DECEMBRIO, Pier Candido

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DECEMBRIO, Pier Candido

Paolo Viti

Nacque a Pavia il 24 ott. 1399 da Uberto, allora segretario e notaio del vescovo di Novara Pietro Filargis (Filargo) detto Pietro di Candia (il futuro papa Alessandro V), e da Caterina Marazzi, figlia di un illustre medico pavese, e fu secondo di altre tre fratelli: Modesto, Paolo Valerio, Angelo Camillo; il nome Pier Candido gli fu dato proprio in onore del Filargo, che lo tenne a battesimo.

Nel 1402, quando Uberto, al servizio di Gian Maria Visconti, si trasferì a Milano, il D. incominciò la sua dimora in questa città, ricevendo ben presto i primi insegnamenti dal padre, anche nella lingua greca, e venendo a contatto, ancora fanciullo, coi dotti che frequentavano la casa patema, e fra questi Emanuele Crisolora. Il D. era molto giovane quando Uberto fu chiuso in prigione da Facino Cane per aver cercato di accordare Filippo Maria e Gian Maria Visconti. Allora il D. coi fratelli riparò a Genova, dove fu accolto dalla potente casa Doria, presso la quale per alcuni anni venne affettuosamente ospitato ed educato, in modo particolare sotto la guida di Paolo Doria, al quale il giovane D. molto si affezionò. A Genova il D. riuscì a stringere ben presto rapporti anche con vari altri personaggi di rilievo, e soprattutto col doge Tommaso Fregoso, protettore di letterati e possessore di una ricca biblioteca: a lui il D. dedicò una sua operetta giovanile, il De septem liberalium artium inventoribus.

Èprobabile che il D. sia ritomato da Genova a Milano nel 1419, quando entrò al servizio del duca Filippo Maria Visconti, come segretario, per restarvi fino alla morte del duca stesso, avvenuta nel 1447. Di ciò che in questo ampio tratto di tempo il D. abbia fatto, dove sia stato, in quali speciúche azioni si sia impegnato, si hanno soltanto notizie molto scarse e frammentarie, deducibili da alcune lettere e da pochi documenti. Di sicuro si sa che fu impiegato in varie legazioni: nel 1423 a Firenze, per cercare di attenuarne l'irritazione in seguito alla conquista di Genova da parte di Filippo Maria; nel 1425 a Roma presso Martino V e, successivamente. nell'ottobre, a Venezia per trattare una fomitura di grano; nell'agosto 1426 presso il duca di Savoia, Amedeo VIII, futuro suocero di Filippo Maria, in una missione che non ebbe esito felice; più tardi in Romagna, e poi, nel 1435, per tre mesi in Germania allo scopo di richiedere l'appoggio dell'imperatore Sigismondo contro i Veneziani; poco dopo fu mandato in Francia, al congresso convocato ad Arras per sancire la fine della guerra dei Cento anni, e lì rimase fin oltre la metà del settembre; passò quindi a Digione, dove fece visita all'imprigionato Renato d'Angiò, e, tomando a Milano, si fermò il 3 nov. 1435 a Ripaille presso Amedeo VIII. Nel 1443 fu inviato dapprima in ambasceria a Siena, poi a Roma; nel 1445 fu ancora a Venezia. Oltre a queste ambascerie, di cui abbiamo sicure notizie, varie altre dovettero essere compiute dal D., se il Valla, in una lettera a lui indirizzata (cod. Riccardiano 827, f. 26r), osserva che egli è tanto in movimento, proprio per ambascerie, che in nessun luogo sta meno che a Milano. Naturalmente l'incarico di segretario imponeva al D. anche altri impegni, e in primo luogo quello di scrivere lettere e comporre orazioni in rapporto ai diversi avvenimenti.

Per quanto riguarda le vicende familiari del D. durante questo periodo, è da segnalare, in primo luogo, la lunga consuetudine di studi col fratello Angelo Camillo (poi autore, fra l'altro, della Politia litteraria), fino al 1441, quando intervenne fra loro una rottura, forse derivata da interessi economici e da rivalità professionale, talmente profonda che non si riconciliarono più e per tutto il resto della vita si scambiarono reciproche accuse. Varie poi furono le disgrazie che colpirono il D.: dopo la morte dei due figli avuti dalla moglie Caterina Bossi (sposata forse nel 1424), quella del padre nel 1427, e nel 1430 quella della madre e del fratello Modesto, per cui si trovò a dover prendere in casa propria e assistere la vedova dello scomparso e le sue due figlie. Sappiamo poi che il D. ebbe ripetuti contrasti col duca Filippo Maria a causa della limitatezza della paga che gli concedeva per il suo servizio; un servizio, d'altra parte, che richiedeva anche un'attività culturale non indifferente, se si pensa che, proprio per soddisfare il desiderio di Filippo Maria, il D. tradusse in italiano varie opere di autori latini, quali la Historia Alexandri Magni di Curzio Rufo, il De bello gallico e il De bello civili di Cesare e, dalla traduzione latina di Leonardo Bruni, il Bellum punicum di Polibio. Pur in questo complesso di situazioni e di impegni il D. riuscì a tenersi in rapporti amichevoli e culturali coi letterati più famosi del tempo: da Antonio da Rho a Gasperino Barzizza, da Maffeo Vegio a Guarino Veronese, da Leonardo Bruni a Lorenzo Valla, a tanti altri ancora.

Dopo la morte di Filippo Maria - avvenuta il 13 ag. 1447 mentre il D. si trovava a Ferrara come ambasciatore del duca al congresso promosso da Niccolò V per pacificare gli Stati italiani - e la formazione della Repubblica Ambrosiana, il D. rispettò la nuova costituzione, e sostenne fedelmente lo Stato repubblicano, tanto che, col 1° sett. 1448, nell'ambito della Cancelleria cittadina, ebbe l'importante incarico di segretario, che tenne fino al febbraio 1450. Svolse così un'opera preziosa, soprattutto nei rapporti esterni, anche a proposito di controversie non facili, come quella nata dall'assedio di Parma da parte di Alessandro Sforza, fratello di Francesco, nei primi del 1449, o delle trattative relative all'invito rivolto dai Milanesi a Federico d'Austria perché prendesse sotto il suo patrocinio il nuovo Stato.

Nell'agosto 1449 il D. fu mandato a Roma, probabilmente per sollecitare aiuti per Milano da parte del papa; durante il viaggio si fermò a Urbino presso Federico da Montefeltro. Più tardi, quando Francesco Sforza si pose contro la Repubblica Ambrosiana, il D. prese una decisa posizione nei suoi confronti, accusandolo di aperto tradimento. Fu quindi felice quando nei primi mesi del 1450 gli giunse l'invito di Niccolò V a recarsi a Roma presso la corte pontificia con l'incarico di "magister brevium". Ebbe così inizio il periodo romano della vita e dell'attività del D. (fra l'altro il papa gli assegnò anche un lavoro letterario: la traduzione della Storia romana di Appiano), periodo che giunse fino al 1454, e durante il quale il D. riprese con diverso atteggiamento anche i contatti con lo Sforza, ormai potente e prestigioso signore di Milano. Trascorse intervalli di tempo, anche prolungati, fuori Roma, specie a Napoli, presso Alfonso d'Aragona, col quale da tempo era in amicizia; e da Napoli nel 1452, per incarico del papa, andò a Milano da Francesco Sforza. Ritornato a Roma nel luglio dello stesso 1452, gli giungeva da Siena, in segno di gratitudine per alcuni favori resi alla città presso il papa, la concessione della cittadinanza per sé e per i suoi figli e discendenti. L'arrivo a Roma, poco dopo, di Francesco Filelfo, nemico suo da sempre, dovette contrariarlo non poco, anche per le feste con cui il papa accolse il suo rivale (che poco prima, fra l'altro, aveva aspramente criticato la Vita Philippi Mariae scritta dal D. e nel poema Sforziade aveva messo in cattiva luce lo stesso D., presentandolo come nemico dello Sforza) e l'incarico di segretario apostolico che gli dette.

Nel giugno 1453 il D. era nuovamente a Milano (ma non se ne conoscono le ragioni) e poi ancora a Roma, dove rimase per qualche tempo anche dopo la morte di Niccolò V, avvenuta il 24 marzo 1455, conservando l'ufficio sotto il nuovo pontefice Callisto III. All'inizio dell'estate 1455 il D. dovette rifugiarsi a Viterbo per l'infierire della pestilenza, ma già rivolgeva il suo pensiero a Napoli e ad Alfonso d'Aragona. Nella primavera 1456 concordava a Napoli con Alfonso il suo stipendio; il servizio presso il re poteva però iniziarlo solo alcuni mesi più tardi, dopo cioè che, recatosi a Milano, lo Sforza gli ebbe accordato il permesso di trasferirsi a Napoli. Incominciava allora per il D., dopo il periodo romano durante il quale aveva potuto intrecciare amicizie e conoscenze assai proficue, un non meno importante e fecondo periodo, appunto quello napoletano, che sarebbe durato tre anni, fino al 1459. A Napoli fu segretario di Alfonso e poi di Ferdinando, fu a contatto con Lorenzo Valla e Antonio Panormita, con Teodoro Gaza e Giannozzo Manetti: al D. re Alfonso concesse una pensione a vita e il privilegio anche di abitare nella stessa reggia.

Mandato a Milano da Alfonso come suo oratore presso lo Sforza nel luglio 1458, là lo raggiunse la notizia della morte, il 27 giugno, di re Alfonso, quando stava per ripartire per Napoli. Il nuovo re, Ferdinando, confermò al D. gli incarichi che gli aveva dato suo padre, ma il D. non tornò subito a Napoli, e rimase quattro mesi a Milano. Nel frattempo la morte di Callisto III, il 6 agosto, e l'elezione di Enea Silvio Piccolomini (che prese il nome di Pio II) spinsero il D. a cercare di ingraziarsi il nuovo pontefice. Nel viaggio di ritorno per Napoli si fermò più di un mese a Roma, dove al papa portò i rallegramenti dello Sforza per l'elezione.

Rientrato a Napoli, il D. fu colpito da un'infermità che lo costrinse a letto per cinque mesi, impedendogli di svolgere i suoi uffici, e di comporre (lo poté fare solo in ritardo) l'orazione celebrativa per l'incoronazione dello stesso Ferdinando. Successivamente, ristabilitosi della malattia, nella difficile situazione politica interna al Regno di Napoli il D. parteggiò per il re, e fu segretario di Alfonso d'Avalos insieme col Panormita. Sul finire del 1459 il D. decise di andare a Milano per prendere la sua famiglia e quindi con essa stabilirsi defiffitivamente a Napoli, data anche l'eminente posizione che ormai godeva a corte, dove si era anche fatto numerosi e importanti amici (Ifligo e Alfonso d'Avalos, Ariano e Leonello Accrociamura). Ma quando, nel dicembre 1459, il D. giunse a Milano la situazione napoletana - il re Ferdinando era tutto preso dalla preoccupazione delle guerre civili - si era talmente deteriorata che decise di non ritornare a Napoli e rimanere a Milano; e qui sarebbe restato fino al 1466.

Fu questo per il D. un periodo di difficoltà economiche, che egli cercò di migliorare, sempre però inutilmente, rivolgendosi a vari signori, ma soprattutto tentando di avere un incarico nella Curia romana. In particolare, dopo essere stato per una parte del 1461 a Urbino come podestà, inviò un breve trattato di scienze naturali, il De natura avium et animalium, a Ludovico Gonzaga, e scrisse un libro sulla peste per Borso d'Este nella speranza di essere accolto al loro servizio. Ma nessuno gli aprì le porte. Né miglior risultato ebbe poi il tentativo di ingraziarsi Francesco Sforza scrivendo di lui una biografia in latino, un'opera che fu freddamente accolta dal duca, il quale poi invitò il D. a trascriverla in italiano. Il D. fece anche questo, come pure compose versi per lo Sforza, ma senza riceverne alcun riconoscimento concreto. Mortagli nel maggio 1464 la moglie Caterina, l'anno successivo, in seguito ad intercessione dello Sforza, sposò Battistina, vedova del nobile Battista degli Amedei. Ma di lì a poco non mancarono al D. altri motivi di preoccupazione, fra cui un contrasto col fratello Angelo Camillo riguardo al possesso di una casa. Nel frattempo andavano cadendo anche le speranze da lui riposte nel nuovo papa, Paolo II (il cardinale Pietro Barbo) successo nel 1464 al defunto Pio II. Né ebbe buon esito la sua richiesta, a mezzo di Ludovico Casella, di essere chiamato a Ferrara a servizio di Borso d'Este, alla stessa maniera che risultò senza esito il suo tentativo di stabilirsi a Siena con un incarico remunerato di quella Repubblica. Finalmente ai primi del 1467 poté recarsi a Ferrara presso gli Estensi.

Ricevuto con cordialità e trattato con una certa generosità prima da Borso e poi da Ercole d'Este, il D. passò abbastanza serenamente a Ferrara buona parte degli ultimi anni della sua vita. Vicende particolari di quella permanenza ferrarese - che probabilmente durò otto i - non se ne conoscono, data anche la mancanza di lettere del D. posteriori al 1468. È certo però che a Ferrara il D. continuò ad attendere ai suoi studi, a comporre opere diverse, ad impartire lezioni, fatto oggetto di ammirazione e di stima, specialmente da parte di giovani studenti e letterati che si sarebbero poi notevolmente affermati, quali Niccolò da Correggio (figlio di Niccolò e di Beatrice d'Este), e Tito Vespasiano Strozzi. Fra quanto possiamo ricostruire del periodo ferrarese del D. c'è semmai da rilevare la sua posizione critica nei confronti di Guarino Veronese, di cui, fra l'altro, giudicò cosi negativamente la Vita di s. Ambrogio. che volle riscrivere lui quella biografia. Durante gli anni trascorsi a Ferrara, e precisamente nel 1473. il D., per la calunnia di un cortigiano adirato con lui per essere stato citato nella Vita Philippi Mariae, cadde in disgrazia di Galeazzo Maria Sforza, che gli impose di comparire a Milano per difendersi dall'accusa di aver detto male sia del principe sia di tutta la famiglia Sforza. Le giustificazioni che il D. scrisse direttamente a Galeazzo Maria non riuscirono a placare lo sdegno del principe; vi riuscì invece Nicodemo Tranchedini, che sostenne l'innocenza del Decembrio.

Che i rapporti del D. con Galeazzo Maria, in seguito a questo intervento, si ristabilissero definitivamente è indicato con certezza dal fatto che quando alcuni anni dopo il D. tornò a Milano, poté ben supplicare il principe chiedendogli impiego ed aiuto. Ma neppure in questo periodo risultarono finite le preoccupazioni che avevano amareggiato tutta l'esistenza del D., come si può dedurre da una sua lettera allo Sforza del marzo 1476.

Di lì a poco, il 12 nov. 1477, il D., dopo un mese di malattia, moriva nella sua casetta in Milano. Fu seppellito nella basilica di S. Ambrogio, dove la moglie Battistina (che il D. nel testamento aveva nominato erede universale, e che successivamente sarebbe passata a nuove nozze e avrebbe donato i libri del defunto marito alla biblioteca del monastero delle Grazie a Milano, poi soppresso con la conseguente dispersione dei libri stessi), gli fece erigere un sarcofago di marmo presso la porta principale, e su di esso fu scolpita (e ancora oggi si legge) una iscrizione in versi, che probabilmente era stata dettata dallo stesso Decembrio.

Il D. fu figura di prim'ordine nella civiltà amanistica, da lui attentamente seguita nella sua costante evoluzione e maturazione, anche se nella sua vasta e varia produzione letteraria.nessuno scritto si impone per originalità e profondità di ispirazione. Per la molteplicità delle vicende della sua vita e delle sue esperienze culturali, il D. fu conoscitore privilegiato di uomini ed avvenimenti, come mirabilmente testimonia il suo ricco epistolario, e agì in stretta correlazione con i suoi tempi. Fu sarcastico e audace nelle polemiche letterarie (ad esempio col Filelfo, col Guarino, col Panormita) e in quelle politiche (come in occasione della strenua esaltazione di Milano contro Firenze, o dell'incitamento di Genova alla lotta contro Venezia); disinvolto al punto da comporre scritti in latino e spacciarli per opere di antichi; cultore di testi teologici e biblici come di quelli volgari; soggetto alla superstizione, ma attento al fascino della natura, il D. si mostrò desideroso di nuove esperienze in città e corti differenti e fra loro contrastanti, ma rimase sempre anche tenace difensore della sua Milano.

Per la produzione letteraria del D., andata in buona parte smarrita, un punto importante di riferimento è l'iscrizione che si trova, come si è detto, sul suo sarcofago marmoreo in S. Ambrogio a Milano: "P. Candidus Viglevanensis miles Philippi Marie ducis secretarius subinde Mediolanensium libertati prefuit parique modo sub Nicolao papa V et Alphonso Aragonum rege meruit operunique a se editorum libros supra CXXVII vulgaribus exceptis posteritati memorieque reliquit". Dunque, oltre agli scritti in volgare, il D. avrebbe lasciato centoventisette libri. Tenendo presente questo numero così elevato, nel corso del Settecento alcuni studiosi compirono ricerche delle opere del D. e quindi tentarono di stabilirne l'elenco: ma si rimase ben lontani dalla cifra indicata nell'epitaffio. In particolare all'inizio del secolo il Cotta, pur con vari errori, arrivò a raccogliere trentaquattro titoli; altre utili indicazioni furono fornite dallo Zeno e soprattutto dal Sassi, il quale permise, intorno alla metà del secolo, all'Argelati di compilare, ma con errori e imprecisioni, un elenco di cinquantasei opere. Si restò così sempre lontano dall'indicazione del sepolcro: tanto che alla fine del secolo il Tiraboschi anche nella seconda edizione della sua Storia della letteratura italiana afferma che, nonostante la diligenza del Sassi e dell'Argelati nel raccogliere le opere del D., "il loro catalogo è assai inferiore al numero espresso nell'iscrizione". Nessuna ricerca accurata degli scritti del D. si proposero gli studiosi che molto più tardi si occuparono di lui: il Borsa alla fine dell'Ottocento e il Ditt intorno al 1930. Il problema è stato invece affrontato successivamente dallo Zaccaria, che, fra scritti pervenuti e non pervenuti, e riuscito ad elencare una quantità di libri non lontana dal numero dell'iscrizione, e sempre senza tener conto delle composizioni in italiano, quali i numerosi volgarizzamenti. Ma occorre subito precisare che si tratta non di altrettante "opere" a sé, ma di "libri di opere", come appunto dice l'iscrizione: "operum libri".

Tra le "opere di varia cultura" il De septem liberalium artium inventoribus è certamente uno dei primi scritti del D., da lui composto quando si trovava a Genova, ed è dedicato, come già si è detto, al doge Tommaso Fregoso. L'opera non è originale, ma, come afferma il D. stesso, "edita a diligentissimis auctoribus". Si tratta quindi della raccolta di cognizioni da vario tempo tramandate; fonte fondamentale, e quasi costantemente seguita e spesso ripresa alla lettera, sono le Etymologiae di Isidoro di Siviglia; ma numerose notizie sono tratte sia da autori classici, come Cicerone, Ovidio, Valerio Massimo, Lucano, Apuleio, sia cristiani, come Girolamo. Anche la disposizione della materia segue l'ordine tradizionale. Dopo la trattazione sulla grammatica (che fra l'altro offre lo spunto per parlare deglì inventori delle lettere), seguono nell'ordine la dialettica, la retorica (con l'esaltazione di Aristotele), l'aritmetica (con particolare attenzione a Pitagora, a cui quest'arte deve la sua origine), la geometria, la musica (con l'indicazione degli inventori di alcuni strumenti), l'astronomia e l'astrologia (in quest'ultimo paragrafo è diffusamente rievocata la lotta fra Ercole e Anteo). Opera nel complesso di limitato valore, questo scritto rappresenta comunque una delle prime testimonianze della vastità della cultura che fu presto raggiunta dal Decembrio.

Più tardo di vari anni è il De vitae ignorantia, composto dopo il 1428. È un dialogo dedicato al giureconsulto Ruggero Conti, e nel quale il D. si propone di persuadere l'amico curiale Zanino Ricci, con cui immagina di parlare della sua ignoranza riguardo alla vita, e di insegnargli che la vera felicità consiste nell'astenersi dalle preoccupazioni e dalle lotte per l'esistenza e per la ricerca di godimenti caduchi, e quindi nel concentrarsi soltanto sui propri interessi personali, e quelli cercare di realizzare. Mentre per il D. è indispensabile, per essere felici, avere sostanze economiche che liberino da preoccupazioni quotidiane, per Zanino il modo migliore per raggiungere la felicità non si realizza nel godimento dei beni materiali ma nella vita religiosa e in particolare in quella curiale. Anche nella successiva discussione sulle varie occupazioni umane le idee dei due interlocutori divergono continuamente. Ma alla fine si concorda sul fatto che non si può conoscere la via sicura che porti ad una vita felice: è la constatazione della comune ignoranza. L'opera, strutturalmente piuttosto debole, trae origine, come esplicitamente dichiara il D. nella sua introduzione, da uno scritto del discepolo e amico del Petrarca, Lombardo Della Seta, autore del Dialogus de dispositione vitae suae: ma, mentre il Della Seta basa il suo ragionamento sulla filosofia cinica e stoica, il D. si rivolge ad un ideale edonistico-epicureo dove felicità e godimenti spirituali coesistono con vita tranquilla e-moderato piacere tratto dai beni terreni.

Probabilmente al 1430 e agli anni immediatamente successivi risale la Historia peregrina, dedicata al giureconsulto e consigliere di Filippo Maria Visconti Niccolò Arcimboldi, e costituita dalla riunione di tre brevi scritti di argomento assai diverso fra loro: Cosmographia, De genitura hominis, De muneribus romanae rei publicae. La Cosmographia è un opuscolo di limitato interesse, e il cui contenuto, nonostante che il D. affermi di averlo dedotto da "illustri autori", risale esclusivamente - fatta eccezione per alcune insignificanti modifiche - ad Orosio, Adversus paganos I, 2. Il De genitura hominis è un trattato di medicina riguardante la formazione dell'uomo dal momento del concepimento a quello della nascita. Riguardo alle fonti, quella da cui più ha attinto il D. è l'Historia animalium di Aristotele, accompagnata dal De animalibus di Avicenna; non mancano però questioni che dimostrano la provenienza da Plinio, Macrobio ed altri ancora, mentre è presumibile che il nonno materno, il medico pavese Marazzi, che una volta il D. cita e chiama "vir phisice peritus", gli abbia fornito vari suggerimenti sulla materia affrontata. Il De muneribus romanae rei publicae è una diffusa e particolareggiata illustrazione delle cariche vigenti nell'antica Roma: prima quelle politiche (consoli, senatori, dittatori, pretori, tribuni, proconsoli, edili, censori, questori, ecc.), poi quelle religiose (pontefice massimo, fiamini, auguri, vestali, sacerdoti, ecc.). Rientra in quest'opera anche un catalogo di biografie sotto il titolo Vitae aliquot virorum illustrium, che comprende le vite di Cesare, Augusto, Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio, Giovenale. Le fonti principali, a cui attinge il D., sono di sicuro Livio e Gellio, e in parte anche Sallustio e Svetonio. Il De muneribus è coevo al De magistratibus sacerdotibusque romanorum libellus, di identico argomento, di Andrea Fiocchi (noto anche come pseudo Fenestella). Per quanto è dato capire i rapporti fra l'opera del Fiocchi e quella del D. non sono tanto di dipendenza dell'una dall'altra, ma di ambedue da fonti comuni; comunque lo scritto del D., più sintetico di quello del Fiocchi, si riduce di solito ad una rapida descrizione delle caratteristiche essenziali delle singole cariche, senza fare cenno alle fonti.

Insieme con la Historia peregrina si trova generalmente nei manoscritti un'altra operetta che il D. compose subito dopo il 1433, il Grammaticon; costituito da due libri, che furono dedicati dapprima a Niccolò Arcimboldi e successivamente a Guarniero Castiglioni, giureconsulto milanese. In sostanza si tratta di una grammatica della lingua latina, composta attingendo a larghe mani, e spesso addirittura copiando, da Nonio Marcello, anche se questo autore non risulta mai citato. La distribuzione della materia, in cui ampio spazio è dedicato all'illustrazione delle particolarità riguardanti il significato e l'uso di diversi termini, alle spiegazioni di etimologie e alle caratteristiche di sinonimi, non è esattamente corrispondente ai titoli particolari dei due libri: De usus antiquitate scribendi il primo, De proprietate latinorum verborum il secondo.

Scritto nel corso del 1460 e dedicato a Francesco Visconti, è il De humani animi immortalitate. Desunto dalle opere di s. Agostino, specie il De spiritu et anima, ma anche da quelle di vari scrittori classici, soprattutto Platone, questo breve trattato si apre con un'esposizione delle caratteristiche dell'anima dell'uomo, la quale, unica nel suo essere e non formata da parti diverse, ha una forza vitale non contingente alle forme umane cui temporaneamente può essere legata, e che la rende immortale. Si passa poi a discutere su Dio, come creatore dell'anima, e quindì sul rapporto anima-corpo e sulle differenze fra anima e spirito. Seguendo quindi le dottrine di Platone, il D. sviluppa una vasta trattazione sul significato e gli aspetti dell'anima "razionale", "irascibile" e "concupiscibile", per fermarsi poi ad osservare le "azioni" dell'anima secondo che agisca inclinando verso la carne o verso Dio, e per concludere che l'uomo dovrà sforzarsi di vivere più ipiritualmente possibile.

Uno scritto di cui stranamente non fa menzione il D. in nessuna delle sue tante lettere è il De natura avium et animalium, un trattato di zootecnica in cinque libri composto prima della fine del 1460 per Ludovico III Gonzaga di Mantova. L'autenticità dell'opera è comunque sicura, perché chiaramente affermata dall'autore nella dedica del primo libro. Ma la dedica contiene anche altre interessanti indicazioni sulla composizione stessa dell'opera: ad esempio, che l'idea di trattare della "natura degli animali" venne al D. quando, trovandosi "ociosus" a Napoli, gli capitò di imbattersi, spinto dalla passione per la lettura, in alcuni "commentarii de naturis animantium", composti da un ignoto autore in uno stile estremamente disadorno. Spinto allora dalla varietà dell'argomento e dall'interesse per la materia, il D. decise di dedicare tutto il tempo disponibile "ad corum scriptionem cultunique". Di questo impegno il D. indica anche il metodo seguito: riferire, così come gli sì presentavano, le cose che gli apparivano sicure; quelle che non erano tali, o erano esposte in maniera non elegante, renderle più appropriate dopo aver compiuto gli opportuni accertamenti. Il lavoro di indagine e di esposizione durò cinque mesi e venne offerto al principe perché egli potesse conoscere alcune delle meraviglie della natura.

Tra gli "scritti storici", il De laudibus Mediolanensium urbis panegyricus (scritto forse agli inizi del 1436) fu composto in manifesta contrapposizione alla Laudatio Florentinae urbis di Leonardo Bruni, opera apparsa all'inizio del secolo, ma poi rimessa in circolazione dall'autore nel 1434 per segnalare le qualità di Firenze quando si pensava di portare il concilio ecumenico da Basilea in una città italiana. Nel suo panegirico il D. cerca dunque di controbattere le diverse tesi della Laudatio, opponendovi analoghi motivi di glorificazione di Milano in confronto di Firenze. Ma generalmente le sue affermazioni si presentano alquanto deboli: così, ad esempio, ad una Firenze esaltata dal Bruni come erede dalla "virtus" della o res publica romana", il D. contrappone una Milano che ha avuto l'onore di vedere incoronatì glì imperatori entro le sue mura; e di fronte all'ideale della libertà repubblicana, dal Bruni sentito incarnato nella storia di Firenze, il D. contrappone la forma di governo autoritario instaurata da Gian Galeazzo Visconti, solo perché questi si presenta tutto impegnato nel realizzare l'utile e la grandezza di Milano. P, evidente che un'opera come il De laudibus abbia potuto facilmente contribuire ad accentuare il raffreddamento dei rapporti fra i due umanisti.

Composta intorno al 1450 è la Romanae historiae brevis epitoma, dedicata ad Alfonso il Magnanimo, re di Napoli, il quale in una lettera del settembre 1451 ringrazia l'autore per il "libellus historiarum breviatarum". Si tratta di un modesto ampliamento della breve storia romana scritta dal padre Uberto, e che il D. si propose di rielaborare ed accrescere, trovandola compiuta "minus polite quam imperfecte". È da ricordare che questo opuscolo del D. nel corso del Cinquecento fu stampato sotto il nome del Boccaccio; tale paternità fu messa in dubbio per la prima volta da Apostolo Zeno, ma soltanto alla fine dell'Ottocento dall'Hortis e ai primi dei Novecento dal Bertalot è stata dimostrata falsa.

In tutt'altro settore storico porta l'opuscolo De origine fidei, scritto dopo il 1455 e dedicato al tesoriere ducale Ranieri Vancauli. Il libro si divide in due sezioni: nella prima il D., dopo aver rapidamente riassunto la vita di Gesù, delinea una sintesi delle vicende della nuova religione dai tempi dei martiri a Costantino, poi a Giustiniano e all'ulteriore diffusione: l'alleanza dei Franchi con la Chiesa romana e i rapporti di questa con gli imperatori germanici. Nella seconda sezione si ha un elenco cronologico di tutti gli imperatori romani, da Cesare a Federico III (regnante al tempo del D.), con l'indicazione per ciascuno della dinastia, della durata del regno, della morte. L'opera si presenta discontinua e, soprattutto nella seconda parte, arida e limitata, frutto di compilazione da fonti bibliche, cristiane e classiche (in particolare Orosio, Aurelio Vittore, Eutropio e l'umanista Flavio Biondo), che però la rendono un prontuario storico non del tutto inutile.

La Vita Homeri, composta intorno al 1440, apre la serie delle "vite" del D., ma da tutte le altre differisce perché non si può considerare, come quelle, uno scritto originale. Premessa alla traduzione dell'Iliade e dedicata a Giovanni Il di Castiglia, questa biografia "e grecis et latinis fideliter interpretata et composita" - come afferma il D. stesso - è costituita dall'accostamento di tutte quelle notizie e di tutti quei giudizi che il D. è riuscito a raccogliere dall'intera tradizione letteraria greca e latina nei riguardi di Omero, e spesso con la diretta traduzione di fonti greche e il riferimento di passi di autori latini.

Con la Vita Philippi Mariae Vicecomitis, composta nel 1447, ha inizio la serie delle biografie di personaggi contemporancì scritte dal Decembrio. Ma questa sul Visconti non è soltanto la "vita" del D. superiore per interesse e validità alle sue "vite" successive, ma è senz'altro lo scritto più pregevole di tutta la produzione dell'umanista e di notevole importanza nella cultura del tempo: basterebbe pensare al giudizio estremamente positivo dato su di essa dal Burckhardt non solo per la conoscenza della personalità del Visconti, ma in generale per quella del Quattrocento. Composta tenendo costantemente come modello la vita di Augusto (ma anche quella di Tiberio) di Svetonio - sia per quanto riguarda la struttura complessiva sia per momenti particolari della narrazione - questa biografia, di settantuno capitoli molto diversi per ampiezza, è nettamente distinta in due parti: la prima, cioè fino al capitolo xxxvii, dopo aver trattato d egli, antenati di Filippo Maria e quindi della sua attenzione al potere, si dilunga sulle sue imprese - il continuo accrescimento del dominio, da Lodi a Cremona, da Brescia a Bergamo, e le varie guerre contro Genova, Firenze, Venezia, ecc. - e quindi sul suo modo di amministrare lo Stato; la seconda, dal capitolo xxxvin alla fine, tratta della vita privata del duca - il comportamento con le varie mogli, con i parenti, i vicini, i collaboratori; l'abilità nel guadagnarsi le simpatie dei sudditi; i diversi aspetti del suo carattere, quelli fisici, i divertimenti, gli studi, la religiosità e la superstizione, ecc. - e termina coi presagi che precedettero la morte del duca, la morte stessa e un accenno all'inizio della libertà per i Milanesi. Ispirandosi alle concezioni umanistiche, che vedono le vicende umane determinate dalla volontà e dall'energia degli individui, senza interventi provvidenziali, ma semmai con l'apporto della Fortuna, e alla convinzione, anch'essa umanistica, dell'opportunità di tramandare le gesta dei grandi personaggi perché ne resti la memoria, questa biografia del D., vigorosamente delineata sul vasto sfondo delle tumultuose vicende della prima metà del sec. XV, è una continua esaltazione del Visconti, resa ancora più convincente dall'affermazione dello stesso autore secondo cui tutto ciò che egli riferisce lo ha personalmente constatato. Da queste pagine, talvolta scarne e concise, altrove diffuse negli aneddoti, esce una figura nettamente squadrata, sia che ne venga posta in risalto la rapidità di decisione e d'attuazione dei piani militari, sia che vengano delineate l'astuzia e l'impenetrabilità di un agire sempre accorto e calcolato. Sarà da valutare, infine, anche la cura particolare che il D. pone, in questo scritto, al linguaggio, la cui precisa terminologia tecnica richiama ancora ai modelli classici e soprattutto a Svetonio.

La seconda biografia del D., composta fra il 1461 e il 1462, la Vita Francisci Sfortiae - il cui titolo originale era Adnotatio rerum gestarum in vita illustrissimi Francisci Sfortiae quarti Mediolanensium ducis - per quanto scritta con evidenti finalità encomiastiche, e quindi per ottenerne vantaggi personali, proprio quandú lo Sforza era al colmo della sua gloria, sì riduce, in sostanza, ad un elenco delle gesta guerresche da lui compiute. Non solo, quindi, qui manca il quadro storico che valorizza la biografia di Filippo Maria, ma anche il riferimento alla vita privata dello Sforza: una lacuna, quest'ultima, che, se il D. attribuisce di proposito alla limitatezza dei suo vigore oratorio, è probabilmente da far risalire al timore suo di perdere, col dire la verità, il favore del duca. Poiché il segretario di questo, Vincenzo Amidano, con una lettera del 15 ott. 1463 rilevava la gravità delle omissioni riguardo alle imprese del duca, e invitava il D. ad aggiungere al suo scritto il racconto di quei fatti prima che l'opera fosse diffusa, il D. rispondeva alcuni giorni dopo sia giustificandosi sui motivi di quelle omissioni, dovute a scarsità di notizie, sia assicurando che delle cose tralasciate avrebbe parlato in un poemetto, De bellis italicis, di cui aveva già composto quasi cinquecento versi: versi che sappiamo poi lodati da Girolamo Barbarigo e da Zaccaria Barbaro, ma che sono andati smarriti. Di questa biografia - per la quale il D. non ricevette quelle remunerazioni che aveva sperato - l'autore incominciò a fare anche la traduzione in volgare verso la fine del 1462.

Ancora una biografia è la più tarda opera originale del D. a noi giunta, la Vita Herculis Estensis, scritta certamente dopo l'assunzione di Ercole al ducato di Ferrara, avvenuta nel 1471. Creduto fino a non molto tempo fa perduto o non terminato, questo breve opuscolo (appena quattordici capitoli) è giunto invece completo; il suo titolo intero è De laude et commentationg vitae clarissimi principis Herculensis Estensium ducis liber. Èinteressante osservare come nella dedica il D. ricordi le sue precedenti biografie di Filippo Maria Visconti e di Francesco Sforza, e quindi indichi l'argomento del suo nuovo scritto: dapprima le origini della famiglia estense e i suoi maggiori esponenti fino al padre di Ercole; quindi le vicende della vita di Ercole e il suo accesso al principato; successivamente le virtù e i costumi di Ercole, specie la sua "caritas" verso i parenti e i sudditi; infine i familiari di Ercole. Nel capitolo xii, a proposito delle nozze di Ercole con Eleonora d'Aragona, si trova anche un elegante epigramma di tre distici in onore dei due sposi.

Altre due opere si devono ricordare fra le "vite" del D.: l'Oratio in funere Nicolai Picinini, il discorso, cioè, letto dal in occasione della morte del Piccinino avvenuta nel 1444, e che, anche per la sua estensione, può considerarsi una biografia; e un'epitome plutarchiana, cioè un libero riassunto delle vite di Plutarco: Ex illustrium comparationibus in Plutarcum cheronensem libri quattuor. Questo scritto, che si inserisce nell'attenzione che fin da giovane il D. aveva rivolto all'opera di Plutarco, doveva contenere venticinque vite parallele, ma non è giunto a noi completo; l'epitome, compiuta dopo il 1460, fu dedicata dal D. al re di Francia Luigi XI, che già precedentemente aveva ammirato la traduzione dei libri di Appiano compiuta dal Decembrio.

Fondamentale importanza per la conoscenza biografica del D., dei momenti salienti della sua vita come dei suoi rapporti col mondo contemporaneo, ha l'ampio e ricchissimo epistolario, alla cui sistemazione e pubblicazione l'autore stesso attese con grande amore e fino agli ultimi tempi della vita. Le lettere a noi giunte si presentano, nel loro complesso, trascritte e raccolte in tre sillogi, curate dal Decembrio. La prima, pubblicata intorno al 1433, e dedicata all'arcivescovo di Milano Bartolomeo Capra, è composta di otto libri e contiene le lettere giovanili per un totale di cinquantanove fra orazioni e lettere; la seconda, posteriore di circa dieci anni e dedicata al segretario ducale Simonino Vilini, è in nove libri e comprende le lettere di quel decennio, con alcune altre aggiunte posteriormente quando il D. decise di dedicare tutto il suo carteggio a Nicodemo Tranchedini, in tutto duecentonove lettere; la terza, dedicata all'amico Ludovico Casella e pubblicata nel 1468, è in cinque libri e contiene duecentosettanta lettere: successivamente tutte e tre le sillogi furono dedicate al Tranchedini, come altrettanti volumi dell'epistolario completo: un totale, dunque, di ventidue libri per quasi cinquecentocinquanta lettere. Ma nei piani del D., presto ostacolati da difficoltà varie e poi definitivamente troncati dalla morte, le lettere scritte dopo il 1468 avrebbero dovuto essere raccolte in altri libri, fino ad arrivare ad un totale di trentaquattro e in una o due nuove sillogi. Però, dopo la pubblicazione della terza silloge, le altre lettere non vennero trascritte nei libri che avrebbero dovuto raccoglierle, e quindi andarono disperse.

Il D. si preoccupò anche di raccogliere le composizioni in versi da lui scritte, insieme con quelle che altri gli avevano dedicato (una venticinquina), in due Epistolarum metricarum et epigrammaton libri, per un totale di quasi centocinquanta poesie. Limitato e saltuario è l'interesse artistico di queste composizioni, i cui argomenti sono poco vari: elogi di signori, considerazioni su fatti particolari, letterine ad amici, invocazioni religiose; talvolta qualche violenta frecciata come quelle In Philelphum maleficum. Di solito sono poesie assai brevi, inferiori a dieci versi (non di rado addirittura di due-quattro versi soltanto); eccezionali sono quelle lunghe, dai sessanta ai novanta versi, come un "elogium" al re Alfonso, una "exortatio" al papa Pio II contro gli infedeli, la Galatea egloga. Una posizione a sé hanno gli ottantanove versi che dovevano rappresentare l'inizio di un tredicesimo libro dell'Eneide, chiamato appunto Liber XIII Aeneidos suffectus. Si tratta di un modesto brano che, inserendosi nella dibattuta questione se l'Eneide sia o non completa, costituisce un supplemento di limitatissimo valore al poema virgiliano. Per questi suoi versi il D. entrò in aspra polemica con Maffeo Vegio, autore di un analogo ma ben più ampio supplemento dell'Eneide, accusandolo di plagio: ma l'accusa era infondata.

Le traduzioni dal greco sono una testimonianza della notevole conoscenza del greco da parte del D., anche se allo studio di questa lingua pare che egli si sia dedicato soltanto quando già era vicino ai quaranta anni. Il primo frutto di rilievo di questo impegno fu l'inizio della traduzione in latino dell'Iliade, compiuto intorno al 1440 su un testo avuto in prestito dalla biblioteca ducale di Pavia e tenendo presente, e postillando in più punti, la versione poco felice di Leorizio Pilato. 1 libri giunti a noi della traduzione dell'Iliade sono cinque (I-IV e X), che il D. inviò a Giovanni II di Castiglia, anche su consiglio dell'arcivescovo di Burgos, Alfonso Garcia. Per quanto sollecitato a completare la traduzione del poema omerico, non esistono elementi che comprovino questo ulteriore lavoro del D., anche se è stàto supposto che altri libri tradotti siano poi andati perduti.

La traduzione più famosa del D. e destinata ad avere una grande diffusione anche fuori d'Italia, specie in Inghilterra e in Spagna, è quella della Repubblica di Platone, portata a termine probabilmente nel 1440, migliorando quella che precedentemente era stata compiuta dal padre Uberto in collaborazione con Emanuele Crisolora, di cui era stato allievo, ma anche con eccessiva aderenza al testo greco. Dopo che la versione del V libro, compiuta per prima, era stata dedicata al giureconsulto Giovanni Amadeo suscitando una polemica con Ugolino Pisani, l'intera traduzione fu successivamente dedicato dal D., e inviata in splendido esemplare, al duca Unfredo di Gloucester. Questo fatto provocò il deterioramento degli amichevoli rapporti del D. coi Bruni, il quale poi, dopo aver assicurato di dedicare allo stesso duca la sua traduzione della Politica di Aristotele, in seguito preferì indirizzarla al papa Eugenio IV. Da Platone il D., vari anni più tardi, tradusse anche il Lysis col titolo De amicitia liber, dedicandolo ad Ottaviano degli Ubaldini. Questa opeta, che fino a qualche tempo fa è stata considerata perduta, non ebbe certamente la fama e la diffusione della traduzione della Repubblica.

Ma lo scrittore greco che più a lungo tenne occupato il D. fu Appiano, della cui totale traduzione (secondo quanto allora si conosceva) egli fu incaricato dal papa Niccolò V, subito dopo il suo arrivo a Roma all'inizio del 1450. Il lavoro durò più di quattro anni, e complessivamente risulta formato da quattro libri Historiarum Romanarum, da cinque Bellorum civilium, dal Liber Myricus e dal Liber Celticus. I libri delle Guerre civili, l'Illirico e il Celtico, più tardi, dopo la morte di Niccolò V, furono ridedicati al re Alfonso di Napoli.

Altra traduzione a noi giunta è quella dei primi quarantanove capitoli dei libro XVI delle Storie di Diodoro Siculo, del quale, sempre per incarico di Niccolò V, il D. avrebbe dovuto tradurre i libri XVI-XX, mentre i precedenti erano stati assegnati al Bracciolini e al Trapezunzio. Ma la morte del pontefice (25 marzo 1455) troncò quel lavoro, e successivamente il D. dedicò quanto aveva fatto al re di Napoli.

All'attività di traduttore va aggiunta quella di filelogo, esplicata dal D. anche nell'emendare e postillare testi classici, in modo speciale Plutarco, e nell'integrare le lacune con "additiones": ad esempio in alcuni passi della Historia di Curzio Rufò; e così anche quella di raccoglitore di citazioni e di estratti da autori latini, come è testimoniato dallo zibaldone autografo conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano Ambrosiano R 88 sup., ove sono riportati passi di Svetonio, Plinio, Cicerone e di vari altri scrittori classici e cristiani.

Da varie fonti, ma soprattutto dalle lettere dello stesso D., sì ha notizia di altre opere da lui compiute e non pervenute. Generalmente su questi scritti, quando l'argomento non risulti evidente dal titolo o da altra indicazione, neppure è facile capire di che cosa si tratti. Così è, in particolare, per un De ludicris liber, composto probabilmente ancora prima del 1419, dei De iuvenilibus studiis libri septem, forse del 1425 circa, del più tardo Liber de exemplis illustribus (che non è del tutto da escludere sia da ritenersi la breve raccolta di citazioni ed estratti del già ricordato autografo Ambrosiano R 88 sup.) e anche dei sei libri di Declamationes (che forse dovevano essere comprese nel corpus complessivo delle lettere). A queste opere di incerto argomento andate perdute, si affiancano, sempre fra quanto non ci è giunto, testi il cui argomento è ben evidente, come l'Apologia in Antonium Cassarinum (ilCassarino aveva tradotto anch'egli la Repubblica di Platone in contrapposizione al D.), la Vita Francisci Petrarcae e il Commentarium in cantilenas eius, la Vita Beati Ambrosii:opere tutte che, anche col solo titolo, contribuiscono a mostrare ancora la molteplicità e la vastità degli interessi culturali e dell'applicazione letteraria del Decembrio.

Assai più ridotta è la produzione in volgare del Decembrio. Oltre che una raccolta di poesie di vario argomento ma di limitato interesse, è rimasto un certo numero di traduzioni dal latino: il volgarizzamento fu infatti un'occupazione a cui il D. rivolse attenzione in momenti diversi della vita, spesso intervenendo anche con emendamenti e integrazioni rispetto agli scritti originali. In particolare tradusse i Commentari di Cesare (di cui scrisse anche una vita per Filippo Maria Visconti), il Ludus de morte Claudi di Seneca, la Historia Alexandri Magni di Quinto Curzio, dedicata nel 1438 a Filippo Maria Visconti (e, probabilmente sulla base di questa versione, compose anche una Comparazione di Caio Giulio Cesare e di Alessandro Magno, offerta sempre al Visconti), mentre nel 1454 tradusse, ma forse non completamente, le opere di Columella e di Apuleio, indirizzandole al duca Unfredo di Gloucester. Volgarizzò pure la Vita Enrici IV dell'umanista ferrarese Tito Livio Frulovisi.

Edizioni delle opere. Delle varie opere del D.. sono state stampate: il De vitae ignorantia da E. Ditt, P. C. D., Contributo allo studio dell'umanesimo italiano (con una nota di R. Sabbadini), in Memorie d. R. Ist. lombardo di scienze e lettere, XXIV (1931), pp. 212-06; il De genitura hominis, Roma 1474 (e successive edizioni); la prefazione all'Historiaperegrina da I. Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, II,Parma 1789, pp. XLIV, 236, e da K. Kretschmer, Die Kosmographie des P. C. D., in Festschriften F. von Richthofen, Berlin 1893, pp. 269 ss.; la prefatoria del De natura avium et animalium da V. Zaccaria, Sulle opere di P. C. D., in Rinascimento, VII (1956), pp. 13-74; il De laudibus Mediolanensium urbis panegyricus, da L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XX, Mediolani 1731, coll. 1085 ss.; da G. Petraglione, Il "De laudibus Mediolanensium urbis panegyricus" di P. C. D., in Archivio storico lombardo, XXXIV (1907), 2, pp. 5-45; da A. Butti-F. Fossati-G. Petraglione in P. C. Decembrii Opuscola historica, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XX, 1, Bologna 1925-1958, pp. 1010-1025; la Vita Philippi Mariae Vicecomitis, Milano 1625, poi dal Muratori, cit., col. 981 ss. e negli Opuscola historica, cit., pp. 1-438 (una traduzione italiana a cura di E. Bartolini è stata pubblicata a Milano 1983); la Vita Francisci Sfortiae dal Muratori, cit., coll. 1022 ss. e negli Opuscola historica, cit., pp. 439-489; la Romanae historiae brevis epitome da L. Bertalot, Studien zum italienischen und deutschen Humanismus, a cura di P. O. Kristeller, I, Roma 1975, pp. 207-211 (ma già apparsa nel 1911), l'Oratio in funere Nicolai Picirsini dal Muratori, cit., coll. 1047 ss. e negli Opuscola historica, cit., pp. 990-1009; la dedica degli Ex illustrium comparationibus in Plutarcum cheronensem libri quattuor da V. Zaccaria, Sulle opere, cit.; delle lottere solo un numero assai limitato da V. Cinquini, Le lettere inedite di P. C. D., Roma 1902 e dallo Zaccaria nei suoi vari contributi sul D. successivamente citati; delle traduzioni, quelle da Appiano la prima volta a Venezia e a Roma nel 1472 (e successive edizioni), quella di Curzio Rufo a Venezia nel 1535 (mentre il solo libro primo ebbe più edizioni a partire da quella di Milano nel 1488).

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