VERDELOT, Philippe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 98 (2020)

VERDELOT, Philippe

Francesco Saggio

VERDELOT (Deslouges, Verdelotto), Philippe. – Non si conoscono data e luogo di nascita. Verdelot (forse il luogo di origine?) è un comune della Francia settentrionale, tra Parigi e Reims, oggi nel dipartimento Seine-et-Marne. Nei testimoni musicali alcuni brani di Verdelot sono ascritti a Philippe Deslouges: il nome richiamerebbe a sua volta Les Loges, località prossima a Verdelot. Ma non sussiste alcuna documentazione archivistica in proposito (Amati-Camperi, 1994, I, pp. 7-41; Ead., 2001, pp. 97-99). Assunto a Firenze intorno al 1520 in S. Giovanni, doveva essere nato nel nono decennio del secolo precedente.

Giorgio Vasari dice che Sebastiano del Piombo, prima di lasciare Venezia per Roma (primavera del 1511), avrebbe ritratto «Verdelotto franzese», assieme a «Ubretto suo compagno cantore», mentre era «maestro di cappella in San Marco» a Venezia (Delle vite de’ più eccellenti pittori scultori et architettori, I, III parte, Firenze, Giunti, 1568, p. 340): ma la testimonianza non convince, giacché in quegli anni il titolare in S. Marco era Pietro de Fossis. Non è peraltro certa l’identificazione del quadro in questione; si tratterebbe di una tela (conservata a Berlino fino al 1945) di cui si conosce soltanto una riproduzione in bianco-nero (Slim, 1972, I, tav. 30; Slim - La Via, 2001, p. 428). «Ubretto» è, forse, un cantore citato nei Libri di cassa dell’Opera di S. Maria del Fiore come «Bruet» (1° luglio 1523) o «Urbech» (28 giugno 1527); ancora nel 1552, Antonfrancesco Doni, che nella Seconda parte de’ Marmi (Venezia, Marcolini) fa intervenire Verdelot tra gli interlocutori (pp. 33-45), menzionando un «Bruett» suo compagno.

Se non vi sono prove certe di un soggiorno di Verdelot nel Nord della penisola, altri elementi ne confermerebbero la presenza a Roma. In una lettera da Roma, indirizzata il 25 maggio 1521 al cardinale Giulio de’ Medici, Niccolò de Pitti, priore della cappella di Leone X, afferma di aver mandato Verdelot a Firenze affinché accedesse alla cerchia musicale del prelato (Sherr, 1984, pp. 402-404, 409). Il musicista doveva quindi essere a Roma e avervi conosciuto Pitti.

Il primo documento che certifica l’impiego come maestro di cappella nel battistero di S. Giovanni a Firenze è datato 24 marzo 1521 ab Incarnatione (ossia 1522). Verdelot tenne il posto almeno fino al 7 settembre 1525. Sulla scorta di un passaggio nei Marmi di Doni (cit., p. 37) si è speculato sulle simpatie antimedicee che in questo periodo Verdelot avrebbe nutrito, legate alla frequentazione degli Orti Oricellari (i giardini di casa Rucellai chiusi nel 1522): di certo musicò alcuni testi attribuibili a poeti che vi presero parte, su tutti Niccolò Machiavelli. L’orientamento filorepubblicano parrebbe comprovato anche dai mottetti Letamini in Domino (Roma, Biblioteca Vallicelliana, ms. SI 35-40; Lowinsky, 1950), che utilizza il motto della fazione dei Piagnoni Ecce quam bonum (dal salmo 132), e In te Domine speravi (salmo 30), tema dell’ultima meditazione in carcere di Girolamo Savonarola. Non vi sono però prove certe a sostegno di questa lettura politica; anzi i rapporti diretti con Giulio de’ Medici, seguiti anche all’elezione papale come Clemente VII, dimostrerebbero l’opposto. Dunque, se pure Verdelot frequentò quell’ambiente, non dovette prendere parte attiva alla congiura antimedicea (Mangani, 2014, pp. 661 s.). Dal 2 aprile 1523 al giugno del 1527 Verdelot è documentato anche come maestro di cappella in S. Maria del Fiore: resse dunque in simultanea ambo le cappelle del battistero e del duomo.

Nel luglio del 1523, con altri cantori, lasciò Firenze per una destinazione ignota, forse Roma, dove la sua presenza è accertata fra il dicembre del 1523 e il gennaio del 1524, per servire il neoeletto Clemente VII. Nell’aprile del 1524 era di nuovo a Firenze; nello stesso anno ci fu la prima collaborazione certa con Machiavelli (Mangani, 2014, pp. 663-665; Gialdroni-Ziino, 2015): si trattò delle tre canzoni a quattro voci da eseguire come intermedi fra gli atti di Clizia, commedia scritta alla fine del 1524 e recitata il 13 gennaio 1525. Canzoni è il termine proprio con cui sono designate, nei testimoni degli anni Venti, le composizioni polivocali su rime volgari, in seguito generalmente denominate madrigali (anche quando siano condotte su componimenti poetici d’altra forma). Nel caso di Clizia furono la canzone Quanto sia lieto il giorno, che funge da prologo (poi edita ne Il primo libro de madrigali di Verdelotto, Venezia, Antico e Scotto, 1533; il titolo è quello dell’edizione 1537), e i madrigali che fanno da intermedi alla fine del primo e del quarto atto, Chi non fa prova, Amore e Sì suave è l’inganno. In marzo Verdelot si allontanò di nuovo da Firenze.

Al 1526 si possono datare le prime edizioni a stampa contenenti madrigali di Verdelot, forse gli unici pubblicati in vita del compositore: Messa motteti canzonni [...] libro primo (Roma, Nicolò de Giudici?; due brani suoi) e Libro primo de la fortuna (s.n.t., ma Roma, De Giudici; due brani). Allo stesso periodo risale anche un gruppo di manoscritti che tramandano il nucleo più antico dei madrigali di Verdelot (Fenlon-Haar, 1988). Spiccano i libri-parte del codice Q.21 (Bologna, Museo della musica; Gallico, 1961) e del codice ‘Newberry-Oscott’ (Chicago, Newberry Library, Case ms. VM 1578.M91, e Sutton Coldfield, Oscott College, ms. Case B No. 4; ed. in Slim, 1972, e suppl. 1978): entrambi i testimoni sono di origine fiorentina e furono vergati alla metà del terzo decennio da Giovan Pietro Masacone, un cantore formatosi proprio presso il battistero della città.

Verdelot era all’apice della carriera. Con Machiavelli, per la progettata recita faentina di Mandragola (Carnevale 1526), riutilizzò due madrigali di Clizia come intermedi dopo il primo e il terz’atto (Chi non fa prova, Amore e Sì suave è l’inganno) e ne compose uno nuovo per il quarto atto, O dolce notte, o sante.

Morì in data e luogo imprecisati. Su base indiziaria, il decesso può essere collocato tra il 1527 e il 1530, a Firenze o a Roma. L’ultimo documento relativo al compositore francese è un pagamento relativo al servizio in S. Maria del Fiore, datato 28 giugno 1527. Proprio in quell’estate la peste si abbatté su Firenze e non è impossibile che Verdelot vada annoverato fra le vittime del contagio (Slim, 1972, I, p. 64; Amati-Camperi, 1994, I, p. 37; Ead., 2001, pp. 99-102). Dopo questa data tutte le testimonianze sono solo indirette.

Il madrigale Trista Amarilli mia, dunque è pur vero, i cui versi offrono un’allegoria degli eventi succeduti al sacco di Roma e pertanto dev’essere stato scritto non prima della primavera del 1527, va collocato tra le sue ultimissime composizioni. Il brano, con altri sette sempre di Verdelot, fu poi pubblicato nei Madrigali novi de diversi excellentissimi musici: libro primo de la serena (Roma, [Valerio Dorico], 1530, esemplare privo del frontespizio; il titolo si desume dalla seconda edizione, 1533, dove per la prima volta compare il termine madrigale applicato al genere musicale). Sempre al Sacco potrebbe alludere il madrigale a cinque voci su testo di Francesco Petrarca, Italia mia, benché ’l parlar sia indarno (stampato nel secondo libro di madrigali a cinque, 1538). Anche il mottetto a cinque Incipit oratio Jheremie, quello a sette Sint dicte grates Christo (dedicato a s. Giovanni Battista) che contiene il verso «cessabit bellum externum, penuria, pestis», e quello a sei Congregati sunt inimici nostri, potrebbero riferirsi proprio alla situazione drammatica degli anni 1527-30.

In senso storico-musicale, la produzione madrigalistica di Verdelot (edd. moderne: Madrigals for four and five voices, a cura di J.A. Owens, nella serie Sixteenth-century madrigal, xxviii-xxx, London 1989; Madrigali a sei voci, a cura di A. Amati-Camperi, Pisa 2004; Saggio, 2014) sta sotto il segno di una contraddizione: la durevole fortuna di queste opere è legata non tanto alla tradizione manoscritta, più prossima in termini storici e geografici all’autore, quanto a quella a stampa, che prende avvio nel 1533 a Venezia ed è pertanto del tutto postuma, né pare potersi ricondurre alla volontà dell’autore (Mangani, 2014, p. 661). Essa è inoltre costellata di problemi di attribuzione, che rendono assai difficile stabilire un canone univoco.

Per i madrigali a quattro voci, oltre al già citato Primo libro (rime di Machiavelli, Petrarca, Giovanni Brevio, Dragonetto Bonifacio, Matteo Bandello, Ludovico Martelli, Pietro Aretino, Giovanni Guidetti; Saggio, 2014), si annoverano Il secondo libro de madrigali (Venezia, Antico e Scotto, 1534; frontespizio dall’edizione 1536; Saggio, 2018), su testi di Bonifacio, Biagio Bonaccorsi, Petrarca, Machiavelli, Brevio, Gian Giorgio Trissino e la prosa di Giovanni Boccaccio O singular dolcezza (Campagnolo, 2015, pp. 58-61); e Il terzo libro de madrigali di Verdelotto insieme con alcuni altri bellissimi madrigali di Constantio Festa et altri eccellentissimi auttori (Venezia, Antico e Scotto, 1537; testi di Panfilo Sasso, Machiavelli, Martelli, Antonio Brocardo, Bonifacio). Del Primo libro, oltre a tre ristampe certe, venne in luce per cura di Adrian Willaert l’intavolatura «da cantare et sonare nel lauto» ([Venezia, Scotto], 1536; ed. a cura di B. Thomas, London 1980). I testi dei madrigali appartengono in genere a poeti della cerchia culturale a cui afferiva il musicista, mentre scarso rilievo occupano le rime di Petrarca (solo otto, tra cui due brani d’incerta attribuzione; Saggio, 2018, pp. 104-113).

Dei madrigali a cinque voci si conoscono due libri: Madrigali a cinque: libro primo (s.n.t., ca. 1536-1537; testi di Brocardo, Bonifacio, Aretino, Angelo Poliziano, Iacopo Sannazaro, Bernardo Accolti); De i madrigali di Verdelotto et de altri eccellentissimi auttori a cinque voci: libro secondo (Venezia, Ottaviano Scotto, 1538; testi di Luigi Cassola, Martelli, Petrarca, Cino da Pistoia). Un unico libro è dedicato ai brani a sei voci: Verdelot la più divina et più bella musica che se udisse giamai delli presenti madrigali a sei voci. Composti per lo eccellentissimo Verdelot. Et altri musici, non più stampati (Venezia, Antonio Gardane, 1541; testi di Martelli, Sasso).

Il fatto che Verdelot fosse defunto è confermato, oltre che dall’assenza di lettere dedicatorie in tutte le edizioni, dalla presenza sempre più copiosa di brani di altri autori in queste tre collettanee, peraltro dichiarata anche negli ultimi frontespizi: se nel primo libro si limitano a due casi, nel secondo sono undici e nel terzo diciotto. Anche nelle raccolte a cinque voci, su una ventina di brani più della metà spettano ad altri madrigalisti; nell’unico libro a sei voci, solo sei madrigali sono sicuramente di Verdelot. Per sopperire alla scarsità del materiale, a partire dal 1540 l’editore Scotto si inventò un’edizione congiunta dei primi due libri Di Verdelotto tutti li madrigali del primo et secondo libro a quatro voci (Venezia, Girolamo Scotto, 1540): ebbe una fortuna tale da essere ristampata da altri editori (tra cui Antonio Gardane e Claudio Merulo) fino al 1566.

La notorietà di Verdelot è indubbiamente legata ai suoi madrigali, in ragione della posizione primordiale che gli spetta nella storia di un genere di cui egli può considerarsi, per certi versi, l’‘inventore’. Nel dibattito storiografico circa l’origine del madrigale – un genere destinato a immensa fortuna in Italia e in Europa per un intero secolo – si manifestano opposte tendenze, tra chi argomenta la discendenza filogenetica dal repertorio della frottola in auge tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, chi sostiene una netta influenza della chanson francese, chi vi coglie un’invenzione ex novo legata ai luoghi in cui esso si sviluppò e chi ancora lo vede come esito dell’incontro fra correnti culturali diverse ma coesistenti (Fenlon - Haar, 1988; Cummings, 2004; Gerbino, 2005; Saggio, 2014, pp. 21-53; Mangani, 2014, pp. 662 s.; Gialdroni-Ziino, 2015, pp. 56-60).

Verdelot fu anche prolifico compositore di musica da chiesa. A differenza dai madrigali e dalle chansons – se ne conoscono soltanto quattro a lui riconducibili – essa è quasi del tutto consegnata alla tradizione manoscritta: mancano edizioni dedicate esclusivamente a sue composizioni sacre, sebbene alcune appaiano in collettanee e florilegi anche importanti. Gli si attribuiscono due messe a quattro voci, che imitano il mottetto Philomena praevia di Jean Richafort e un Magnificat a sei. Il gruppo più cospicuo è quello dei mottetti (Böker-Heil, 1967), una sessantina, destinati a occasioni liturgiche o legati, come si è visto, a circostanze storiche. Grazie alla fama raggiunta dall’autore, alcuni divennero modello per messe di altri compositori: il mottetto a quattro Gabriel Archangelus, stampato nei Motteti del fiore (Lyon, Moderne, 1532), fu utilizzato da Giovanni Pierluigi da Palestrina per l’omonima messa, pubblicata nel Liber primus missarum (1555). Il mottetto a cinque Si bona suscepimus, che appare in almeno sei raccolte a stampa, ventisette manoscritti e undici intavolature, fu impiegato come modello, tra gli altri, da Orlando di Lasso e Cristóbal de Morales.

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