Pesca

Universo del Corpo (2000)

Pesca

Marco Aime

La pesca consiste nella cattura o nella raccolta di organismi che popolano gli ecosistemi acquatici, dagli oceani ai piccoli corsi d'acqua. Viene praticata dall'uomo sin dalle sue origini e da sempre riveste un'importante funzione economica che ancora oggi mantiene, anche se le attività di acquicoltura, cioè di allevamento di organismi acquatici, stanno contribuendo in misura sempre maggiore al rifornimento dei prodotti ittici destinati all'alimentazione umana.

L'attività economica

La pesca non è mai stata oggetto di studi approfonditi da parte degli antropologi, sebbene abbia costituito una risorsa fondamentale per il sostentamento di molte popolazioni fin dal Paleolitico e si sia sviluppata parallelamente all'agricoltura e all'allevamento. In vaste regioni dell'America Settentrionale, peraltro, l'agricoltura non penetrò mai: i popoli insediati nella costa del Pacifico, dalla California all'Alaska, per es., non abbandonarono in alcun momento la loro dipendenza da una forma di attività di caccia-raccolta ad ampio spettro e dalla pesca; infatti, in queste aree l'agricoltura intensiva non offriva vantaggi rilevanti per la sussistenza, mentre, come nel caso della costa del Pacifico nordoccidentale, sfruttando le migrazioni annuali dei pesci che seguono le correnti, era possibile ottenere risorse sufficienti tutto l'anno e così dare vita a villaggi permanenti formati da grandi palafitte.

Una caratteristica specifica della pesca è relativa al tipo di risorsa a cui attinge. Gli animali acquatici, siano essi fluviali, lacustri o marini, sono estremamente mobili, ed è pertanto difficile 'legarli' a un territorio determinato. Il patrimonio ittico costituisce quindi una risorsa comune, sulla quale nessuno può reclamare diritti di proprietà. Mentre i terreni di caccia e di raccolta sono perlopiù definiti da confini etnici, tribali o di gruppo, le regioni acquatiche non si possono facilmente delimitare e, inoltre, la mobilità degli animali marini è assai maggiore di quella degli animali terrestri. Per questo motivo soprattutto oggi che le nuove tecnologie consentono di praticare una pesca intensiva, si può verificare quella che viene definita la 'tragedia delle risorse comuni'. I pescatori tendono a espandere le loro aree di azione e a catturare quanto più pesce possibile: migliorando la tecnica e l'organizzazione si è arrivati al punto che il pesce viene catturato molto più rapidamente di quanto non riesca a riprodursi, con il conseguente annientamento di numerose specie. Numerosi sono stati i dibattiti riguardo al fatto se la pesca debba essere classificata come un sottotipo della caccia-raccolta oppure come un'attività del tutto differenziata. In ogni caso si riscontrano pochissimi esempi di gruppi umani che dipendono esclusivamente dalla pesca, in quanto frequentemente a essa sono associati sistemi di caccia. Sotto il profilo ergologico, le attività connesse con la cattura di animali acquatici si presentano con caratteristiche diverse, alcune delle quali possono rendere la pesca simile a un'attività di caccia-raccolta, mentre in altri casi presentano elementi di natura specifica.

Le tecniche

a) Pesca con le mani. Le mani sono il mezzo più rudimentale per catturare animali acquatici. In genere, questo tipo di pesca viene adottato per prede dalla mobilità scarsa o nulla, come Molluschi, Crostacei oppure Spugne, conchiglie e ostriche. In questo caso si tratta di una pesca-raccolta, ma vi sono anche esempi di pesca con le mani applicata a prede veloci. In Melanesia e in Australia gruppi di giovani si appostano tra le alghe, dove i pesci vengono a nutrirsi, rimanendo immobili con la mano aperta. Quando un pesce si avvicina, lo agguantano con un rapido scatto della mano. In Africa occidentale, alla foce di piccoli fiumi, i pescatori pestano con i piedi il fondo facendo sollevare la melma. Così, i pesci semiasfissiati risalgono in superficie per respirare e vengono, quindi, catturati con facilità. Data la rapidità e la natura estremamente sfuggente dei pesci in genere, le mani sono talvolta 'prolungate' con artifici meccanici. È il caso di alcuni pescatori cinesi, che utilizzano una sorta di pinza con due larghe branche dotate di uncini metallici, la quale consente di allungare il raggio d'azione della mano, assicurando in tal modo una presa più efficace. Sfruttando lo stesso principio, ma con mezzi diversi, i lengua del Chaco (Paraguay) impiegano una serie di ossicini legati alle palme delle mani, che hanno lo scopo di rendere più ferma la presa quando si immobilizzano i pesci in piccoli stagni.

b) Pesca con le armi. Il semplice utilizzo delle mani per catturare pesci e altri animali acquatici è possibile in situazioni di relativa abbondanza di prede e in spazi più o meno circoscritti, dove la mobilità degli animali è ridotta. Generalmente è invece necessario l'impiego di vere e proprie armi. In questo caso la pesca assume connotazioni assai simili a quelle della caccia: vengono infatti utilizzati strumenti come la clava per stordire i pesci affioranti in superficie, oppure l'arco per scagliare frecce contro pesci di grosse dimensioni, per es. gli squali, secondo una pratica adottata dagli indios brasiliani e dagli abitanti delle isole Andamane (Golfo del Bengala). Alcuni osservatori hanno descritto le battute organizzate dai tasmaniani (popolazione oggi estinta) per catturare grandi razze che stanziavano sul fondo sabbioso di alcune baie costiere: avanzando in semicerchio, i pescatori spaventavano le razze costringendole ad avvicinarsi alla riva, dove erano colpite con lance e fiocine e infine uccise con forti colpi di clava. Si trattava di un'attività molto rischiosa, in quanto la razza si difende inferendo colpi con la coda che è munita di un robusto aculeo velenoso.

L'arma più diffusa nell'esercizio della pesca, seppure nelle sue molteplici forme e dimensioni, è però l'arpione. Già nell'antica iconografia greca e romana Poseidone-Nettuno, la divinità del mare, era rappresentato con un tridente in mano, simbolo del suo potere sulle creature marine. Il tridente contiene in sé le due caratteristiche principali comuni a tutte le armi da pesca utilizzate dalle varie culture del pianeta: la possibilità di colpire una preda a distanza e la presenza di uncini per trattenerla una volta colpita, entrambi elementi indispensabili nella lotta contro gli sguscianti animali acquatici. Un altro aspetto di fondamentale importanza è la possibilità di trattenere l'arma una volta infilzata la preda e impedire che questa possa andare a morire sul fondo. A tale scopo si impiegano corde e sagole che vincolano l'arma al cacciatore. I malayali, una popolazione dravidica dell'India meridionale costiera, utilizzano per la loro pesca arco e frecce legati tra di loro tramite una cordicella. I pescatori delle isole Andamane assicurano invece i loro dardi a vesciche di pelle gonfie d'aria: queste boe artigianali, oltre a non consentire l'affondamento della preda, ne segnalano la posizione quando questa fugge dopo essere stata colpita. I mura dell'alto Rio delle Amazzoni (Brasile), i quali hanno a che fare con gli Arapaima gigas, i più grandi pesci d'acqua dolce del mondo in grado di raggiungere oltre i 5 m di lunghezza, una volta scagliato il loro arpione, si gettano a nuoto nell'acqua fino a raggiungere l'asta conficcata nella preda ancora viva, ne afferrano la corda e ritornano a riva, assicurandola a un albero in modo che il pesce non abbia più la possibilità di fuggire; i pescatori allora si avvicinano con una piroga all'animale che si dibatte furiosamente e lo finiscono a colpi di clava. Tuttavia non sempre il propulsore che scaglia l'arma è il braccio. Presso i murut del Borneo, per es., si effettua la pesca con la cerbottana, sostituendo la pressione del fiato all'energia muscolare: utilizzando lunghe cerbottane, che sono munite di piccoli dardi acuminati, i murut riescono a colpire un pesce fino a 30 cm sotto il livello dell'acqua.

Nell'Oceano Pacifico gli squali vengono catturati con il caratteristico sistema del laccio. I pescatori escono in mare sulle loro piroghe e tentano di attirare la preda con un'esca di carne posta a pelo dell'acqua, che, una volta avvistato lo squalo, viene manovrata in modo da fare avvicinare il pesce al fianco dell'imbarcazione; quando lo squalo alza la testa per afferrare l'esca, un pescatore gli infila rapidamente un laccio con un nodo scorsoio attorno al collo, immobilizzandolo. A volte le dimensioni delle prede rendono problematico il carico sulla piroga. I melanesiani dell'arcipelago di Bismarck adottano un sistema particolare: fanno ondeggiare la piroga fino a che questa si riempie d'acqua rimanendo semisommersa, in modo che sia più facile issare a bordo lo squalo catturato. A operazione eseguita si svuota la barca, che riprenderà così a galleggiare normalmente. Quanto mai originale è il sistema adottato dai dravida del Deccan (India meridionale) i quali, nelle notti senza luna, attirano i pesci con l'uso di torce fatte di foglie di palma da cocco: attratti dalla luce, i pesci si avvicinano alle barche e i pescatori li agganciano utilizzando le falci comunemente usate nei campi. Curioso è anche il tipo di pesca che si serve dell'ausilio di altri animali per catturare le prede. I cormorani, abilissimi uccelli pescatori, sono sfruttati, per es., da molti pescatori cinesi e dell'Estremo Oriente. Fin da piccoli viene loro posto attorno al collo un anello di metallo che consente di inghiottire i bocconi piccoli, ma non il passaggio di pesci medi o grandi. Il cormorano, legato a una zampa con una lunga cordicella, agguanta il pesce e tenta di inghiottirlo, il pescatore recupera la corda e, nel caso di pesci di taglia superiore al diametro dell'anello, li estrae facilmente dalla gola dell'uccello.

Ancora più originale è il sistema in uso presso molti gruppi dell'Australia e della Nuova Guinea, delle Comore e del Madagascar, dove i pescatori sfruttano la proprietà delle remore, pesci dotati di una sorta di ventosa sulla parte superiore del corpo, di incollarsi a pesci più grandi. Le remore sono catturate vive e viene loro infilato attraverso le branchie un lungo spago in modo da formare delle 'redini'; esse vengono quindi allevate in vasche speciali e gettate nuovamente in mare durante la stagione delle tartarughe, al cui solido guscio andranno ad attaccarsi; così i pescatori, tirando lentamente le briglie, trainano a terra sia la remora sia la tartaruga.

c) Pesca con le insidie. L'impiego di strumenti quali esche, reti, trappole e veleni, introduce al settore della pesca con insidie. In questo caso non sono più la forza e la rapidità dell'uomo a determinare il successo sul pesce: le armi principali diventano l'astuzia e la frode. Non si ha più un confronto fisico e diretto tra l'animale e il pescatore, ma quest'ultimo, poiché la cattura può anche avvenire in sua assenza, deve in qualche modo prevedere il comportamento della preda e approntare di conseguenza meccanismi per ucciderla o per intrappolarla. Una delle insidie più comuni e diffuse è rappresentata dall'amo, reso non o poco visibile da un'esca, talvolta reale (quindi commestibile), talvolta fittizia, che attira i pesci per il suo colore o per la lucentezza. L'amo può essere fissato a una lenza, a una canna o a galleggianti oppure a un aquilone, come accade in Indonesia. In ogni caso la sua funzione è passiva, così come quella del pescatore, che si limita a staccare la preda dopo che questa ha abboccato.

L'altro tipo di insidia diffuso in tutto il mondo è la rete da pesca. La pratica della pesca con rete, a differenza di quella con l'amo, richiede solitamente un'azione collettiva. Se, in alcuni casi, le reti sono gettate in punti di passaggio e svolgono quindi un ruolo passivo, molto più spesso la manovra delle reti è complessa e necessita dell'apporto di più imbarcazioni. Solitamente, infatti, al lancio delle reti si associano azioni che servono a spingere i pesci verso la trappola. I bagiuni dell'Oltregiuba e del Kenya, dopo aver steso le reti in modo da formare una sacca attorno a un branco di pesci in pastura, si pongono di fronte all'apertura della rete e lanciano contemporaneamente con violenza i loro arpioni nell'acqua; i pesci, spaventati, si dirigono dalla parte opposta a quella di provenienza del frastuono finendo intrappolati nella rete. In modo simile i vezo del Madagascar schierano le loro piroghe una a fianco all'altra con le reti a pelo d'acqua, in modo da formare un fronte compatto e in tale assetto si avvicinano silenziosamente al pesce; di fronte alle piroghe altri pescatori iniziano a spingere i pesci verso le reti, sbattendo i remi nell'acqua; i pesci impauriti dal rumore si gettano verso le imbarcazioni, rimanendo impigliati nelle reti.

Un altro tipo di insidie, che sostituiscono con manufatti artigianali l'opera delle mani nella cattura dei pesci, è costituito dalle trappole. In alcuni casi si tratta di cesti con un meccanismo di chiusura automatica che imprigiona la preda all'interno; le nasse invece sono delle semitrappole in quanto non utilizzano meccanismi a sorpresa, ma solo particolari caratteristiche delle loro aperture; infine ci sono gli sbarramenti, fissi o mobili, costruiti in punti strategici di fiumi o torrenti, per fermare il passaggio dei pesci e catturarli agevolmente con le mani o con arpioni. Quest'ultimo tipo di pesca, diffuso in molte regioni fluviali del mondo, dà origine ad azioni collettive condotte da gruppi di abitanti di uno stesso villaggio.

A metà tra l'arma e l'insidia, il veleno rappresenta un altro espediente adottato soprattutto dalle popolazioni amazzoniche, per es. fra i jivaros che utilizzano sostanze velenose per stordire i pesci: gli uomini di un villaggio costruiscono uno sbarramento di canne lungo un corso d'acqua, spargendo a monte della diga un succo velenoso ricavato da un cespuglio; appena il succo penetra nell'acqua, i pesci salgono a galla in uno stato di stordimento e gli abitanti del villaggio possono catturarli facilmente.

Propiziazione della pesca

Come tutte le attività economiche dalle quali dipende la sussistenza di un popolo, anche la pesca intrattiene un legame stretto con il mondo sacro, che ne esalta l'importanza. Per questo motivo, presso i popoli pescatori si praticano spesso cerimonie propiziatorie affinché la pesca sia fruttuosa. Gli eschimesi dello Stretto di Bering credono che l'anima degli animali marini uccisi - balene, foche, trichechi - rimanga attaccata alla vescica. Per questo ogni pescatore conserva le vesciche delle sue prede e le getta nuovamente in mare nel corso di una cerimonia che si tiene annualmente. Tale gesto propiziatorio viene compiuto nella speranza che l'anima contenuta nella vescica, ritornata nel suo ambiente, dia vita a un'altra creatura, contribuendo così a mantenere cospicuo il patrimonio ittico.

Gli indiani kwakiutl della Columbia Britannica credono che l'anima di un salmone ucciso faccia ritorno a un mitico paese dei salmoni. Per questo, dopo averli catturati, ne gettano in acqua le lische e le interiora affinché il pesce ritorni in vita. Analogamente gli indiani ottawa del Canada non bruciano mai le lische dei pesci per non distruggerne completamente l'anima; gli huroni (di cui sopravvivono comunità in Oklahoma e in Canada) credevano che, se una lisca fosse finita tra le fiamme, avrebbe avvisato le altre anime dei pesci di non farsi più catturare. Una particolare attenzione viene riservata al primo pesce catturato della stagione. I maori della Nuova Zelanda credono che esso influenzerà tutta la pesca successiva, perciò lo buttano di nuovo in acqua pregandolo di convincere gli altri pesci a farsi catturare. Stesso atteggiamento era tenuto tra i kwakiutl, che andavano incontro ai primi salmoni vezzeggiandoli. L'idea che tra i pesci corresse un dialogo ritorna presso i karok della California, i quali ritenevano che se il capanno dove il pescatore teneva le sue fiocine fosse stato costruito con legno tagliato in riva al fiume, il pescatore non avrebbe mai catturato nessuna preda, in quanto i pesci avevano già visto quel legno. Perciò occorreva andare sulle montagne dell'interno per procurarsi il legno e ripetere l'operazione ogni anno, perché i salmoni più anziani conoscevano il legno vecchio e avrebbero avvertito i più giovani. Presso alcune popolazioni indie del Perù sono oggetto di adorazione le specie di pesci catturate più frequentemente. Alla base di tale culto è la credenza che il primo pesce fu creato nel cielo e da questo furono procreati tutti gli altri pesci, da lui inviati sulla Terra per nutrire gli uomini.

Mangiare o vendere

Una delle caratteristiche principali del prodotto ittico è costituita dal deterioramento assai rapido, che esige processi di consumo o di trasformazione molto più veloci rispetto a quelli richiesti dai prodotti agricoli. Nei casi in cui il pescato è destinato a un consumo locale, l'attività di pesca sarà di intensità e volume proporzionali alle capacità di consumo. In alcuni casi, il pesce in sovrappiù è essiccato o affumicato per consentirne una più lunga conservazione, ma non entra mai in un circuito di distribuzione commerciale. In seguito ai processi di modernizzazione e al sempre più frequente inserimento delle comunità di pescatori nei circuiti commerciali, si assiste a una progressiva trasformazione delle modalità produttive legate alla pesca. Con gradi di intensità differente a seconda dei contesti, i pescatori indirizzano sempre di più i loro prodotti verso il mercato piuttosto che verso le proprie tavole. La crescente richiesta porta inevitabilmente a un'intensificazione della pesca con conseguente deterioramento dei fondali. Inoltre si assiste a un vero e proprio rovesciamento dei processi di produzione e di consumo. È il caso dei pescatori huave di San Mateo del Mar in Messico, i quali, in passato, pescavano quasi esclusivamente per nutrirsi. Oggi invece essi pescano soprattutto per vendere il pesce catturato e, seguendo la logica della maggior produttività, dedicano a questa pratica molto più tempo di prima. A disposizione dei pescatori rimane solo il pesce di seconda qualità, quello meno nutriente e di piccole dimensioni che non trova sbocchi commerciali, mentre il ricavato della vendita è determinato dai prezzi di mercato e perlopiù risulta insufficiente ad acquistare viveri di qualità. Pertanto, il paradosso a cui si assiste è che attualmente nella comunità circola più denaro, la produzione è maggiore e così anche il lavoro, ma gli alimenti sono più scarsi e di qualità inferiore.

Bibliografia

J. Acheson, The anthropology of fishing, "Annual Review of Anthropology", 1981, 10, pp. 275-316.

F. Cuturi, Dalla laguna delle Sirene al mercato dei gamberi, "La Ricerca Folklorica", 1990, 21, pp. 61-68.

Ethnologica. L'uomo e la civiltà, a cura di V. Grottanelli, Milano, Labor, 1965.

Those who live from the sea. A study in maritime anthropology, ed. M.E. Smith, St. Paul, West, 1977.

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