che aveva spinto i Saci sull'altipiano iranico fu contenuta dai Saci stessi rimasti in Sogdiana, i quali, alimentati dal flusso delle tribù affini, posero la loro capitale a Buchara. I confini orientali furono così resi sicuri e la Partiana crebbe d'importanza in questo periodo pacifico, per l'apertura della cosiddetta via della seta che, attraversato il Turkestān, portava in Occidente i prodotti cinesi. Nel 92 a. C. una missione partica inviata da Mitridate raggiunse Silla sull'Eufrate per chiedere amicizia e alleanza. Un periodo di gravi turbamenti si ebbe negli ultimi anni del regno di Mitridate e dopo la morte di lui avvenuta intorno all'88 a. C., sino a che nel 77 per l'intervento dei Saci non salì sul trono Sanatruce, uomo piuttosto anziano, che regnò sino al 70; è dubbio se in veste di "Re dei Re". Infine sale sul trono Fraate III che appare col titolo di "Re dei Re" nel 64 e con lui la storia dei Parti viene ad intrecciarsi con la storia dell'Occidente, dominata dalla potenza di Roma.

Già durante l'interregno seguito alla morte di Mitridate, il re d'Armenia Tigrane aveva ricuperato i territorî che gli erano stati strappati da Mitridate, aveva portato le proprie frontiere in Mesopotamia a sud di Singara, aveva conquistata la Gordiene, l'Adiabene e l'Atropatene e aveva assunto il titolo di "Re dei Re". Dopo la grave disfatta inflitta al re armeno a Tigranocerta (69 a. C.), Lucullo aveva sollecitato Fraate ad allearsi con lui, promettendogli come compenso i territorî di cui Tigrane si era impadronito dopo la morte di Mitridate. Fraate esitava, e Lucullo avrebbe certamente rivolto contro di lui le sue armi, se non avesse incontrato resistenza fra le truppe. Finalmente Fraate si decise ad aderire alle medesime proposte fattegli da Pompeo, successore di Lucullo, e si mosse per invadere l'Armenia. La sua azione fu fiacca e ben presto egli si ritirò, mentre Tigrane si arrendeva a Pompeo e stringeva con Roma rapporti d'amicizia. Quando Fraate volle occupare i territorî promessigli, si trovò di fronte i Romani che glielo impedirono. Fraate inviò le sue proteste a Pompeo e rivolse le armi contro Tigrane. Infine, per la mediazione di Pompeo, Fraate si dovette accontentare dell'Adiabene. Nella Mesopotamia occidentale l'amicizia romana protesse dagli attacchi di Fraate Ariamne re dell'Osroene, e a ovest dell'Eufrate il principe arabo Alcaudonio.

Fraate fu ucciso intorno al 57 dai suoi figli Orode e Mitridate e il maggiore fu assunto al trono col nome di Orode I. Mitridate si rivoltò e scacciò il fratello, ma questi venne rimesso sul trono dal generale Surena con un suo esercito privato. Mitridate dopo essersi rivolto invano per aiuti a Gabinio, proconsole di Siria, che preferì invece impegnarsi in Egitto, ritornò in Partiana e, raccolte truppe, mosse verso Occidente. Ma l'esercito di Surena lo strinse d'assedio a Seleucia, la città fu espugnata (54 a. C.) e Mitridate fu messo a morte per ordine di Orode.

Durante il regno d'Orode, il proconsole di Siria Crasso subì la grave sconfitta di Carre (53 a. C.) ad opera di Surena, generale di Orode. In seguito ad essa i Parti riconquistarono la Mesopotamia comprese Nisibi e la Gordiene; la capitale fu trasportata a Ctesifonte di fronte a Seleucia. Ma Surena fu ucciso per ordine del re geloso del suo successo e le truppe, che al comando del principe Pacoro avevano invaso la Siria, non riuscirono ad impadronirsi di Antiochia; ad Antigoneia esse furono battute da Cassio. Pacoro, caduto in sospetto del padre, in seguito a macchinazioni alle quali non fu estraneo Bibulo, nuovo proconsole di Siria, fu richiamato e più tardi le truppe partiche ripassarono l'Eufrate (luglio del 50).

Lo scoppio delle guerre civili impedì ai Romani di vendicare la disfatta di Crasso. Dopo la battaglia di Filippi, Orode era stato indotto da Labieno a inviare una spedizione in Siria e in Asia Minore. Ma qui Ventidio Basso, generale di Antonio, respinse le truppe partiche fra le gole del Tauro e poi le sconfisse definitivamente a Geindaro nella Siria settentrionale (38).

Caduto Pacoro in battaglia, Orode abdicò in favore del secondogenito Fraate IV, figlio di una concubina (37). Nell'anno seguente Antonio, riprendendo il progetto di Cesare d'una spedizione contro i Parti, alla testa di notevoli forze si spinse attraverso l'Armenia, ma giunto a Frataa (Bardha‛ah) in Atropatene un insuccesso lo costrinse a una difficile ritirata attraverso un territorio aspro e pieno d'insidie. In seguito, le relazioni tra Fraate e Roma migliorarono tanto che il 20 a. C. egli, costretto da Tiberio, rinviò ad Augusto le insegne romane prese a Carre e restituì i prigionieri che in gran numero erano stati trasportati a Merv. I quattro figli di Fraate furono inviati a Roma e vi assorbirono la cultura romana. Alla morte di Fraate, si ebbe un breve regno di Fraate V o Fraatace (2 a. C.-4 d. C.) in unione con la madre Musa, d'origine italica, a cui seguì un usurpatore Orode II che venne ucciso dopo quattro anni di regno. Richiamato da Roma fu posto sul trono Vonone (8-11) primogenito di Fraate, ma si rivelò estraneo ai costumi orientali e si dovette sostituirlo con Artabano III, un arsacide per parte di madre che regnò per trent'anni (10-40). All'inizio del suo regno, egli dovette combattere contro Tiridate III figlio di Seraspatane, uno dei figli di Fraate che vivevano a Roma, il quale ebbe all'inizio qualche successo riuscendo a impadronirsi di Ctesifonte, già dal tempo di Orode I capitale del regno partico; ma Artabano alla fine riuscì a scacciarlo. Gli urti con i Romani ricominciarono quando Artabano volle porre sul trono d'Armenia uno dei suoi figli, poiché Tiberio inviò Germanico il quale riuscì a mantenere sul trono Zenne, protetto di Roma. In seguito alla morte di Zenne (34), i Parti avanzarono nuove pretese sul regno di Armenia, ma i Romani provocarono un'invasione di Iberi i quali sconfissero le truppe partiche e posero sul trono Mitridate, fratello del re d'Iberia Farasmane, il quale regnò sino al 52 d. C. Morto Artabano (40), il figlio adottivo Gotarze s'impadronì del trono al posto dell'erede legittimo Vardane, che era assente, e fece uccidere l'altro fratello Artabano. Ma Vardane si affrettò a ritornare e sconfisse Gotarze; poiché questi informò Vardane d'un complotto ordito contro di lui, i contendenti si riappacificarono e quando Vardane morì, pare di veleno, gli succedette Gotarze. Questi con le sue crudeltà suscitò il malcontento dei sudditi, che gli opposero Mihrdāt figlio di Vonone I, richiamandolo da Roma. Gotarze riuscì a catturarlo e gli fece tagliare le orecchie rendendolo così inabile a salire sul trono (49). Quando Gotarze morì (51), gli succedette sul trono Vonone II, re di Atropatene, il quale regnò pochi mesi. Il figlio di lui, Vologese I che gli succedette, mise il fratello Pacoro sul trono di Atropatene e l'altro fratello Tiridate sul trono d'Armenia, rimasto vacante in seguito alla cacciata di Radamisto, nipote e uccisore di Mitridate d'Iberia. Ma poiché Tiridate si rifiutava di chiedere l'investitura a Roma, Nerone inviò Domizio Corbulone il quale, dopo avere cercato invano una soluzione amichevole, nella primavera del 59 investi Artaxata, capitale dell'Armenia, e sconfisse Tiridate. L'anno seguente fu occupata anche Tigranocerta, cosicché tutta l'Armenia cadde in potere dei Romani che posero sul trono Tigrane, pronipote di Erode di Giudea. Vologese allora prese le armi contro i Romani e nella primavera del 62 riuscì a battere Cesennio Peto presso Arsamosata. La campagna fu allora affidata nuovamente a Corbulone, il quale riuscì a imporre le sue condizioni, cosicché tre anni dopo, nel 66, Tiridate, accompagnato da duemila cavalieri, partì per Roma, dove ebbe da Nerone l'investitura del regno di Armenia. Stabiliti buoni rapporti con Roma, l'influenza persiana si estese verso Oriente sino all'India.

Come successore di Vologese I, appaiono dopo il 77 d. C. Vologese II, suo fratello Pacoro II e un Artabano IV. Su queste successioni non si ha altra fonte di notizie che quella delle monete. Nel 107 è re Osroe, fratello di Vologese II, ma nel 111 si ha un ritorno di costui come pretendente. Sorte nuove controversie circa il regno di Armenia, un esercito romano comandato personalmente da Traiano invase l'Armenia e la ridusse a provincia romana. Traiano, che da questa spedizione ebbe nome di Partico, avanzò quindi verso il sud, varcò il Tigri e s'impadronì di Ctesifonte. Essendo sorte minacce alle sue spalle, egli fece incoronare solennemente Parthamaspate, figlio di Osroe e si dispose alla ritirata. Ammalatosi, morì a Selinunte in Cilicia il 7 agosto 117, dopo avere soffocato la rivolta degli Ebrei in Mesopotamia. Adriano concluse nel 123 la pace con Osroe e, poiché la provincia romana d'Armenia non era durata che tre anni, pose su quel trono un principe di cui s'ignora il nome e che regnò sino al 140. Alla morte di Osroe (130) ritornò sul trono Artabano IV, suo fratello più anziano, e a questo, dopo diciotto anni di regno, seguì Vologese III (148-191). Sempre a causa dell'Armenia, si riaccende l'antagonismo fra Roma e i Parti e la guerra che Antonino Pio era riuscito a scongiurare, scoppia sotto Marco Aurelio. Vologese aveva voluto imporre il fratello Pacoro (161) sul trono di Armenia, cacciando Soemo cliente di Roma; ma le truppe romane, dopo un insuccesso iniziale del govematore di Cappadocia, M. Sedazio Severiano, sotto il comando di L. Vero, sconfissero i Parti a Europo, invasero la Mesopotamia, distrussero il palazzo reale di Ctesifonte e incendiarono Seleucia. In Armenia i Romani costruirono una nuova capitale Kainepolis e la presidiarono di truppe; il regno fu restituito a Soemo.

Vologese IV succedette nel trono al padre il 190. Poiché gli stati vassalli della Mesopotamia avevano sostenuto il pretendente Pescennio Nigro, Settimio Severo mosse in guerra contro i Parti, anche nell'intento di difendere dalla minaccia partica Nisibi, di cui egli aveva fatto l'arsenale delle truppe romane in quelle regioni. Ctesifonte fu investita all'improvviso dalle truppe romane, espugnata e saccheggiata (199); l'Armenia, che in un primo tempo era stata parzialmente ceduta ai Parti, divenne nuovamente stato cliente di Roma.

Verso la fine del regno partico si ebbe un ritorno di potenza con Artabano V che, dopo lunga contesa con il fratello Vologese V, riuscì a occupare stabilmente il trono. Caracalla nel 212 volle riprendere la lotta contro i Parti e con atto improvviso dichiarò deposto il re d'Armenia. L'Armenia insorse e proclamò re Tiridate; ma, apparso Caracalla nel 214 con un esercito, Tiridate che si era rifugiato presso i Parti gli venne consegnato. L'uccisione di Caracalla a Edessa troncò ogni azione militare, ma in seguito la lotta fu ripresa da Macrino; le truppe romane furono a due riprese sconfitte dai Parti, presso Nisibi, e Macrino dovette accettare una pace in cui, oltre a pagare un'indennità, i Romani riconobbero Tiridate come re di Armenia, vassallo di Roma.

La secolare lotta fra Roma e l'impero persiano, che forse impedì ai Parti uno sviluppo maggiore verso Oriente, non cessò con la caduta della dinastia arsacidica, ma continuò anche con la dinastia che ad essa succedette, confermandosi così che si trattava non d'una lotta di imperialismi, bensì d'un contrasto inevitabile fra l'Occidente e l'Oriente, come fra due mondi di civiltà così profondamente diverse da non consentire la minima comprensione reciproca.

I Sassanidi. - La tensione di sforzi a cui la secolare lotta con i Romani aveva costretto il regno partico, aveva consentito il formarsi di nuove forze pressoché indipendenti in quelle provincie del sud da cui era già mossa l'organizzazione del grande impero achemenide. Fu appunto un persiano, Artaχśēr, pers. m. Ardashīr signore del distretto di Iṣṭakhr presso Persepoli, che, traendo profitto delle relazioni contratte alla corte di Artabano, alla quale era stato inviato dal padre suo Pāpak, riuscì a suscitare e a riunire in sua mano la ribellione delle provincie meridionali contro il sovrano arsacide. La ribellione si estese anche nelle provincie settentrionali e, dopo varî fatti d'arme, Artabano fu definitivamente sconfitto da Ardashīr a Hormazdagān in Susiana (224 d. C.). Due anni dopo, Ardashīr s'impadroniva di Ctesifonte dando inizio a una nuova dinastia che dal nome del nonno di Ardashīr, Sāsān, prese il nome di sassanide. L'era sassanidica, che fu, sebbene scarsamente, usata anche in Mesopotamia, ha inizio con la conquista di Ctesifonte e precisamente col 26 settembre 226 d. C. Ardashīr riuscì a sconfiggere varî principi locali e, venuto in possesso di tutto il territorio già dominato dagli Arsacidi, assunse il titolo di "Re dei Re". Non riuscì a impadronirsi dell'Armenia dove dominava un Khosrev della famiglia degli Arsacidi. Costui per tale sua appartenenza familiare cercò di avanzare pretese sul trono di Persia; ma fu ucciso per mano di un Anak della famiglia Pahlavuni, secondo la leggenda padre di Gregorio l'Illuminatore. Per affermare i suoi diritti sull'Armenia, Ardashīr portò le armi contro i Romani. Ma dopo un vano tentativo d'investire Hatra per spingersi nella Mesopotamia, i Romani lo costrinsero a ritirarsi (234); il che non gl'impedì tre anni appresso di espugnare Nisibi e Carre.

L'attività guerresca si accompagnò in Ardashīr alla costruzione di numerose città, fra cui Vēhardashīr, costruita sulle rovine di Seleucia, e Ardashīr-khurreh, odierna Fīrūzābād. Non c'è dubbio che Ardashīr si sia sforzato di far rivivere la più antica tradizione nazionale iranica, il cui ricordo nel Fārs non era andato forse completamente perduto. Un più pieno ritorno alla religione zarathustriana, sentita come la religione dell'iranismo, il bisogno di affermare la legittimità della sua successione riattaccandosi direttamente alla famiglia achemenide, come appare dal poema romanzesco di cui egli è protagonista, il gran numero di bassorilievi con cui, ad imitazione dei grandi re, egli volle, talvolta a lato delle stesse sculture achemenidi, fissare il ricordo delle sue gesta, la stessa costruzione di nuove città dimostrano in Ardashīr la volontà di un'affermazione della potenza nazionale in senso puramente iranico. Il popolo persiano, che non aveva mai considerato gli Arsacidi come una dinastia nazionale, e la casta sacerdotale, favorita e accresciuta d'autorità a motivo del carattere statale assunto dalla religione zarathustriana, sentirono l'avvento di Ardashīr come una liberazione e al tempo stesso un trionfo della religione mazdaica. Presto la leggenda s'impadronì di lui; frutto della simpatia della casta sacerdotale e dell'attaccamento popolare è il bel romanzo cavalleresco in pahlavī che narra le sue gesta (kārnāmak-i artaχšēr-i pāpakān "libro delle gesta di Ardashīr figlio di Pāpak").

Ad Ardashīr succedette nel 241 il figlio Sapore (Shāhpuhr, pers. m. Shāpūr). Egli rinnovò i tentativi di conquistare l'Armenia; in un primo tempo battuto da Gordiano III, finì con l'avere il sopravvento e poté fare con l'imperatore Filippo l'Arabo una pace per cui l'Armenia, dove Khosrev era morto, e la Mesopotamia vennero in sua mano. Nel 260 riuscì a Sapore di sconfiggere e di fare prigioniero con il suo esercito l'imperatore Valeriano a Edessa. I prigionieri furono da Sapore adibiti alla costruzione di grandi condutture di acqua nella città di Gondīshāpū fra Shushtar e Dizfūl; non pare abbiano fondamento le notizie, tramandate soprattutto da scrittori cristiani (Lattanzio), di gravi tormenti inflitti all'imperatore romano morto poi in cattività. Di questo grande successo militare Sapore lasciò ricordo in varî bassorilievi: a Naqsh-i Rustam a N. di Persepoli, sotto una delle tombe degli Achemenidi, è rappresentato Sapore a cavallo e il vinto imperatore che si piega dinnanzi a lui, mentre Ciriade alza le braccia in segno di omaggio; a Shāpūr si ha una scena analoga: il re è a cavallo e tiene con la destra Ciriade; Valeriano è di fronte in ginocchio; intorno sono scolpite scene del trionfo.

Non ebbe successo invece la guerra con i Palmireni che egli aveva provocati durante la sua spedizione, e che riuscirono a batterlo minacciando persino Ctesifonte. Ucciso Odenato, la regina Zenobia fece pace con Sapore e strinse con lui alleanza, prendendo le armi contro i Romani. Fu battuta e fatta prigioniera da Aureliano che la relegò a Tivoli (271). A seguito della vittoria su Valeriano, anche l'Armenia rimase in potere di Sapore; sino a quando l'arsacide Tiridate, per volontà di Diocleziano, non riuscì a impadronirsi del trono. Invece il trono di Georgia fu dato a Mihrdāt, fratello di Sapore e genero di Tiridate, che vi fondò la dinastia cosiddetta cosroene. Durante il regno di Sapore si ebbe l'inizio della predicazione di Mānī, con il favore di Fīrūz (Pērōz), fratello del re.

A Sapore, morto nel 272, succedette il figlio Ōhrmazd I che regnò solo un anno, poi un altro figlio Bahrām I che regnò tre anni. Durante il suo regno i Magi ebbero il sopravvento e Mānī fu crocifisso. Quindi salì sul trono Bahrām II che regnò sino al 293. Una spedizione romana contro di lui fu interrotta dall'improvvisa morte dell'imperatore Caro che la comandava. A Bahrām II succedette Bahrām III che, per essere stato viceré del Seistān, portava il titolo di Sakānshāh, e regnò solo pochi mesi. In questo periodo si ebbero varie azioni militari dei Romani: Numeriano da Antiochia mosse contro i Persiani, ma fu battuto; suo fratello Carino, che aveva battuto i Persiani, morì durante la guerra.

Narsete, figlio di Sapore I, salito sul trono (293), rivolse la sua attenzione all'Armenia e riuscì a scacciare Tiridate. Diocleziano affidò il comando della campagna a Galerio Massimiano, il quale riuscì a battere Narsete che fu ferito in battaglia e a catturare la famiglia reale. Nella pace che ne seguì (298), la parte meridionale dell'Armenia fu presa dai Romani in diretto dominio, mentre il resto e l'Atropatene vennero restituiti a Tiridate che regnò ancora sino al 314. Narsete morì di dolore e gli succedette Ōhrmazd II; a questo, battuto e ucciso dagli Arabi, succedette il figlio Ādharnarsah. A causa della sua crudeltà Ādharnarsah fu presto ucciso e, poiché l'altro fratello Ōhrmazd era stato bandito dal regno, venne eletto successore il figlio non ancora nato di Narsete e di una concubina. Questi, re prima di nascere, salì effettivamente sul trono col nome di Sapore II e regnò settant'anni.

Durante il regno di Sapore II un fatto nuovo assai importante venne a far sentire il proprio peso nelle relazioni fra la Persia e l'impero romano. Fino a tanto che gl'imperatori romani perseguitarono i cristiani, essi per il fatto stesso che apparivano nemici degl'imperatori trovarono facilmente rifugio sul territorio persiano, dove avevano libertà di professare la loro fede. Ma quando si ebbe la conversione di Costantino al cristianesimo, mentre da un lato i numerosi cristiani stanziati in Persia vennero a sentire il disagio di stare sotto la protezione d'un principe pagano, dall'altro lo stato persiano cominciò a temere nella organizzazione ecclesiastica una forza contraria ai suoi interessi, soprattutto per i nuovi rapporti che potevano intercedere fra essa e l'impero. Che tale sia la causa delle persecuzioni dei cristiani in Persia è provato dal ben diverso trattamento che vi trovarono in seguito i nestoriani, i quali della Persia fecero la base della loro profonda penetrazione nell'Asia centrale e in Cina. Si aggiunga inoltre che la conversione di Tiridate, re d'Armenia, per opera di Gregorio l'Illuminatore e l'introduzione del cristianesimo in Armenia venivano a stabilire un nuovo e più forte legame fra l'Armenia e l'Occidente. E le pretese persiane sull'Armenia erano più che mai vive. Per questi motivi di natura politica più che religiosa, Sapore iniziò nel 342 la persecuzione contro i cristiani e al tempo stesso proseguì con accanimento la lotta contro l'impero.

Già egli aveva fatto prima un'incursione contro l'Armenia e poi si era rivolto contro i Romani in Mesopotamia. Ma dinnanzi all'esercito di Costanzo egli dovette togliere l'assedio alla fortezza di Nisibi e, battuto in Armenia, fu costretto alla pace; sul trono d'Armenia fu posto un Arshak che pagava tributo al tempo stesso ai Romani e ai Persiani. Riapertesi le ostilità, Sapore II subì una grave disfatta nel 345 presso Singara, a seguito della quale fu dai Romani fatto prigioniero e ucciso il figlio di lui Narsete. Un successivo assedio condotto da Sapore contro Nisibi (350) fu respinto nonostante le forze e la tenacia dell'assediante. Nel 360 la guerra si riaccese ad iniziativa di Sapore con l'appoggio di nomadi dei confini settentrionali (Chioniti), con i quali aveva stipulato di recente la pace. La città di Amida fortificata dai Romani fu espugnata dopo quasi quattro mesi di assedio e dopo di essa caddero in mano dei Persiani altri luoghi fortificati. Giuliano, succeduto a Costanzo, con l'aiuto di Goti, di Armeni e di cavalieri condotti dal sassanide Hormisd, si spinse fin verso Ctesifonte. Ma non avendo forze sufficienti per espugnare questa città, si pose in cammino per invadere la Media. Vi fu un aspro scontro con le truppe persiane nel distretto di Maranga e l'indomani, 26 giugno 363, Giuliano, mentre arringava i suoi soldati, cadde ucciso dal giavellotto d'un cavaliere persiano. Il suo successore, Gioviano, concluse immediatamente una pace assai gravosa che indebolì molto il prestigio dell'impero in Mesopotamia e lo privò dell'Armenia e della Georgia.

Alla morte di Sapore II (379) si ebbe un breve regno del cognato Ardashīr II (379-83), a cui seguì Sapore III (383-388), figlio di Sapore II, il quale stipulò con Teodosio un trattato di pace per cui venne a rinunziare a una parte della Armenia minor. Fu ucciso dai soldati ammutinati dopo cinque anni di regno; pure di morte violenta dopo undici anni di regno morì il suo successore Bahrām IV. Fra questo e Teodosio si venne a un accordo per cui l'Armenia fu divisa in due zone, una sotto l'influenza di Bisanzio, l'altra, di estensione ben maggiore, sotto l'influenza persiana.

Il suo successore Yazdagart (399-420), figlio di Sapore III, fu uomo di sentimenti pacifici e tollerante in fatto di religione, tanto da apparire agli occhi del clero iranico un peccatore; con tale epiteto (bazagar) egli viene qualificato nel Libro dei re. I suoi rapporti con Bisanzio furono buoni, poiché Antemio, ministro di Teodosio, recatosi alla sua corte, riuscì a impegnarlo favorevolmente alla pace; secondo Procopio, Arcadio avrebbe posto i suoi successori sotto la protezione di Yazdagart. Forse ucciso per il risentimento dei Magi, venne messa in giro la leggenda che egli era perito per un calcio d'un misterioso cavallo uscito dalla sorgente Sav presso Ṭūs, mentre voleva mettergli la sella. Gli succedette Bahrām V (420-438) che ebbe l'appellativo di Gōr ("onagro") per la sua forza e rapidità; secondo la leggenda, invece, perché a caccia con un solo dardo era riuscito a trapassare un leone e un onagro. All'inizio del suo regno combatté vittoriosamente contro gli Eftaliti della Battriana. La corona del re eftalita, da lui vinto in battaglia presso Merv, fu da lui deposta nel tempio dedicato al fuoco Gushnasp (Āturgushnasp) in Atropatene. La guerra con l'impero scoppiò a causa delle persecuzioni dei cristiani ordinate da Bahrām Gōr; condotta da Mihr Narseh, personaggio eminente della corte che vantava la sua discendenza da Vistāsp, il mitico re fautore di Zarathustra, ebbe esito sfavorevole ai Persiani che furono varie volte battuti e costretti a una pace nella quale era affermata la libertà religiosa (421). In tale occasione il vescovo Acacio di Amida riuscì a riscattare con il prodotto della vendita dei paramenti della sua chiesa 7000 Persiani caduti prigionieri.

Il carattere religioso del contrasto tra la Persia e l'Occidente si accentuò sotto Yazdagart II (438-457), figlio di Bahrām, e poiché la lotta con l'impero non poté essere ripresa con le armi, a causa delle minacce degli Eftaliti in Battriana, essa venne spostata sul terreno teologico. Mihr Narseh fece un proclama in cui respingeva i dommi del cristianesimo e della Chiesa; diciotto vescovi alla loro volta replicarono. Allora il re pose agli Armeni come dilemma o accettare lo zoroastrismo o essere relegati in altre regioni dell'impero. Seguì una rivolta degli Armeni, che, non aiutati da Bisanzio, subirono da parte di Yazdagart, che si era per il momento liberato dalla pressione degli Eftaliti, una grave disfatta (451), a cui seguirono persecuzioni e martirî.

Durante il regno del suo successore, Ōhrmazd III, la guerra secolare con l'Occidente ebbe tregua, poiché le forze persiane furono impegnate in lotte intestine provocate dal fratello del re, Pērōz, che con l'aiuto degli Eftaliti mosse in guerra contro Ōhrmazd. Durante la lotta dei due fratelli fu reggente la regina Dēnak, come appare dalla leggenda di un sigillo. Pērōz riuscì a sconfiggere e a uccidere il fratello (459), ma ogni attività militare in un primo tempo gli fu preclusa dalle gravi carestie da cui fu colpito il regno a causa della siccità. Ripresa la guerra con gli Eftaliti, Pērōz condusse due spedizioni contro di essi, ma l'una e l'altra ebbero esito sfavorevole e nella seconda di esse egli stesso fu ucciso. Il regno, rimasto senza capo, attraversò un periodo difficile. Agli Eftaliti fu necessario pagare tributo; la Georgia e l'Armenia si erano ribellate e, nonostante la disfatta di Vahan, che era a capo della ribellione, mantenevano la loro indipendenza.

Nonostante le imprese di guerra, Pērōz costruì o rinnovò numerose città, fra cui un quartiere di Sāmarrā sul Tigri. Durante il suo regno, si ebbe l'immigrazione dei nestoriani scacciati da Edessa dal vescovo monofisita Ciro e poi da tutto il territorio bizantino dall'imperatore Zenone l'Isaurico nel 489.

Le fortunate imprese militari del generale Zarmihr, che aveva di ritorno dall'Armenia posto sul trono un fratello del re, Balāsh, liberarono la Persia dalla soggezione degli Eftaliti, i quali dovettero rinunziare al pagamento del tributo da parte persiana e restituire i prigionieri. Fra costoro era Kavāt, figlio di Pērōz, che fu posto sul trono da Zarmihr al posto di Balāsh. Durante il regno di Kavāt (488-531), si ebbe il tentativo di riforma comunista di Mazdak che non mancò di provocare torbidi nel regno. Kavāt, evidentemente allo scopo d'indebolire la nobiltà, favorì la diffusione della dottrina, ma fu deposto dalla nobiltà che al suo posto pose il fratello di lui Giāmāsp (497). Kavāt, fuggito dalla prigionia in cui era tenuto con l'aiuto della moglie e di Zarmihr, si rifugiò presso gli Eftaliti e qui sposò la propria nipote, figlia del re e della principessa Pērōzdukht, che era stata a suo tempo presa prigioniera dagli Eftaliti. Quindi Giāmāsp restituì il trono al fratello (499). Per pagare agli Eftaliti il premio del loro concorso Kavāt cercò di contrarre un prestito presso i Bizantini; ma gli fu rifiutato dall'imperatore Anastasio. Allora egli prese le armi contro i Bizantini, ma dopo qualche successo iniziale fu costretto a fare la pace per fronteggiare disordini interni e una successiva invasione di Unni. I Bizantini ne approfittarono per costruire la fortezza a Dārā di fronte a Nisibi e per fortificare altri luoghi; il che portò ad una nuova guerra durante la quale si combatté con alterne vicende. Le ostilità si chiusero con un trattato di pace, per cui i Bizantini pagarono un'indennità e ritirarono le truppe dalla Mesopotamia (531). Lo stesso anno Kavāt morì, e gli succedette il figlio Cosroe, già sin dal 513 dichiarato erede presuntivo del trono.

Il regno di Cosroe I (531-579) segnò il culmine della potenza sassanide; egli fu difatti il più grande monarca della dinastia e meritò l'appellativo di Anōsharwān (anōsak-ruvān "dall'anima immortale") che i suoi sudditi gli attribuirono. Soffocata una congiura di corte, con la quale si voleva porre sul trono un figlio del fratello Zāmes, egli rivolse le armi contro l'impero. Giustiniano intanto che, per merito di Belisario, riusciva in Occidente ad avere ragione dei Vandali e degli Ostrogoti, con l'ingerenza in vicende della Siria dimostrava di non voler rimanere sotto il peso della pace del 531. Cosroe prese l'iniziativa, si spinse sulla destra dell'Eufrate e nel luglio del 540 espugnò e distrusse Antiochia, i cui abitanti furono trasferiti in una nuova città costruita presso Ctesifonte. Dopo un'incursione di Belisario su territorio persiano e un ritorno offensivo di Cosroe sull'Eufrate, i Persiani furono definitivamente respinti e si addivenne alla pace. Intanto, sparsasi la voce che il re fosse morto, il figlio maggiore di lui Anōshazāt si avanzò in armi da Giund-i Shāpūr, ma fu fatto prigioniero e accecato. I tentativi fatti in seguito da Cosroe per impossessarsi del Lazistān, dove contava porre le basi d'una propria forza navale, furono frustrati dalla sconfitta subita dalle sue truppe presso Fasi. Intanto le tribù turche, che si erano associate con Cosroe nella distruzione del regno degli Eftaliti, si rivelarono come un grave pericolo per l'integrità del regno persiano. Cosroe, fortificando i confini e usando prudente politica, riuscì ad allontanare l'offensiva turca e ad impadronirsi d'una parte del territorio già tenuto dagli Eftaliti. Nell'Arabia meridionale, dove s'era costituito con l'appoggio degli Etiopi uno stato cristiano, egli intervenne riducendola a provincia persiana (570). Grande risonanza ebbe fra gli Arabi la vittoria dei Persiani e i poeti arabi celebrarono Cosroe (Kisrā) come re degli eroi. Ripresa la guerra contro Bisanzio, a motivo dei conflitti religiosi di cui soprattutto l'Armenia era teatro, Cosroe subì una grave disfatta nella pianura di Melitene che lo costrinse a chiedere pace. Abbattuto dal grave rovescio, morì durante le trattative nel febbraio del 579.

Il regno di Cosroe rappresentò un periodo di grande fervore intellettuale, e ad esso appartiene buona parte della letteratura pahlavica, a carattere religioso, cui aveva dato incremento il contrasto con il cristianesimo. Furono inoltre in questo periodo tradotte opere della novellistica indiana, e secondo la tradizione fu pure introdotto dall'India il giuoco degli scacchi; questo e quelle furono poi portati a contatto con l'Occidente per la mediazione degli Arabi. Nell'organizzazione dello stato Cosroe si rese benemerito soprattutto per la sistemazione dell'imposta fondiaria in base a un nuovo catasto che, già iniziato al tempo di Kavāt, venne da lui portato a termine.

Il successore di Cosroe, Ōhrmazd IV detto Turkzāt, perché Cosroe lo aveva avuto da una figlia del Khāqān dei Turchi, uomo di fine cultura secondo aṭ-Ṭabari, riprese la lotta contro Bisanzio, ma subì varî rovesci. Fu costretto a desistere a causa della ribellione del valoroso generale Bahrām Ciōbīn della famiglia Mihrān, che dopo avere combattuto vittoriosamente contro i Turchi e con minore successo contro i Bizantini, era stato destituito da Ōhrmazd (589). Questi fu costretto a fuggire di fronte al ribelle; ma l'esercito che si trovava in Mesopotamia in campagna contro i Bizantini si pronunziò a favore del figlio del re, Cosroe II Parvīz, il quale, minacciato dal padre, aveva dovuto fuggire e si era rifugiato presso l'imperatore Maurizio. Cosroe II con l'aiuto dei Bizantini s'impadronì del trono (590). Bahrām Ciōbīn costretto a fuggire fu poi ucciso dai Turchi, presso i quali si era rifugiato.

Cosroe II Parvīz riprese la lotta contro Bisanzio, traendo pretesto dall'uccisione di Maurizio ad opera di Foca. La campagna, favorita dalle minacce che da altri lati a opera di Slavi e Alani gravavano sull'impero bizantino, segnò il primo successo dei Persiani che, comandati dal generale Shahrvarāz, conquistarono Antiochia, Apamea, Edesa e Cesarea nella Cappadocia; infine anche Damasco (613) e Gerusalemme (614) caddero nelle loro mani. Gli abitanti di Gerusalemme furono in parte uccisi, in parte deportati e la Santa Croce venne portata a Ctesifonte. Anche l'Egitto cadde in potere dei Persiani.

L'imperatore Eraclio, spinto dal patriarca Sergio, nel 622 tentò una spedizione, ma in seguito a invasioni di Avari fu costretto a ritirarsi. Ripresa la campagna nel 623, riuscì a liberare l'Asia Minore e l'Armenia, e nel gennaio 628 s'impadronì della residenza reale di Dastkart. Tuttavia egli non poté investire Ctesifonte.

Intanto Cosroe, ammalatosi a Vēhardashīr, aveva designato come erede del trono il figlio Martānshāh che aveva avuto dalla principessa siriana Shīrīn. Ma un forte partito sostenne l'altro figlio Kavāt Shērōy il quale s'impadronì del trono, soppresse il fratello, e pose in carcere il padre che vi morì assassinato (628). Kavāt ottenne pace dai Bizantini. Kavāt morì dopo sei mesi di regno.

Alla morte di Kavāt seguirono torbidi e conflitti. Il figlio di lui in età minore, Ardashīr III, fu deposto dal generale Shahrvarāz che con l'aiuto di Eraclio salì sul trono; ma fu egli stesso ucciso. Fallito il tentativo d'un figlio di Ōhrmazd III, Cosroe III, fu posta sul trono a Ctesifonte una sorella di costui, Bōrān, durante il cui regno fu stipulata la pace con Eraclio e fu restituita la Santa Croce (forse la vera croce era stata restituita prima poiché la festa dell'esaltazione della croce fu istituita il 14 settembre 629). Bōrān regnò dal maggio 630 sino all'ottobre 631, quando rinunziò al trono in seguito alla disfatta dei suoi generali. Seguì un breve interregno di Gushnasp-banda, fratello di Cosroe III, e poi d'una sua sorella Azarmīdūkht contro cui si levò Ōhrmazd V nipote di Cosroe II, che si fece incoronare a Nisibi e regnò ivi sino all'avvento di Yezdegerd III. Si ebbero dopo la morte per assassinio di Azarmīdūkht altri brevi regni di Cosroe IV figlio d'una nipote di Cosroe I, poi di Khurrazāt Cosroe, figlio di Cosroe II; finché salì sul trono Yezdegerd III, figlio di Shahryār, con il cui avvento (16 giugno 632) ha inizio l'era che da lui prende il nome.

Con Yezdegerd III si chiude il periodo sassanide e insieme quello dell'indipendenza persiana. Quella forte tenacia, che aveva impedito ai Romani di estendere la loro potenza sull'impero di Alessandro Magno, doveva ben essersi illanguidita, se il regno persiano non riuscì a porre un argine alla nuova potenza araba che, animata dalla fede di Maometto, premeva ai confini.

Dopo una serie di disfatte (per cui v. sotto), il re in fuga fu ucciso nel sonno da un mugnaio presso il quale si era rifugiato per passare la notte (autunno del 651); il suo cadavere fu poi portato a Iṣṭakhr e posto sulla torre del silenzio. I tentativi di rivendicazione del regno dei suoi discendenti, rifugiatisi in Cina, non diedero esito alcuno.

Sull'organizzazione dell'impero dei Sassanidi siamo sufficientemente informati da fonti latine, bizantine e arabe oltre che persiane. L'immagine che se ne ricava è quella d'uno stato che continua il carattere autocratico e i sistemi amministrativi degli antichi stati d'Oriente e soprattutto dell'impero achemenide in una forma più stabile. Il monarca ha nella sua legittimità un'investitura divina; egli s'identifica con lo stato e ne ha in mano tutti i poteri. Nei primi tempi della dinastia la designazione del successore venne fatta dal re; in seguito si ebbe una monarchia elettiva nell'ambito della famiglia dei Sassanidi e la designazione venne fatta dai più alti dignitarî di corte, il capo dei sacerdoti (maγupatān maγupat), il generalissimo (ērān spāhpat) e il capo dei segretarî (dipòrān mahist o dipīrpat). Alle varie provincie erano preposti dei governatori (shahrdār) che dovevano rendere conto dell'amministrazione, ma avevano titolo di re, poiché in generale erano re vassalli o principi delle famiglie reali. L'esercito era comandato da un solo generalissimo; ma quando sotto Cosroe Anōsharwān si ebbe una riforma amministrativa, con la quale il territorio fu distribuito in quattro grandi ripartizioni (pātkōs) secondo i quattro punti cardinali, ogni ripartizione ebbe il proprio esercito comandato dal viceré (pātkōspan).

La vita di corte ebbe importanza preminente nella vita iranica. I dignitarî erano costituiti dai shahrdārān, dai membri delle sette famiglie principesche che si attribuivano origine arsacidica (vāspuhrakān), dai grandi (vazurkān) e dai nobili (āzātān). Ai vaspuhrakān spettavano le più alte cariche civili e militari. Su tutti si elevava per dignità e potenza il capo dei sacerdoti, il quale, oltre che a capo della forte casta sacerdotale dei Magi, era a capo dell'amministrazione della giustizia. Il popolo viveva in condizioni di grande inferiorità rispetto al clero e ai nobili. Esso formava la fanteria nell'esercito, mentre la cavalleria, il cui nucleo fu costituito dai "diecimila immortali" come al tempo degli Achemenidi, era principalmente fornita dalla nobiltà di campagna. Le risorse finanziarie dello stato erano costituite fondamentalmente dal gettito di due imposte: una fondiaria, e una personale, commisurata al censo.

Sotto i Sassanidi si ebbe un notevole fervore intellettuale, ispirato e dominato da interessi religiosi. Furono tuttavia tradotte opere scientifiche dal greco e furono stabiliti importanti contatti con la cultura indiana. Ma lo spirito cavalleresco del tempo si manifesta soprattutto nell'elaborazione di quelle tradizioni epiche leggendarie e romanzesche che dovranno in seguito essere materia del Libro dei re di Firdūsī e rappresentare dopo la conversione all'islamismo l'unica memoria che colleghi la Persia moderna all'epoca dei suoi grandi re.

Bibl.: A. v. Gutschmid, Geschichte Irans und seine Nachbarländer, Tubinga 1888; J. V. Prašek, Forschungen zur Geschichte des Altertums, Lipsia 1897-1900; id., Geschichte der Meder und Perser, Gotha 1906, 1909; E. Meyer, Geschichte des Altertums, 2ª ed., I, ii, Stoccarda 1909; P. M. Sykes, History of Persia, 2ª ed., Londra 1921; C. Huart, La Perse antique et la civilisation iranienne, Parigi 1925.

Per il periodo achemenide, soprattutto: The Cambridge ancient history, IV, Cambridge 1926, e la bibl. citata sotto grecia: Storia. Edizione delle iscrizioni achemenidi: P. Weissbach, Die Keilinschriften der Achaemeniden, Lipsia 1911; quelle recentemente scoperte: R. G. Kent, The recently published old Persian Inscriptions, in Journ. of the Amer. Orient. Society, LI, p. 189 segg.

Per il periodo arsacidico: The Cambridge ancient History, IX, Cambridge 1932; F. Justi, in Grundriss d. iran. Philol., II, p. 477 segg.; J. Marquard, Untersuchungen zur Geschichte von Eran, Gottinga 1896-1905; E. Meyer, Blüte und Niedergang des Hellenismus in Asien, Berlino 1925. Per le monete, v. sopra tutto B. V. Head, Hist. Num., 2ª ed., pp. 817-23; W. Wroth, Parthia (Cat. Greek Coins Brit. Museum), 1903; P. Gardner, The Persian coinage, Londra 1877. V. anche roma: Storia.

Per il periodo sassanidico: F. Justi, op. cit., p. 512 segg.; Th. Nöldeke, Geschichte der Perser und Araber zur Zeit der Sasaniden, aus der arabischen Chronik des Tabari, Leida 1879; A. Christensen, L'empire des Sassanides, le peuple, l'état, la cour, Copenaghen 1907; fondamentale per la cronologia dei primi re, e per le iscrizioni, E. Herzfeld, Paikuli. Monument and Inscription of the Early History of the Sasanian Empire, Berlino 1924.

Letteratura.

L'età antica. - A differenza di altri popoli indoeuropei che hanno all'inizio della propria storia manifestazioni di poesia epica (i Greci con i poemi omerici), gli Arî dell'Asia si affacciano alla storia con creazioni di carattere religioso; gli Indiani con il Ṛgveda, gl'Irani con l'Avestā. Nell'Avestā, come nel Ṛgveda si riflette una vita religiosa assai progredita e già legata al sistema d'un rituale rigoroso e complesso. Nei due grandi gruppi di inni di cui si compone l'Avestā (v.) e che rappresentano due momenti diversi nella storia dello zoroastrismo si riflettono due mondi ben differenziati. Nelle Gāthā la parola del riformatore appare schematica e stilizzata nello sforzo di creare formule metriche, che fissassero nella mente dei fedeli i dogmi della religione. È probabile che esse rappresentino i sommarî metrici delle prediche tenute da Zarathustra, sopravvissuti perché la loro struttura metrica favoriva la tradizione orale. Non sono creazioni poetiche; sono piuttosto il frutto d'un pensiero teologico assai progredito e di una volontà morale chiara e potente. Nelle Gāthā è un continuo ripetersi degli assiomi teologici e morali della religione, quasi un insistere incessante per penetrare nelle coscienze. Così suona lo Yasna, 30, che è uno dei più importanti per la comprensione della dottrina:

"1. Ora di questo voglio io parlare a coloro che vogliono udire: di tutto ciò che un uomo avvertito deve avere in mente per la celebrazione di Ahura e le preghiere a Vohu Manah; e della letizia che a colui che avrà questo in mente si scoprirà insieme con la legge, insieme con la sede della luce.

2. Udite con le orecchie ciò che è il meglio - e guardatelo con limpido sentimento - per decidere fra le due fedi, ciascun uomo preoccupato di sé per la grande impresa finale, che abbia a compiersi favorevole a noi.

3. I due Spiriti che all'inizio si sono manifestati attraverso un'immagine di sogno come una coppia di gemelli, sono il bene e il male nel pensiero, nella parola, nell'azione; e fra essi due i saggi hanno fatto la giusta scelta, non gli stolti.

4. E quando questi due Spiriti s'incontrarono, allora essi fissarono la vita e la non vita; che nella decisione finale ai seguaci della Menzogna dovrà spettare l'esistenza più misera e ai seguaci della Legge la dimora migliore.

5. Sotto questi due Spiriti il partigiano della Menzogna scelse l'azione peggiore; si scelse invece la Legge il santissimo Spirito che porta come veste la saldissima vòlta del cielo e insieme con lui coloro che con retto operare vogliono rendere contento Ahuramazdā".

Assai raramente ricorre qualche accenno personale. L'unico momento in cui il profeta perseguitato dà libero sfogo alle sue preoccupazioni è quello fermato nell'inizio di Yasna, 46:

"1. In quale terra per sfuggire, dove per riparare debbo andare? Dalla nobiltà e dai compagni io son tenuto lontano; la comunità non vuole contentarmi, né lo vogliono i potenti del paese, fedeli alla Menzogna. Come potrò renderti contento o Mazdā?

2. So bene, o Mazdā, perché io non posso riuscire a niente. Solo poche greggi io possiedo e solo poca gente da me dipende. A te io mi raccomando, guarda tu Ahura, dandomi sostegno come all'amico lo fornisce l'amico. Insegna tu attraverso la Legge qual'è il premio del buon sentimento".

Diversamente in quella parte dell'Avestā che è stata elaborata, quando la dottrina di Zarathustra è stata fatta propria da una classe sacerdotale che era ancora in possesso dell'antico patrimonio religioso naturistico e si manteneva fedele a un rituale ben complicato. Non poche antiche tradizioni, legate a quel mondo religioso, contro cui si scagliava la parola del riformatore, vennero a inserirsi nella nuova dottrina; cosicché con alcuni degli Yasht riecheggiano leggende e miti del tempo della comunità indoiranica. Qualcuno non manca d'una notevole vivacità di rappresentazione, come, ad es., i tre inni del Hōm Yasht, dedicati ad Hauma (Haoma, v.), la divinizzazione della bevanda sacrificale che tanta parte ha pure nella poesia rituale del Ṛgveda. Lo Yasna 9 così ha inizio:

"1. Nell'ora appunto della preparazione, si recò Hauma da Zarathustra mentre egli intorno secondo il rito disponeva il fuoco e faceva risuonare gli inni. A lui chiese Zarathustra: Uomo, chi sei tu che m'appari come il più bello degli esseri corporei, di vita splendida come sole, immortale?

2. Allora egli mi rispose, il santo Hauma che tiene lontana la sventura: O Zarathustra, io sono il santo Hauma che tiene lontana la sventura. Ricavami bene, o Spitama, spremimi affinché mi si beva; esaltami per esaltarmi così come i proseliti del futuro mi dovranno esaltare.

3. Allora parlò Zarathustra: Onore ad Hauma! Chi ti preparò, o Hauma, come primo uomo per il mondo materiale, quale sorte gli venne assegnata, quale fortuna gli fu riservata?

4. Allora egli mi rispose, il santo Hauma che tiene lontana la sventura: Vīvahvant come primo uomo mi preparò per il mondo materiale, questa sorte gli venne assegnata, questa fortuna gli fu riservata.

5. Che un figlio gli nacque, Yima, lo splendido, signore di buona gregge, il più glorioso di tutti gli uomini, un sole all'aspetto; che nel suo regno egli fece sì che non morissero né il bestiame, né gli uomini, che non si seccassero né le acque, né le piante, che non venisse meno il vitto.

6. Durante il regno del valoroso Yima non ci fu né freddo, né caldo, non vecchiaia, né morte, non l'invidia che è opra dei demoni. Come quindicenni all'aspetto procedevano il padre e il figlio sintanto che regnò Yima, signore di buon gregge, il figlio di Vīvahvant.

7. Chi ti preparò, Hauma, come secondo uomo per il mondo materiale...".

Così l'inno continua esponendo antichi miti ereditati dall'età indoiranica (Yima, Thraitauna, Kersāspa), che poi non si staccheranno più dalla memoria del popolo e anche dopo l'invasione musulmana continueranno a fare parte (Ǧamshīd, Frēdūn, Karšāsp) del patrimonio epico nazionale.

Ma, salvo questi inni di carattere mitologico, il resto dell'Avestā recente non è che un seguirsi di aride formule rituali o un'esposizione senza alcun intento artistico di prescrizioni religiose e di norme sociali.

A differenza degl'Indiani, presso i quali solo a distanza di molti secoli dalle loro creazioni religiose si ebbe una documentazione propriamente storica, gl'Irani, che si trovarono relativamente presto impegnati nelle lotte che da millennî travagliavano l'Asia Anteriore, lasciarono delle loro imprese una documentazione che, se non ha valore letterario, ne ha uno storico di primissimo ordine, le iscrizioni dei Grandi Re.

Forse presso i Medi e presso i Persiani esisteva già una letteratura nazionale che tramandava i fatti dei quali ci è arrivata un'eco nei racconti di Ctesia, di Erodoto, di Carete di Mitilene. Quel che è a noi giunto di fonti dirette sono le iscrizioni che in varî luoghi i Grandi Re lasciarono incise per eternare il ricordo delle loro imprese: importanti per l'estensione e il contenuto soprattutto quelle di Bīsutūn, di Persepoli e di Susa. La più antica iscrizione che si conosce è quella di Ciro il Grande a Pasargade (un'iscrizione su una lamina d'oro che si dichiara di Ariaramne, ritrovata di recente ad Hamadān è, più probabilmente, a motivo della sua poca correttezza, da attribuire all'epoca di Artaserse II o di Artaserse III); la più estesa è quella di Bīsutūn, in cui Dario I narra le circostanze del suo avvento al trono dopo la soppressione dell'usurpatore Gaumāta e le successive sue azioni militari per reprimere le ribellioni in varie parti del regno. Incisa su un'alta roccia inaccessibile, quest'iscrizione non era destinata alla lettura dei sudditi, bensì a eternare sulla pietra il ricordo della gesta del monarca. Oltre che l'altezza, che impedisce la chiara visione dei segni anche se si è forniti di un buon binocolo, l'uso stesso del carattere cuneiforme, non certo popolare in Persia, e la contemporanea redazione del testo in accadico e in elamita, mostrano come il re abbia più obbedito a un'intima aspirazione di eternità per la propria opera e al bisogno d'un omaggio alla divinità che lo ha assistito, che non cercato un mezzo di propaganda fra i sudditi. Perciò lo stile dell'iscrizione, per quanto semplice e impacciato, non manca di una certa solennità. Questo è l'inizio dell'iscrizione:

"Io Dario, il Gran Re, re dei re, re in Persia, re dei paesi, figlio d'Istaspe, nipote di Arsama, l'Achemenide.

Parla il re Dario: Mio padre è Istaspe, il padre di Istaspe fu Arsame, il padre di Arsame Ariaramne, il padre di Ariaramne Teispe, il padre di Teispe Achemene.

Parla il re Dario: Perciò noi siamo chiamati Achemenidi. Da tempo antico noi siamo nobili; da tempo antico fu la nostra stirpe regale.

Parla il re Dario: Otto della mia stirpe furono già re. Io sono il nono. Nove re noi già siamo nei due rami (della famiglia).

Parla il re Dario: Per il volere di Ahuramazdā io sono re. Ahuramazdā affidò a me la signoria".

La formula "così parla il re Dario", con il verbo all'inizio che richiama la formula iniziale delle iscrizioni accadiche, dà, con il suo continuo ripetersi, un carattere grave e quasi religioso all'espressione. L'ammonimento, con cui verso la fine il re vuole assicurare durata eterna all'iscrizione, è un richiamo al legame che esiste fra la sua opera e la volontà del dio supremo:

"Parla il re Dario: Se tu vedi quest'iscrizione o queste immagini e non le distruggi, ma per quel che è in te le proteggi, possa Ahuramazdā esserti amico e la tua famiglia essere numerosa; che tu debba vivere a lungo e quel che tu fai non debba Ahuramazdā distruggere.

Parla il re Dario: Se tu vedi quest'iscrizione o queste immagini e le distruggi e non le proteggi per quello che è in te, possa Ahuramazdā colpirti e tu non avere famiglia; quello che tu fai debba Ahuramazdā distruggerlo".

Questa profonda reverenza verso la divinità da parte del re guerriero e conquistatore dà sempre un carattere di composta gravità e di forza alla sua parola. Anche nell'iscrizione di Susa s'incomincia e si finisce nel nome del dio:

"Un gran Dio è Ahuramazdā che creò questa terra, che creò cotesto cielo, che creò l'uomo, che creò il benessere per l'uomo, che fece Dario re, re su molti, signore di molti.

Io sono Dario, Gran Re, re dei re, re dei paesi, re di questa terra, figlio di Istaspe, l'Achemenide.

Dice il re Dario: Ahuramazdā il più grande degli dei mi creò; egli mi fece; mi diede il gran regno con buoni cavalli, con buoni uomini".

Dopo altre dichiarazioni di sottomissione al dio, segue la descrizione dell'opera che fu necessaria per costruire la reggia e infine si conclude:

"Dice Dario il re: per grazia di Ahuramazdā io ho fatto questo ben fondato e ben munito palazzo. Possa Ahuramazdā proteggere me e quel che ho fatto e quel che mio padre ha fatto e la mia terra".

L'età medievale. - Il periodo arsacidico non ha lasciato tracce dirette di creazioni letterarie. Tuttavia l'esistenza nelle iscrizioni sassanidiche di una redazione settentrionale in un dialetto nord-occidentale, di carattere pur esso colto, presuppone la formazione di una lingua di cultura già in tale periodo. L'uso poi dello stesso dialetto in una parte dei testi di contenuto religioso ritrovati a Tūrfān nel Turkestān cinese, l'esistenza di un testo, il Draχt-i asūrīk "l'albero di Assiria" che risale certo nella sua forma originaria a un'età relativamente antica, redatto ancora in un dialetto settentrionale, gli stessi elementi settentrionali che si ritrovano nella lingua colta dell'età sassanidica e le tracce di precedenti redazioni settentrionali di alcuni testi, giustificano l'ipotesi che la letteratura dell'età sassanidica sia in gran parte la continuazione di un'attività letteraria fiorita sempre nell'ambito della classe sacerdotale, già nell'età precedente. Non è da dimenticare che ad un arsacide Vologese III la tradizione zoroastriana attribuisce la raccolta dei testi sacri che costituiscono l'Avestā.

Le recenti scoperte di testi nel Tūrfān (v. orientalismo) hanno mostrato che varie zone dell'iranismo hanno preso parte intensa ai movimenti religiosi dell'età sassanidica: di tale partecipazione si sono appunto trovati documenti sia in dialetti iranici orientali sia in dialetti occidentali che gettano non poca luce soprattutto sul manicheismo.

Ma come letteratura propriamente persiana non si può riconoscere che la letteratura cosiddetta pahlavica, redatta in un dialetto sud-occidentale e di schietta ispirazione zoroastriana. Tale letteratura, che dovette essere ben vasta, ci è pervenuta solo parzialmente, conservata dai Parsi dell'India, dopo l'invasione musulmana e il decadere dei pochi zoroastriani rimasti in Persia, unici depositarî dell'antica religione e delle tradizioni culturali ad essa legate. Si deve all'opera di gelosa custodia dei sacerdoti parsi, se i libri sacri dello zoroastrismo e della letteratura esegetica sono pervenuti sino a noi; e si deve all'attività dei dotti parsi in unione con pochi studiosi occidentali, se tali testi d'importanza grandissima, anche perché documentano l'influenza avuta dall'iranismo sulla cultura ellenistica e sulla formazione del cristianesimo, sono stati editi e mediante traduzioni dischiusi alla conoscenza di più vasta cerchia.

Per quanto tutta la letteratura pahlavica abbia un'impronta religiosa molto spiccata e sia senza dubbio tutta opera di sacerdoti, si possono distinguere in essa una parte di contenuto prevalentemente teologico e una di contenuto in un certo senso profano.

Alla prima appartengono anzitutto le traduzioni pahlaviche dell'Avestā. Queste traduzioni, più che per la traduzione in sé, la quale mira a rendere il significato di ciascuna parola e non il senso del complesso, sono utili soprattutto per le glosse che vi sono aggiunte, le quali a volte, com'è il caso della traduzione pahlavica del Vidēvdāt, informano sullo sviluppo e sull'interpretazione che alcune norme hanno subito nell'età di mezzo. Alcune di queste traduzioni sono veri e proprî commenti al testo; attraverso esse, com'è nel caso del Nīrangistān, si sono conservati testi che nella loro redazione primitiva sono andati perduti.

Fra le opere di contenuto religioso sono da segnalare sopra tutto il Dēnkart e il Bundahišn che sono due specie di enciclopedie del sapere teologico nell'età sassanidica. Il Dēnkart, di cui sono pervenuti soltanto i libri III-IX, è una tarda compilazione (sec. IX) fatta da un sacerdote zoroastriano; ma esso è fondato su testi più antichi e forse anche su tradizioni orali. Particolarmente importanti sono i due ultimi libri che contengono, il primo un sommario dei ventuno Nask che rappresentarono nell'età sassanidica tutta la letteratura strettamente zoroastriana, e il secondo un'esposizione più particolare del contenuto dei capitoli di tre Nask. Il Bundahišn "la creazione", che è pervenuta in due redazioni, una minore ed una più ampia, è un trattato in cui sono riunite tutte le conoscenze cosmologiche, mitologiche, storiche, naturali del Medioevo persiano; la sua importanza per la conoscenza del patrimonio culturale propriamente persiano, anche del tempo più antico, e della sua influenza sul mondo ellenistico prima e sul mondo arabo poi, è assai grande. La maggior parte degli altri testi si riferiscono a speculazioni teologiche, come il Dātistān-i dēnīk "la legge religiosa" o al minuzioso rituale zoroastriano, come ad es. il Shāyast--shāyast "ciò che è lecito e ciò che non è lecito", oppure appartengono alla letteratura moraleggiante, la quale ebbe una particolare fortuna, come ad es. il Mēnūk-i χrat "lo spirito della ragione", il Pandnāmak-i Zartušt "il libro dei consigli di Zarathustra", Handarz-i Āturpāt i Mahraspandān "il testamento di Āturpāt figlio di Mahraspand" e molti altri ancora. Un posto a sé ha il libro di Artāk Virāz (v.) (Nāmak-i Artāk Vīrāz) che narra una visione di oltretomba, secondo la dottrina zoroastriana, la quale deve essere considerata fra quelle visioni oltremondane che hanno preceduto la visione dantesca. Una lontana polemica di carattere religioso si adombra nella tenzone in dialetto nord-occidentale in carattere pahlavico dal titolo Draχt-i asūrīk "l'albero di Assiria", in cui si ha una tenzone fra l'albero di Assiria e una capra vantando ciascuno la superiorità della propria natura.

Alcuni testi di carattere religioso ci sono pervenuti trascritti in carattere avestico (pāzand) o in carattere persiano moderno (pārsī).

Fra i testi di carattere profano sono da ricordare due romanzi di contenuto epico cavalleresco, che appartengono a quegli stessi cicli di epica leggendaria e storica, la quale poi è divenuta materia del "Libro dei re" di Firdūsī. L'Abyātkār-i Zarērān narra un episodio delle lotte di Vishtāsp (av. Vištāspa-) in difesa della fede e cioè la morte in battaglia di Zarēr, fratello del re e condottiero degl'Irani, e la vendetta che ne fa il figlio giovinetto. Il racconto nella sua forma attuale risale al sec. V, ma non c'è dubbio che si tratti di tradizione ben più antica: i nomi della maggior parte dei personaggi del racconto sono noti agli Yasht dell'Avestā. Il "libro delle gesta di Ardashīr figlio di Pāpak" (Kārnāmak-i Artaχšēr-i Pāpakān) è un romanzetto storico che ha a protagonista il fondatore della dinastia sassanidica. La tradizione, che ci è stata conservata dallo storico arabo aṭ-Ṭabarī sull'origine dell'impero sassanide, è notevolmente diversa da quella del racconto pahlavico, benché in qualche punto essenziale, come quello del matrimonio di Ardashīr con la figlia di Artabano, vi sia concordanza; tuttavia esso, posto in relazione con il materiale epigrafico e numismatico, si rivela di un notevole valore storico. È probabile che l'autore della redazione a noi pervenuta, la quale è da porre intorno al 650 d. C., sia un sacerdote, come provano le conoscenze astrologiche e rituali che vi sono qua e là dimostrate e la buona imbastitura storica.

Questi due racconti, che sono sopravvissuti alla perdita della vasta letteratura epica, sono assai probabilmente rifacimenti di più antiche redazioni metriche.

Sono da ricordare inoltre il breve testo Vičārišn-i čatrang u nihišn-i nēβ-artaχšēr "spiegazione del giuoco degli scacchi e invenzione del nard", in cui si narrano le circostanze piuttosto leggendarie dell'introduzione del giuoco degli scacchi in Persia al tempo di Cosroe Anōsharvān; il catalogo delle città di Persia (Šahrihā-i ērān) che ha una grande importanza per la topografia storica della Persia medievale; il racconto di "Cosroe e il paggio" (Husrav-i kavātān u rētak) che getta luce sulla vita di corte e sull'educazione cavalleresca al tempo dei Sassanidi; e infine il Mātīkān-i hazār dātistān "trattato delle mille sentenze", in cui è riunita in varî capitoli un'importante giurisprudenza sui varî aspetti del diritto privato nella Persia nell'età sassanidica.

I testi pahlavici a noi pervenuti sono scarsi resti sopravvissuti al naufragio della vasta letteratura nazionale, ricca pure di traduzioni dal greco e dal sanscrito, seguito all'avvento dell'islamismo. Essi tuttavia bastano a darci un'immagine del fervore spirituale della Persia nell'età sassanidica, eccitato dal desiderio di salvare, affermandone la superiorità, la religione nazionale minacciata dal sorgere e dall'affermarsi di nuove correnti religiose.

I Sassanidi, che sentirono la propria dinastia come continuatrice diretta di quella degli Achemenidi e vollero lasciare memoria delle loro gesta nelle sculture sulle rocce, alla maniera dei Grandi Re, hanno lasciato iscrizioni redatte in genere nei due dialetti pahlavīk o arsacidico e pārsīk. Iscrizioni di notevole estensione si trovano a Paikulī nel Kurdistān, a Naqsh-i Rustem, a Persepoli e nelle sue vicinanze. Purtroppo dei papiri pahlavici che sono stati rinvenuti in Egitto non si è fatta ancora un'edizione. Sono invece fuori della tradizione propriamente iranica e zoroastriana i testi manichei ritrovati a Tūrfān, redatti in una lingua più moderna del pahlavī, irrigidito in forme arcaiche, e scritti in un altro carattere, derivato pur esso dalla scrittura aramaica.

Bibl.: Cenni sulle fasi più antiche della letteratura persiana si trovano nelle opere generali di I. Pizzi, Manuale della letteratura persiana, Milano 1887; P. Horn, Geschichte der persischen Litteratur, Lipsia 1901.

Per l'Avestā v. la bibl. citata s. v. Per le iscrizioni degli Achemenidi v. F. H. Weissbach, Die altpersischen Inschriften, in Grundriss der iran. Philologie, II (1896-1904), p. 54 segg. Testo e traduzione delle iscrizioni in id., Die Keilinschriften der Achaemeniden, Lipsia 1911; e delle più recenti in R. G. Kent, The recently published old Persian Inscriptions, in Journ. of the Am. Orient. Society, LI, p. 189 segg.; v. pure Archaeolog. Mitt. aus Iran, I (1929) segg.

Per la letteratura pahlavica la trattazione più completa si ha in E. W. West, Pahlavi Literature, in Grundriss der iran. Philol., II, p. 75 segg. Cfr. inoltre Chr. Bartholomae, Die Zendhandschriften der Staatsbibliothek in München, Monaco 1915. Dei testi ricordati nel corso della trattazione si dànno qui le indicazioni delle edizioni più importanti e delle traduzioni: F. Spiegel, Avestā... sammt der Huzwāresch-Übersetzung, II: Vispered und Yasna, Vienna 1858; Dastoor Hoshang Jamasp, Vendidād, Avestā Text with Pahlavi Translation and Commentary and Glossarial Index, I-II, Bombay 1907; Darab Dastur Peshotan Sanjana, Nirangistan, A photozincographed Facsimile, Bombay 1894; Peshotun Dastoor Behramje Sanjana, Dinkart, the original Pehlwi Text, w. transliter. in Zend characters. Translation of the text in the Gujarati and English lang. A comment. and a Glossary, I, Bombay 1874; Dhanjishah Meherjibhai Madan, The complete Text of the Pahlavi Dinkard, Bombay 1911; E. W. West, Contents of the Nasks, in The sacred Books of the East, XXXVII, Oxford 1892; F. Justi, Der Bundehesh... herausgegeben transcribirt, übersetzt und mit Glossar versehen, Lipsia 1868; Maneckji Rustomji Unvalla, The Pahlavi Bundehesh, lithographed..., Bombay 1897; Behramgore Tahmuras Anklesaria, The Būndahishn. Being a Facsimile..., Bombay 1908; Tahmuras Dinshaji Anklesaria, The Datistan-i Dinik, Pahlavi Text..., I: Pursishn, I-XL, Bombay s. d.; Darab... Peshotan Sanjana, The Dādistān-ī Dīnīk, Questions I-XV, Bombay 1897; E. W. West, Dādistān-i Dīnīk, in The sacred Books of the East, XVIII, Oxford 1882; Banamji Nasarvanji Dhabar, The Pahlavi Rivayat accompanying the Dādistān-ī Dīnīk, Bombay 1913; Jehangir C. Tavadia, šāyast ne-sayast. A Pahlavi Text on Religious Customs edited, transliterated and translated with Introduction and Notes, Amburgo 1930; F. C. Andreas, The Book of the Mainyo-i khard... Being a Facsimile..., Kiel 1882; Darab Dastur Peshotan Sanjana, The Dīnā i Maīnū ī Khrat... The Pahlavi Text, Bombay 1895; E. W. West, The Book of the Mainyo-i-khard. The Pazand and Sanskrit Texts (in Roman Characters)..., With an English Translation, a Glossary of the Pazand Text..., Stoccarda e Londra 1871; Al. Freiman, Pandnāmak i Zaratust. Der Pahlavi-Text mit Übersetzung, kritischen und Erläuterungsnoten, in Wiener Zeitschr. f. die Kunde des Morgenlandes, XX, pp. 149-166, 237-280; Fr. Müller, Beiträge zur Textkritik u. Erklärung des Andarz i Aturpat i Mahraspandan. Mit einer deutschen Übersetzung dieses Tractats, in Sitzb. d. Akad. d. Wissensch. in Wien (phil.-hist. Cl.), CXXXVI (1897); Sohrab Kavasji Meherji Rano, Ādarbad Mārespand. Transliteration and Translations into English and Gujarati, Bombay 1930. - Alla bibliografia dell'Artāk Virāz-nāmak (v. artāk virāz) è da aggiungere A. Christensen, The Pahlavi Codices K 20 a. K 020 containing Ardāgh Virāz Nāmagh..., Copenaghen 1931. - Molti testi di carattere moraleggiante sono pubblicati da Jamaspji Minocheherji Jamasp Asana, The Pahlavi Texts contained in the Codex M. K..., Bombay 1913. - Il testo del Draχt-i asūrīk è pubblicato in Jamasp Asana, Pahl. Texts, p. 109 segg.; J. M. Unvala, Draχt-i Asūrīk, in Bull. of the School of Oriental Studies, II (1921), p. 637 segg.; S. Smidth, Notes on the "Assyrian Tree", ibid., IV (1926); E. Benveniste, Le Text du Draχt-i asūrīk, in Journ. Asiat., CCXVII, p. 193 segg. - Il testo Abyātkār-i Zarērān è pure ivi pubblicato p. i segg.; v. pure A. Pagliaro, Il testo pahlavico Ayāthār-i-Zareran edito in trascrizione, con introduzione, note e glossario, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, s. 6ª, I (1925), p. 530 segg.; E. Benveniste, Le Mémorial de Zarer, in Journ. Asiat., CCXX (1932), p. 245; Edalji Kersaspji Antia, Karnamak-i Artaskir Papakan. The original Pahlavi Text, with Transliteration in Avesta Characters, Translations into English and Gujarati, and Selections from the Shāhnāmeh, Bombay 1900; Kaikokād Adarbād Dastūr Nosherwān, Kārnāmak-ī Artakhshīr-Pākpakān. The Pehlvi Text..., Bombay 1896; Th. Nöldeke, Geschichte des Artakhisir-i Pāpakān aus dem Pehlevi übersetzt, in Bezzenberger Beiträge, IV (1878), p. 22 segg.; A. Pagliato, Epica e romanzo nel Medioevo persiano, Firenze 1927. - Il testo Vičārišn i čatrang u nihišn-i Nēv artaχsēr è pubblicato in Jamasp Asana, Pahlavi Texts, p. 115 segg.; traduzione Salemann, Mittelpersische Studien, in Mélanges Asiatiques tirés du Bull. de l'Ac. imp. de Sciences de St. Pétersbourg, XI (1887), pagine 207 segg.; J. C. Tarapore, Vijārisn i chatrang, or the Explanat. of Chatrang..., Bombay 1932. - Il testo šahrīhā-i-ērān, in Jamasp Asana, Pahl. Texts, p. 19 segg.; J. Markwart e G. Messina, A Catalogue of the provincial Capitals of Ērānshahr (Pahlavi Text, Version and Commentary), Roma 1931. - Il testo Husrav i kavātān u rētak è pubblicato in Jamasp Asana, Pahl. Texts, pag. 27 segg.; J. M. Unvala, The Pahlavi Text "King Husrav and his boy" published with its Transcription, Translation and copious Notes, Parigi 1920. - Jivanji Jamshedji Modi, Mādigān-i-Hazār Dādīstān, a photozincographed Facsimile of a Ms..., Bombay 1901; Tehmuras Dinshaw Anklesaria, The social Code of the Parsis in Sasanian Times or the Madigān-i-Hazār Dādistān, II, Bombay 1913. (Nella lingua arcaica dei testi zoroastriani, ma in carattere diverso si ha anche un testo cristiano; cfr. F. C. Andreas e K. Barr, Bruchstücke einer Pehlevi-Übersetzung der Psalmen, in Sitzungsb. d. preuss. Ak. d. Wiss., 1933). Una raccolta ampia e ben elaborata delle iscrizioni sassanidiche si ha in Herzfeld, Paikuli. Monument and Inscription, I, Berlino 1924. Su una pergamena di contenuto giuridico dell'età arsacidica in pahlavī e in greco cfr. A. Cowley, The Pahlavi document from Avroman, in Journ. Royal As. Society, 1919, p. 147 segg.; Nyberg, The Pahlavi documents from Avromān, in Le Monde oriental, XVII (1925), p. 182 segg. Edizione dei testi manichei: K. Salemann, Manichaeische Studien, in Zapiski imper. akad. nauki, s. 8ª, VIII (1908), n. 10; F. C. Andreas e W. Henning, Mitteliranische Manichaica aus Chinesisch Turkestan, I-II, in Sitzungsber. d. preuss. Akad. d. Wiss., 1932-1933.

Arte.

Età achemenide. - L'estensione stessa del dominio dei grandi re, che portò i Persiani in contatto con i popoli più progrediti dal punto di vista dell'arte in quell'età, e cioè i Babilonesi, i Greci e gli Egiziani, favorì il sorgere in Persia di un'arte, che per le sue origini è arte di sincretismo, ma che tuttavia è animata da un soffio di potente originalità. La Persia non possedeva una tradizione artistica propria (non è chiaro quanto essa possa avere ereditato delle esperienze dei Medi), e le mirabili opere degli Achemenidi sono il frutto d'una grandiosa improvvisazione: esse si spiegano solo se si riconosce operante in esse lo stesso genio creativo che ha fondato l'impero. Tale arte non è, dunque, opera del popolo persiano, ma è bensì arte degli Achemenidi: creazione del loro spirito di grandezza e della loro potente organizzazione, essa durò soltanto per il tempo che durò il loro dominio e cioè appena due secoli.

Di tale periodo non si hanno altri monumenti che le rovine delle reggie dei Grandi Re a Pasargade, Persepoli e Susa. Del vasto concorso dato dai varî paesi dell'impero, in artefici e in materiali, è documento la grande iscrizione del palazzo di Susa di recente integrata:

"... Per grazia di Ahuramazdā io ho fatto questo palazzo che è sorto a Susa. Il materiale ornamentale è stato portato da lontano. Il suolo fu scavato sino a che toccai la roccia viva. Fatto lo scavo, fu riempito di ghiaia, da una parte in profondità di 40 cubiti, dall'altra in profondità di 20 cubiti. Su questa ghiaia il palazzo è stato costruito. Allo scavo del terreno, al riempimento di ghiaia, alla fabbricazione dei mattoni hanno lavorato i Babilonesi. Il legno di cedro è stato portato da una montagna che si chiama Libano; gente assira lo portò sino a Babilonia; da Babilonia i Carchiani e gli Ioni lo hanno portato qui. Il legno di quercia è stato portato dal Gandhāra e dalla Carmania. Da Sardi e dalla Battriana è stato portato l'oro che qui è stato lavorato. La pietra - lapislazzuli e serpentina - che è stata qui lavorata, è stata portata dalla Sogdiana. La pietra di ematite che è stata qui lavorata, è stata portata dalla Khorasmia. L'argento e il rame sono stati portati dall'Egitto. La decorazione con cui è stato adornato il muro è stata portata dalla Ionia. L'avorio che è stato portato qui proviene dall'Etiopia, dall'India e dall'Aracosia. Le colonne di pietra che sono state lavorate qui, furono portate da una località che si chiama Afrodisia in Lidia. Gli scalpellini che vi hanno lavorato, erano ioni e sardiani. Gli operai che costruirono la piattaforma erano medi e egiziani; quelli che lavorarono le pietre preziose erano sardiani e egiziani. Gli uomini che fecero i lavori in mattoni erano ioni e babilonesi; quelli che lavorarono alle mura furono medi e egiziani".

Nonostante il concorso di tante genti, l'opera che ne è risultata mostra un'armonia e un'originalità che rivelano una chiara e forte visione costruttiva.

Il sistema di costruire i palazzi su grandi terrazze artificiali, come si vede a Pasargade, Susa e Persepoli, è di origine babilonese. Ma, a differenza dei Babilonesi e degli Assiri, i Persiani non fecero le loro costruzioni in mattoni, bensì specialmente a Pasargade e Persepoli, si valsero dell'ottima pietra calcarea simile al marmo che la regione offriva. Nella costruzione degli edifici, essi si staccarono pure dai Babilonesi, poiché invece di costruire edifici di varî vani sboccanti su una corte, scelsero una costruzione di alto valore rappresentativo, costituita da una sala centrale con il tetto sorretto da colonne e avente ai lati più o meno numerosi ambienti minori. L'uso della colonna in larga misura, che forse i Persiani presero dall'Egitto, è una caratteristica dell'architettura persiana. La colonna persiana, più alta e slanciata di quella egiziana e con intervalli più grandi fra l'una e l'altra, è, salvo che a Pasargade, scanalata e porta alla sua sommità un capitello singolare, costituito da due protomi di toro o di cavallo riunite a formare un largo piano su cui posa l'architrave; la base, che a Pasargade ha forma di un semplice disco, è, generalmente, campaniforme ed è decorata da una corona di foglie.

Tutti gli edifici erano sormontati, come è stato confermato dai recenti scavi in Persepoli, da una merlatura analoga a quella usata dagli Assiri nelle loro fortezze.

Non è da escludere che nella parte decorativa dei palazzi, e in particolare dei bassorilievi, vi sia stata un'influenza formale greca, spiegabile col fatto che artisti greci hanno lavorato al servizio dei Grandi Re. Ma i soggetti sono in generale d'ispirazione babilonese-assira. I grandi tori alati e i genî che ornano il portale di Persepoli ricorrono già nell'arte hittita e in quella assira, ma, mentre qui le figure facevano parte dell'edificio, esse a Persepoli si staccano sulla grande mole dell'edificio e nella salda muscolatura delle zampe anteriori rialzate hanno un'impressione nuova di grandiosità e di vigore. Analoga origine hanno i bassorilievi rappresentanti il re, ora in lotta con mostri, ora assiso sul trono, e quelli, di cui è tanto ricca Persepoli, che rappresentano i cortei dei sudditi o i soldati della guardia. Ma mentre nella scultura assira le vesti appaiono come incollate sulle membra, vi è nei bassorilievi persiani uno studio così accurato dei panneggiamenti che è legittimo ricercare in essi le tracce dell'influenza greca. Importanza particolare hanno le decorazioni parietali di Susa costituite con mattoni smaltati a colori secondo una tecnica nota in Mesopotamia.

Anche le tombe dei Grandi Re e il bassorilievo di Dario sulla roccia di Bīsutūn tradiscono influenze forestiere. La tomba di Ciro a Pasargade è forse ancora immune da tale influenza e la sua forma a cella più che la struttura del tempio greco richiama forse quella di un antico tipo di abitazioni degli Irani. Le tombe di Dario e dei suoi successori (v. persepoli; naqsh-i rustam) sono state invece indubbiamente ispirate dagl'ipogei egiziani. Nelle sculture del riquadro superiore domina al disopra della testa del re il simbolo di Ahuramazdā, il dio supremo, costituito dal disco solare alato, da cui si eleva la mezza figura del dio; la stessa immagine che si ha nel bassorilievo di Bīsutūn.

Di contro all'importanza dei monumenti dell'architettura achemenide, i resti delle altre arti sono assai scarsi. Di notevole c'è da ricordare una statuetta d'argento, ora conservata a Berlino, rappresentante un persiano, e un recipiente d'oro proveniente dal cosiddetto tesoro dell'Oxo ora a Londra, in cui è pure incisa la figura di un persiano. Altri pochi oggetti in bronzo e terrecotte con vernice e senza vernice sono conservati nei musei d'Europa. Degno di particolare rilievo è un sigillo su cilindro di Dario I, appartenente al British Museum, in cui il re è rappresentato in atto di cacciare: dal carro che è guidato da un auriga il re lancia frecce contro un leone levato sulle zampe posteriori, mentre un altro leone giace abbattuto a terra; in alto vi è la consueta figura di Ahuramazdā; in senso verticale un'iscrizione in persiano, in egiziano e in babilonese dà il titolo e il nome del re.

Come si è detto, Dario I diede impulso alla coniazione delle monete e mise in circolazione il cosiddetto darico d'oro. Tali monete erano impresse solo da un lato con l'immagine del re in ginocchio e armato di arco spada e pugnale; la stessa immagine appare in monete di satrapi, con la frequente scritta basileus sul rovescio. Di carattere tipicamente persiano è una tetradramma dell'età posteriore ad Alessandro e appartenente ad uno dei re-sacerdoti che dominarono a Persepoli, nella quale si ha sul rovescio la riproduzione di uno degli altari del fuoco (ātash-gāh) tagliati nella roccia, che si vedono ancora nei pressi di Naqsh-i Rustam.

La scarsezza di monumenti delle arti minori dell'età achemenide, imputabile certo anche al fatto che i prodotti di esse sono più facilmente soggetti alla dispersione, è dovuta essenzialmente al carattere cerimoniale, rappresentativo che prevale nell'arte achemenide e che costituisce la sua originalità. L'architettura stessa dei palazzi, la profusione dei bassorilievi con i cortei di sudditi e di guardie del corpo, la grandiosità delle tombe rispondono allo spirito autocratico, ma pieno di solennità e di grandi visioni costruttive che animò la dinastia dei Grandi Re.

Periodo ellenistico. - La distruzione del regno degli Achemenidi per opera di Alessandro Magno portò nell'arte, come in tutta la civiltà iranica, un volgersi agl'ideali dell'ellenismo. Le nuove città fondate da Seleuco e dai suoi successori costituirono i centri donde la cultura greca e le sue forme artistiche si irradiarono fino all'India e al Turkestān. Nella Persia propria gli avanzi dell'età seleucidica finora rinvenuti sono scarsissimi, ma risultati più vasti sono da attendersi dal progredire degli scavi. Le esplorazioni compiute dalla Michigan University nel sito dell'antica capitale, Seleucia sul Tigri, hanno fornito una buona quantità di dati, soprattutto restituendo in luce i resti di una vasta parte del grande palazzo reale. Ivi l'architettura rivela la contaminazione della tecnica costruttiva in mattoni di tipo babilonese con quella di tipo greco: da cui sorse uno stile di carattere spiccatamente locale. Le opere fittili, e in genere di arte industriale, presentano molto più netta l'impronta greca. L'ellenismo sembra aver esercitato la sua più forte influenza sull'arte nella parte più orientale dell'impero, nella Battriana: i molti ritrovamenti recenti della spedizione francese, a Bāmyān e in altri centri (esposti al Musée Guimet di Parigi), hanno superato, per quanto riguarda ricchezza di forme e abilità plastica degli artisti, ogni aspettazione. La stessa tendenza continuò a fiorire anche dopo il sorgere, verso il 250 a. C., della potenza dei Parti; che condusse alla distruzione dell'impero seleucidico e conferì all'Īrān ellenizzato il suo carattere definitivo.

La sede della capitale del regno partico, Ctesifonte, posta di fronte a Seleucia sulla riva opposta del Tigri, fu dovuta essenzialmente a motivi politici; ma per l'arte questa circostanza ebbe conseguenze notevoli in quanto che, pur essendo il dominio politico puramente persiano, l'Irān proprio scadde d'importanza di fronte alla Mesopotamia. Del periodo partico soltanto pochi monumenti isolati sono noti finora, e lo studio dell'arte partica deve fondarsi necessariamente su materiale venuto in luce da scavi eseguiti in Mesopotamia: a Dura-Europo sull'Eufrate, nell'antica capitale Hatra, nella città partica di Aššur, negli strati più recenti di Babilonia, a Seleucia, e finalmente a Ctesifonte, dove peraltro la primitiva città partica non è stata ancora esplorata a fondo. Da quanto è noto finora risulta pur sempre confermato che l'ellenismo si deve considerare soltanto come una patina ufficiale, che ricopre artificialmente tendenze nettamente orientali e consapevolmente iraniche.

La pianta circolare delle città era molto diffusa (Hatra, Ctesifonte), e deve certamente essere considerata come eredità dell'antico Oriente (cfr., per es., Zengīrlī). Una certa indipendenza rivelano i Parti nell'architettura, dando soluzioni nuove e notevoli alla costruzione a vòlta. Il materiale adoperato è talvolta la pietra grezza con rivestimento di blocchi squadrati (Hatra), talvolta i mattoni crudi o cotti. Nei palazzi il līwān (più esattamente īwān) assume per la prima volta una funzione dominante, destinata a persistere costante nell'architettura persiana. È una grande sala a vòlta, interamente aperta sul davanti e chiusa dietro, con profondità, altezza e larghezza quanto mai variabili. I līwān dei palazzi partici, profondi fino a 30 metri e alti fino a 20, sono di regola fiancheggiati da ali più basse a due piani; talvolta costituiscono il centro di un intero complesso di edifici, alcuni dei quali sono aggruppati intorno a un grande cortile centrale. Il līwān maggiore formava la sala del trono, destinata ai ricevimenti solenni e alle feste. Nel palazzo dove due sale di eguale imponenza si fronteggiano, una era usata come līwān estivo, l'altra come invernale. Oltre agli edifici per abitazione, non si conoscono finora dell'architettura partica se non monumenti funerarî, tanto del tipo a tumulo quanto di quello a camera a vòlta, con un corridoio d'accesso a uno dei lati minori.

L'elemento ellenistico è molto più manifesto nella decorazione che nella struttura. A Hatra la decorazione è eseguita in pietra, talora in forme rigidamente classiche, talora con risonanze orientali; ad Aššur essa è di stucco colorato, con gran numero di motivi geometrici; a Dura-Europo è largamente usato l'affresco. La capacità plastica non era neanche lontanamente all'altezza di quella dell'età degli Achemenidi. Ciò appare tanto nei busti e nelle maschere di Hatra quanto nelle scarse stele sepolcrali, quali i rilievi del Nimrūd Dagh, col tumulo del re Antioco I di Commagene (circa 34 a. C.), nella Siria settentrionale. Le terrecotte, i bronzi e altri piccoli oggetti ornamentali, sono modellati spesso con fine intendimento. Nel periodo partico ebbe grande sviluppo la ceramica, in cui le tradizioni dell'antico Oriente sono felicemente accolte e svolte, in vasi, anfore e tazze di forme eleganti e agili, con mirabili vernici verdi e verdi-azzurre. Questa ceramica ha indubbiamente avuto influenza su quella cinese del periodo Han. Meno attraenti, ma molto caratteristici, sono i sarcofagi di argilla, di forma allungata a vernice lucida e con coperchio grossolanamente decorato in plastica, che sono stati rinvenuti in varie località.

Periodo sassanide (226-637 d. C.). - L'arte sassanide rispecchia chiaramente l'atmosfera spirituale di una rifioritura della civiltà iranica, il cui carattere dominante sta nel ritorno consapevole agl'ideali dell'età achemenide e nell'opposizione all'ellenismo e al cristianesimo. Ciò non esclude, beninteso, che siano stati accolti anche alcuni elementi dell'antichità classica, ma essi vennero interpretati ed esercitarono la loro funzione in un senso del tutto nuovo. Un'idea adeguata dell'architettura sassanide del sec. III è fornita dal palazzo di Fīrūzābād nella Perside: vi si trovano riunite, secondo una pianta molto chiara, ambienti con vòlta a botte, līwān e sale a cupola, cosi da dimostrare chiaramente la continuità della tradizione partica. Nella Persia propria sono da notarsi le rovine di Sarvistān e di Qaṣr-i Shīrīn, di età più recente, e nell'‛Irāq attuale gli edifici di Ctesifonte e di Kish, messi in luce da scavi. Nella prima località l'imponente līwān della sala del trono è ancora in piedi, e la seconda campagna di scavi (1931-32) ha dissepolto un gran numero di ville e di altri edifici privati, nei quali anche predomina il tipo a līwān. Pareti e vòlte sono decorate di lastre di stucco con rappresentazioni figurate od ornamentali, i cui motivi appaiono spesso quali varianti sassanidi di temi dell'ultimo periodo classico, ma che si rivelano, nell'impiego del tutto nuovo di questi, come precorritrici di un nuovo stile decorativo, le cui possibilità dovevano essere svolte appieno soltanto nell'età islamica.

Gli scavi intrapresi da Erich Schmidt per la Pennsylvania University in vicinanza di Dāmghān hanno messo in luce rivestimenti di stucco del tutto analoghi, e altri simili sono stati trovati anche qua e là in Persia, sì da far apparire giustificata l'asserzione dell'esistenza di uno stile decorativo omogeneo che nell'epoca sassanide seriore avrebbe dominato per intero la Persia e la Mesopotamia. Nel palazzo sassanide di Kish esplorato da M. Watelin sono state trovate tracce di busti reali allineati in una sala a nicchie, ripetenti schematicamente la stessa figura; ma nel palazzo reale di Ctesifonte sembra fossero rappresentate, in grandi fregi, anche cacce e altre scene che debbono considerarsi come traduzioni in stucco dello stile plastico dei rilievi rupestri. In questi ultimi poi, che in parte furono intenzionalmente scolpiti nell'immediata vicinanza di monumenti achemenidi, e come questi glorificano le imprese dei sovrani regnanti, si trova un'aderenza così consapevole alla tradizione dell'antica Persia come invano si cercherebbe in altri campi. I rilievi di Naqsh-i Rustam presso Persepoli, di Shāpūr e delle grotte di Ṭāq-i bustān, i quali pure si estendono dal secolo III al VII, non mostrano nessuna sensibile trasformazione stilistica. In essi alla vivacità molto accentuata della rappresentazione fa contrasto la rigidità ieratica della composizione, la quale può considerarsi come l'ultima risonanza dell'arte ortostatica dell'antico Oriente.

L'arte industriale dei Sassanidi ci è nota nelle sue linee essenziali soltanto da oggetti conservati in tesori di chiese e in musei dell'Occidente. Il primo posto in questo campo è tenuto dalla suppellettile argentea, di cui restano numerosi saggi specialmente in collezioni russe. Si tratta di tazze, di anfore, di vasi, ecc., lavorati a sbalzo e a cesello con rilievi e quasi sempre dorati. Vi si trovano rappresentate figure di re in trono o a caccia, con gli attributi della sovranità; figure di animali talora naturalistiche talora simboliche; motivi vegetali, alcuni dei quali hanno forse anche significato simbolico. Non meno notevoli sono le produzioni in tutti i campi della tecnica del bronzo: oltre a bacili e ad anfore imponenti, si hanno eleganti acquamanili e incensieri in forma di diversi animali. Tali prodotti servirono di modello sia a parte della susseguente tradizione artistica musulmana in Persia, sia allo stesso Occidente cristiano. Anche più ricercate dei prodotti della metallurgica sassanide erano in Occidente le stoffe di seta, purtroppo giunte a noi assai scarsamente. Vi si riscontrano i medesimi motivi che nei lavori in argento, ma, secondo lo stile e la tecnica dei tessuti, essi sono ripetuti simmetricamente: in genere sono iscritti in grandi circoli, e lo spazio tra questi è occupato da motivi ornamentali vegetali. Nella produzione ceramica si ha, rispetto all'età partica, un deciso impoverimento. L'industria vetraria, invece, sembra essersi resa a poco a poco indipendente dall'importazione siriaca e aver provveduto, mediante tecniche diverse, al fabbisogno interno. Molto sviluppata è l'arte dell'intaglio di pietre dure, attestata da parecchie centinaia di gemme con le più diverse rappresentazioni ed emblemi.

Bibl.: M. Dieulafoy, L'art antique de la Perse, Parigi 1884; G. Perrot e Ch. Chipiez, Histoire de l'art dans l'antiquité, V, Parigi 1890; J. de Morgan, Mission scientifique en Perse. Recherches archéol., Parigi 1900-1911; F. Sarre e E. Herzfeld, Iranische Felsreliefs, Berlino 1910; id., Reise im Euphrat- und Tigrisgebiet, Berlino 1911, 1920; O. Dalton, The Treasures of the Oxus (Franks Bequest, British Museum), 1905; F. Sarre, Die Kunst des alten Persien, Berlino 1922; E. Herzfeld, in Archaeolog. Mitteilungen aus Iran, I (1929) segg.; id., Am Tor von Asien, Berlino 1920; W. Andrae, Die zwei Kalksteinstelen aus Assur, in Mitteil. d. deutsch. Orientegesell., XXII (1904), p. 48 segg.; Fr. Cumont, Les fouilles de Doura-Europos, Parigi 1926; The Excavations at Dura Europos..., a cura di Baur e Rostovtzeff, I, New-Haven, 1931; ibid., a cura di Baur, Rostovtzeff e Bellinger, II, 1933; ibid., a cura di Rostovtzeff, III, 1934; J. Jordan, Uruk-Warka, Lipsia 1928; J. Strzygowski, Die Bauk. der Arm. und Europa, II, Vienna 1918.

LA PERSIA MUSULMANA

Storia.

L'invasione araba. - La conquista della Persia da parte degli Arabi e l'annientamento dell'impero sassanide furono immediata conseguenza della campagna militare che, per iniziativa dei due primi califfi (Abū Bakr e ‛Omar), aveva portato alla conquista della Babilonide e, subito dopo la battaglia di al-Qādisiyyah (16 eg., 637 d. C.) all'occupazione di Ctesifonte (al-Madā'in), la capitale dell'impero sassanide, a 42 km. sud-est dell'attuale Baghdād. Cinque anni dopo (21 eg., 642 d. C.) le truppe arabe infliggevano una decisiva sconfitta all'esercito regolare persiano a Nehāwend, al sud di Hamadān, e determinavano il crollo della monarchia sassanide. L'ultimo suo sovrano Yezdegerd III, come mille anni innanzi Dario Codomano, cercò rifugio nelle provincie orientali dell'impero, e anche egli fu, presso Merw nel Khorāsān, ucciso a tradimento per mandato di un governatore locale (31/651-652). Le regioni e città della Persia, abbandonate a loro stesse, prestarono isolatamente più o meno lunga resistenza, e finirono con l'aprire le porte all'invasore (22/643 resa di ar-Rayy, 23/644 di Hamadān e Iṣfahān, 28/649 di Iṣṭakhr). Nello stesso anno 31 gli Arabi, risalendo dal Fārs e dal Khūzistān, invadevano il Khorāsān, la regione più orientale della Persia; e tutto il paese, da quell'epoca, può dirsi quasi completamente sottomesso ai nuovi conquistatori, ove si eccettuino i territorî montani a sud del Caspio (Ṭabaristān, Gīlān), che già sotto i Sassanidi erano governati da principi (Ispahbad) semindipendenti dal potere centrale e che per molti decennî contrastarono aspramente la penetrazione degli Arabi e dell'Islām in quelle impervie regioni.

Al crollo politico dello stato nazionale persiano, che pure aveva tenuto testa a Roma e a Bisanzio, si accompagnò il disfacimento e la quasi totale estinzione o trasformazione della civiltà e religione da quello rappresentate. L'islamizzazione della Persia, per quanto scarse siano le notizie che ne abbiamo per quel primo secolo dell'ègira entro cui può dirsi virtualmente compiuta, procedé certo con ritmo più veloce che non quella, ad esempio, dell'Egitto cristiano. Lo zoroastrismo, religione di stato sotto i Sassanidi, sovrana e persecutrice, si cambiò ben presto in religione perseguitata di fatto se non di nome, mal tollerata e condannata a decadimento continuo; perché, sebbene i suoi seguaci siano stati formalmente assimilati, nella loro posizione giuridica entro lo stato islamico, all'ahl al-kitāb o popoli cui la nuova religione riconobbe sin da principio il possesso di una rivelazione scritta (Ebrei e Cristiani) con conseguente tolleranza e libero esercizio di culto contro pagamento di tributo speciale e altre restrizioni, di fatto l'atteggiamento generale dell'Islām verso il dualismo iranico fu assai più ostile e sprezzante che non verso il giudaismo e il cristianesimo. Inoltre la mancanza di una grande tradizione religiosa, intellettuale e sociale nel mazdeismo, divenuto in epoca sassanide monopolio della classe sacerdotale, e più ancora il desiderio di acquistare, con la conversione all'Islām, la piena cittadinanza, almeno teorica, nel nuovo stato, spinse in massa le popolazioni iraniche (per non parlare di quelle aramaizzate della Mesopotamia e del ‛Irāq) ad abbracciare la religione dei vincitori, che si presentava in forma assai semplice. Conversione forse superficiale e formale per la maggioranza di quella prima generazione che subì la conquista, ma di conseguenze enormi per le sorti ulteriori della nazione persiana e della stessa religione e civiltà musulmana; ché le generazioni seguenti, assimilando ed elaborando con l'apporto indubbio di elementi della propria tradizione etnica e culturale il primitivo nucleo dell'Islām arabo, ne promossero in grado eminente gli sviluppi religiosi, giuridici, culturali, e sostanzialmente crearono esse, insieme a quelle degli altri paesi di antica cultura islamizzatasi, come la Siria, l'Egitto e la Spagna, quegli aspetti della civiltà musulmana che le dovevano essere caratteristici per tutto il Medioevo.

Per quanto riguarda in particolare la Persia, se è esagerata e falsa quella concezione che impernia da questo punto tutta la sua storia, e quella dell'Islām in genere, su uno schematico contrasto fra la mentalità aria, conquistata ma conquistatrice a sua volta, e la mentalità semitica, è pure innegabile la persistenza, in particolari aspetti religiosi, letterarî e politico-sociali, di idee, correnti spirituali e indirizzi culturali germoglianti di preferenza nei territorî iranici della comunità musulmana, cui da allora in poi la Persia politicamente e culturalmente appartenne.

Il problema politico-sociale che più travagliò la Persia nel sec. I dell'ègira fu quello appunto dei neoconvertiti, aggregati quali clienti (mawālī) alle compagini tribali dei vincitori, ma in continuo fermento per la non raggiunta pratica parificazione all'elemento arabo, sia nel diritto a pensione da parte dello stato, spettante di regola ai soli arabi combattenti (muqātilah), sia per quanto riguardava l'esenzione dal pagamento del tributo fondiario (kharāǵ, v.), che, allorquando venne formalmente distinto dal testatico (gizyah, v.), fu fissato al suolo e reso quindi inestinguibile anche con la conversione del proprietario all'Islām. È questo uno dei pochi aspetti chiaramente discernibili, allo stato delle nostre conoscenze, della vita economica e sociale della Persia islamica, come del mondo musulmano medievale in genere, il cui ulteriore sviluppo rimane tuttora per noi, salvo rari punti singoli, assai oscuro. Da tale disagio nacque quella corrente persiana di opposizione che, assieme a guizzi di velleità nazionali d'indipendenza e ribellione ai conquistatori e sfruttatori arabi, diede appoggio a quasi tutti i moti di ribellione al califfato schiettamente arabo degli Omayyadi (41-132/661-750), soprattutto a quelli del legittimismo ‛alidico, e, in un secondo tempo, a quegli ‛Abbāsidi parenti degli ‛Alidi, che dovevano poi a proprio favore cogliere il frutto della loro secolare agitazione. Se la più appariscente e rumorosa sede dell'opposizione antiomayyade in quel primo periodo fu l'‛Irāq, è dalla Persia, e proprio dal remoto e malfido Khorāsān che alla metà del sec. VIII d. C. partì la rivolta che doveva distruggere il califfato omayyade, e con esso l'egemonia dell'elemento arabo nell'impero, e sostituirvi il califfato degli ‛Abbāsidi, arabi etnicamente anch'essi (e imparentati anzi ancor più strettamente degli Omayyadi col Profeta), ma partecipi ormai e rappresentanti di quell'internazionalismo politico-culturale, con larga immissione di elementi iranici, che doveva restare definitivo nella fisionomia dello stato musulmano da essi retto. Se questa può in certo senso chiamarsi, ed è stata chiamata, rivincita della Persia sui conquistatori arabi, non per ciò si riformò l'unità e autonomia politica della nazione spezzata ad al-Qādisiyyah; ancora per otto secoli circa la storia della Persia è priva di qualsiasi centro unitario, e il territorio iranico, rottasi ben presto l'unità politica del califfato, è frazionato e disputato, come pura terra di conquista, tra varî grandi e piccoli stati musulmani che si succedono o coesistono in organismi politici più o meno durevoli, pur riconoscendo l'autorità nominale dei califfi.

Dalle prime dinastie indipendenti all'invasione mongola. - Quando nella prima metà del secolo IX d. C. la superba compagine dell'impero islamico cominciò a sfaldarsi sotto il peso della propria grandezza, fra le prime regioni che sfuggirono all'autorità diretta del califfato di Baghdād furono naturalmente quelle periferiche della Persia orientale, il Khorāsān e il Sigistān; in quello si stabilì sotto forma di governatorato assurto presto a pratica indipendenza, la famiglia dei Ṭāhiriti, discendenti cioè di Tāhir, il valoroso generale persiano di al-Ma'mūn (205-259/820-872); in questo sorse da umili origini, con atteggiamenti ancor più apertamente indipendenti e ostili di fronte a Baghdād, la dinastia dei Saffāridi, rappresentata dai fratelli Ya‛qūb e ‛Amr ibn Laith (254-290/863-903). Soppiantatori dei Tāhiriti, i Ṣaffāridi sono a loro volta spazzati via, su istigazione del califfo, da una nuova potenza periferica, formatasi nella Transoxiana e quindi fuori della Persia vera e propria, ma schiettamente iranica di stirpe e di cultura, i Sāmānidi (261-389/874-999), che ebbero in Buchara la capitale, ma estesero il loro dominio a occidente per tutto il Khorāsān, e, nell'epoca della maggiore espansione, per buona parte dell'al-Gibāl (Media), cuore dell'antico stato persiano. Il secolo di dominio della dinastia sāmānide fu sotto ogni aspetto provvidenziale per la civiltà persiana musulmana; più che guerrieri e conquistatori, i suoi sovrani, Naṣr I, Isma‛īl, Nūḥ I, al-Manṣūr I e altri, furono notevoli amatori e protettori della cultura e dell'arte. Sotto essi la lingua neopersiana, evoluta dal pahlavico, si afferma letterariamente (v. sotto: Letteratura neopersiana), risuonano le prime voci di poeti, si unisce allo studio della Legge musulmana, con versioni in persiano di commenti arabi al Corano, l'interesse per la tradizione epica nazionale. I germi da essi seminati in questo campo si schiuderanno sotto i Ghaznevidi, dinastia di stirpe turca, che con Alptighīn, Sabuktighīn e Maḥmūd si solleva, da subordinata e vassalla dei Sāmānidi, a loro soppiantatrice nel dominio della Transoxiana e del Khorāsān, mentre la Persia meridionale, l'al-Gibāl e l'‛Irāq stesso cadono in potere della dinastia sciita dei dailamiti Buwaihidi, resasi di fatto anche padrona e tutrice del califfato di Baghdād (320-447/932-1055). Ma né la poesia aulica fiorita alla corte di Ghaznah, i cui interessi gravitarono del resto tutti a Oriente, con la conquista dell'India intrapresa dal grande Maḥmūd, né la vita culturale promossa dai Buwaihidi nel Fārs, nell'al-Gibāl e nell'‛Irāq, eguagliano l'importanza che, per il riformarsi di una unità politico-culturale persiana, ebbe la brillante dinastia sāmānide, sotto cui parte della Persia e la Transoxiana godettero una floridezza assai notevole.

Ghaznevidi e Buwaihidi ebbero del resto anche essi breve dominio sulla Persia, ché un'altra ondata di conquistatori turchi, i Selgiuchidi, venne nella prima metà del sec. XI a sostituirvisi, restringendo i Ghaznevidi ai possessi indiani, annientando i Buwaihidi e stabilendo un solido impero, durato unitario sotto i primi tre grandi selgiuchi (Ṭughril Beg 429-455/1037-1063, Alp Arslān 455-465/1063-1072, Malikshāh 465-485/1072-1092) dall'Afghānistān alla Mesopotamia, e, anche quando in seguito si frazionò ed estese in varî rami autonomi (Kirmān, ‛Irāq, Siria, Asia Minore), rimasto nel nucleo centrale persiano entro le mani della linea principale sino alla metà del secolo XII. Il secolo del dominio selgiuchide in Persia è di grande importanza per essere stata questa la prima grande formazione statale sorta dopo lo smembramento del califfato, che ebbe nella Persia il suo centro, fece del persiano la sua lingua ufficiale, e promosse vigorosamente, appoggiata a una potenza politica che mancò ai Sāmānidi, lo sviluppo culturale ed economico del paese. È questo lo stato la cui organizzazione, saggiamente utilizzante gli elementi arabo-persiani indigeni, ci è descritta nelle pagine del Siyāset-nāmeh, "Libro della politica", del grande visir selgiuchide Niẓām al-mulk; in questo periodo campeggiano grandi figure di sultani che dalla rudezza barbara dei primi Selgiuchi si affinano rapidamente nella cultura e cavalleria per cui ad es. va famoso il sultano Sangiar (m. 552/1157); visir dotti e valenti, come il ricordato Niẓām al-mulk, divenuto uno dei personaggi più popolari e rappresentativi della Persia, posto accanto a Buzurgmihr, il leggendario ministro sassanide, per eloquenza e filosofica saviezza; poeti aulici, o poeti e scienziati assieme come ‛Omar Khayyām, e, dimenticati nel nome con fenomeno quasi generale in Oriente, ma vivi tuttora nell'opera, geniali e modesti artisti, architetti, decoratori, toreuti, che in Persia, in Siria e in Asia Minore lasciarono superbi monumenti architettonici e squisiti manufatti delle arti minori, in cui si afferma lo speciale "stile selgiuchide". In lotta sorda contro questa compagine politica e religiosa (i Selgiuchidi, come in genere i Turchi, furono rigorosi sunniti ortodossi), ma non meno caratteristico come pullulare di germi culturali, politici e religiosi sul suolo persiano, ci appare in quest'epoca più cospicuo e temibile il movimento segreto degli Isma‛īliti o Assassini (v.), con le loro esotiche dottrine già sconfinate dallo sciismo estremo a un complicato sistema gnostico, in cui l'eresiografia musulmana addita non senza ragione il persistere e raffiorare di motivi religiosi e nazionalisti iranici. Le teorie degl'Isma‛īliti, dissolvitrici dell'islamismo da cui pure prendevano le mosse, e più ancora la loro azione pratica di terrorismo politico, furono l'incubo dell'impero selgiuchide, e oggetto d'una duplice aspra persecuzione, polemica da un lato, con gli scritti teologici e politici di uomini di penna e d'azione (ricordiamo solo il grande dottore al-Ghazzālī e lo stesso Niẓām al-Mulk, caduto infine anche egli vittima degli Assassini), militare e poliziesca dall'altro, cui parteciparono con dubbia fortuna gli stessi sultani, come Sangiar. La fama del Veglio della Montagna, il misterioso Ḥasan ibn as-Sabbāh, che dalla rocca inespugnabile di Alamūt presso Qazwīn dirigeva le trame e i pugnali dei suoi "Assassini" in tutta l'Asia Anteriore, volò attraverso le narrazioni dei Crociati sino in Europa. Ma l'Ismā‛īlismo, che nell'Africa settentrionale e poi nell'Egitto era sboccato, per un complesso favorevole di circostanze, in una vittoriosa azione politica, portando al trono la dinastia dei Fātimidi, in Persia e altrove non passò mai a un'organica offensiva per la conquista del potere, e si esaurì nello sporadico terrorismo.

Il nucleo centrale dell'impero selgiuchide crollò sulla metà del sec. XII sotto i colpi della vicina rivale potenza dei Khwārizmshāh, dinastia anch'essa turca, espandente il suo dominio dalla Transoxiana al di qua dell'Oxo, e che nel grande sultano ‛Alā'ad-dīn Muḥammad (596-617/1199-1220) ebbe il suo maggior rappresentante. Ma questa nuova potenza, continuante del resto le tradizioni statali e culturali dei Selgiuchidi, non arrivò mai a dominare tutta la Persia, retta nelle regioni occidentali dagli Atābek dell'Azerbaigian, dai Salghuridi e altre minori dinastie, ed ebbe il breve apogeo e le ambiziose brame di espansione stroncati dal più grandioso e catastrofico evento della storia di tutto il Medioevo islamico, l'invasione mongola.

Dall'invasione mongola al sorgere dei Ṣafawidi. - Tutte le conquiste e cambiamenti dinastici sin qui accennati erano avvenuti per opera di tribù e dinastie, se anche di recente conversione, pure del tutto islamizzate, e partecipi della cultura e civiltà musulmane. L'invasione mongola, cui l'arroganza imprudente dei Khwārizmshāh diede il pretesto a scatenarsi sul mondo musulmano, rovesciò a partire dal 617/1220 su questo e sulla Persia in particolare, le selvagge orde di barbari pagani dell'Asia centrale e orientale, che nei primi anni si comportarono come su terra di conquista, sommergendo, fra devastazioni e stragi spaventose, la brillante civiltà materiale e spirituale che da più di due secoli si era spiegata sulla Persia. Provincie intere, come il Khwārizm e il Khorāsān, città popolose e fiorenti come Buchara, Merw, Nīsābūr, ar-Rayy, Qazwīn, furono orrendamente saccheggiate e rase al suolo. La disperata difesa dell'ultimo Khwārizmshāh, il cavalleresco Gialāl ad-dīn Mangūbirdī, diede un lampo di gloria al fosco e rapido tramonto dei grandi stati musulmani di Persia, che parve per un momento destinata a sparire dal mondo civile. Bisogna però subito aggiungere che solo le prime rovinose ondate mongole, che finirono con l'andare a infrangersi sino nell'Europa orientale, furono esclusivamente distruggitrici. Quando pochi anni dopo, già morto il gran conquistatore Genghiz Khān (624/1227), il suo nipote Hūlāgū tornò di persona alla testa dei Mongoli per dare il colpo di grazia all'ombra superstite del califfato ‛abbāside di Baghdād (656/1258), la dinastia degli Īlkhān ("sovrani provinciali" rispetto al Gran Khān d'Asia centrale e Cina), da lui stabilita sulla Persia e Mesopotamia congiunte, non tardò a riavviarsi per le vie della civiltà e della cultura. Già Hūlāgū stesso, pur rimasto pagano, accordò il suo favore a scienziati come l'astronomo Naṣīr ad-dīn aṭ-Ṭūsī, per cui fondò presso la sua capitale di Marāghah nell'Azerbaigian un celebre osservatorio. Presto i susseguenti Īlkhān (v.) si islamizzarono nella religione, si persianizzarono nella lingua e nella cultura, riedificarono e dotarono quelle stesse benefiche istituzioni religiose-sociali caratteristiche della civiltà islamica, moschee, cappelle, medrese, ospedali che nella prima invasione erano andate largamente distrutte, vollero ed ebbero i loro poeti panegiristi, che li proclamassero nuovi eroi come il persiano Rustem, e generosi come l'arabo Ḥātim aṭ-Ṭā'ī, i loro storiografi di corte, che, almeno in uno o due casi insigni, seppero conciliare il loro aulico ufficio con la serietà e profondità di vera storiografia. I covi ismaelitici furono definitivamente distrutti, il commercio si risollevò, l'arte e la cultura, almeno in Persia, risorsero dalle ceneri a nuova vita che si continuò quando, estinti gli Īlkhān alla metà del sec. XIV, dopo alcuni decennî in cui il paese fu di nuovo frazionato in dinastie minori, un'altra invasione mongola, quella di Tīmūr, si abbatté sulla Persia; sanguinosa anch'essa nella immediata conquista, ma assai più superficiale nella distruzione, e ancor più pronta ad assimilarsi la civiltà dei territorî occupati. Alla morte di Tīmūr (807/1405) la Persia faceva di nuovo parte di un immenso impero, con capitale a Samarcanda, e i confini dall'India alla Siria, dal Lago d'Aral al Golfo Persico: costruzione labile e presto sfasciatasi, ma il cui blocco costitutivo, della Transoxiana con la Persia orientale e centrale (a un dipresso quello che era stato il dominio dei Sāmānidi), si resse col figlio di Tīmūr, Shāh Rukh, e i suoi successori per quasi tutto il sec. XV: età brillantissima per lo sviluppo delle arti (la poesia, in via di estinguersi, non conta che il gran nome di Giāmī), specie della pittura e miniatura e delle arti tessili, che in epoca tīmūride raggiunsero le più alte vette, diffondendo una luce di civiltà raffinata, sempre più sensibile agl'influssi dell'Asia centrale e orientale, sull'organismo politico invero assai instabile degli epigoni di Tīmūr. Il centro del loro dominio fu infatti e restò la Transoxiana, di cui la Persia orientale e centrale non formò che un'appendice sempre in pericolo di sfuggire alla loro autorità, per l'insorgere di dinasti locali e per un diffuso spirito di rinnovata anarchia. Le regioni occidentali poi, con l'Azerbaigian e parte dell'al-Gibāl, non furono che per brevissimo tempo sottomesse a Tīmūr, e alla sua morte caddero o ricaddero in mano di dinastie turche, dette rispettivamente, dall'emblema o insegna tribale, dei Qara-Qoyūnlī ("del montone nero"; 780-874/1378-1469) e Āq-Qoyūnlī ("del montone bianco"; 780-908/1378-1502). Nell'874/1469 Uzun Ḥasan (Ḥasan il lungo), capo degli Āq-Qoyūnlī, soppiantava definitivamente i "Neri" rivali e acquistava per qualche tempo una posizione egemonica nella Persia occidentale. A differenza dei Tīmūridi, questi Turchi d'Occidente erano in condizioni sociali e culturali assai arretrate, ed esse, insieme con i disordini politici, abbassarono di molto il livello di civiltà del paese, la cui compagine etnica, già da tempo alterata per le ripetute invasioni, subì appunto in quest'epoca un accelerato processo di turchizzazione che si sarebbe ancora accresciuto in futuro.

I Ṣafawidi. - Proprio quando la Persia, sul finire del sec. IX dell'ègira, XV d. C., indebolitasi alla morte di Uzun Ḥasan (883/1478) la potenza degli Āq-Qoyūnlī d'Occidente, e del tutto decaduta in Oriente quella tīmūride, ricadeva in uno di quei periodi di anarchia sanguinosa, divenuti triste prerogativa della sua storia, sorgeva nell'Azerbaigian una potenza destinata a ricostituire, per la prima volta dopo quasi nove secoli, tutto l'Īrān in unità nazionale. Una famiglia che faceva risalire la sua origine all'imām ‛alide Mūsà al-Kāẓim (m. 183/799), e che dal nome di uno dei suoi membri, lo shaikh Ṣafī ad-dīn di Ardabīl (m. 734/1334) aveva preso il nome di Ṣafawidi, aveva acquistato in Ardabīl e in buona parte dell'Azerbaigian un'autorità religiosa e morale che non tardò a divenire anche politica. Un rampollo di questa stirpe, Isma‛īl, appoggiatosi su sette tribù turche contermini (i cosiddetti Qizil-bāsh o "teste rosse", dal colore del loro copricapo), si fece strada audacemente tra le varie tribù in lotta fra loro, batté i resti degli Āq-Qoyūnlī a Shurūr, e da Tabrīz, che fece sua capitale, mosse alla conquista di tutta la Persia, assumendo il titolo regio di Shāh (907/1502). In una serie di fortunate campagne verso oriente, egli spazzò via dall'al-Gibāl i governatori dei Tīmūridi, che frattanto anche in Transoxiana erano spodestati dai turchi Shaibānidi, e nel 1510 strappò a questi ultimi Harāh (Herāt) e il Khorāsān. Attorno a quest'anno 1510 scià Ismā‛īl regnava incontrastato su un territorio che all'ingrosso coincideva con quello su cui mille anni innanzi si era esteso l'impero sassanide, e il cui nucleo centrale, nonostante la posteriore perdita della Mesopotamia e di varie altre provincie periferiche, forma tuttora nel suo insieme il moderno stato persiano. Su tutto questo territorio, allora per la prima volta Ismā‛īl e i suoi successori introdussero come religione di stato l'eresia musulmana dello sciismo, che aveva sempre avute radici in Persia, ma mai fino allora vi aveva goduto posizione ufficialmente dominante; così fu stabilito un permanente casus belli religioso, a rincalzare e coonestare la rivalità politica con la potenza confinante di occidente, la Turchia ottomana sunnita. Nella prima grande campagna che, in seguito a massacri di sciiti nell'impero ottomano, pose a fronte i due maggiori stati musulmani dell'epoca, i giannizzeri e l'artiglieria turca inflissero a Ciāldirān (920/1514) una grave disfatta ai Persiani, occupando in seguito la capitale stessa Tabrīz e l'Armenia sud-occidentale sino a Mossul. Ma altri disegni di conquista in Siria e in Egitto distolsero il sultano Selīm dal perseguire la vittoria, e così nonostante la guerra infelice che amareggiò la seconda parte del regno di Ismā‛īl (m. 930/1524), questi poté ancora sottomettere la Georgia e legare ai suoi successori sostanzialmente intatto il frutto della sua fortunata opera unificatrice.

Il dominio ṣafawide sulla Persia durò per più di due secoli (907-1148/1502-1736), che rappresentano per la nazione un periodo di floridezza politica, economica e culturale quale da molto tempo non aveva più raggiunto, né doveva più in seguito, sino a tutt'oggi, ritoccare. Nonostante l'origine probabilmente non iranica della dinastia (araba, secondo le sue pretese genealogiche; più probabilmente turca, come i suoi fautori Qizil-bāsh), e nonostante che elementi etnici e culturali turchi penetrassero sotto di essa sempre più largamente in Persia, essa ridiede al paese una coscienza di unità nazionale trasmessasi sino all'età moderna, e, pur tutelando l'integrità territoriale dello stato di fronte alla penetrazione politica europea, allacciò, per larghezza di disegni e necessità e velleità di politica, notevoli rapporti diplomatici e culturali con l'Europa contemporanea. Questi, già iniziati in misura assai più sporadica nell'epoca mongola e al tempo di Uzun Ḥasan, s'intensificarono sotto i Ṣafawidi sotto la forma di missioni religiose (gesuiti) tollerantemente accolte, visite di viaggiatori ed esploratori, come Pietro Della Valle, J. Chardin, R. Du Mans, e veri e proprî esperti tecnici, come gl'inglesi Anthony e Robert Sherley, riorganizzatori dell'esercito persiano, e larghi progetti di alleanze, specie dirette contro il comune nemico turco. Il punto più alto della potenza e civiltà ṣafawide fu raggiunto sotto scià ‛Abbās il grande, quarto successore di Ismā‛īl (985-1038/1587-1629), insigne figura di sovrano, che è stato riavvicinato ai più grandi monarchi della millenaria storia di Persia, Dario d'Istaspe e Cosroe Anūsharwān. Rafforzata l'autorità regia, che i primi fiacchi successori di Ismā‛īl avevano lasciato decadere, con provvedimenti repressivi degli irrequieti elementi tribali turchi, sostegno e a un tempo pericolo della dinastia, ‛Abbās batté a oriente gli Uzbeki, assicurando il minacciato confine orientale, a occidente i Turchi, cui ritolse molti disputati territorî mesopotamici (tra essi i santuarî sciiti di an-Nagiaf e Kerbelā'), sul Golfo Persico i Portoghesi, che cacciò da Hormūz (oggi Bender ‛Abbās) e dall'isola di Kishm ove si erano insediati. Nell'interno provvide alla sicurezza pubblica, favorì intelligentemente il commercio e le comunicazioni con l'apertura di strade, ponti, altre opere pubbliche; fece di Iṣfahān, eletta a capitale, una bella, florida, popolosa metropoli orientale, nelle cui adiacenze il nuovo sobborgo di Giulfā fu popolato con un'attiva colonia commerciale di Armeni, ivi pacificamente trapiantata. Tutta Europa conobbe e ammirò, attraverso le lettere di Pietro Della Valle, ospite di ‛Abbās a Iṣfahān, e le notizie di altri viaggiatori e diplomatici contemporanei, la magnanima figura dello "scià Sofi" (cioè Ṣafawide) che dalla lontana Persia sembrava persino dare adito alle speranze (in realtà infondate) del cardinal Borromeo su una possibile conversione al cristianesimo sua e del paese. Per quanto non immune da macchie di crudeltà e dispotismo, l'opera di ‛Abbās, sotto il cui regno si ebbe anche una nuova splendida fioritura artistica e monumentale, assicurò alla Persia un secolo di prosperità sotto i successori ṣafawidi, che per vero non presentano personalità anche da lontano paragonabili a quelle dei maggiori scià, Ismā‛īl e ‛Abbās. I confini dell'impero restarono sotto di essi immutati, salvo la perdita definitiva della Mesopotamia, conquistata nel 1638 dai Turchi di Murād IV. Ma la pace stessa di cui lo stato godé ne minò le energie, non più stimolate da una salda volontà direttiva. E quando nel 1722 Mīr Maḥmūd, un capo afghāno della tribù dei Ghilzāi irruppe alla testa dei suoi semibarbari guerrieri da oriente sulla Persia, l'organismo creato dalla fortuna guerriera di Ismā‛īl, consolidato dal genio politico di ‛Abbās era di nuovo nel più instabile equilibrio, e prossimo al primo urto a precipitare.

Per la Persia si riapriva la dolorosa via dell'anarchia e della decadenza politica e civile da cui solo due secoli dopo tenterà risolutamente di uscire.

Dall'invasione ajghāna al 1905. - Nel 1135/1722 scià Ḥusain ṣafawide, dopo un lungo assedio, apriva le porte di Iṣfahān agli Afghāni invasori, che con Maḥmūd e il suo cugino e successore Ashraf riuscivano così per pochi anni ad aver dominio sulla Persia. Nel frattempo Pietro il grande, cui il pretendente safawide Tahmāsp II si era rivolto per aiuto, si faceva da questo promettere dei compensi territoriali sul Caspio e nelle provincie caucasiche; e altre promesse del genere facevano gli Afghāni, sollecitando a loro difesa l'aiuto turco. L'impero di scià ‛Abbās stava per essere smembrato, e fu salvo solo per l'energia e il genio militate d'un altro capo turco, Nādir l'Afshāride, che, sostenendo con le armi le pretese legittimistiche di Ṭahmāsp II, batté e cacciò gli Afghāni, restaurò formalmente i Ṣafawidi e restò effettivo padrone del paese; nel 1148/1736, morto l'ultimo ṣafawide ‛Abbās III che egli aveva fatto succedere al posto di Tahmāsp presto deposto, Nādir assunse anche il titolo di scià, e la dinastia ṣafawide scomparve per sempre.

Nell'avventuriero giunto al trono di Persia si rivelò una tempra di conquistatore, della stoffa di un Ṭughril o un Tīmūr. Negli undici anni del suo regno, la Persia parve risuscitare ed esprimere da sé le più gagliarde energie guerriere, ampliando grandemente il suo territorio in una serie di vittoriose spedizioni militari. La rapida conquista dell'Afghānistān (1738) vendicò l'invasione che gli Afghāni sedici anni innanzi avevano osato portare in Persia. Dall'Afghānistān Nādir Scià si spinse in India, vinse a Panipat presso Karnal (Panjab) l'esercito del Gran Mogol e nel 1151 (marzo 1738) occupò Delhi che fu orribilmente saccheggiata. Vittorioso in altre spedizioni in Transoxiana e nel Caucaso, Nādir Scià non seppe però cogliere i frutti delle sue gesta, per l'avara tesaurizzazione delle immense ricchezze accumulate, e uno spirito di sospetto e vendetta sanguinaria che presto guastò l'originaria relativa mitezza del suo carattere, spingendolo ad atti di violenza e crudeltà contro la sua stessa famiglia, la sua corte e il suo popolo. Per questi motivi, e per avere anche offeso il sentimento religioso ormai radicato in Persia tentando di reintrodurvi l'ortodossia sunnita, Nādir Scià divenne impopolare e temuto, e quando nel 1160/1747 egli cadde vittima di una congiura di palazzo, l'edificio delle sue conquiste cadde con lui. Il nipote ‛Ādil Scià che gli succedette riperdé l'Afghānistān, e il successore di questo, l'ultimo afshāride Shāh Rukh (figlio di un figlio di Nādir) non fu più che uno dei varî dinasti e pretendenti che nella seconda metà del sec. XVIII si disputarono in sanguinose lotte i territorî persiani. Accecato da un rivale, Shāh Rukh riuscì a mantenere una certa sovranità sul Khorāsān sino al 1210/1796. Il resto della Persia fu in quello stesso tempo governato dalla dinastia degli Zand, il cui primo e maggior rappresentante fu Karīm Khān, notevole figura che non assunse mai ufficialmente il titolo di scià, e con quello di Wakīl ("reggente") tenne con fermezza e giustizia dal 1750 al 1779 il supremo potere. I quindici anni seguenti sono riempiti dalla lotta fra gli epigoni Zand e una nuova potenza, quella della tribù turca dei Qāgiār che aveva il suo centro in Astarābād, e doveva finire per rendersi padrona di tutto il paese. La conquista, condotta con astuta energia, ed efferatezza impressionante anche in un orientale, dal qāgiāro Aqā Moḥammed Khān, fu ufficialmente intrapresa da questo nel 1786, allorché in Teherān, dichiarata sua capitale, assunse il titolo di scià, e virtualmente compiuta nel 1794, con la cattura per tradimento e lo scempio dell'ultimo sovrano zand, il valoroso e cavalleresco Luṭf ‛Alī Khān, che aveva disperatamente difeso con le armi il retaggio degli avi. Con Aqā Moḥammed Khān s'iniziò la dinastia che sino al 1925 ha regnato sulla Persia.

La politica dei Qāgiār, sino dal fondatore della dinastia, mirò all'interno a soffocare con l'astuzia e col terrore ogni velleità di rivolta negli altri elementi tribali, che costituivano ancora il perno della vita sociale della nazione; all'estero, dovette difendersi dalle sorgenti avidità e rivalità delle due potenze che da allora acquistarono un'importanza e influenza decisiva per tutta la vita politica persiana, la Russia e l'Inghilterra. L'imperialismo russo da un pezzo minacciava, nella sua espansione verso il Caucaso e l'Asia centrale, il territorio persiano; ma Aqā Moḥammed Khān, con fortunata abilità, era riuscito a sventarne la minaccia. Assassinato costui nel 1797, sotto il suo nipote e successore Fatḥ ‛Alī Scià (1797-1834) si venne invece a guerra aperta con la Russia (1804-1813); dopo avere invano tentato efficaci accordi e appoggi con Napoleone, Fatḥ ‛Alī Scià nel trattato di Gulistān (12 ottobre 1813) dové cedere alla Russia i khānati di Baku, Kuba e Derbend, la Georgia, la Mingrelia, il Daghestan, lo Širvan e l'Azerbaigian con la città di Gangiah (Gandža), da allora per sempre perduti alla Persia. Una seconda guerra infelice (1826-1828) imprudentemente provocata dalla Persia stessa fidando nell'aiuto inglese, condusse all'ulteriore perdita delle provincie armene di Erivan e Nachičevan (trattato di Turkmānciāi, 23 febbraio 1828). I rapporti con la Russia mutarono sotto il successore di Fatḥ ‛Alī Scià, Moḥammed Scià (1834-48), che fu abilmente dai Russi aizzato alla conquista dell'Afghānistān, minacciando così l'India inglese; ma la spedizione, che aveva condotto all'occupazione di Harāt, fu bruscamente troncata dall'energico intervento inglese, che con una dimostrazione navale nel Golfo Persico obbligò a precipitosa ritirata lo Scià intimidito (1838).

Il lunghissimo regno di Nāṣir ad-dīn Scià (1848-1896), relativamente pacifico in politica estera di fronte alle grandi potenze (a un altro tentativo nel 1856 contro l'Afghānistān si dové rinunziare per un nuovo intervento armato inglese) condusse la Persia sin sulla soglia dell'età contemporanea, lasciando maturare con una politica interna e finanziaria dissipata e dispotica, se anche non in tutto reazionaria, quei germi d'irrequietezza e scontento che al principio del sec. XX dovevano condurre al moto costituzionale e alla rivoluzione. Nel 1850 fu soffocato nel sangue il movimento religioso-sociale del Bābismo, che, se saputo accompagnare e adoperare, avrebbe potuto avere interessanti sviluppi per la vita persiana; subito dopo (1851) cadde vittima d'intrighi di corte il visir Mīrzā Taqī Khān che con illuminata mente e vero zelo patriottico aveva tentato una politica di progresso e modernizzazione. Da allora Nāṣir ad-dīn governò con i suoi favoriti, cedendo sempre più, con svantaggiose concessioni commerciali, alla penetrazione russa e inglese. Non insensibile alla civiltà occidentale, con cui in ripetuti viaggi in Europa venne a contatto, la sentiva o credeva estranea e pericolosa alle condizioni primitive del suo popolo, ancor schiacciato da una avida e pigra aristocrazia feudale. Ma il disagio economico, l'instabile situazione politica dinanzi all'avanzata russa in Asia centrale (1868 annessione di Buchara, 1873 di Chiva, 1881 disfatta dei Turcomanni a Gök Tekke, 1884 annessione di Merw), il diffondersi per quanto lento delle idee occidentali attraverso i Persiani all'estero e i contemporanei eventi nel vicino oriente di Turchia e d'Egitto, dovevano condurre fatalmente a una crisi, che Nāṣir ad-dīn non giunse però a vedere, assassinato da un fanatico panislamista il 10 maggio 1896.

Dal 1905 ai nostri giorni. - Sotto il regno del figlio di Nāṣir ad-dīn, Muẓaffar ad-dīn Scià (1896-1907), la crisi finanziaria e politica divenne così acuta, nonostante i trattati di commercio conclusi nel 1900 con la Russia (che fece anche un prestito di 22 milioni e mezzo di rubli) e nel 1903 con l'Inghilterra, che le richieste di una soluzione costituzionale si fecero nel 1905 generali e irresistibili. Esse furono accolte, pur dopo lunghe difficoltà, dallo Scià, ma, poco dopo l'istituzione (5 agosto 1906) e l'inaugurazione del primo Maǵlis o parlamento (7 ottobre) e dopo largita una "legge fondamentale" (30 novembre) che riguardava in realtà solo l'ordinamento parlamentare, Muẓaffar ad-dīn veniva a morte (8 gennaio 1907). Il successore Mohammed ‛Alī Scià emanò il 7 ottobre 1907 sotto forma di atto addizionale alla "legge fondamentale" la vera e propria costituzione, ma non tardò a venire in conflitto col Maǵlis, che reclamava il licenziamento di funzionarî e cortigiani e la subordinazione dell'esercito a un ministro della Guerra responsabile. Dopo un attentato cui fu fatto segno, lo Scià lasciò Teherān, dove le truppe regie, guidate da ufficiali russi, bombardarono la sede del parlamento (23 giugno 1908) che contemporaneamente Moḥammed ‛Alī discioglieva, manifestando ormai senza veli i suoi propositi reazionari. Fu questo il segno della guerra civile. Nazionalisti e costituzionali insorsero a Tabrīz, dove furono a lungo assediati dai realisti, e liberati solo nell'aprile 1909 da un intervento di truppe regolari russe; ma la risoluzione della crisi, con la vittoria dei costituzionali, venne da Iṣfahān; i capi Bakĥtiyārī, fatta causa comune coi costituzionali, marciarono di qui su Teherān, che occuparono nel luglio dopo violenti combattimenti nelle strade. Moḥammed ‛Alī si rifugiò nell'ambasciata russa, e il Maǵlis lo dichiarò abdicatario, proclamando in suo luogo il figlio undicenne Aḥmed Scià, sotto la reggenza del principe qāgiāro Asad ul-Mulk (15 luglio 1909).

Questa vittoria delle forze costituzionali fu però ben lontana dal portare prosperità e pace al travagliato paese. Le non sopite ambizioni russe e inglesi (che nel 1907 si erano accordate con lo spartire la Persia in tre "zone d'influenza", il Nord alla Russia, il SE. all'Inghilterra, il resto in comune), le mene del deposto scià che nel 1911 fece anche un fallito tentativo per riacquistare il trono, le disastrose condizioni finanziarie dello stato cui invano nello stesso 1911 tentò porre riparo la missione americana Schuster, presto congedata su imposizione russa, avevano ridotto la Persia a tale strematezza di forze ed abbassamento di prestigio che, scoppiata la guerra mondiale, la sua neutralità fu da ambo le parti senza alcun riguardo violata. I Turco-tedeschi dalla Mesopotamia, i Russi dal Caucaso e dalla Transoxiana, gl'Inglesi dalla Mesopotamia e dall'India sconfinarono, si combatterono e inseguirono in territorio persiano (v. guerra mondiale); tutta la nazione visse quei quattro anni nella più completa anarchia, tra operazioni di truppe regolari dei belligeranti e d'irregolari indigeni da questi arruolati, e lotte e brigantaggio tribale che prendeva le parti ora di questa ora di quella potenza europea. La conclusione della pace salvò la Persia da smembramenti e dal protettorato inglese un momento prospettatosi, così come la rivoluzione russa la liberò dall'incubo dell'imperialismo zarista. Due trattati con i Sovieti (1919 e 1921) le garantirono da questo lato il non intervento politico, la rescissione del trattato anglo-russo del 1907 e la libera navigazione anche con navi da guerra sul Caspio, inibitale col trattato di Gulistān. Ma una svolta decisiva per la storia del paese si ebbe solo nel febbraio 1921, con l'apparire sulla scena politica di un oscuro ufficiale nativo del Māzandarān, Riẓā Knān, che marciò con i suoi "cosacchi" persiani su Teherān e riuscì a stabilirvi un governo nazionalista, in cui accentuò sempre più la sua preminenza personale. Nel 1923 lo scià qāgiāro lasciò la Persia per non farvi più ritorno, e Riẓā Khān, con la carica di primo ministro, divenne l'effettivo capo dello stato. Un suo tentativo di stabilire la repubblica in quell'anno non ebbe effetto, in parte per l'opposizione dei dottori musulmani (mullā), e si delineò così sin da allora la soluzione che due anni appresso ebbe compimento, con la decadenza della dinastia qāgiāra, decretata dal Maǵlis il 31 ottobre 1925, e la proclamazione di Riẓā Khān, col nome di Scià Riẓā Pahlawī, a sovrano costituzionale di Persia (16 dicembre 1925). Il 25 aprile 1926 il nuovo scià assumeva la corona, che una modifica alla costituzione dichiarava ereditaria nella sua famiglia.

Da allora l'opera energica del nuovo governo ha avviato con prudente fermezza lo stato sulla via della riorganizzazione civile e del progresso, secondo una moderata graduale europeizzazione. Si è riorganizzato l'esercito, sulla base del servizio militare obbligatorio (1926), e, con la repressione di rivolte nel Luristān, nel Khūzistān e nel Fārs (1928-29), si è rivolto il massimo sforzo al disarmo delle tribù e allo stabilimento della sicurezza interna. La abolizione delle capitolazioni (10 maggio 1928) è stata preceduta e accompagnata da una serie di trattati d'amicizia e garanzia (con la Turchia, 22 aprile 1926; con la Russia, 1° ottobre 1927; con l'Afghānistān, 28 novembre 1927; accordo per la frontiera con l'‛Irāq, 23 gennaio 1932) che hanno creato un equilibrio fra gli stati dell'Asia Anteriore, di cui la Persia, bisognosa di pace, non può che avvantaggiarsi. Le comunicazioni sono state promosse con l'istituzione di linee automobilistiche, raccordi con le linee aeree internazionali, e anche con l'inizio (1927) dei lavori per la ferrovia che dovrà congiungere il Caspio al Golfo Persico e dare così alla Persia, rimasta praticamente sino a pochi anni addietro senza un chilometro di ferrovie, la grande arteria di comunicazione da N. a S. La creazione d'una marina e aviazione militare, la riforma giudiziaria (aprile 1927), la creazione della Banca nazionale di Persia (maggio 1927), l'introduzione dello stato civile (luglio 1928), sono altrettante tappe del lavoro svolto dal parlamento e dal governo, che perseguono una politica di progresso e prestigio. Ancora in relazione ad essa, sulla fine del 1932 fu denunziata la concessione all'Anglo-Persian Oil Company per lo sfruttamento del petrolio sul territorio persiano, rinnovata poi con l'accordo del 29 aprile 1933 su nuove basi più favorevoli alla Persia.

Dal pacifico sviluppo di questa attività modernizzatrice, la Persia può legittimamente sperare di riscattarsi dalla lunga epoca di avvilimento e decadimento materiale e spirituale in cui era caduta, e riprendere nella storia della civiltà una posizione non indegna del suo glorioso passato.

Bibl.: Opere generali: J. Malcom, History of Persia, II, 2ª ed., 1829 (sino all'avvento dei Qāgiāri); P. M. Sykes, A history of Persia, II, 3ª ed., Londra 1930; P. Horn, Geschichte Irans in islamitischer Zeit, in Grundriss d. iran. Philologie di Geiger e Kuhn, II, Strasburgo 1896-1904, pp. 551-604. Per la parte più antica, sotto il califfato e le prime dinastie, v. bibl. di arabi: Storia, e alle voci dedicate alle varie dinastie. Per i Mongoli di Persia, H. H. Howorth, History of the Mongols, III, Londra 1888. Per gli eventi dal sorgere dei Ṣafawidi a tutto il sec. XIX, un buon riassunto in E. G. Browne, A history of Persian Literature in modern times, Cambridge 1924, pp. 3-158; per primi Qāgiāri: R. G. Watson, A history of Persia from the beginning of the XIXth century to the year 1858, Londra 1866. Sul moto costituzionale e la rivoluzione, E. G. Browne, The Persian Revolution, 1905-1909, Cambridge 1910; per la storia contemporanea, la rivista Oriente moderno, Roma 1921 segg. Tabelle genealogiche e cronologiche, in S. Lane-Poole, The Mohammadan Dynasties, Westminster 1894 (ristampa anastatica, Parigi 1925), e E. de Zambaur, Manuel de généalogie et chronologie pour l'histoire de l'Islam, Hannover 1927.

Letteratura neopersiana.

Introduzione. - Caratteristica della letteratura neopersiana, come di quelle d'altri popoli musulmani, è una certa staticità, una scarsa evoluzione negli spiriti e nelle forme. Assurta in poco più di un secolo da oscuri inizî a piena maturità, sviluppatasi rapidamente nelle varie estrinseche partizioni dei generi, per alcuni dei quali un alto genio poetico, Firdūsī, diede con la sua opera modelli o almeno efficaci impulsi, mutuate dalla poesia araba molte delle forme metriche, aggiugendovi quelle poche originali che le saranno caratteristiche, essa assume presto quella fisionomia quasi fissa, quel patrimonio poetico, quegli indirizzi narrativi, storiografici, etico-didattici, che conserverà inalterati sino, si può dire, a tutto il sec. XIX. Rinnovazioni del contenuto poetico in corrispondenza con la vita, urti di diverse correnti letterarie, quale, nella vicina letteratura araba, fu nel sec. II-IV dell'ègira (VIII-X d. C.) la contesa fra l'antica poesia beduina e la moderna poesia cittadina, non compaiono nella letteratura neopersiana; il che in parte si spiega col non avere essa vissuto, come l'araba, quel profondo rivolgimento religioso, politico e sociale dell'islamizzazione e inurbazione che condusse la lingua dei liberi beduini del deserto a diventare la lingua culta e aulica della civiltà arabo-musulmana. Culta e aulica la poesia persiana fu invece prevalentemente sin dagl'inizî (assai poco sappiamo e possediamo, in tutta la sua storia, di poesia schiettamente popolare), e perciò visse il suo lungo e splendido meriggio sostanzialmente immutata; né la prosa (salvo per ciò che concerne il progressivo uso e abuso di parole e frasi arabe) conobbe quel processo di raffinamento e perfezionamento stilistico che l'araba subì nel sec. III e IV dell'ègira.

Nella letteratura neopersiana si possono distinguere tre periodi: quello delle origini (sec. X d. C., esteso fino a comprendere l'epoca ghaznevide con Firdūsī); il periodo classico (sec. XI-XV), in cui i generi letterarî già formati ricevono dalle grandi personalità poetiche e dall'attiva vita culturale del paese attualità e vita; infine il periodo della decadenza o addirittura del letargo, in cui nessuna parola viva e nuova la letteratura persiana apporta in seno alla vita spirituale d'Oriente, sino ai moderni e modernissimi conati di rinascita, al contaito con la civiltà e il pensiero occidentali.

Il primo secolo della letteratura persiana. - Una ricca fioritura poetica, germogliante nel sec. X d. C. nelle regioni orientali della Persia (Khorāsān) e in Transoxiana, attorno all'iranica dinastia dei Sāmānidi (v. sopra: Storia) è la prima cospicua manifestazione della nuova letteratura. Secondo la tradizione, i suoi incunaboli risalgono per vero almeno a un secolo addietro, ai primi versi in neopersiano con cui un letterato di Merw avrebbe salutato nel 193 eg., 808-809 d. C., il califfo ‛abbāside al-Ma'mūn che faceva il suo ingresso in quella città; la moderna filologia ha cercato rintracciarli ancora più indietro, sino al sec. I dell'ègira, saldando così lo iato fra la lingua e letteratura mediopersiana, e la nuova lingua e letteratura sorgente. Ma per quanto sia con ogni probabilità da presupporre questo lento maturare delle nuove forme e della nuova arte, nulla è possibile affermare con precisione degli oscuri secoli fra il VII e il X, quando si obliterava l'uso e la memoria del pahlavico e della letteratura, religione, civiltà da esso rappresentate, e vi si sostituiva la civiltà musulmana, dapprima con l'arabo, come lingua ufficiale di cultura e di amministrazione, e poi, in un rafforzarsi più culturale che politico ed etnico del sentimento nazionale, col persiano evoluto dalla sua fase linguistica medievale a quest'ultima, rimastagli propria sino all'epoca contemporanea. Sorvolando sui pochi nomi di poeti del sec. IX, sotto le dinastie dei Ṭāhiriti e Saffāridi, di cui le antologie storico-letterarie indigene ci han conservato il ricordo e qualche dubbio frammento, troviamo in Rūdaghī (morto 343 eg., 954 d. C.), il favorito dei principi sāmānidi di Buchara Naṣr ibn Aḥmad e Nūḥ I, la maggiore personalità entro tutto un gruppo di poeti di corte (Daqīqī, Aghācī, ‛Umārah di Merw, ecc.), dai cui superstiti frammenti vediamo la musa persiana già avviata per quelle vie che le saranno anche in seguito familiari: qaṣīde (v.) encomiastiche, di forma metrica calcata sull'arabo, in lode di sovrani e mecenati, ghazal (v.) erotici e bacchici, quartine (rubāī) sentenziose, esaltazioni della bellezza di primavera, o cordoglio per la vecchiaia e la sorte avversa; la lingua è già sciolta e sicura, con molti elementi lessicali arabi già infiltratisi, la metrica rigorosa, le immagini, meno nei frammenti più schiettamente lirici e più nelle poesie encomiastiche, continuamente sconfinanti dalla plasticità artistica nella freddezza del concetto ricercato, del giuoco di parole, dell'allusione intellettuale: tutti pericoli cui la posteriore lirica, specie panegiristica, si abbandonerà largamente. Tale almeno l'impressione da quel poco che ci è rimasto, della fecondissima produzione di questi primi poeti: ma qualche altro frammento, derivato da opere antologiche e lessicografiche, e ad essi attribuito, ci rivela altri aspetti altamente interessanti di questo periodo di assimilazione e produzione, come quei magri resti della versione neopersiana dall'arabo di Kalīlah e Dimnah (v.), compiuta da Rūdaghī stesso, che fanno molto rimpiangere, per la loro pregevole semplicità ed efficacia, la perdita dell'opera intera. A questa stessa epoca e a questa stessa cerchia risalgono, come vedremo più oltre, le prime elaborazioni nella nuova lingua, dell'epos nazionale iranico, che poco dopo, sotto i Ghaznevidi, doveva avere il più splendido sviluppo; a questa le prime prove della prosa letteraria neopersiana, con la versione o piuttosto rifacimento e adattamento, dall'arabo, della grande cronaca universale di aṭ-Ṭabarī, eseguita dal dotto ministro sāmānide Bal‛amī (m. 386/996) per desiderio del principe Manṣūr I ibn Nūḥ, e quella, anch'essa dall'arabo di aṭ-Ṭabarī, del vastissimo Tafsīr o commento al Corano; mentre la più antica opera originale in prosa persiana a noi giunta sembra essere un importante trattato farmacologico, composto forse in quegli stessi anni dal medico Abū Manşūr Muwaffaq b. ‛Alī al-Harawī, e dedicato al medesimo sovrano sāmānide Manfūr I (per quanto l'alta antichità di quest'ultima opera non sia assolutamente sicura).

Sullo svolto tra il sec. X e l'XI d. C. crolla la gloriosa dinastia sāmānide, soppiantata nel dominio della Persia orientale da quella turca dei Ghaznevidi, che culmina nella grande figura del sultano Maḥmūd (m. 421/1030). Alla corte di questo e dei suoi successori la nuova letteratura continua a svilupparsi rigogliosa, accentuando il suo carattere aulico e panegiristico, in corrispondenza del favore largitole dal sovrano, che va inteso in modo assai più concreto, materiale ed estrinseco, con doni e benefizî in danaro sonante ai poeti laudatori, che non in senso ideale e spiritualmente culturale. Il circolo dei poeti ghaznevidi (‛Unsurī di Balkh, m. 441/1060, Farrukhī m. 429/1037, ‛Asgiadī, Mīnūcīhrī, m. attorno al 432/1041, ecc.) non presenta, oltre Firdūsī, rilevanti personalità artistiche, ma ci offre importanti documenti della vita sociale e culturale dell'epoca, e, talora, come è il caso di Farrukhī con le sue poesie celebranti le gesta militari di Maḥmūd, dà persino contributi alla cronologia e alla storia contemporanea per la conoscenza delle campagne del grande conquistatore, e dei paesi da questo attraversati e sottomessi. Una certa importanza per la storia dei generi presenta in quest'epoca Asadī di Ṭūs (m. tra il 421-431/1030-1040), detto Asadī il vecchio per distinguerlo dal figlio omonimo, epico post-firdusiano e lessicografo; Asadī il vecchio invece è noto per aver dato voga al genere della munāẓarah o tenzone in versi, divenuto così caro alla letteratura araba, persiana e turca, in cui due esseri, animati o no, vengono introdotti a disputare sulla rispettiva preminenza, con sfoggio di finezze retoriche e dialettiche (così, per ricordare i titoli delle tenzoni di Asadī, Arabo e Persiano, Cielo e terra, Lancia e arco, Musulmano e Zoroastriano, Notte e giorno). Ma su tutte queste figure di letterati e verseggiatori, interessanti in fondo più la storia della cultura che quella della poesia, si solleva alta, legata nella storia e nella leggenda alla splendida corte di Maḥmūd, una delle poche personalità che la Persia abbia dato alla letteratura mondiale: Firdūsī.

L'epos e Firdūsī. - Mentre la lirica attingeva gli spiriti, e per buona parte le forme stesse, alla poesia araba cittadina dei muḥdathūn o moderni, affermatasi un paio di secoli prima a Baghdād e nei minori centri dell'impero ‛abbāside, l'epica contemporaneamente sorgente affondava le radici nella più schietta tradizione nazionale. Qui più che altrove, e forse in questo solo momento germinale, nel consapevole riallacciarsi a un patrimonio antichissimo di miti e leggende e storia iranica, del tutto estraneo alla civiltà arabo-musulmana che si era imposta e diffusa nel paese, può vedersi un genuino riflesso del sentimento nazionale persiano; e diciamo solo in questo momento, poiché dopo la grande opera di Firdūsī ciò che rivive dell'epica s'ispira a quell'insigne modello con interesse assai più letterario e imitatorio, che non etico, sentimentale e nazionale. Alla voce firdūsī è accennato il processo plurisecolare per cui la materia della saga iranica, cosmogonia, mitica protostoria, storia o pseudostoria via via arricchitasi negli ulteriori sviluppi della reale storia dell'Īrān, dall'epoca avestica a quella achemenide, arsacidica e sassanidica, elaborata e fissata in un corpus pahlavico sul finire della dinastia sassanide, fu trasmessa alla civiltà neopersiana e da un vigoroso talento poetico ricevette l'ultimo sigillo dell'arte. L'opera di Firdūsī (m. 411/1020), che proseguì e portò a compimento definitivo attorno al 1010 il verseggiamento dell'epos iranico iniziato per commissione sāmānide da Daqīqī, e donò con lo Shāhnāmeh (Libro dei re) alla Persia il suo poema nazionale, può essere considerata da un duplice punto di vista. Artisticamente, nella sua unità e individualità, essa costituisce un tutto unico, non solo e non tanto per ricchezza e purezza di lingua, per maestria tecnica di esposizione, per vigore e splendore descrittivo (tutte qualità estrinseche, che il mestiere del letterato e verseggiatore, ovunque e specie in Persia, seppe e sa bene imitare), quanto per l'animo con cui fu composta, che da capo a fondo la pervade, e le dà la sua fisionomia inconfondibile: animo di attaccamento sentimentale e morale al mondo eroico, rifugiantesi in quelle visioni di forza e di grazia, di bellezza e di gloria; amore vivissimo della terra natale e del suo patrimonio leggendario e storico. Questo "nazionalismo culturale", potentemente impresso nel Libro dei re, non si ritrova più così distinto e consapevole in tutta la storia e letteratura persiana, e sarà solo ripreso, come conato intellettuale e politico, con qualche tenue manifestazione artistica, da alcune correnti dell'attuale generazione persiana. Ma se da questo più profondo punto di vista Firdūsī è isolato, o può in certo senso considerarsi punto d'arrivo dell'antica tradizione iranica, sotto un altro aspetto più estrinseco, ma per la storia letteraria non meno importante, egli può e deve sempre esser considerato come il padre della poesia neopersiana. Giacché l'immensa fortuna dello Shāhnāmeh, rimasto l'Omero della nuova Persia, non soltanto ne fece il modello per il genere della vera e propria epica storico-leggendaria, condannato del resto a una scialba produzione di epigoni, ma vi fece ritrovare i germi, gl'impulsi, i primi indizî di molti tipi in cui si fissò posteriormente la letteratura persiana: gli episodî novellistici e romantici, abbondanti sin nelle fonti stesse prefirdusiane (si pensi per tutti ai celebri episodî d'amore di Zāl e Rūdābeh, Vīzen e Manīzhah), diedero l'impulso al fortunatissimo genere dell'epoca romantica; le parti parenetiche e sentenziose, di cui Firdūsī non è avaro, né sempre felicemente, possono forse considerarsi suggestivo esempio da cui si sviluppò il genere della poesia didattica, che poi dalla mistica (del tutto estranea, questa, a Firdūsī) doveva ricevere nuovo impulso. Il genere stesso dell'encomio e della satira, pur sorto indipendentemente dall'epica, vi attinse in seguito sia movenze stilistiche, sia immagini esaltatorie e denigratorie, di cui l'epica offriva celebrati esempî (e qui va anche ricordata la celebre satira scagliata da Firdūsī deluso contro il sultano Maḥmūd, di cui, a torto, si è di recente posta in dubbio la sostanziale autenticità).

Del resto, l'altra opera di Firdūsī, il poema da lui verseggiato in vecchiaia sulla storia biblico-coranica di Yūsuf e Zuleikhā, con più o meno sincera palinodia della celebrazione degli eroi infedeli cui prima si era abbandonato, ricolloca il poeta di Ṭūs direttamente a capo della linea di sviluppo del poema romantico neopersiano. Qui Firdūsī non è più isolato, nella forma e nello spirito stesso: i numerosissimi ritrattatori e imitatori dello stesso tema varieranno con maggiore o minor gusto questo o quel particolare, sovrapporranno, come Giāmī, all'originaria narrazione novellistico-parenetica un colorito mistico, ma in fondo resteranno nel solco aperto da Firdūsī, fedeli a quella stilizzazione non solo, ma a quello stesso spirito ormai decisamente "moderno", fantastico e sermoneggiante, sensuale e pietistico, in cui Firdūsī si ricollega veramente col genio della nuova letteratura. Il monumento dello Shāhnāmeh, col suo mondo arcaico ed eroico, torreggia solitario, più vicino e congeniale a quelli di Persepoli, di Naqsh-i Rustam, di Paikulī, che non a quelli di Ghaznah, di Ṭūs, di Iṣfahān.

L'epoca classica. - Dai primi decennî del sec. XI sino a tutto il XV si estende l'epoca classica della letteratura persiana, fiorente rigogliosa sotto l'egemonia successivamente esercitata sulla Persia e regioni adiacenti dai Selgiuchidi, dai Khwārizmshāh e dai Mongoli Īlkhān e Tīmūridi). Insieme con Firdūsī, che si può considerare iniziatore e promotore dell'epoca aurea, entro questi cinque secoli si ritrovano tutti i più grandi nomi, poeti e prosatori, che può vantare la letteratura persiana. A queste maggiori figure, ordinate per comodità espositiva nello schema abituale dei generi, sono dedicati i paragrafi seguenti, che cercano di valutarle sia nel loro valore artistico individuale, sia inquadrate nel genere o tipo letterario di cui sono più spiccati rappresentanti.

L'epica storica e romantica. - Sul modello di Firdūsī, che aveva cantato la saga eroica dell'Īrān su di una trama fissata in epoca sassanide, e che ritroviamo, attraverso una perduta versione dal pahlavico in arabo del sec. VIII, nella storiografia araba del sec. IX-X, numerosissimi verseggiatori furono indotti a trattare epicamente questo o quell'episodio leggendario, dallo Shānāmeh appena abbozzato, o a continuare e sistematizzare la storia epica di questo o quell'eroe. Particolarmente preferite da questi epigoni furono le figure del ciclo del Sigistān (v. firdūsī), degli avi e discendenti di Rustam, l'eroe massimo dello Shāhnāmeh, di più schietto carattere leggendario e romanzesco: abbiamo così, ad esempio, un Ghershāsp-nāmeh o "Libro di Ghershāsp" di Asadī il giovane, un Sām-nāmeh anonimo, uno Shahriyār-nāmeh di Mukhtārī (m. 544/1149), rispettivamente celebranti le gesta di un antenato, del nonno, di un discendente di Rustam, e infiniti altri poemi ricalcanti nell'esteriorità, nel linguaggio epico, nelle aggrovigliate e fantastiche trame l'opera firdusiana, ma da essa ben lontani quanto allo spirito e al valore artistico, a un dipresso come il ciclo postomerico, o addirittura i decrepiti conati epici di un Quinto Smirneo stanno di fronte all'Iliade e all'Odissea. Alla questione culturalmente importante su quanto questa produzione di epigoni possa serbare e rispecchiare elementi genuini di tradizione epica antica sfuggiti allo Shāhnāmeh, sembra sia da rispondere, nel complesso, negativamente; salvo casi e punti speciali, il più è libera se non geniale invenzione dei singoli autori.

Accanto alle leggende eroiche nazionali, anche la "storia sacra" dell'islamismo nascente, i fatti del Profeta, dello zio di questo Ḥamzah, e soprattutto del genero ‛Alī e della figlia Fāṭimah, presto venuti a godere particolare venerazione in Persia anche assai prima che l'eresia sciita vi divenisse religione dominante, fornirono materia a poemi celebrativi, in cui al nucleo storico, per altre fonti ben noto, si appigliano e sviluppano cospicui elementi leggendarî ed edificanti: utili materiali a ricostruire la leggenda popolare e culta fiorita attorno a quei personaggi, ma del tutto estranei sia al campo dell'arte sia a quello della storia. E la storia stessa contemporanea infine, specie in epoca tarda, quando parve esaurito il mondo della leggenda, fu presa a soggetto di poema, con le stesse pompose e magniloquenti forme usate per l'epica eroica: principi e guerrieri delle varie dinastie che si succedettero nei secoli dall'XI in poi furono rivestiti della corazza e brandirono la clava di Rustam, ed ebbero le loro gesta celebrate nello stesso metro mutaqārib che Firdūsī aveva consacrato all'epica; tale è il caso, ad esempio, del Tīmūr-nāmeh di Hātifī (morto 927/1521) sulle imprese di Tamerlano - e, benché cronologicamente fuori di questo periodo -, lo Ismāīl-nāmeh di Qāsimī (morto 973/1572) sulle gesta di scià Ismā‛īl ṣafawide, e il Giang-nāmeh-i Kishm ("Libro della guerra di Kishm" un'isola del Golfo Persico) di Qadrī, sulla vittoriosa cacciata dei Portoghesi da quell'isola all'epoca dello scià ‛Abbās (sec. XVIII). Nessun nome, in tutta questa copiosa e fredda produzione letteraria, si solleva dalla mediocrità: si resta ovunque nella mitografia, agiografia o cronaca rimata.

Ben altra sorte rispetto a questa che possiamo chiamare epica storica (giacché anche il mito, come nello Shāhnāmeh stesso, è sentito quale storia), ha avuto invece l'epica romantica, inaugurata nel Yūsuf e Zuleikhā firdusiano, in cui l'animo persiano ha trovato un tipo letterario singolarmente congeniale. Non più l'ambiente ferreo e austero della saga eroica, con la sua a lungo andare monotona sequela di battaglie e conviti, uccisioni di mostri e spedizioni guerresche, pervaso da uno spirito ora francamente pagano, ora sacerdotale mazdaico, ormai sempre più lontano ed estraneo alla nuova Persia: ma il mondo sentimentale dell'amore e del languore amoroso finemente analizzato, l'avventura romanzesca e cavalleresca di caccia, il variegato arazzo della favola e della novella, in cui s'intessono i diversi fili della leggenda popolare, della tradizione leggendaria coranica e post-coranica sui profeti e gli eroi del mondo antico, e trova ampio sfogo anche la vena didattica e sentenziosa. Ecco le nuove vie in cui l'epos si addentrò con straordinaria fortuna, né più se ne staccò, si può dire, sino a ieri. Vedemmo già gl'inizî firdusiani, accanto ai quali è da collocare l'opera dell'altro felice iniziatore del genere, Fakhr ad-dīn As‛ad Giurgiānī; che attorno al 440/1048 verseggiò nel poema di Vīs e Rāmīn una leggenda popolare di alta antichità, anch'essa, pare, già trattata in un originale pahlavico: l'amore fatale e irresistibile di Rāmīn, fratello del re Mūbad, per la bella cognata Vīs, una specie d'iranica Isotta. Ma chi portò il genere al più alto fastigio, con vero talento narrativo e psicologico e ricchezza e finezza di lingua meritamente ammirate, fu il celebre Niẓāmī (v.; nato a Qumm nel 535/1142, vissuto a Gangiah nell'Azerbaigian, morto forse nel 599/1203), il classico della poesia narrativa persiana. Nella sua Khamsah o "quintetto" famoso di poemi, a prescindere dal primo (Makhzan ul-asrār "Il tesoro dei misteri") di tipo più mistico-didattico che narrativo, egli trattò le leggende e i personaggi divenuti i preferiti delle seguenti generazioni di lettori e autori non solo in Persia, ma anche in Turchia e nell'India musulmana che subirono largamente l'influsso persiano: i mitici amori del re sassanide Cosroe Parwīz con la principessa armena Shīrīn, quelli della coppia beduina di Maǵnūn e Leilà, quelli dell'altro cavalleresco re sassanide Bahrām Gūr, e infine le avventure di Alessandro, il conquistatore fatale la cui immagine, trasfigurata dalla leggenda, è rimasta indelebilmente impressa nella fantasia dei popoli orientali da lui soggiogati. Nella trattazione di queste leggende entro la forma consueta del mathnawī, poema di doppî versi i cui emistichî rimano fra loro, Nizāmī portò le qualità del suo genio, riassumenti in grado eminente pregi e difetti dello spirito persiano: fantasia esuberante e plastica, sentimentalismo acuto e, a nostro sentire, talora sdolcinato, sottigliezza verbosa d'introspezione psicologica, sentimento un po' unilatere e convenzionale, ma straordinariamente pittoresco e idillico, della natura. Accolti con estremo favore, imitati negli argomenti e nella forma da legioni di verseggiatori e anche da qualche vero poeta, fatti oggetto preferito d'illustrazioni in cui la miniatura persiana, nei secoli del maggior splendore, spiegò il massimo delle sue capacità artistiche, i poemi di Niẓāmī rappresentano uno dei più autentici e caratteristici prodotti della mentalità e arte narrativa orientale musulmana, e furono i livres de chevet tanto alla corte dei Ṣafawidi in Persia, quanto in quella degli Osmanli sul Bosforo, e in quelle dei principi musulmani d'India. Appunto nell'India, in cui l'Islām, dapprima con Maḥmūd di Ghaznah e i Ghūridi, più tardi (sec. XVI) col tīmūride Bābur, penetrò sotto forma essenzialmente persiana nella lingua e nella cultura, fiorì, un secolo dopo Niẓāmī, il suo più celebrato e importante imitatore, il fecondo poeta Amīr Khusraw (v.) di Delhi (m. 725/1325), che assieme con una Khamsah modellata nei soggetti e nelle forme su quella niẓāmiana, assieme con ben cinque divani lirici, tentò anche l'epos romantico contemporaneo, cantando nel poemetto Duwalrānī Khiḍrkhān una tragica vera storia di amore principesco, e nel Qirān us-sadain ("La congiunzione dei due astri propizî") celebrò con aulico stile e forte colorito romanzesco un evento di storia politica anch'esso contemporaneo.

Dopo aver ricordato come nell'India stessa la voga e il gusto dell'epos romantico desse più tardi forma persiana anche a leggende locali, già celebrate in Indostano (p. es. la storia d'amore dei principi Kāmrūp e Kāmlatā), possiamo omettere l'enumerazione della restante produzione del genere, in Persia e in India, calcante l'esempio niẓāmiano, non avendo nessun poema raggiunta la celebrità del modello, macchinalmente seguito nella stilizzazione novellistica e sentenziosa di antichi filoni leggendarî, o di trame ex novo inventate. Un continuatore di Niẓāmī uscente dalla volgare schiera, e con caratteristiche proprie, se anche di minor vigoria artistica, sarà Giāmī, la cui molteplice attività tocca diversi campi letterarî, ma che per necessità pratica e metodica sarà più innanzi trattato in un unico luogo.

Il panegirico e la satira. - Ancora a modelli e influssi arabi, o più esattamente della letteratura cittadina in arabo, risale la forma poetica del panegirico, sorgente del resto dalle comuni condizioni culturali e sociali dell'Oriente musulmano. Il panegirico orientale verseggiato (arabo madīḥ), forse la più spuria delle forme poetiche, dato il suo scopo assolutamente pratico e l'aspetto professionale che prestissimo assunse, segue più o meno rigidamente degli schemi fissi, e da un preludio iniziale di carattere erotico o descrittivo, viene con opportuni trapassi a culminare nell'elogio di un determinato personaggio, mantenuto e variato con tutte le arti della retorica sino alla fine; per tale carattere artificioso e composito, esso può esser paragonato al classico epinicio greco, di cui però gli manca non solo il rifugio nel mondo mitico ed eroico, ma, salvo qualche rarissimo caso, il profondo sostrato della coscienza morale e nazionale. Tanto in basso nel rispetto dell'arte ci appare ed è la frigida ed iperbolica retorica, la gonfiezza linguistica, l'oscurità e il barocchismo secentesco che sono le caratteristiche del madīḥ arabo e persiano, altrettanto il genere fu invece apprezzato, entusiasticamente coltivato e studiato in Oriente, in Persia forse più che in qualsiasi altra terra musulmana. I nomi dei poeti di corte ghaznevidi già ricordati, e quelli ancor più famosi dell'epoca dei Selgiuchidi (sec. XII d. C.) o dei rivali Khwārizmshāh (sec. XII-XIII) pareggiano nel gusto e nell'estimazione orientale quelli dei pochi veri e grandi poeti. Un Rashīd ad-dīn Waṭwāṭ (morto 578/1182), panegirista del sultano khwārizmio Atsiz, e autore anche di un trattato di poetica e retorica, un Mu‛izzī (morto 542/1147-1148), poeta laureato del sultano selgiuchide Sangiar e della sua corte, e, sopra tutti il celeberrimo Anwari (morto circa 585-87/1189-91), sono stelle di prima grandezza nella pleiade dei poeti di Persia. Né solo le maggiori corti si disputavano in gara di doni e favori, con ingenua vanità, questa encomiastica venale, ma ogni piccola dinastia aspirava ad avere il suo celebratore, come i Shīrwānshāh che lo ebbero in Khāqānī (morto 595/1199-1200), e i principi e atābek oscuri dell'Azerbaigian, che una schiera di poeti (Bailaqānī, morto 594/1198; Faryābī; Akhshīkatī, ecc.) ricolmò di lodi forse ineno pagate, ma non meno sonanti di quelle toccate ai grandi selgiuchidi Malikshāh e Sangiar. Non occorre soffermarsi a lungo su questo tipo di pseudopoesia, prosperata sino ai nostri giorni per il perdurare delle condizioni politico-sociali da cui trae alimento, ma degenerata spesso, dalla oscurità che ne è frequente prerogativa, nei puri giuochi di pazienza dell'indovinello, del logogrifo, della poesia bilingue e a chiave (famoso in questo genere Dhū 'l-Faqār di Shirwān, morto 689/1290). Vale piuttosto la pena di notare come dalla stessa forma mentis frivola e vuota che elaborava il madīḥ, si generasse per contrasto la satira, che non ha più nulla dell'irruenza sanguinosa dell'antico higiā' arabo, ed è piuttosto poesia giocosa, facilmente scivolante nella parodia e nell'epos burlesco. Si possono ricordare tra i più noti satirici Sūzanī di Transoxiana (morto 569/1173), e i più tardi ‛Ubaid Zakānī (morto 772/1370-71), autore tra l'altro di poemetti burleschi (Mūsh u Gurbah "Topo e gatto", Sangtarash "Il tagliapietre") e Busḥāq (morto 827/1424) che verseggiò "tenzoni" parodiche di argomento gastronomico.

La poesia mistica e didattica. - Assai più in alto di tutta questa letteratura cortigiana e buffona ci porta, nell'arte e nella vita morale e religiosa, il campo della mistica, in cui la poesia persiana impresse orme originali e profonde. Alla voce ṣūfismo è esposta la discussa questione delle origini del movimento mistico nell'Islamismo, degl'influssi che lo determinarono e indirizzarono, dei principali aspetti e sviluppi del suo sistema teoretico: qui, rimandando a più oltre qualche cenno sulla letteratura teoretica e storicobiografica in persiano sul ṣūfismo, si delinea solo la storia delle forme poetiche che esso rivestì in Persia, e che si scindono in pura lirica mistica da un lato, rappresentata dalla quartina (rubāī), dal ghazal, dalla qiṭah e dalla stessa qaṣīdah, e nel poema mistico-didattico dall'altro, nella solita forma del mathnawī. Il primo e più insigne rappresentante del rubā‛ī mistico, colui che, nonostante qualche precedente di epoca sāmānide, può dirsi il creatore o perfezionatore di questo tipo metrico così caratteristico della poesia persiana, è Abū Sa‛īd ibn Abī l-Khair (v.; m. 440/1049), la cui collezione di quartine esprime per la prima volta, sotto il velo delle immagini erotiche e bacchiche, l'anelito dell'animo assetato dell'unione con la divinità. Assai arduo, in questa come in molta parte di tutta la poesia mistica araba e persiana, è il tentarne la classificazione dottrinale, entro o fuori l'ortodossia, sotto le rigide categorie di ortodossia o eresia panteistica. Per panteistica passa in realtà gran parte della poesia mistica persiana, da Abū Sa‛īd ibn Abī l-Khair a Gialāl ad-dīn Rūmī, e può essere sembrata tale anche a musulmani stessi che ne han giudicato; ma non va mai dimenticato che non si tratta quasi mai, in questo campo, di sistematica esposizione dottrinale, bensì di effusioni poetiche, in cui l'entusiasmo intimo e la coscienza artistica conducono spesso ad espressioni e immagini sospette, senza che sia con ciò formulato alcun preciso concetto teologico eterodosso. Comunque sia, la finezza e profondità del sentimento, lo splendore delle immagini, e l'alito stesso di vago e grandioso panteismo che a tratti passa indubbiamente in questa poesia mistica persiana, ne spiegano il fascino che in Oriente e nell'Occidente stesso ha sempre esercitato più che non la stessa poesia mistica araba, spesso oscura e astrusa, e sacrificante alle sottigliezze concettuali e verbali l'intimo sentimento. Quartine mistiche, sull'esempio di Abū Sa‛īd, composero moltissimi poeti, come il contemporaneo Bābā Ṭāhir di Hamadān, curioso tipo di derviscio poeta, interessante anche per il dialetto (pare, del Luristān) di cui si servì nei suoi freschi e vigorosi rubā‛ī mistici, pessimistici, autobiografici; rubā‛ī mistici, o almeno suscettibili anche di una interpretazione mistica, si ritrovano anche nel corpus di quartine attrihuite a ‛Omar Khayyam, che perCiò alcuni hanno aggregato alla schiera dei poeti ṣūfici; e liriche mistiche di vario tipo appartengono si può dire a tutti i poeti che ora ricorderemo, e che sono più noti quali autori di veri e proprî poemi mistico-didattici, da Sanā'ī a Giāmī.

Di questo tipo del mathnawī mistico, assurto ad alta importanza e quasi a forma canonica della poesia ṣūfica persiana, passa per iniziatore il poeta ghaznevide Sanā'ī (m. 535/1141), ma la preistoria del genere è da ricercare assai più indietro, e non solo nell'immediato maestro di Sanā'ī, il celebre shaikh Anṣārī (morto 481/1088), fecondo autore di opere in arabo e in persiano, in prosa sciolta e rimata (Munāgiāt "Colloqui con Dio", [pseudo-] Manāzil as-sā'irīn "Stazioni dei camminanti" [per la via mistica], Ṭabaqāt aṣ-ṣūfiyyah "Classi dei Ṣūfī", rielaborazione quest'ultima di una omonima opera biografica in arabo di as-Sulamī). A Sanā'ī, con i suoi poemi come la Ḥadīqat ul-ḥaqīqah ("Il giardino della Verità") e Sair al-‛ibād ilà 'l-maād ("Viaggio delle creature verso l'altra vita", vera narrazione allegorica del passaggio dello spirito umano dall'anima vegetale alla razionale e di lì sino alla suprema visione di Dio), risale il merito non solo di aver creato, o dato il decisivo impulso al genere del poema mistico, ma di avere in esso operata la fusione tra l'elemento più propriamente religioso e quello didattico. Quest'ultimo, in forma ancora indipendente, possiamo anche vedere in alcuni poemi di Nāṣir-i Khusraw (v.; m. 481/1088), bizzarra e complessa figura di Faust orientale, dall'avventurosa vita materiale e spirituale, viaggiatore, gaudente, filosofo, mistico, letterato e infine adepto e propagandista delle dottrine esoteriche degl'Ismā‛īliti, da lui assorbite in un suo soggiorno in Egitto; anteriori all'ultima fase religioso-politica della sua vita sono il suo Saādet-nāmeh ("Libro della felicità") e il Rūshanā'īnāmeh ("Libro della illuminazione"), veri poemetti etico-didatticī con confuso conglomerato di questioni etiche, politiche e cosmografiche. Ma presto, come accennavamo, questa libera vena didattica si fonde con la mistica, in un connubio in cui ora questa ora quella tendenza predomina, piegando l'altra a suo strumento e ausiliare. La più alta vetta della mistica persiana, e con essa della poesia attraverso cui quella si estrinseca, si raggiunge nei secoli XII e XIII con le due grandi figure di ṣūfi Farīd ad-dīn ‛Aṭṭār e Gialāl ad-dīn Rūmī (v.). Il primo fu autore assai fecondo, nella sua lunghissima vita (nato 513/1119 presso Nīsābūr, morto il 627/1230?), di poemi allegorici e sentenziosi (i più celebri sono il Manṭiq uṭ-ṭair "Linguaggio degli uccelli", narrante anch'esso un viaggio di uccelli, guidati dall'upupa, verso il mitico Sīmurgh, simbolo di Dio, e il Pandnāmeh "Libro dei consigli"), in cui l'elemento narrativo, pur subordinato al disegno generale con funzione allegorica e didascalica, ha preso grande sviluppo, e costituisce una miniera di racconti, aneddoti, novelle in versi spesso di deliziosa freschezza e ingenuo candore, inquadrati in una trama immaginosa e di simbolismo ardito se non sempre originale e profondo. Con Gialāl ad-dīn Rūmī (m. 672/1273), poeta e fondatore di una confraternita mistica, lo slancio del sentimento religioso, di colorito più decisamente panteistico, rompe ogni preordinato schema razionale: il suo celeberrimo Mathnawī, che assieme con un divano di squisite liriche mistiche è stato per secoli il vademecum del ṣūfismo persiano-turco, non ha più il bene architettato disegno dei poemi di ‛Aṭṭār, ma è una tumultuosa sequela di racconti, talora di assai spinto realismo, riflessioni e interpretazioni di versetti coranici e detti di profeti ed effusioni spirituali, entro cui sono disordinatamente raccolti e adombrati, più che regolarmente esposti, i principî di un misticismo ardente che tutto, natura e spirito, annega nella divinità; mentre il pericoloso indifferenziamento del bene e del male in questo monismo, che non mancò di destare vive preoccupazioni negli ambienti più ortodossi, è riscattato da un nobilissimo senso etico e di carità umana.

Il mondo di Gialāl ad-dīn Rūmī, presentato col magistero d'un'arte eccezionale, in lingua semplice e pura, in versi di armonia universalmente ammirata, era pur sempre il trionfo della mistica più avanzata, che nella formulazione dottrinale, e più, ad opera di seguaci e discepoli, nella pratica e vita sociale, prendeva un inquietante atteggiamento di antinomismo e indifferentismo morale e religioso. Quella conciliazione fra l'intimo impulso religioso e la Legge, tra l'effusione mistica e la norma etica e razionale, che nel sec. XI fu filosoficamente compiuta, con le sue opere scritte per la massima parte in arabo, dal grande dottore al-Ghazzālī (v.), trovò, nel campo artistico e in lingua persiana, il più caratteristico rappresentante in Sa‛dī (v.; m. 690/1291), fine artista se pure mediocre pensatore e moralista, ma che forse appunto per così combinate qualità è divenuto uno degli autori preferiti in Oriente, e il primo scrittore persiano conosciuto per traduzioni all'Occidente cristiano. Nella sua larga produzione (poesie di vario tipo in arabo e in persiano, encomiastiche, moraleggianti, mistiche, ascetiche, persino giocose e oscene, trattatelli edificatorî e omiletici, e soprattutto le due famose raccolte didattico-narrative, il Bustān "Giardino" in versi e il Gulistān "Roseto" in prosa e versi frammisti), le altezze e gli slanci mistici di ‛Aṭṭār e Rūmī sono abbandonati, e si riprende piede ben saldo sulla terra. Il ṣūfismo permane sempre nello sfondo, in un equilibrato valorizzamento dell'ascesi, in un amor divino ricondotto, fuor di ogni esaltazione, nei confini della più misurata ortodossia; ma l'accento principale del poeta batte sull'etica umana, anch'essa del resto presentata sotto la vecchia formula della moderazione e del giusto mezzo, e rimanente sempre a un livello abbastanza piatto e banale. Per questo, Sa‛dī non avrebbe nulla di originale e di degno di considerazione speciale, se non si dimostrasse artista magistrale, padrone della forma letteraria e ineguagliato cesellatore di apologhi, favole, aneddoti, raccontini, dove quella sua umana, troppo umana morale è presentata con una grazia leggiera e una scioltezza mirabile, soffusa d'un tono di esperienza personale, dettatagli dalla lunga vita avventurosa, che anima anche i più abusati luoghi comuni della sapienza popolare. Se Aṭṭār e Rūmī sono stati i maestri e iniziatori di ristrette cerchie, Sa‛dī si può dire abbia con la sua aurea mediocrità effigiato e rappresentato l'anima della Persia, pia, discorsiva, arguta e moraleggiante, che in lui si è riconosciuta.

Oltre che nell'opera di questi maggiori, la poesia mistica e didattica fluì in larghissima vena, in questi e nei seguenti secoli, nella letteratura persiana: poemi dottrinali, allegorici, miscellanei con ampie parti dedicate a questioni morali e mistiche abbondano, e alcuni godono tuttora di popolarità in Oriente (ricordiamo fra i tanti il dottrinale Gulshan-i rāz "Roseto del mistero", di Shabistarī m. 720/1320 e gli allegorici Gūy we Ciōgān "La palla e la mazza" di ‛Ārifī, m. 853/1449, ove le immagini sono spesso attinte dal giuoco persiano del polo, e Shāh we Gadā "Il re e il mendicante" di Hilālī m. 939/1532-1533, adombrante i rapporti fra la divinità e l'anima del mistico). Ma si tratta in genere d'imitazioni e variazioni su di un patrimonio d'idee e immagini che i grandi poeti hanno ormai fissato.

Altri lirici dell'età classica. - Sotto questa necessariamente vaga denominazione raccogliamo quelle due o tre altre maggiori figure della poesia persiana che sfuggono, anche in una partizione empirica e tradizionale, alle percorse categorie dell'epos, dell'encomio, e della lirica mistico-didattica. Quest'ultima, invero, è quella che potrebbe più reclamarle, data la straordinaria sua fortuna, per cui ogni lirica d'apparenza erotica e bacchica posteriore al sec. XI può essere interpretata allegoricamente, e volta quindi a sensi di amor divino e di mistica ebbrezza. Ma una distinzione fra poesia di inequivoca impronta e significato mistico, e poesia profana più o meno forzatamente allegorizzabile s'impone sempre, come anche un luogo a sé è da assegnare a una complessa personalità poetica, parte della cui produzione sia nettamente mistica e parte profana. Il primo caso è quello di Ḥāfiẓ, il secondo di Giāmī, cui va aggiunto terzo, o meglio, non fosse altro cronologicamente, primo, il grande lirico ‛Omar Khayyām (v.).

Il problema della vera fisionomia di questo famoso poeta (m. 517/1123), nonché matematico e astronomo, è legato alla complicata questione del corpus omariano, centinaia di quartine, varianti di numero e testo da uno a un altro manoscritto, e alcune attribuite in altre fonti anche ad altri poeti, che corrono sotto il nome di ‛Omar, e avvicendano con sconcertante poliedricità le immagini dello scettico, del pessimista, del gaudente, del mistico profondamente devoto. I recenti studî di A. Christensen, tentando di isolare con mezzi filologici un fondo di più probabile autenticità nel materiale della tradizione, mirano ad eliminare del tutto (contro la tradizione indigena) il lato mistico e rinforzare con unità e coerenza artistica quello scettico, pessimista e gaudente. Secondo questa scelta, da poco più che un centinaio di plastiche quartine, ove la brevità epigrammatica e lo splendore delle immagini dànno più risalto all'arditezza del pensiero, emerge la pensosa figura del poeta di Nīsābūr, dal sorriso amaro e pietoso sulla breve commedia della vita umana, innamorato della dolce natura, delle labili rose, del vino gagliardo e apportatore di oblio, avverso e beffardo dinnanzi a ogni religione rivelata, sollevantesi a volte in empio colloquio con Dio stesso, per contestargli la sua provvidenza e bontà nell'economia della creazione. Ma bisogna qui aggiungere che gli studî del Christensen, prestando il fianco a non lievi critiche, non possono essere considerati definitivi; e che le ancor più recenti ricerche tendono da un lato (Rempis) a riaffermare la sostanziale ortodossia, sotto il velo delle immagini mistiche non sempre esattamente intese, di ‛Omar, mentre secondo altri (Schaeder) l'incertezza della tradizione e l'innegabile impronta edonistico-pessimista del corpus omariano obbligherebbero a dissociare tutta questa poesia d'inafferrabile paternità dalla storica figura dello scienziato di Nīsābūr, il cui nome andrebbe addirittura "cancellato dalla storia della poesia persiana"!

Di più sicura autenticità testuale, e di non così contraddittoria interpretazione, fra mistica ed epicureismo gaudente, è invece la poesia del più famoso lirico di Persia, Ḥāfiẓ (v.; m. 791/1389). In lui confluiscono e trovano suggello definitivo d'arte tutti i motivi che, dalla primissima lirica sāmānide alle forme estrinseche di buona parte della lirica mistica, hanno formato il patrimonio abituale della lira neopersiana. Non molta profondità e novità di pensiero, né scetticismo blasfemo, né aspra pungente satira come in Khayyām; ma, al pari di lui, celebrazione entusiastica della florida primavera e delle gioie del vino, languore amoroso per lo snello coppiere, tenerezza e intimità dell'amicizia, beffa della severità dei falsi asceti e bigotti; il tutto espresso non più nella forma epigrammatica delle quartine di ‛Omar Khayyām, ma nel riposato e misurato equilibrio del ghazal (in media una diecina di distici) e in una lingua che è arrivata al massimo di finezza e dolcezza musicale. Un mondo in fondo monotono, ma che la maestria psicologica e artistica del poeta sa accortamente variare, evitando, o almeno allontanando al massimo possibile, il senso di sazietà nel lettore. È tuttavia da notare che gran parte della lirica di Ḥāfiẓ ha anche un senso allegorico mistico, che ad un europeo inesperto sembra inconciliabile con il testo, ma che, appunto per il contrasto, forma la delizia dei lettori persiani. Assieme a Sa‛dī, Ḥāfiẓ è rimasto l'autore più popolare di Persia, e, conosciuto e forse sopravvalutato dai romantici specie tedeschi, ha avuto quasi una reviviscenza nella letteratura europea orientaleggiante del sec. XIX.

Ultimo geniale rappresentante dell'epoca classica è infine il fecondo e multiforme Giāmī (v.; m. 898/1492), che si può dire abbia lasciato opere in ogni campo della poesia, dall'epos romantico alla mistica e didattica, e alla lirica profana. I suoi sette poemi (noti col titolo complessivo di Haft Awrang "I sette troni") ampliando il numero e la varietà d'ispirazione del "quintetto" di Niẓāmī, riprendono alcuni dei temi preferiti della poesia persiana, Yūsuf e Zuleikhā, Maǵnūn e Leilà, e Alessandro Magno, o continuano il tipo del poema mistico-didattico, sia con poemi di argomento miscellaneo come il Makhzan ul-asrār di Niẓāmī stesso e la Ḥadīqat ul-ḥaqīqah di Sanā'ī, sia sviluppando l'elemento allegorico e narrativo del mathnawī mistico in veri romanzi allegorici come quello su Salāmān e Absāl (soggetto già trattato in un'allegoria dal filosofo Avicenna, autore anche, in persiano, di alcune quartine profondamente scettiche e quindi precursore di ‛Omar Khayyām). In tutti questi poemi di Giāmī, e nei tre divani delle sue liriche, si spiega ricca e colorita la fantasia, la forma poetica è fluida ed elegante, ma l'assenza di un profondo motivo ispiratore è ormai indissimulabile e l'ornato involucro mal ricopre la vuotezza e meccanicità della trattazione. La grande epoca della letteratura persiana è chiusa, e la figura di Giāmī, noto anche per il Bahāristān "Verziere", imitazione del Gulistān di Sa‛dī, per biografie di ṣūfī, trattati mistici ed epistole varie, ne illumina il tramonto con un'opera che, accanto a tratti di vero poeta, sa già dell'epigono.

La prosa. - Dai suoi modesti inizî sotto i Sāmānidi (e sia qui ricordata, tra i suoi primi documenti la più antica delle introduzioni prosastiche al poema di Firdūsī, ad esso probabilmente adattata togliendola dalla sua stessa fonte prosastica) anche la prosa persiana si sviluppa rapidamente nei varî generi dell'adab o letteratura narrativa e sentenziosa, della storia, della prosa scientifica. Rapidissimo anche qui, non meno che nella poesia, il dilagare del lessico arabo, mentre alquanto più lento e perseguibile è il progressivo complicarsi dello stile, dapprima semplice, piano, paratattico, e poi, con una perversione del gusto fatale allo spirito della lingua, sempre più artificioso, gonfio e barocco; sulla fine dell'età classica, cioè nel periodo tīmūride, la prosa persiana ha definitivamente acquistato quella forma intollerabilmente fiorita che, in Persia e in India, le rimarrà caratteristica sino ai tempi moderni.

In una rapida rassegna dei varî generi della produzione prosastica, vediamo anzitutto, quasi parallelo in prosa dell'epica verseggiata, una quantità di romanzi leggendarî e fiabeschi, che attingono la materia all'epos stesso classico (come quelli di un Abū Ṭāhir Muḥammad di Ṭarsūs, del resto quasi ignoto) o alle leggende arabe beduine (ciclo di Ḥātim at-Ṭā'ī), o alle storie giudaico-coraniche di profeti e campioni della fede. Di assai maggior valore e importanza per la storia comparata della letteratura, sono le redazioni neopersiane di famose opere novellistico-didattiche, quali il Bakhtiyār-nāmeh e Kalīlah e Dimnah. La prima è veramente un'imitazione musulmana, nella materia e nella cornice, della famosa storia d'origine indiana di Sindbād o dei Sette Visir, che ha avuto tanta fortuna in Oriente e in Occidente (cfr. il Syntipas bizantino) e di cui esistono anche vere e proprie versioni neopersiane: il Bakhtiyārnāmeh (prima redazione nota attorno al 600/1204) porta a 10 il numero dei visir cattivi consiglieri e delle relative novelle narrate in sua difesa dal principe accusato, alla corte del re del Kirmān. Quanto alla celebre raccolta di Kalīlah e Dimnah (v.), essa ritorna alla Persia, donde con la traduzione dal sanscrito in pahlavico sotto i Sassanidi era stata introdotta in Asia Anteriore, con una retroversione, dall'arabo di Ibn al-Muqaffa‛, a cura di Abū'l-Ma‛ālī Naṣr Allāh (attorno al 538/1144) una cui ulteriore elaborazione, in pieno stile barocco, è costituita dalla famigerata redazione fattane dal poligrafo Husain Wā‛iẓ (morto 910/1504-1505), sotto il titolo di Anwār-i Suhailī ("Luci di Canopo"). Da queste versioni neopersiane, cui va aggiunta ancora un'altra, intitolata ‛Iyār-i dānish "Pietra di paragone della scienza", compiuta per ordine dell'imperatore mongolo Akbar dal suo dotto ministro Abū 'l-Faḍl ibn Mubārak ‛Allāmī (1588) sfrondando le ampollosità retoriche di Husain Wāiẓ, derivano le varie versioni indostane e malesi che segnano un ritorno della fortunatissima materia alla sua patria d'origine. Né si possono tacere almeno due altre raccolte di materia narrativo-didattica, disposta entro la cornice d'una trama generale, e cioè il Ṭūtī-nāmeh ("Libro del pappagallo"), redatto, sulle orme di una prima perduta elaborazione di fonti indiane, da Nakhshabī attorno al 730/1330; ed il Marzbān-nāmeh, di cui possediamo due redazioni neopersiane (la piu nota, e stampata, dovuta a Sa‛d Warāwīnī attorno al 607/1210), e il cui originale sarebbe stato composto in dialetto del Ṭabaristān da Marzbān ibn Rustam (seconda metà del sec. IV eg., XI d. C.). Anche all'infuori di dirette rielaborazioni di modelli stranieri, e artificiosa disposizione a cornice, la materia novellistica e aneddotica, animalesca e storica, fu gratissima alla letteratura persiana: tra le numerosissime opere del genere citiamo, quasi al confine tra l'aneddotica e la storia, e preziosi per le notizie serbateci su antichi poeti, come p. es. su Firdūsī, i Ciahār Maqālah "Quattro discorsi" di Niẓāmī ‛Arūdī Samarqandī (composti attorno al 552-556/1157-1161), trattanti, sotto forma aneddotica, delle quattro classi dei segretarî, dei poeti, degli astrologi e dei medici.

Passando da queste opere di letteratura amena, col fondo didattico appena accennato o ristretto a puro pretesto per la narrazione, a quelle di vera e propria parenesi pratica, etica e politica, tocchiamo uno dei lati più caratteristici dello spirito persiano, di cui abbiamo indiretti ma indubbî indizî nella letteratura pahlavica, e larghissime manifestazioni in quella neopersiana. Sono massime staccate ed allineate di sapienza etica e di governo, poste in bocca, come risposta a domande di re Cosroe Anūsharwān, al leggendario ministro e sapiente sassanide Buzurǵmihr, nell'anonimo trattatello Ẓafar-nāmeh e in varie altre redazioni alfinw risalenti a un asserito originale pahlavico, che sarebbe stato tradotto sotto i Sāmānidi da Avicenna; è l'ugualmente anonimo e antico Ādāb as-salṭanah wa 'l-wazārah "Norme di condotta per l'ufficio di sovrano e di visir", forse anch'esso di epoca sāmānide; sono, più celebri e di più certa paternità e maggior levatura di pensiero e di stile, i due noti Fürstenspiegel del sec. XI d. C., il Qābūs-nāmeh e il Siyāsetnāmeh. Il primo (i"Libro di Qābūs"), composto nel 475/1082 da Kaikāwus ibn Iskandar ibn Qābūs ad uso del figlio, di carattere prevalentemente pedagogico ed educativo, con norme sul governo della famiglia, l'amore, la dieta, le compagnie, le scienze, i giuochi, il commercio, ecc.; il secondo, "Libro della politica", noto anche col titolo arabo di Siyar al-mulūk "Vite dei re" dovuto al celebre ministro selgiuchide Niẓām al-mulk (m. 485/1092), più spiccatamente politico, sulle viriù e i difetti che il sovrano deve coltivare e fuggire, l'organizzazione e amministrazione dello stato, i cortigiani, i ministri, le finanze, la sicurezza interna, ecc.; l'una e l'altra opera largamente illustrate da esempî storici e aneddotici, che, più letterarî nel Qabūs-nāmeh, sono invece nel Siyāset-nāmeh prezioso aiuto a ricostruire la vita pubblica e privata, la storia delle istituzioni e del costume sotto Sāmānidi, Ghaznevidi e Selgiuchidi, e in qualche caso (come nella lunga storia del movimento comunistico di Mazdak) conservano tracce di antica tradizione, o s'innestano su vivace polemica politica contemporanea (anti-ismā‛īlita). L'una e l'altra opera poi, a parte il valore storico, sono assai pregevoli per la lingua e lo stile semplici e limpidi. Di ancor maggiore diffusione e popolarità che non queste opere molto apprezzate dalla indagine storico-letteraria moderna, sono tre manuali di etica, noti tutti e tre col titolo di Akhlāq (= ἤϑη) e un aggettivo relativo, riferito nei primi due al nome del personaggio cui sono dedicati, e cioè gli Akhlāq- i Nāṣirī, dedicati a un governatore del Kūhistān, Nāṣir ad-dīn ‛Abd ar-Raḥīm ibn Abī Manṣūr (m. 655/1257) dal dotto astronomo e letterato Naṣīr ad-dīn aṭ-Ṭūsī, e gli Akhlāq-i Muhsinī, dedicati a un Abū l-Muḥsin, figlio del sultano di Harāh (Herāt), dal già ricordato elaboratore di Kalīlah e Dimnah, Ḥusain Wā‛iẓ; nel terzo caso (Akhlāq-i Gialālī), l'aggettivo si riferisce all'autore stesso, Gialāl ad-dīn Muḥammad ibn As‛ad ad-Dawwānī (m. 908/1502-1503). In queste e nelle numerose opere affini, contemporanee e seriori, non è da cercare alcun approfondimento filosofico, anche frammentario, dei problemi etici, nessun senso vivace e mosso della vita morale, ma solo delle variazioni di luoghi comuni, sulla base della legge religiosa musulmana e della sapienza popolare (resti percettibili di etica ed economia classica sono ben rari), quali già vedemmo nel più celebre rappresentante in poesia del genere, Sa‛dī. Il tutto spesso in forma epigrammatica e arguta, con ricercate simmetrie e antitesi, enumerazioni e parallellsmi, e il corredo, di solito spiritoso, calzante, efficace dell'esemplificazione aneddotica, in grazia della quale si dimentica la sostanziale superficialità della teoria.

La storiografia persiana, abbondantissima e seguente per lo più nel metodo annalistico e nell'indirizzo cronachistico quella in arabo, presenta opere di assai diverso valore, tra loro, e nelle parti stesse di un unico scritto. Decine e decine di "storie universali", dalla creazione del mondo, i profeti e i mitici re dell'lrān sino ai Sassanidi, a Maometto, al califfato arabo-musulmano, e giù giù sino all'età dell'autore, dànno spesso nelle prime parti materiale più o meno letteralmente plagiato o riassunto da opere anteriori, mentre per i tempi più vicini apportano talvolta pregevoli contributi a una valutazione storica degli eventi. Tale è il caso del Zain al-akhbār "Ornamento delle notizie" di Gardīzī (composto attorno al 443/1052), importante per la storia dei Sāmānidi e Ghaznevidi, e che fornisce anche interessanti notizie etnologiche e cronologiche sui varî popoli. Altre opere speciali trattano di singole dinastie, come il Ta'rīkh-i Yamīnī, "Storia di Yamīn [ad-dawlah]" (cioè il sultano Maḥmūd), di Baihaqī (m. 470/1078) e l'anonima versione persiana di un originale arabo di al-‛Utbī, che c'informano largamente sull'epoca ghaznevide e sulla grande figura di Maḥmūd in particolare; storia e topografia regionale e locale sono ugualmente coltivate, come nella storia del Ṭabaristān di Ibn Isfandiyār (613/ 1216) e in quella di Buchara (originariamente redatta in arabo) di Narshakhī (sec. X, tradotta in persiano nel XII). Un posto a sé, nella letteratura storico-geografica dei primi secoli, merita il Sefer-nāmeh "Libro di viaggio" del ricordato poligrafo e poeta Nāṣir-i Khusraw, preziosa, colorita relazione del suo pellegrinaggio alla Mecca e della lunga sosta da lui fatta in Egitto, e fonte diretta di prim'ordine per le condizioni sociali e culturali di questo paese sotto i Fāṭimidi.

Singolarmente fortunato e fecondo per la storiografia persiana fu il periodo mongolo (sec. XIII-XIV d. C.), quando, successa alla prima ondata distruggitrice l'organizzazione del nuovo stato, e attratti i conquistatori stessi dalla forza della cultura persiana, non solo l'ozioso panegirico e la letteratura amena, ma la storia e le scienze esatte ebbero provvido impulso. La storia di Genghīz Khān (Ta'rīkh-i Giahāngushāy "Storia del conquistatore del mondo") di ‛Aṭā'Malik Giuwainī (m. 681/1283), continuata poi, in stile pomposo e ricercato, dal Ta'rīkh-i Waṣṣāf di Shihāb ad-din ‛Abd Allāh Shīrāzī (m. 718/1318), e soprattutto la grande enciclopedia storica Giāmiat-tawārīkh "Raccolta di storie" del celebre scienziato e ministro dei sultani mongoli Rashīd ad-dīn Faḍl Allāh (giustiziato per intrighi di rivali nel 718/1328) segnano forse il più alto punto raggiunto dalla storiografia persiana per diligente raccolta di materiali, accuratezza e vivacità di esposizione, e son fonte di prim'ordine per l'etnografia e la storia dei Mongoli e dell'Asia Centrale e Anteriore corsa dalla loro conquista. Ancor maggiore popolarità, benché minor valore, ha il Ta'rīkh-i guzīdah "Storia scelta", dalla creazione del mondo al 730/1330, dedicato al figlio di Rashīd ad-dīn Faḍl Allāh da quel Ḥamdullāh Mustawfī Qazwīnī cui si deve anche un rinomato trattato di geografia e cosmografia, la Nuzhat al-qulūb ("Svago dei cuori"), assai utile per la conoscenza corografica della Persia medievale. Dopo il sec. XIV anche la stonografia decade: né il Ẓafar-nāmeh o storia delle gesta vittoriose di Tīmūr, di Sharaf ad-dīn ‛Alī Yazdī (m. 858/1454) agguaglia il valore della storia di Genghīz Khān di Giuwainī, né le tarde e retoriche compilazioni di storia universale di Mīrkhwānd (m. 903/1498) e del figlio di lui Khwāndamīr (m. 941/1534), intitolate rispettivamente Rawḍat aṣ-ṣafā' "Puro giardino" e Ḥabīb us-siyar "L'amico delle biografie", meritano la fortuna di cui hanno goduto in Persia, più per le grazie dello stile artificioso che per intrinseco valore storico; un certo valore è solo da riconoscere loro per l'epoca a essi contemporanea (per Mīrkhwānd, i Timuridi; per Khwāndamīr gl'inizî della dinastia ṣafawide).

Tra la copiosissima produzione storiografica in persiano che accompagna e segue queste opere più note, meritano speciale ricordo le numerose storie in persiano di stati e staterelli musulmani dell'India, di molto interesse per la ricostruzione della storia locale. E connesse del pari con l'India, sebbene a rigore estranee al periodo classico e alla stessa letteratura persiana, essendo state originariamente composte in turco orientale, sono le preziose memorie autobiografiche di Bābur (m. 937/1530), il grande fondatore della dinastia indiana dei Mogol, di cui però si fecero subito versioni e adattazioni in persiano.

Nulla più che un rapidissimo cenno è possibile dare sulla restante letteratura prosastica. Nella mistica, accanto allo splendido rigoglio poetico, va segnalata la produzione sia teoretica o teoretico-biografica, rappresentata dal Kashf al-maḥgiūb "Svelamento di ciò che è occulto" di Huǵwīrī (m. circa 470/1077), dalla Kīmiyā' as-saādah ("Alchimia della beatitudine") di al-Ghazzālī (m. 505/1111), dalle Lawā'iḥ ("Illuminazioni") di Giāmī, sia più strettamente biografica, come nella Tadhkirat al-awliyā' ("Memoriale dei santi") di ‛Aṭṭār, capolavoro della prosa persiana dell'età aurea, per candore e semplicità mirabile di stile, o nelle Nafaḥāt al-uns ("Effluvî di amor divino") dello stesso Giāmī. Nella storia delle religioni, eresiologia, teologia (materie queste che furono prevalentemente trattate in arabo, anche da Persiani) abbiamo solo opere di secondo ordine, che non agguagliano le notevoli produzioni in arabo sull'argomento: ricordiamo fra i tanti il Bayān al-adyān, compendioso trattatello storico-religioso di un Abū'l-Maḥālī Muḥammad ibn ‛Ubaidallāh, di epoca ghaznevide, e, in epoca assai tarda, il troppo valutato Dabistān al-madhāhib "Scuola delle sette religiose", compilazione d'un anonimo indiano del sec. XVII. Nella storia letteraria, su base biografico-antologica, le raccolte più citate sono il Lubāb ul-aleāb "Essenza degli spiriti" di ‛Awfī (secolo XIII) e la Tadhkirat ash-shuarā' "Memoriale dei poeti" di Dawlatshāh (sec. XV). Enciclopedie (fra cui appare primo il Dānish-nāmeh-i Alā'ī, o "Libro di sapienza di ‛Alā' [ad-dawlah, principe di Iṣfahān]", per questo composto da Avicenna), scritti di medicina, cosmografia, astronomia, lessicografia, retorica, stilistica e metrica completano il patrimonio prosastico della letteratura persiana in epoca classica.

Decadenza, età moderna e contemporanea. - L'unificazione della Persia in stato nazionale al principio del sec. XVI sotto i Ṣafawidi, e i due secoli di floridezza economica e politica che quella dinastia assicurò al paese non si accompagnarono con un risveglio e sviluppo della poesia, né della letteratura in generale; tanto meno propizio fu per la cultura persiana il disastroso sec. XVIII, con l'invasione afghāna, l'anarchia e le guerre civili, e l'arretrato governo, durato sino al 1925, della dinastia dei Qāgiāri. Per quasi quattro secoli un letargo spirituale gravò su tutta la nazione, a contrasto con la fioritura letteraria, proprio sotto l'influsso culturale persiano, che si esplicò sino a tutto il Settecento nella vicina letteratura turco-ottomana. Divani poetici, trattati di storia, raccolte antologiche si moltiplicarono ugualmente, ma nulla di nuovo, originale, personalmente significativo e potente ne venne alla luce. I lirici, da Ṣā'ib, panegirista dei Ṣafawidi (morto 1080/1670), a Qa'ānī, panegirista dei Qāgiārī (morto 1270/1853), battono le ormai trite vie della qaṣīdah encomiastica o del ghazal d'amore, che i mistici continuano per parte loro a usare quale velo allegorico delle loro effusioni intime. Gli epici costruiscono sempre macchinosi poemi in cui il distacco da Firdūsī e da ogni sentita tradizione epica è avvertito dai loro stessi contemporanei. Trionfa naturalmente la prosa ricercata, preziosa, agghindata dell'epistolografia ufficiale e privata, della tenzone (munāẓarah) ridotta a puro giuoco ozioso di parole, della storia aulica. Unica novità di questo periodo, a seguito della diffusione dello sciismo quale religione di stato, è una rudimentale drammatica religiosa, di sacre rappresentazioni (teaziyeh), commemoranti in genere la tragica morte a Kerbelā' di al-Ḥusain, figlio del califfo ‛Ali, ucciso il 10 muharram 40 eg., 680 d. C., come belle al califfo omayyade Yazīd I. Questo teatro religioso, testimoniato dagl'inizî del sec. XIX, ma forse abbastanza più antico, e ancor oggi in uso, non ha mancato di destare vivo interesse nei viaggiatori e dotti europei, quale rara forma popolare e spontanea di drammatica nelle letterature musulmane (si può accanto ad essa, nella Persia stessa, ricordare il popolare teatro delle marionette, detto shab bāzī "giuoco notturno", o anche Kacial Pahlawān "il prode calvo"); i libretti recitati nelle rappresentazioni, in genere anonimi, non mancano talvolta di vero pathos tragico, e di sentita drammaticità, così come, per concorde testimonianza di spettatori europei, le rappresentazioni stesse sono un vero atto di fede popolare, calda e violenta, arrivante talora a veri parossismi di eccitazione e fanatismo. Accanto alle teaziyeh, bisogna arrivare alla metà del sec. XIX per trovare, negli scritti in prosa e in versi, rituali, polemici, apologetici del bābismo perseguitato e martire, una produzione letteraria che, pur restando nella tradizione orientale di nebulosità e allegorie bizzarre, afferma con calore un contenuto di fede suggellata col sangue. Mentre si deve in gran parte proprio allo shāh qāgiāro Nāṣir ad-dīn (morto 1896), sotto cui si scatenò la feroce repressione del bābismo, un salutare esempio di ritorno allo stile prosastico piano e familiare, nelle memorie dei suoi viaggi in Persia e in Europa, in cui l'osservazione attenta e un po' ingenua della civiltà occidentale, almeno nei suoi aspetti materiali, è resa con una lingua semplice ed efficace, veramente parlata, che sarà ripresa dalla nuova scuola moderna.

L'influsso occidentale nella civiltà e nella letteratura, che batté con ritmo violento, dalla metà del sec. XIX, in altri paesi dell'Oriente musulmano, come l'Egitto e la Turchia, arrivò assai più lento e smorzato nella lontana Persia. La stampa periodica, introdottavi appunto sulla metà del secolo scorso, ebbe vita grama come ogni movimento politico e culturale rinnovatore, sino alla rivoluzione del 1905. Da essa data tutta una fioritura di giornali politici e letterarî, tra cui sono da ricordare il Ṣūr-i Isrāfīl ("La tromba di Isrāfīl", l'angelo della resurrezione), il Musāwāt ("Eguaglianza"), il Nasīm-i shamāl ("Il vento del nord"), il Naw Bahār ("Nuova primavera"), e più recentemente lo Armaghān ("Il dono"). In questo e altri organi di stampa, che, pur non raggiungendo lo sviluppo della stampa egiziana, siro-palestinese e turca, hanno tra grau difficoltà compiuto un onorevole sforzo per il progresso culturale e la modernizzazione della Persia, ha fatto le sue armi la più recente generazione di poeti e letterati persiani, come Dakhaw e ‛Ārif di Qazwīn, sayyid Ashraf di Gīlān, Bahār di Mashhad, Mīrzā Ṣādiq Khān, noto col nome di Adīb ul-mamālik, morto il 1335/1917, Lāhūtī, Pūr-i Dāwūd, ecc. Attraverso più o meno accentuata imitazione dell'Occidente, si cercano nuove vie alle manifestazioni dello spirito nazionale: si tenta, dopo le solite traduzioni da Molière, e quelle da una fortunata ma mediocre produzione in turco ādharī (Il visir di Lankurān, ecc.), di dar vita a un dramma laico moderno. Si tenta il romanzo storico, risalendo, su modelli prettamente europei, alla grande epoca della gloria di Persia, di Ciro e di Dario, per cui la nuovissima generazione nazionalista mostra un ridesto interesse (il romanzo ‛Ishq we salṭanah "Amore e impero", Hamadān 1919, di un certo shaikh Mūsà, tratta appunto dei tempi di Ciro; e non privi d'interesse sono i recenti romanzi sui "Vendicatori di Mazdak", su Mani, sull'avvento dei Sassanidi, del vivente Ṣan‛atī Zādeh). Si tenta la novella (Yakī būd yakī na-būd "Vere e false" di Gemālzādeh, 1922), il saggio satirico e lirico, la storia letteraria, con metodi più vicini agli europei (Muḥammad ibn ‛Abd al-Wahhāb Qazwīnī, ‛Abbās Iqbāl). Nella faticosa ricostruzione dell'organizzazione statale e di tutta l'anima della nazione, iniziatasi sotto il governo dello scià Riẓā Pahlawī, resta ancora incerto l'aspetto della nuova letteratura, divisa tra i vecchi schemi e le fulgide glorie del passato, e le impazienze dell'avvenire.

Una larga parte in questo sforzo di rinnovamento e modernizzazione hanno avuto gruppi di Persiani viventi all'estero, specie in Inghilterra e in Germania. La cultura che hanno assimilato, essi hanno poi cercato di proporre a modello e di trasfondere nel loro paese: notevole in particolare dal lato pubblicistico, culturale e scientifico, l'attività della colonia persiana di Berlino, che con il pregevole periodico Kāveh (1ª serie, politicoculturale 1916-1919; 2ª serie, più spiccatamente letteraria 1920-21) e il susseguitogli Īrānshahr (1922-1926), con raccolte di novelle e romanzi originali, edizioni di antichi testi, collane di monografie storiche e letterarie, ha rappresentato uno dei più originali e promettenti aspetti della vita culturale persiana contemporanea.

Bibl.: Le migliori e più accessibili storie letterarie sono quella di H. Ethé, Neupersische Litteratur, in Geiger e Kuhn, Grundriss der iranischen Philologie, II, Strasburgo 1904, pp. 212-368, e quella monumentale di E. G. Browne, A literary history of Persia, Cambridge 1928, voll. 4, ristampa definitiva sotto unico titolo comprensivo delle quattro parti pubblicate in anni e luoghi diversi (I: From the earliest times until Firdawsi, Londra 1902; II: From Firdawsi to Sadi, Londra 1906; III: A history of Persian Literature under Tartar Dominion, Cambridge 1920; IV: A hist. of Pers. Lit., in modern times, Cambridge 1924); storia della cultura oltre che della letteratura persiana, di disuguale valore e di vigore critico e sintetico, ma preziosa sempre, specie per la parte meno antica, come raccolta di materiale e rassegna bibliografica. Più popolari e riassuntive, P. Horn, Geschichte der persischen Literatur, Lipsia 1901; R. Levy, Persian Literature, Oxford 1923. In russo A. Krimski, Istorija Persii, eja literatury i derviçeskoj teosofij (Storia della Persia, della sua letteratura e mistica), I, 2ª ed., Mosca 1916; II-III, Mosca 1912, 1915; E. Berthels, Očerk persidskoj literatury (Disegno di letter. pers.), Leningrado 1928.

Per la storia della poesia in generale: I. Pizzi, Storia della poesia persiana, Torino 1894, voll. 2. Per l'epica, Th. Nöldeke, Das iranische Nationalepos, in Grundriss d. ir. Philol. cit., II, pp. 130-211 e 2ª ed. a parte, Berlino 1920; V. Barthold, K istorii persidsk. eposa (Sulla storia dell'epos persiano), in Zapiski Vostocn. Otdelenija Imp. Russk. Archeol. Obšč., XXII (1915), pp. 257-282. Per la poesia aulica e romantica, H. Ethé, Die höfische u. romantische Poesie der Perser, Amburgo 1887; per la mistica, id., Die mystische didaktische u. lyr. Poesie der Perser, Amburgo 1888; R. A. Nicholson, Studies in Islamic Mysticism, Cambridge 1921; E. Berthels, Grundlinien der Entwicklungsgeschichte des ṣufischen Lehrgedichts in Persien, in Islamica, III (1927), pp. 1-31. Per la letteratura moderna, oltre il quarto volume del Browne, dello stesso, The press and poetry of modern Persia, Cambridge 1914, voll. 2; per il teatro A. Chodzko, Théâtre Persan, Parigi 1878; E. Berthels, Persidskij Teatr, Leningrado 1924; A. Krimskij, Il teatro persiano, origine e sviluppo (in ucraino), Kiev 1925; W. Litten, Das Drama in persien, Berlino 1929; sul teatro di marionette (Kacial Pahlwān), R. Galunov, in Iran, II (1928), pp. 25-74; G. Marr, ibid., pp. 75-85 (pubblicazione di testi). Sul romanzo storico contemporaneo, B. Nikitine, Le roman historique dans la littér. persane actuelle, in Journal Asiatique, CCXXIII (1933), pp. 297-336. Per edizioni, traduzioni e bibliografia sui singoli autori, vedi le voci speciali.

Arte.

Primo periodo islamico (640-1040 d. C.). - La conversione all'islamismo pose gli artisti persiani di fronte a problemi inaspettati. Non si trattò peraltro di una rottura completa col passato: era inevitabile che la continuazione della produzione fondata sulle passate esperienze tecniche conservasse anche gran parte dell'antico patrimonio formale, naturalmente con un processo di islamizzazione per il quale ciò che prima aveva significato simbolico ebbe d'ora innanzi una funzione esclusivamente decorativa, giungendosi a preferire le rappresentazioni astratte alla riproduzione naturalistica. E secondo questo spirito l'arte in Persia seguì l'islamismo, pur riuscendo a mantenere un carattere nazionale. Tale posizione particolare fu resa più agevole dalla graduale diffusione dello sciismo, che per più di un verso ha influito anche sull'arte. Lo stesso trasporto del califfato da Damasco a Baghdād (75d) rafforzò l'influsso persiano rispetto a quello arabo, e in seguito l'autonomia di fatto dei sultani iranici di fronte ai califfi rese possibile lo svolgersi di un programma artistico-politico, il quale conservò le tradizioni sassanidi.

Di edifici dell'epoca omayyade quasi nulla è rimasto in Persia, e anche i monumenti dell'epoca ‛abbāside sono assai scarsi. Le parti più antiche della moschea maggiore di Iṣfahān (circa 760) e quelle, molto rovinate, della moschea di Shīrāz (871) hanno colonne di mattoni e tetto a travature, ossia il tipo di costruzione che probabilmente in quell'epoca si diffuse da Baghdād, al pari della decorazione di stucco (resa nota dagli scavi di Samarra) della quale la moschea di Nā'īn (sec. X) offre un esempio caratteristico. Se in architettura può parlarsi, anche per la Persia, di uno "stile ufficiale" ‛abbāside, le arti industriali, nelle corti dei Sāmānidi, dei Buwayhidi e di altre dinastie, si mantennero tenacemente fedeli alla tradizione sassanide. Per molti secoli si seguitò a produrre utensili d'argento nello stile sassanide, peraltro alquanto impoverito e di esecuzione più rozza. La tecnica del bronzo si mantenne invece in tutto il suo splendore, e varî tipi di acquamanili e di anfore dei secoli VIII-XI, nella loro rigida concezione formale arcaistica mostrano quanto lentamente procedesse in questo campo l'islamizzazione; mentre i primi tentativi di ageminatura in rame cominciavano ad aprire nuove possibilità di sviluppo. L'industria serica si ravvivò negli antichi centri; i vecchi motivi furono mantenuti, ma schematizzati e semplificati, e se ne aggiunsero di nuovi. Nella ceramica si constata una rinnovata vitalità, la quale tuttavia rivela la sua tendenza conservatrice trasportando nella decorazione a graffito le rigide figure di cavalieri e di animali, le quali hanno fatto sì che essa è tuttora designata col nome di "gabrī" (zoroastriana), benché le sue produzioni non risalgano oltre il sec. VIII. Essa giunge fino al sec. XI, passando a poco a poco a un'ornamentazione più leggera e più agile. Da Baghdād s'importavano terraglie a riflessi metallici, ma le riforme nella ceramica che colà si verificarono non esercitarono certamente alcun influsso diretto sulla produzione persiana.

Periodo selgiuchide (circa 1040-1250). - Con la crescente potenza dei Selgiuchidi l'elemento turco divenne preponderante nell'Oriente islamico, ma i conquistatori non esercitarono quasi nessuna attività creatrice, e si contentarono per lo più, con grandiose ordinazioni, di promuovere le forze indigene, rendendo così anzi possibile una certa continuità di sviluppo. Essi apportarono alcune feconde idee costruttive; le quali, messe in opera da architetti persiani, condussero l'architettura religiosa islamica a nuove monumentali realizzazioni. La pianta della medresa, collegio a servizio della dottrina sunnita e della formazione di una classe di funzionarî ortodossi (nei maggiori di tali edifici quattro sale a līwān erano disposte intorno a un cortile interno e congiunte da corpi a due piani con celle di abitazione), fu adottata in Persia anche per le moschee; e ne derivò nella moschea un'evoluzione che differisce notevolmente, per una parte, da quella delle altre regioni islamiche, ma che d'altra parte non rimase senza influsso anche su queste ultime (v. moschea). Nella moschea maggiore di Iṣfahān, nonostante gli svariati mutamenti subiti in epoca posteriore, si può ancora riconoscere chiaramente il tipo della moschea a līwān con pianta di medresa. L'oratorio fu ricoperto con una cupola, e il bisogno di sottolineare e accentuare la funzione della facciata che dà nel cortile fece sì che essa venisse fiancheggiata da due agili minareti cilindrici. Il materiale adoperato è generalmente il mattone cotto; la decorazione interna è spesso eseguita in stucco; quella esterna, almeno in principio, con mattoni variamente disposti a fasce e a intrecci, più tardi anche con musaici di ceramica colorata (v. musaico). Nella Persia stessa non sono conservati esempî selgiuchidi di questa tecnica, la quale giunge gradatamente alla massima perfezione, ma se ne hanno in Asia Minore, e da iscrizioni tuttora superstiti sappiamo che quel procedimento fu importato a Conia dalla ceramica del Khorāsān.

Altro rilevante genere di edificio religioso, accanto alla moschea e alla medresa, fu il mausoleo, che da principio aveva solo eccezionalmente importanza architettonica, ma che ora si sviluppa in due tipi, a torre e a cupola. Del primo tipo si hanno esempî sia rotondi sia prismatici, i primi lisci (per es., a Dāmghān) o scannellati (per es., a Rayy), i secondi talvolta a pareti lisce con nicchioni elevati (Nachičevan, 1186). Anche in questi monumenti sepolcrali ha una parte notevole la decorazione a mattoni, interrotta ordinariamente da iscrizioni cufiche. Il più noto dei mausolei a cupola, quello del sultano Sangiar (morto nel 1157), si trova a Merw nel Turkestān; a Ṭūs, nel Khorāsān, sono le rovine di un mausoleo a cupola non meno imponente, in cui si ravvisa la tomba del celebre teologo al-Ghazzālī (morto nel 1111). I grandiosi monumenti di Nīshāpūr, l'antica capitale dei Selgiuchidi, ci sono noti soltanto per descrizioni, ma si spera che nuova luce sia portata da scavi sistematici, a Nīshāpūr come a Rayy, la cui fama come centro culturale era altissima.

Nella decorazione i Selgiuchidi, senza tener conto delle loro pretese di atteggiarsi a campioni dell'ortodossia sunnita, preferirono apertamente l'impiego di motivi figurati. Le pareti dei loro palazzi erano spesso decorate di rilievi in stucco di abile fattura rappresentanti scene della vita di corte, della caccia, ecc. Anche maggior tolleranza si rivela nella miniatura, la quale fu molto coltivata a Baghdād fin dal sec. XII, ancora sotto il governo dei Selgiuchidi, e ben presto condusse anche in Persia al sorgere di particolari scuole pittoriche. Accanto a trattati scientifici e a libri di favole, dei quali si conservano esempî, fu illustrata soprattutto la grande epopea iranica di Firdūsī, lo Shāhnāmeh, nella quale gli artisti, trovandosi di fronte a esigenze del tutto nuove, ma particolarmente care al loro sentimento nazionale, si videro costretti a cercare nuovi elementi compositivi. I colori usati sono vivaci, le scene, bene osservate e rese in forma sintetica ed efficace, hanno spesso uno sfondo rosso o giallo. La divisione in colonna del testo poetico rendeva possibile un migliore rapporto fra testo e illustrazione che non nei testi in prosa; l'esecuzione calligrafica, nonché la miniatura ornamentale, contribuivano a mettere in evidenza il carattere sontuoso di tali manoscritti illustrati.

La toreutica ebbe un aspetto nuovo, definitivamente sciolto dalla tradizione sassanide. Primeggiò la produzione del Khorāsān, dove la tecnica dell'ageminatura del rame e dell'argento sul fondo di bronzo diede i primi splendidi risultati. A fasce calligrafiche contenenti pie invocazioni per il possessore si alternano negli oggetti di metallo ageminati processioni d'animali, teorie di cavalieri, rappresentazioni di pianeti e altri motivi, che spesso ricoprono di fitte zone l'intera superficie (caldaro di Leningrado, eseguito a Herāt nel 1163). Nello stesso Khorāsān contemporaneamente si ornavano altri svariati oggetti di bronzo anche soltanto d'incisioni; nel Kurdistān si usava il lavoro a sbalzo con raro impiego del cesello, per candelieri e per anfore con rilievi di leoni o colombe disposti in serie. La cesellatura e l'ageminatura raggiunsero il massimo grado di perfezione durante la prima metà del sec. XIII a Mossul e in alcuni centri persiani: il disegno vi si fa sempre più fine e fitto, il contrasto tra le singole fasce ornamentali è ottenuto con rara perizia. Cessa l'uso del rame nell'ageminatura; e, accanto all'argento che sempre vi predomina, comincia a usarsi anche l'oro. I preziosi arredi di questo tipo, alcuni dei quali richiedevano un minuzioso lavoro di anni, bene potevano sostituire le stoviglie d'oro e d'argento, vietate dalla rigida ortodossia, e ben presto furono richiesti ovunque.

La perizia dei ceramisti persiani raggiunse l'apice nei secoli XII e XIII coi prodotti di Rayy e di Kāshān. La tecnica a graffito si affina rispetto al periodo precedente e, eliminate le ultime reminiscenze sassanidi, ottiene il massimo dell'effetto decorativo mediante il disegno e l'invetriatura. Blu cobalto, verde turchese e bruno di manganese, bianco e nero sono i colori preferiti, sia isolati sia l'uno accanto all'altro. Più ricchi di toni sono i prodotti cosiddetti mīnāi, fabbricati a Rayy, in cui con ricca policromia su fondo bianco e a tratti leggeri di pennello sono rappresentate di preferenza scene figurate, con evidente ispirazione dalla miniatura di manoscritti. A partire dal sec. XII s'introduce in Persia anche la ceramica a lustro metallico, che aveva raggiunto un alto grado di perfezione a Baghdād e quindi, sotto il dominio dei Fatimiti, al Cairo; essa si stabilì a Rayy con prodotti che per finezza di esecuzione e splendore di lustri d'oro segnano l'apogeo di questo genere. Accanto ai vasi, si fabbricano anche piastrelle per decorazione parietaria di moschee e di case, a lustri metallici e per lo più in forma ottagonale o a croce, donde si sviluppò un modello che fu poi a lungo proseguito. L'invenzione di tali piastrelle, come è indicato dal loro nome (kāshī, kāshānī), viene localizzata a Kāshān, sulla cui industria ceramica dà molta luce il trattato di un ceramista locale, di recente scoperto. A Kāshān si fabbricavano soprattutto piastrelle per miḥrāb, a lustro con iscrizioni e con ornamenti in rilievo, le quali soppiantarono la decorazione in stucco della parete della moschea rivolta verso la qiblah, e, disposte in forma di miḥrāb, sostituivano lo sporto a nicchia. Si hanno anche saggi della mirabile perfezione con la quale i vasai persiani riuscirono a imitare la porcellana cinese dei Sung, soprattutto di Ting-yao bianco.

Alcuni campioni di stoffe selgiuchidi, scoperte in questi ultimi anni, sembrano dimostrare che l'industria tessile, oltre che a Baghdād, allora a capo della produzione, fioriva anche in alcuni centri persiani, mantenendo una parte della tradizione arcaica, nonostante la radicale trasformazione dello schema ornamentale sassanide. Erano pur sempre preferite le figure di animali affrontati di stile araldico, iscritte in un cerchio, e tali modelli passarono alle fabbriche bizantine e a quelle sorte prima in Occidente (Lucca e Ratisbona). A questo periodo, senza dubbio, risalgono i principî della fabbricazione dei tappeti, salita poi a tanto splendore. Tappeti erano usati da tempo immemorabile dalle tribù nomadi turche, e furono certamente i sovrani selgiuchidi a mantenerne l'uso anche nei loro nuovi palazzi; può essere che essi abbiano invitato membri di questa o di quella tribù a stabilirsi in città e a fondarvi delle maestranze, che certo fin dai secoli XII e XIII producevano tappeti. Ma di questi nessun saggio ci è giunto.

Periodo mongolo (circa 1250-1502). - In senso stretto devono distinguersi in Persia due periodi mongoli. Il primo, quello della dinastia degli Īlkhān fondata da Hūlāgū, durò appunto un secolo (fino al 1349), il secondo s'iniziò con Tīmūr (1380). Nell'intervallo tra i due il territorio iranico fu in mano di diversi sovrani persiani e turchi, i quali avevano provocato la caduta degli Īlkhān, ma senza portare una rivoluzione della cultura, sicché la marcia trionfale di Tīmūr non fece che continuare la civiltà persiano-mongola. Nonostante le distruzioni cagionate dal turbine dell'invasione mongola, Hūlāgū e i suoi successori esercitarono tuttavia largamente il mecenatismo e si adoperarono al benessere della Persia; Tīmūr, per parte sua, impiegò ogni mezzo per dare nuovo impulso nel suo impero alle costruzioni e alle arti. Coi conquistatori si era riversata su tutto l'Īrān un'ondata di motivi dell'Estremo Oriente, che avrebbero anche potuto soffocarvi l'arte islamica se questa non vi si fosse impiantata già saldamente. Ornati e animali favolosi di origine cinese, prontamente stilizzati e incorporati senza sforzo nel patrimonio di forme persiane, lo arricchirono senza distruggere la tradizione nazionale.

Il tipo di moschea creato sotto i Selgiuchidi si mantenne, e giunse poi, nell'età di Tīmūr, alla moschea a sola cupola con rigorosa centralità e grande sviluppo in altezza, quali la moschea Azzurra di Tabrīz e la moschea Giauhar Shād di Meshhed (1451). Anche il tipo della "medresa" ricevette nuovo impulso, benché ne restino pochi esempî (a Khārgird sulla frontiera dell'Afghānistān, 1445). Nei mausolei si sviluppa la tendenza alla monumentalità, raggiungendo l'apice nella tomba del sultano Ūlgiaitū Khudābandah (morto nel 1316) a Sulṭāniyyah: la cupola acuminata vi è sorretta da un ottagono a due piani, ed è stata più volte paragonata allo stile gotico. Le moschee, le medrese e i mausolei fatti costruire ad architetti persiani da Tīmūr e dai suoi successori a Samarcanda (scelta a loro residenza, e divenuta per essi la più bella città dell'Oriente) costituirono il modello per ogni altro edificio sacro. Il musaico di ceramica, arricchito nella scala dei colori e raffinato nella tecnica del taglio, raggiunse nuova perfezione, rivelando le prodigiose possibilità che poteva avere, per mezzo di una fitta decorazione curvilinea e di imprevisti effetti coloristici, negli edifici di Tabrīz, Meshhed e Samarcanda. Ne furono decorati qualche volta anche i miḥrāb.

Nella ceramica vasaria cessò la produzione di Rayy, che fu distrutta dai Mongoli. A Kāshān, a Sulṭāniyyah e in altri centri si adottarono motivi mongoli, ma in generale si conserva a lungo la tradizione selgiuchide nei generi più svariati. Sembra che Tīmūr e i suoi discendenti seguitassero a usare quasi esclusivamente porcellana cinese, poiché al tempo loro vi fu un innegabile ristagno della produzione persiana. Lo stesso accadde per gli oggetti di bronzo: nell'età degli Īlkhān si hanno ancora lampadarî, anfore, bacili, ecc., splendidamente incisi, poi appare un impoverimento. Al contrario ebbe grande incremento la damaschinatura del ferro nell'industria delle armi. Venne in uso il largo elmo a campana, portato al disopra del turbante, con iscrizioni e decorazioni floreali di argento o agemina: da questa forma mongola si svilupparono più tardi il piccolo elmo liscio persiano, e quello conico turco. Non si usava ancora la scimitarra ricurva, bensì la spada a lama dritta e larga che porta di preferenza sull'elsa la rappresentazione della lotta tra un drago e una fenice. Anche per lo scudo e per la mazza ferrata i Mongoli introdussero le forme che passarono poi, con varianti, ai Persiani e ai Turchi.

Nella miniatura, accanto a Baghdād, che seguitò a primeggiare nei secoli XIII e XIV, si distingue soprattutto Tabrīz, dove, alla fine del sec. XIV, il calligrafo Mīr ‛Alī inventa il nuovo tipo di scrittura nastalīq, divenuto poi generale nei testi persiani e adottato anche dai Turchi e dagl'Indiani. Il colorito si fa più ricco nell'ornamentazione, che ricopre sempre più fittamente la superficie dei fogli, divenendo sempre più simile alla decorazione a musaico delle cupole e dei līwān. Sotto i timuridi progredisce anche, con l'introduzione dell'impressione in oro, la tecnica della rilegatura, che fino allora aveva fornito soltanto occasionalmente qualche esemplare di lusso. Il contatto con la pittura cinese diede impulso a un fecondo e molteplice sviluppo della miniatura, verificatosi soprattutto nelle scuole di Tabrīz, Shīrāz e Herāt. Alle edizioni di lusso dei poeti più celebri, come Firdūsī, Niẓāmī, ecc., si aggiungono opere storiche e cosmografiche, con notevole ampliamento di temi; nelle composizioni di quest'epoca ha gran parte il paesaggio romantico, contribuendo decisamente ad aumentare l'effetto coloristico. Nel sec. XV Herāt acquista una particolare importanza per mezzo dell'Accademia per l'arte libraria fondata dal principe timuride Bāisunghur, nella quale furono fissati precetti per il rapporto fra testo e immagini. La tendenza innata di rappresentare una scena in superficie e i modelli dell'Estremo Oriente impedirono che nella miniatura persiana si cercasse di ottenere effetti di profondità spaziale per mezzo della prospettiva, come nella pittura europea.

Non fu certo l'invasione mongola a provocare la diffusione in Persia delle sete cinesi; ma contribuì soprattutto all'affinarsi della tecnica, cui si debbono i meravigliosi broccati d'oro e di argento, degni di stare a fianco dei migliori prodotti dell'Estremo Oriente e che ebbero per conseguenza un'evoluzione parallela in Occidente, anzitutto a Lucca. L'industria dei tappeti s'impiantò, nei secoli XIV e XV, in alcuni centri del Caucaso; insieme col motivo estremo orientale dei draghi, delle nuvole a nastro, ecc., che furono tradotti con fine senso stilistico nel linguaggio angoloso del tappeto; i motivi conservatisi in quelle regioni per più secoli occupano, in robuste composizioni verticali e a vivaci contrasti di colore, l'intero campo incorniciato da un orlo sottile. Nella Persia propria, accanto ai tappeti a motivi continui a intreccio e a viticci, che tuttavia conosciamo soltanto da riproduzioni su miniature, compare a partire dal secolo XV il tappeto a medaglione, rigorosamente centralizzato, il quale deve manifestamente la sua origine alla miniatura, e giunge a pieno sviluppo soltanto nel periodo successivo.

Periodo ṣafawide (1502-1736). - I Ṣafawidi, esaltando l'idea nazionale, promossero l'ultima grande fioritura della civiltà persiana. La tradizione mongola è in parte rinnegata, in parte fecondata, e ben presto nelle più diverse città si manifesta un ardore di creazione artistica. Tabrīz, nella sua qualità di capitale, predomina in principio, ma è sopraffatta alla fine del secolo XVI da Iṣfahān, cui lo scià ‛Abbās I imprime il suggello della sua grande personalità e in cui si concentrano nuovamente tutte le forze creatrici del paese. Essa desta ancor oggi l'ammirazione e lo stupore degli architetti europei come tentativo lungimirante di esecuzione consapevole di un programma di edilizia urbana.

Tra le moschee di questo periodo la moschea reale (masgid-i shāh) di Iṣfahān, è senza dubbio la più notevole per ricchezza e architettura, con la sua cupola elegante e le imponenti porte del līwān. Una moschea sepolcrale di grande stile è quella dello Sheikh Ṣafī ad Ardabīl (compiuta a metà del sec. XVII), consistente in parecchi edifici riuniti, le cui porte e cornici di finestre sono rivestite di musaico di ceramica di esecuzione minuziosa. Lo stesso genere di decorazione adorna la cupola, i līwān e i minareti della monumentale medresa Māder-i shāh di Iṣfahān (circa 1700). In quest'epoca i palazzi sono più intimamente connessi con l'architettura dei parchi che li circondano, e, di dimensioni minori, assumono carattere di padiglioni e chioschi; quelli fatti costruire dallo scià ‛Abbās a Iṣfahān e ad Ashraf rivaleggiano tra loro per eleganza di forme e armonia di proporzioni: erano magnificamente ornati di pitture a fresco, su lacca e su piastrelle. Gli edifici pubblici assumono importanza maggiore di prima: fino al sec. XVIII avanzato si hanno, per caravanserragli, bazar e ponti, felici soluzioni, che si mantengono fedeli al principio fondamentale dell'architettura a līwān.

L'arte del libro conchiude mirabilmente l'attività precedente. Tabrīz sale a fama mondiale come centro della calligrafia, della miniatura di Corani e della rilegatura; da essa erano chiamati maestri in India e in Turchia, dove sorgono scuole derivanti da quella di Tabrīz. In questa città è attivo, a partire dal 1506, il più grande dei pittori che la Persia abbia prodotti, Behzād. Egli proveniva dalla scuola di Herāt, che aveva liberata dalla maniera mongola fondando uno stile pittorico nazionale, ispirato a un sano realismo; abolì il trattamento schematico delle figure, per mezzo di forti contrasti di toni e d'una tavolozza ricca. Ebbe numerosi scolari, ai quali son dovute nuove composizioni a illustrazione dei poeti persiani, nonché fogli separati per albi. I compiti dei miniatori furono dalla nuova scuola notevolmente estesi; erano preferiti gli studî di figura e di genere nonché gli schizzi dal vero. Verso la metà del sec. XVI la personalità più spiccata di Tabrīz fu Sulṭān Muḥammad; sotto lo scià ‛Abbās I fiorì il celebre Rizā ‛Abbāsī, capo della scuola di Iṣfahān, intento a riprodurre la realtà quotidiana, e da ricordare a lato dei maestri olandesi suoi contemporanei.

Lo stile pittorico dei secoli XVI e XVII ebbe un benefico influsso su quasi tutti i campi dell'arte industriale, ma soprattutto sulla tecnica tessile, che in questo tempo raggiunse i più splendidi risultati. L'industria persiana produce stoffe leggiere di seta a più colori, broccati pesanti d'oro e d'argento, velluti e broccati di velluto, che non hanno eguali per qualità del tessuto, sicurezza del disegno, armonica disposizione delle tonalità di colore. Essi recano immagini figurate e ornamentali in rapporti eleganti e fluidi. Venivano in parte eseguite in laboratorî riservati alla produzione per la corte, così come alcune qualità di arazzi e di tappeti, ed erano ambite dalle corti europee, che le ricevevano talora in dono dalle ambasciate persiane. Del resto, caratteristica per l'industria dei tappeti sotto i Ṣafawidi è l'organizzazione di grandi manifatture sotto la direzione di noti artisti, organizzazione a cui è dovuto il grado insuperabile della perizia manuale, dell'eleganza del disegno e della ricchezza di colori di questa produzione. È questa l'epoca classica dei tappeti a vasi con disegni rampanti di motivi floreali e di sottili viticci; dei tappeti a giardini, la cui disposizione imita quella di un parco con canali, filari di alberi e aiuole fiorite; e soprattutto dei famosi tappeti di cacce e di animali, con medaglioni centrali e largo orlo, i quali appartengono oggi alle più preziose rarità del mercato antiquario. Nonostante la molteplicità dei motivi, ogni particolarità è messa in evidenza mediante un accurato studio dei contrasti, la simmetria, pur quasi sempre rigorosamente osservata, non s'irrigidisce mai in forme schematiche, e il problema dell'armonia tra campo e orlo è spesso risolto in maniera geniale.

La toreutica continua a produrre armi da parata di forme artistiche e con ricca cesellatura in oro; la ceramica ricerca con successo di sostituire alla porcellana azzurra cinese una mezza maiolica indigena, decorata in maniera del tutto analoga, e che per un certo tempo fece una seria concorrenza alla porcellana cinese sui mercati europei. Anche il procedimento della maiolica a lustro metallico, che era caduto quasi interamente in disuso in Oriente, ebbe sotto lo scià ‛Abbās un breve periodo di ripresa, anch'essa in rapporto con la decorazione dei Ming.

A partire dal secolo XVIII l'arte persiana decade. Paralizzato l'intervento dei sovrani, si diffuse la produzione intensiva di merci da bazar a buon mercato, né le maestranze, nonostante la loro perizia tecnica, furono più capaci di dare nuovo impulso alle industrie mediante la creazione di nuove forme. Un breve periodo di apparente rifioritura economica sotto Fath ‛Alī Scià non riuscì a trattenere la generale decadenza manifestatasi sotto la dinastia qāgiāra, e tuttora, in questo campo, perdurante.

Bibl.: Oltre ai manuali generali di arte musulmana (Saladin e Migeon, Glück e Diez, Kühnel, ecc.), si vedano: Architettura: F. Sarre, Denkmäler persischer Baukunst, Berlino 1910; E. Diez, Churasanische Baudenkmäler, Berlino 1918; Persien: Islam, Baukunst in Churasan, Hagen 1923; E. Herzfeld, Khorasan: Denkmalsgeographische Studien, in Der Islam, 1921.

Arti minori: F. R. Martin, Figurale persische Stoffe, Stoccolma 1899; id., The miniature painting and painters of Persia, Londra 1912; J. Smirnoff, Argenterie orientale, Pietroburgo 1909; W. Ph. Schulz, Die persisch-islamische Miniaturmalerei, Lipsia 1914; F. Sarre e E. Mittwoch, Zeichnungen von Riza Abbasi, Monaco 1914; M. Pézard, La céramique archaïque de l'Islam, Parigi 1920; R. Koechlin, Les céramiques musulmanes de Suse, Parigi 1928; A. Sakisian, La miniature persane, du XIIe au XVIIe siècle, Parigi 1929.

Vedi anche islamismo: Arte.

Una bibliografia completa sull'arte in Persia, compilata da K. Erdmann, è in corso di pubblicaizone nel Survey of Persian Art.

V. tavv. CLXXIII-CXC.