PICO, Giovanni, conte della Mirandola e Concordia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 83 (2015)

PICO, Giovanni, conte della Mirandola e Concordia

Franco Bacchelli

PICO, Giovanni, conte della Mirandola e Concordia. – Nacque il 24 febbraio 1463 nel castello della Mirandola da Giovan Francesco I (m. 1467) e da Giulia Boiardo (zia del poeta Matteo Maria).

Ultimogenito di cinque figli, prima di lui erano nati due maschi e due femmine: Galeotto (marito di Bianca, sorella di Ercole I, duca di Ferrara, e padre di Giovan Francesco, futuro editore delle opere dello zio), Antonio Maria, Caterina (sposa nel 1473 a Leonello Pio di Carpi e madre di Alberto Pio, il mecenate di Aldo Manuzio) e Lucrezia.

Tra il luglio e l’agosto 1469, mentre Giovanni è sotto la tutela della madre, fu raggiunto un accordo tra i fratelli per la divisione pacifica dei beni paterni. Nel maggio o nel giugno del 1473 il cardinale Francesco Gonzaga conferiva a Pico in Bologna il titolo di protonotario apostolico. Il conte trascorse il biennio 1477-78 «discendi iuris pontificii gratia» allo Studio di Bologna, dove si era trasferita anche la madre – in gravi contrasti con il figlio Galeotto – che venne a morte in quella città il 13 agosto 1478. Poco coinvolto nelle lotte che dividevano i suoi due fratelli, anche se formalmente fedele al primogenito Galeotto, Pico abbandonò allora gli studi giuridici, cui la madre lo aveva destinato in vista di una carriera ecclesiastica, per intraprendere studi di umanità e filosofia. Per questo si recò allo Studio di Ferrara, dove giunse il 29 maggio del 1479 ma, in un mese imprecisato di quell’anno (con ogni probabilità nella primavera del 1479) dimorò brevemente a Firenze incontrando forse per la prima volta Marsilio Ficino, Agnolo Poliziano e Girolamo Benivieni, che lo ricordò poi nella sua Bucolica, stampata nel 1482.

A Ferrara, ove soggiornò tra il maggio 1479 e la tarda estate del 1480, strinse amicizia con Battista Guarino e conobbe Niccolò Leoniceno e Tito Vespasiano Strozzi; non è certo invece un suo incontro – anche se probabile – con Girolamo Savonarola, con cui entrò in rapporto pochi anni dopo, nell’aprile 1482, quando si recò a Reggio per assistere alle dispute teologiche che vi si tennero in occasione del Capitolo della congregazione domenicana lombarda. A Ferrara ricordò di averlo ammirato Raffaele Maffei mentre, nella sua veste di protonotario, era impegnato in una pubblica disputa filosofica – «magna spectantium admiratione», benché fosse ancora «in rudimentis» – con Leonardo Nogarola.

Nell’autunno del 1480 Pico si recò a Padova per approfondire gli studi filosofici. Il soggiorno, che si protrasse sino all’estate del 1482, significò sostanzialmente l’incontro con Averroè e l’averroismo: a Padova, infatti, Pico ebbe modo di ascoltare Nicoletto Vernia e soprattutto di incontrare Elia del Medigo, proveniente da Creta e già inserito nell’ambiente padovano.

Elia, ebreo profondamente anticabalista, conosceva a fondo Aristotele e soprattutto Averroè, di cui era in grado di leggere anche gli scritti e i commenti tradotti in ebraico nei secoli precedenti e non ancora noti ai latini. È un averroismo visto sostanzialmente come un tentativo di esegesi di Aristotele contro le mescolanze dottrinarie o dell’avicennismo e della grande scolastica latina; inoltre, e proprio per questo, Elia ebbe un approccio genetico al pensiero di Averroè e di Aristotele, insegnando a Pico le stratificazioni temporali, di conquista successiva della verità, che si scorgono all’interno dei corpora di Aristotele e Averroè; e tale insegnamento non fu esercitato solo sui problemi dell’intelletto, che formavano l’interesse precipuo degli averroisti padovani, ma anche sulle questioni del corpus biologico e zoologico di Aristotele.

Elia tradusse per Pico durante questo primo soggiorno padovano parecchi commenti averroistici ignoti ai latini e continuò a farlo anche quando Pico si allontanò da Padova, in particolare nel corso di due altri incontri ch’ebbe con Pico: a Firenze nell’estate 1485 e a Perugia e Fratta nell’estate del 1486.

Nella primavera del 1482 Pico lasciò Padova, probabilmente a causa dello scoppio della guerra tra la Repubblica veneta e il duca di Ferrara, e si rifugiò a Mirandola; qui fu raggiunto da Aldo Manuzio – come lui stesso rivela in una lettera a Poliziano, che è quasi l’unica fonte per l’anno 1483 (Omnia opera Angeli Politiani, Venetiis in aedibus Aldi 1498, c. 2). Presso Pico Aldo trovò un greco, Emanuele Adramitteno, che il conte aveva condotto con sé da Padova come maestro di lingua: si trattava (v. il suo scritto greco del giugno 1483, contenuto nel Monacensis graecus 321 e riguardante i sapienti pagani che avevano profetato l’avvento di Cristo) di uno studioso di severa religiosità, diffidente dell’empietà dei tanti seguaci di Gemisto Pletone presenti tra i profughi greci, e, benché esperto ellenista, preoccupato, come del resto Aldo e Pico, di una possibile torsione neopagana degli studi classici.

Nel settembre 1483 Pico accompagnò Adramitteno a Pavia, dove il greco aveva trovato forse una condotta di insegnamento. Ma presto ritornò indietro; Aldo lo incontrò infatti di nuovo a Carpi, nel novembre 1483, presso la sorella Caterina, vedova ormai di Leonello Pio. A Carpi Pico si fermò sicuramente sino al luglio, ma già nella tarda estate o nel primo autunno del 1484 si recò a Parigi. Del viaggio non si sa quasi nulla: documentato alcuni anni dopo dallo stesso Pico nell’Apologia, fu ricordato in una lettera inviatagli da Alessandro Cortesi da Roma nella tarda estate del 1486.

Ritornato dalla Francia, si recò sui primi di dicembre del 1484 a Firenze: e le ragioni del suo tornare a Firenze le spiegò bene il 6 dicembre 1484 in una lettera a Ermolao Barbaro. Dopo l’immersione degli anni padovani e con l’aiuto di Elia nello studio profondo della tradizione peripatetica e nella conoscenza delle varie interpretazioni, soprattutto dell’averroismo radicale, sentiva ora il bisogno di conoscere a fondo Platone e la tradizione neoplatonica.

Nella lettera emerge già, oltre a un elogio dello stile sublime di Platone, un’idea che accompagnò Pico sino agli anni delle Conclusiones e forse per tutta la vita: analizzando in profondità – di là dalla corteccia delle parole – le soluzioni ai diversi problemi filosofici elaborate da Platone e da Aristotele, si poteva dimostrare la sostanziale loro concordanza, di cui spiegò poi meglio le ragioni nell’Oratio della fine del 1486.

A Firenze Pico incontrò una società ben diversa da quella feudale e cortigiana che aveva conosciuto sino ad allora, in cui, a prescindere dalla gerarchia sociale, che certo esisteva, contavano soprattutto il sapere e la cultura. Qui poté vivere davvero ciò che dall’inizio della rivoluzione petrarchesca aveva significato l’adozione del ‘tu’ latino e umanistico, e così si trovò a cooperare con uomini come Ficino e Poliziano, di famiglie borghesi, che dovevano il loro riconoscimento sociale solo alla loro capacità di studio e insegnamento.

L’incontro con la cultura fiorentina comportava poi anche fare i conti con una tradizione volgare ben più cólta e articolata di quella praticata nelle corti settentrionali, e con una lingua non solo volta al verso, ma anche a prose morali, religiose e filosofiche, in cui si esercitava anche il primo cittadino di Firenze, Lorenzo il Magnifico, che sempre ammirò, amò e protesse Pico, il quale, alcuni anni dopo, il 15 luglio 1486, gli indirizzò una lettera, dove si trovavano acuti giudizi sulla poesia di Dante e Petrarca.

Nell’estate del 1485 lo raggiunse a Firenze Elia del Medigo, che, tra l’altro, tradusse per lui la parafrasi di Averroè della Repubblica platonica. Una lettera di Ficino a Domenico Benivieni databile al 1485 rivela delle dispute frequenti, avvenute nella casa di Pico, che Elia e un certo Abraham avrebbero sostenuto contro l’ebreo converso Guglielmo Raimondo Moncada (meglio conosciuto poi con il nome di Flavio Mitridate) a proposito della veridicità delle profezie veterotestamentarie riguardanti Cristo; lettera, ch’è anche la prima testimonianza della presenza accanto a Pico, in quell’estate 1485, di Mitridate, forse già impegnato a tradurre per lui testi filosofici ed esegetici.

All’aprile-giugno 1485 risale anche una delle polemiche culturalmente più significative sostenute da Pico. Barbaro, infatti, gli aveva scritto per esortarlo a proseguire gli studi greci, mostrandosi d’accordo sulla sua idea di una concordia tra Platone e Aristotele, ma aveva poi inveito contro l’ultima Scolastica, contro i ‘Teutoni’ «sordidi, rudes, inculti, barbari»; quasi ci fosse un nesso necessario tra l’eleganza dello stile e la capacità di indagare il vero. Pico rispose prontamente, il 3 giugno 1485, con una lettera, subito celebre, in cui difese la tradizione filosofica dell’antica e moderna scolastica, con il suo patrimonio di distinzione e di chiarezza, ma anche con una sua particolare e rispettabile lingua e sintassi (lo stilus parisiensis), elevando di fronte al più vecchio e rispettabile amico una coraggiosa e ferma protesta contro la vuotezza di certa cultura del suo secolo, unicamente letteraria e retorica. Questa difesa di Pico, alla fine del XV secolo, non deve essere considerata alla stregua di neomedievalismo, bensì come atteggiamento caratteristico di alcuni dei meno convenzionali e più aperti ambienti umanistici e di quella parte, altresì, dell’aristotelismo universitario che più era volta al rinnovamento della propria disciplina.

Pico trascorse a Firenze l’inverno tra il 1485 e il 1486, probabilmente impegnato, assieme a Flavio Mitridate, nello studio dell’ebraico, dell’arabo e forse già della Cabala. Ma il 1486 fu segnato anche da uno scandalo amoroso: Pico si era innamorato infatti, corrisposto, di Margherita, moglie di Giuliano di Mariotto di Medici (un ramo povero della grande famiglia), che eserciva le gabelle di Arezzo. Il 10 maggio 1486, mentre la donna era uscita fuori dalle mura di Arezzo, il conte, probabilmente diretto a Roma con un nutrito gruppo di suoi servitori, la rapì – o meglio fece finta di rapirla – portandola verso i confini della Repubblica di Siena. Arezzo tutta fu messa a rumore e il podestà fiorentino della città, Filippo Carducci, inseguì Pico e la sua scorta. Alcuni furono uccisi e Pico fu fatto prigioniero nelle vicinanze di Marciano, vicino al confine senese. Era un’intrapresa che il conte si sarebbe potuto permettere impunemente con un piccolo borghese dei suoi paesi, ma non in Toscana, adusa da tempo ad alcune garanzie di protezione legale. Lorenzo de’ Medici accorse in sua protezione e tutto si risolse in un congruo versamento di denaro al marito. Dopo quest’incidente – forse anche per dimenticare e far decantare il clamore dello scandalo – Pico si trasferì a Perugia e poi a Fratta, presso l’amico perugino Alfano degli Alfani. Qui compose la sua prima opera di impegno filosofico, il Commento sopra una canzona de amore composta da Girolamo Benivieni, dove si trovano materiali per un progetto (la composizione di una Teologia poetica) rimasto irrealizzato.

Si tratta del commento a una canzone di Benivieni sull’origine di amore, che divenne occasione per esaminare e criticare la concezione filosofica di Ficino: non solo il suo diffuso commento al Simposio platonico, ma anche tutta la sua concezione dell’emanazione dei pleromi superiori, Mente e Anima, dall’Uno nonché la sua dottrina della conoscenza. Il risultato è sorprendente: Pico non contrappone al platonismo di Ficino un’altra concezione, ma mostra come il filosofo avesse confuso varie fasi dello sviluppo di quel platonismo e di quel neoplatonismo, di cui si dichiarava interprete, indicando i problemi cruciali sui quali Plotino, da una parte, e il neoplatonismo posteriore, dall’altra, si erano divisi radicalmente, dando luogo a soluzioni metafisiche e gnoseologiche notevolmente diverse; e di questo Ficino non si era accorto. Pico muove una critica a Ficino soprattutto in riferimento alla questione gravissima della completa caduta, nel mondo della diversità, dell’anima, sostenuta da Giamblico, Proclo e Pico, o della permanenza di una parte di essa nel mondo superiore, affermata invece da Plotino e da Ficino. Ben più di Ficino, Pico aveva una sicura conoscenza di Aristotele e della tradizione peripatetica antica e medievale, ma aveva approfondito anche lo studio della tradizione teologica tardomedievale e aveva presenti, nelle loro distinzioni, i problemi e le soluzioni avanzate dalle varie scuole. Lettore degli scritti di Ficino, la sua buona conoscenza del greco gli aveva però permesso di ricontrollare le esegesi e le riesposizioni ficiniane sui testi originali e non ne era rimasto soddisfatto. In tal senso si può affermare ch’egli fosse, oltre che un teoreta appassionato, anche un eccellente storico della filosofia; proprio per questo era, da un lato, insofferente di indebite soluzioni conciliative e di confuse utilizzazioni del pensiero antico per fini apologetici, ma, dall’altro, cosciente di un senso vivissimo della continuità di alcune grandi tematiche gnoseologiche e metafisiche che dalla filosofia di Platone e di Aristotele passavano, con la loro intatta problematicità, nella Scolastica.

A Perugia e a Fratta Pico ebbe di nuovo ospite Elia del Medigo, con cui lavorò ancora su testi di Averroè. Nell’autunno e nel primo inverno 1486, fatto ritorno a Firenze, si immerse completamente, con l’aiuto di Flavio Mitridate, nello studio dell’arabo e dell’ebraico. Questo converso, di bizzarro e protervo carattere, ma grande conoscitore dell’ebraico, dell’arabo e della tradizione cabalistica, tradusse dapprima una serie di testi esegetici ebraici medievali (come il commento al Cantico dei Cantici di Levi ben Gershom), poi iniziò la versione di una lunga serie di scritti cabalistici, il primo dei quali fu probabilmente il Commento al Pentateuco di Menachem da Recanati. Era un interesse, questo per la Cabala, che Ficino condannava, ma da cui dissentiva fortemente anche Elia – odiatissimo da Mitridate – come appare in una lettera che il Cretese scrisse a Pico allorché questi, sul finire dell’anno, si trovava già a Roma.

Lo studio della Cabala – con quelli precedenti sulla tradizione aristotelica, platonica e scolastica – doveva servire a Pico alla compilazione nell’autunno del 1486 di novecento tesi che egli voleva discutere a Roma in una grande disputa da tenersi nei giorni successivi all’Epifania dell’anno seguente, in cui avrebbe potuto dimostrare la convergenza di tutte le grandi tradizioni filosofiche e teosofiche dell’Occidente e dell’Oriente. Le Conclusiones nongentae publice disputandae, pubblicate a Roma il 7 dicembre 1486, sono tesi tratte dal patrimonio di tutte le scuole filosofiche e teologiche antiche e moderne; vi sono presenti opinioni non solo dei filosofi antichi, degli arabi, degli ebrei, degli scolastici, ma anche di Ermete Trismegisto, degli antichi maghi e dei cabalisti. Tratte dalla Cabala, le Conclusiones sono veramente la prima notizia fedele delle dottrine segrete del misticismo e della teurgia ebraica che gli intellettuali latini abbiano avuto a disposizione.

A introduzione della grande disputa Pico scrisse nell’autunno del 1486 una Oratio (meglio nota come Oratio de hominis dignitate), che in questi ultimi due secoli è stata considerata, sopravvalutandola, come una sorta di manifesto dell’Umanesimo europeo. Nell’Oratio si sottolinea ampia convergenza e accordo tra i pensatori di tutti i tempi, da ritrovarsi, di là dalle divergenze e dalle discussioni, nascosta sotto l’apparente diversità della terminologia e dei sistemi. All’inizio di questo vero ‘manifesto’ della pax philosophica è una scena mitologica – derivata nella struttura, e forse nel profondo significato, dal mito antropogonico del Protagora platonico – sul cui significato si è molto discusso, in cui Dio dichiara come l’uomo, diversamente dalle cose e dagli animali, non sia essenza tra le essenze, non abbia natura alcuna, ma che tutte le possa acquisire con la sua volontà, che, libera qual è, sceglie talvolta anche di ribellarglisi. È un mito di cui è stata proposta una discutibile interpretazione pre-esistenzialistica e di cui andrà ricercata più pazientemente la genesi non solo nella speculazione tomista e scotista sulla volontà e sulla libertà, ma anche nell’idea, di ascendenza ficiniana, che la vera natura degli uomini, rispetto ai bruti, sia un’uscita dall’istinto animale, infallibile e in certo modo superiore nelle sue realizzazioni alla scienza umana, verso le più incerte e faticose mete della volontà razionale, dell’intelligenza e del faticoso pensiero discorsivo.

Pico si diresse verso Roma nel dicembre del 1486. Ma la pubblicazione delle Conclusiones suscitò particolare malumore in papa Innocenzo VIII, che già da tempo vedeva con sospetto i centri periferici di autonoma discussione teologica e filosofica – le Università e gli studi teologici e soprattutto lo Studio di Parigi –, e avrebbe voluto vocare al magistero della Curia romana, contro la libera discussione dei due ultimi secoli, tutti i dibattiti. Il 20 febbraio 1487 il papa emanò un breve con cui sospendeva la discussione, affidando a una commissione di teologi il compito di esaminare le Conclusiones e che, riunitasi il 2 marzo 1487, decretò che sette conclusioni risultavano eretiche, mentre altre sei erano in odore di eresia. Pico rispose con la pubblicazione, nel maggio di quell’anno, dell’Apologia conclusionum suarum.

Si tratta di un’opera di grande respiro dove traspare la sua grande preparazione filosofica, teologica e canonistica, e in cui si dimostra grande conoscenza proprio di quel genere di nuova e moderna teologia parigina che la Curia detestava. Pico difende con vigore la libertas philosophandi su tutti i punti che la Chiesa aveva lasciato indecisi. Importanti furono per i contemporanei i chiarimenti dati nell’opera a proposito della magia naturale e della Cabala e l’aperta rivendicazione della possibilità della salvezza eterna di Origene, che fece grande impressione a Erasmo e alla teologia umanistica francese dei primi anni del XVI secolo.

Tuttavia Innocenzo VIII, adirato perché Pico non aveva atteso la conferma papale dei lavori della commissione, il 6 giugno 1487 promulgò un altro breve in cui decideva di istituire un processo inquisitoriale. Non solo il 31 luglio 1487 Pico si vide costretto a un atto di sottomissione al giudizio del papa ma, con una bolla del 4 agosto 1487, resa nota però solo il 15 dicembre, furono condannate in blocco tutte le Conclusiones e ordinato l’arresto di Pico, il quale, ai primi del 1488, fuggiva verso la Francia.

Varcato il confine, fu arrestato nel febbraio 1488 nei dintorni di Lione dagli uomini di Filippo di Savoia, signore di Bresse, che lo consegnò a Carlo VIII, grande amico dei Pico. Il re, più che altro per offrirgli protezione contro le rimostranze dei nunzi papali, lo fece ‘imprigionare’ nella rocca di Vincennes, da dove, rilasciato ai primi di marzo del 1488, facendo una lunga diversione verso il Reno per visitare la biblioteca legata all’ospedale di Kues dal cardinale Cusano, fece ritorno a Firenze. Tuttavia, il contrasto con Roma, soprattutto mediante i buoni uffici di Lorenzo il Magnifico, poté essere chiuso solo il 18 giugno 1493 con una bolla di assoluzione di Alessandro VI.

Il nuovo soggiorno fiorentino vide Pico, nuovamente immerso nello studio della Sacra Scrittura, sempre più dibattersi in problemi religiosi e teologici. Lo coadiuvava ora nello studio dell’ebraico Jochanan Alemanno, un ebreo, stabilitosi nel 1488 a Firenze, grande esegeta della Scrittura.

Frutto di tali studi furono, tra le altre cose, la traduzione di Giobbe dal Vaticano Ottoboniano latino 607, il commento ad alcuni Salmi e l’Heptaplus, stampato alla fine del 1489, che dimostra come Pico non avesse rinunciato alle sue idee: vi è fatto grande uso dell’esegesi ebraica alla Genesi, è continuamente richiamata l’esegesi cabalistica e vi si trovano idee dell’Oratio e delle Conclusiones. E non a caso l’opera irritò ancora di più Roma, da cui lo difendeva vivacemente Lorenzo, con la mediazione degli ambasciatori fiorentini presso la Curia.

Pico aveva ottenuto dal Magnifico di far tornare Savonarola a Firenze, dove il frate giunse nell’estate del 1490. Il rapporto con Pico, vòlto ormai alla meditazione religiosa, fu subito molto stretto: Savonarola sperava presto o tardi di farne un grande luminare dell’Ordine domenicano osservante, ma la cultura dei due aveva una genesi troppo diversa. Pico aveva ben più alta stima dei pensatori antichi, credeva fermamente ancora – come disse in un colloquio con il frate, conservatoci da Pietro Crinito – «posteris etiam se probaturum Christi religionem magna ex parte cum veteri philosophia consentire»; ma soprattutto esitava di fronte alle insistenze di Savonarola a prender l’abito, perché, d’animo ardente, non riusciva a rinunciare all’amore per le donne.

Altrettanto stretto si fece anche il rapporto con Poliziano per cui compose verso la fine del 1490 l’opuscolo De ente et uno, frammento, nelle intenzioni di Pico, di una progettata concordia tra Platone e Aristotele.

Nell’opuscolo, rifacendosi anche alla disputa del Parmenide platonico, spiegò al filologo in quale senso i ‘trascendentali’ logici ens e unum potessero essere predicati delle creature e del Creatore; e gli illustrò, facendo i conti con la tradizione dionisiana, come Dio potesse essere detto in un senso partecipe dell’essere e superiore a esso.

Nell’aprile 1491 – per attendere più quietamente agli studi – Pico fece cessione al nipote Giovan Francesco dei suoi redditi feudali in Mirandola e Concordia dietro il compenso di trentamila ducati d’oro.

Nel giugno 1491 si recò in compagnia di Poliziano a Venezia facendo sosta a Bologna, Ferrara e Padova: in ogni città cercarono libri e rividero amici letterati. L’8 aprile 1492 venne a morte Lorenzo de’ Medici, uno dei più sinceri sodali e patroni di Pico, che accorse subito – come è descritto in una famosa lettera di Poliziano ad Antiquario – al capezzale del morente assieme a Savonarola. Aderendo probabilmente a un progetto ideato da quest’ultimo, teso alla confutazione di tutte le pratiche divinatorie e superstiziose, nel corso del 1492 Pico iniziò le Disputationes adversus astrologos, pubblicate postume dal nipote Giovan Francesco.

L’opera è tesa a dimostrare che i cieli e le stelle non emanano alcun influsso, ma solo luce e calore, che essi non sono cause dirette dei fenomeni, ma cause remote e lontanissime, uniformemente determinanti tutta la realtà sublunare e quindi non suscettibili di dare indicazioni utili intorno agli accadimenti terreni particolari. Nel restituire ai fenomeni le cause proprie e prossime, Pico oppose alle pseudoragioni della letteratura astrologica antica e medievale il recupero della genuina filosofia naturale e biologica di Aristotele, tentando di comprendere le esigenze psicologiche e sociali cui cercava di rispondere questa vera e propria sopravvivenza degli antichi culti astrali all’interno della civiltà cristiana che era l’astrologia. Nel condurre questa ‘storia filosofica’ della superstizione, Pico ebbe modo di iniziare la confutazione di quel particolare modo di concepire il succedersi delle grandi religioni profetiche che da Abumasar in poi è noto come ‘oroscopo delle religioni’. Come Pico si era a suo tempo ben reso conto della pericolosità del sincretismo neoplatonico, così, dopo che Ficino mostrò di credere (nel De vita del 1489) all’astrologia talismanica, egli appuntò la sua polemica di filosofo cristiano contro questo miscuglio, creatosi nei secoli precedenti, di aristotelismo e teorie astrologiche che portava a considerare l’uomo, la sua volontà, i profeti, i miracoli, le religioni – e le costituzioni politiche che ne derivavano – semplicemente alla stregua di capricciose e variopinte forme di cui gli astri si divertirebbero ad adornare la materia sublunare.

A due mesi dalla morte dell’amico Poliziano (24 settembre 1494), anche Pico cessava di vivere, vestendo finalmente l’abito domenicano, il 17 novembre 1494, non senza che corressero fondati sospetti che lo avesse avvelenato il suo cancelliere Cristoforo da Casalmaggiore.

Opere. Quasi tutte le opere di Pico, edite e inedite, furono raccolte dal nipote Giovan Francesco e stampate a Bologna da Benedetto Faelli in due volumi tra maggio e luglio del 1496: il primo contiene, premessavi l’importantissima Vita scritta dal nipote, l’Heptaplus, l’Apologia, il De ente et uno, l’Oratio, le Epistulae e alcune operette spirituali; il secondo l’edizione postuma dei dodici libri delle Disputationes adversus astrologiam divinatricem. L’edizione fu ristampata in Opera omnia Ioannis Pici Mirandulae… item Ioannis Francisci Pici… opera quae extant omnia, Basileae, ex officina Henricpetrina, 1572.

Per le prime edizioni delle opere si vedano rispettivamente: Commento sopra una canzona de amore, pubblicato per la prima volta in Opere di Hieronymo Benivieni, Firenze, eredi di Filippo Giunti, 1519; dell’Oratio quedam elegantissima – che dall’edizione di Strasburgo del 1504, fu poi universalmente nota come Oratio de hominis dignitate – si hanno due redazioni: la prima, composta tra Perugia e Fratta nell’autunno del 1486, è conservata, con lacune, in Biblioteca nazionale di Firenze, Palatino, 885, cc. 143r-153v di mano di Giovanni Nesi; la seconda, rimaneggiata e accr., fu composta da Pico a Roma tra la fine del 1486 e l’inizio del 1487 ed è conservata nel primo volume della stampa bolognese del 1496 (con probabili tagli di Giovan Francesco Pico). La migliore edizione delle due redazioni è Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di F. Bausi, Milano 2014, che si giova anche di un ottimo e misurato commento.

Conclusiones DCCCC publice disputandae, Roma, Eucharius Silber 7 dicembre 1486; ed. critica: S.A. Farmer, Syncretism in the West: Pico’s 900 Theses (1486). The evolution of traditional religious and philosophical systems, Tempe (Ariz.) 1998. Per il commento può ancora essere di aiuto: Conclusiones sive Theses DCCCC Romae anno 1486 publice disputandae…, con introd. e annotazioni critiche di B. Kieszkowski, Genève 1973.

Apologia conclusionum suarum, s.l. [ma Napoli] il 30 maggio 1487, da incerto tipografo; ed. critica e traduzione: Apologia: l’autodifesa di P. di fronte al tribunale dell’Inquisizione, a cura di P.E. Fornaciari, Firenze 2010.

Heptaplus de septiformi sex dierum Geneseos enarratione, Firenze, Bartolomeo de’ Libri, non dopo il 24 novembre 1489 (= IGI 7737). Ristampata, non criticamente, da E. Garin nell’ed. Firenze 1942 (per cui v. oltre).

Il De ente et uno è un testo composto dal trattato propriamente detto, di quattro Obiectiones all’opuscolo del filosofo faentino Antonio Cittadini, insegnante a Ferrara, e di tre Responsiones di Pico alle obiezioni del Cittadini datate agli anni 1491-92. Si tratta di una polemica che Cittadini proseguì con Giovan Francesco anche dopo la morte di Pico tra il 1495 e il 1496. Tutto il materiale è tradito nell’edizione bolognese delle opere pichiane; mentre nel cod. Hamilton 438 della Staatsbibliothek di Berlino, che proviene dalla biblioteca di Pico, sono presenti solo il De ente et uno, la Responsio primarum obiectionum di Pico, le Secundae obiectiones di Cittadini (autografe) e la Responsio secundarum obiectionum di Pico; ed. critica e commento del materiale prodotto prima della morte di Pico in: Dell’ente e dell’uno con le obiezioni di Antonio Cittadini e le risposte di Giovanni Pico della Mirandola, saggio introduttivo, trad., note e apparati di R. Ebgi; ed. critica del testo latino di F. Bacchelli - R. Ebgi, Milano 2011.

Pico lasciò inedito tra le sue carte un commento ad alcuni salmi composto con ogni probabilità tra il 1488 e il 1489, diviso in expositio litteralis, moralis e allegorica: attualmente esistono, di una più grande opera perduta, i commenti ai salmi VI, X, XI, XV, XVII, XVIII, XLVII e L. Il commento al salmo XV era già a stampa nella ed. bolognese del 1496; per l’edizione critica degli altri si rimanda a: Expositiones in Psalmos, a cura di A. Raspanti, Firenze 1997.

Le Disputationes adversus astrologiam divinatricem (in dodici libri, dei tredici progettati da Pico) sono tradite solo nel secondo volume della citata ed. bolognese del 1496; furono ripubblicate – non criticamente – tradotte e commentate da Garin negli ultimi due volumi della sua ed. Firenze 1946-52 (v. oltre).

L’epistolario latino di Pico, che attende ancora un’edizione critica, è tramandato dall’ed. bolognese del 1496 e soprattutto dal Vaticano Capponiano 235, che ci fa accorti di quanti tagli e censure il nipote Giovan Francesco abbia inferto alle lettere dello zio. Un primo riordino cronologico delle lettere fu tentato da E. Garin, in Ricerche su Giovanni Pico della Mirandola, in Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Firenze 1979, pp. 254-279 (con lettere inedite). Edizioni critiche commentate della lettera a Barbaro del 1485 e di quella a Lorenzo del 1486 sono in: E. Barbaro - G. Pico della Mirandola, Filosofia o eloquenza?, a cura di F. Bausi, Napoli 1998, e F. Bausi, L’epistola di Giovanni Pico della Mirandola a Lorenzo de’ Medici. Testo, traduzione e commento, in Interpres, XVII (1998), pp. 7-57.

Sono rimasti più di una cinquantina di sonetti di Pico e un capitolo in terzine, databili quasi tutti a dopo il 1486. I 45 sonetti del cod. Italiano 1543 della Biblioteca nazionale di Parigi sono stati editi criticamente in Sonetti, a cura di G. Dilemmi, Torino 1994; per gli altri si deve ricorrere ancora a Sonetti inediti…, a cura di F. Ceretti, Mirandola 1894. Per il capitolo cfr. V. Fanelli, Un capitolo inedito di Pico della Mirandola, in Rinascimento, XVII (1966), pp. 223-231; i carmi latini – a parte la Deprecatoria ad Deum, già nell’ed. del 1496 – sono in due edizioni, che si completano a vicenda: Carmina latina, a cura di W. Speyer, Leiden 1964, e P.O. Kristeller, Pico della Mirandola and his sources, in L’Opera e il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola nella storia dell’Umanesimo, Atti del convegno internazionale, Mirandola… 1963, I-II, Firenze 1965, I, pp. 85-107.

Alcune operette spirituali come le Duodecim regulae partim excitantes, partim dirigentes homines in spirituali pugna, le Duodecim arma spiritualis pugnae, quae in promptu haberi debent cum peccandi libido mentem subdit, e le Duodecim conditiones amantis, sono tràdite nel primo volume dell’ed. bolognese del 1496.

Una breve Expositio singularis in Orationem dominicam fu pubblicata a Bologna, Niccolò de Benedictis s.d., ma poco prima del 1523.

Devono considerarsi perdute: la traduzione del romanzo arabo di Ibn Tufayl, l’Epistola di Hayy ibn Yaqzan, eseguita nel 1493, cui Pico aveva dato il titolo: Quo quisque pacto per se philosophus evadat e un Liber de vera temporum supputatione citati entrambi da Pico nelle Disputationes. Giovanfrancesco nella Vita ricorda anche un De veritate translationis Hieronymi adversus Hebraeorum calumnias e una Defensio pro septuaginta interpretibus quantum ad Psalmos attinet adversus Hebraeos.

Nell’inventario della guardaroba del duca Alessandro I Pico, redatto nel 1649, si trova menzione di tre opere autografe: «un libro manoscritto sopra il Levitico della Sacra scrittura di Mosè», «un altro libro manoscritto sopra il primo libro di Mosè» e «Ioannis Pici varia opuscula manuscripta in uno volumine»; il qual ultimo è probabilmente il citato codice del commento ai Salmi (v. Il Castello di Mirandola. Inventari di arredi, quadri e armi (1469-1714), Mirandola 2006, pp. 246 s.).

Per le traduzione eseguite per Pico da Elia del Medigo cfr. A. Bartòla, Eliyhau del Medigo e G. P.d.M., in Rinascimento, s. 2, 1993, n. 33, pp. 253-278. La testimonianza dei codici vaticani, in Rinascimento, XXXIII (1993), pp. 253-278; per quelle compiute da Mitridate una visione di insieme è in S. Campanini, Guglielmo Raimondo Moncada traduttore di opere cabalistiche, in Gugliemo Raimondo Moncada ‘alias’ Flavio Mitridate. Un ebreo converso siciliano. Atti del convegno internazionale, Caltabellotta… 2004, Palermo 2008, pp. 49-88. Della biblioteca di Pico si hanno due inventari pubblicati in Pico Kibre, The Library of Pico della Mirandola, New York 1966.

Molte opere – tranne le Conclusiones, l’Apologia, le Epistulae e le operette spirituali – sono state ripubblicate in De hominis dignitate. Heptaplus. De ente et uno e scritti vari, a cura di E. Garin, Firenze 1942; e in Disputationes adversus astrologiam divinatricem, a cura di Id., I-II, Firenze 1946-52 (ed. anast., Opere, I-III, Torino 2004).

Fonti e Bibl.: Per una completa bibliografia pichiana si veda L. Quaquarelli - Z. Zanardi, Pichiana: bibliografia delle edizioni e degli studi, Firenze 2005, cui si rimanda. Basti qui citare solo i fondamentali: E. Garin, G. P. d. M.: vita e dottrina, Firenze 1937; H. de Lubac, Pic de la Mirandole: études et discussions, Paris 1974; F. Roulier, Jean Pic de la Mirandole (1463-1494): humaniste, philosophe et théologien, Genève 1989; A. De Pace, La scepsi, il sapere e l’anima: dissonanze nella cerchia laurenziana, Milano 2002; S. Fellina, Modelli di episteme neoplatonica nella Firenze del ’400: le gnoseologie di G. P. d. M. e di Marsilio Ficino, Firenze 2014; G. Busi - R. Ebgi, G. P.d.M.: mito, magia, qabbalah, Torino 2014.

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